Berlino era una città fredda, dicevano, perché
popolata principalmente da tedeschi. Il che era verità, ma c’erano anche tante
altre nazionalità e razze, provenienti da tutte le terre emergenti dal mare,
del nostro piccolo, ma formicolante globo. Il clima era pure di un ben
determinato tipo, per il quale, d'inverno, per mesi, il cielo rimaneva coperto
da una cortina grigia… tanto che gli italiani dei ristoranti scherzavano coi
tedeschi dicendogli, in quella mistura di tedesco, d’italiano e di dialetti del
sud: Ao kino (cinema) dovete andare, se
volete vedere ‘o sole!
Eh sì, erano gli ultimi anni del Muro, anche se
nessuno lo sospettava, la metropoli ferveva, aveva tutto il suo bel fascino
misterioso. Là il passato s'incontrava tutti i giorni col futuro... e quello
che ne usciva fuori si chiamava presente, cosa che potrebbe succedere anche
altrove, ma non sempre ci riesce. Forse-forse perché quella Berlino, più che
quella di adesso, o quella di altre epoche, era una città che viveva
ventiquattr'ore su ventiquattro, molti suoi bar e discoteche chiudevano solo
un'ora al giorno, per fare le pulizie, i ristoranti aprivano a mezzogiorno e
chiudevano a mezzanotte, alcuni rimanevano aperti anche fino alla mattina.
A Berlino tutto era differente, forse anche per il fatto
singolare di essere un'isoletta consumista nel bel mezzo del comunismo della
Germania Est, anzi, più vicina alla Polonia che alla sorella occidentale. Una
grande città che era divisa, più che altro simbolicamente, tra Francia,
Inghilterra e Stati Uniti. Berlino Est era invece, assai meno simbolicamente,
russa. A Berlino Ovest la Germania non poteva avere esercito, visto che era
occupata dagli alleati. Una città riconosciuta come uno splendido paradiso di
tolleranza, cosmopolita e aperta, proprio perché era chiusa, strano ma vero,
un’autentica meraviglia. La presenza di un bell’arcobaleno di cittadini del
mondo, faceva sì che la vita nei locali notturni fosse movimentata e la musica
avesse il suo grande potere di aggregazione. Jazz, latina, elettronica, rock...
e, quello che era il meglio, era proprio che si suonava e pure si ballava ogni
tipo di musica. La città era assai più viva di adesso... strano a dirsi, ciò
che faceva la vivacità del luogo era proprio il muro, o meglio: le sue
impreviste conseguenze. Un po’ come il Vesuvio che, dicono, ha reso la
mentalità del napoletano spensierata... visto che da un momento all’altro la
sua vita poteva terminare sotto una colata di lava, allora tanto valeva
divertirsi, senza pensarci troppo.
Come ogni famiglia italiana, là a Berlino, vivevamo
nel nostro mondo all'interno del loro, con le nostre preferenze e conoscenze,
generalmente di stampo italiano, per non voler dire meridionali. La nostra famiglia gestiva un ristorante sulla Kant
strasse con vaghe pretese di cucina pugliese. Piatto forte: la Crudaiola:
fusilli al dente con su una splendida salsa di ortaggi crudi, parmigiano e olio
d’oliva, la quale si lasciava ad amalgamare ventiquattr’ore, prima di essere
servita. Nella nostra cucina c’erano sempre delle tinozze piene di questo sugo
crudo, ma cucinato dal tempo, dalla forza tutta mediterranea del basilico
fresco e dell’aglio, una mistura tanto ben ideata e caratteristica che noi
proponevamo anche sulla pizza. Anche la nostra salsa, a Berlino, viveva
ventiquattr’ore su ventiquattro, in più non doveva andare al cinema per vedere
il sole, ce l’aveva dentro di sé. Ostuni era il nome del ristorante e della
nostra città di origine, in provincia di Brindisi. Della famiglia, chi poteva
camminare, lavorava là dentro, eravamo in otto e tutti parenti. Uno dei due
cuochi ero io e facevo il turno di mattina, così alle cinque avevo finito, me
ne potevo andare per i fatti miei, libero come il vento, ma solo fino al giorno
dopo. Il turno di chiusura non c’era, ma
non che ci mancasse… e che dovevamo fare? Il ristorante era la nostra unica
ricchezza, messo su con il lavoro continuato di tanti anni, perciò non si
poteva fermare.
Mai.
Ai fornelli, avevo sostituito zio Cosimo da un po’ di
tempo, ora lui si alternava alla cassa e a parlare con i clienti, visto che era
il personaggio più conosciuto, più affabile e non ce la faceva più, a sessant’anni, a stare
in cucina. Da come si lamentava e a giudicare da come camminava, con le mani
appoggiate sempre in certi punti fissi, si capiva tutto:
“Sento un doloretto qua e uno di là, alternati o a
volte contemporanei, le gambe non sono più quelle di una volta e la schiena fa
pietà a se stessa, mi pare che pensa al passato con grande dignità,
riconoscendo che si tratta di tempi gloriosi, ma remoti.”
Nella nostra famiglia litigiosa, rumorosa e numerosa,
il più simpatico era proprio zio Cosimo, un ometto magro e dai baffetti
nerissimi, nonostante i capelli bianchi, due occhi più che vivaci e una lingua
sempre in movimento, una poco comune capacità di ascoltare, a bocca aperta e
cogli occhi sgranati, ma non senza interrompere. Era difficile per lui stare
zitto, parlava soprattutto quando non aveva niente da dire, le sue parole si
tramutavano in pensiero durante il percorso, il risultato era comico, anche e
specialmente quando voleva essere serio. Zio Cosimo frequentava una compagnia
mista di sudisti che s'incontravano al bar Italia, dove non si perdevano una
partita di calcio italiano (non so che diavoleria di antenna avevano messo,
solo per questo), giocavano a carte e commentavano gridando e, all’occorrenza,
pure bestemmiando, tutto il commentabile. Non potevano starsene sempre al bar,
più che altro ci andavano durante la settimana, la sera o quando c’era qualche
avvenimento sportivo importante. La domenica, per esempio, la sera era
d’obbligo, perché davano i gol delle partite italiane, pochi mancavano
all’appello per vedere la Domenica Sportiva, alle dieci e trenta, e poi giù
commenti infuocati e polemiche. Erano perlopiù pensionati che lavoravano, un
po’ come zio Cosimo, senza grandi obblighi di orario, e avevano perciò tutto il
tempo di vivere di nostalgia, ma di una nostalgia a pancia piena, perché
stavano bene, anche se usavano lamentarsi un po’, come tutti gli italiani,
forse per una mentalità da commercianti, o meglio da mercanti, ereditata
insieme alle origini del nostro popolo. Mio zio diceva che quelli che si
lamentavano meglio di tutti erano gli italiani che lavoravano veramente come
commercianti, perché univano le due forze: quella della modernità e del
presente a quella della tradizione e del passato. Una malinconia basata sulla
mancanza che sentivano del proprio paese, fatta di storie vere e inventate,
esagerate o fedeli solo alla realtà di chi le raccontava, quella che cambiava,
cioè, di volta in volta.
Quando ero piccolo a volte anch'io andavo con lo zio e
mi affascinava sentire certe cose strane che non avevo mai udito in famiglia, o
anche fuori, cose che non avrei mai avuto occasione di venire a conoscere in
altra maniera, che rappresentavano per me un universo fantastico, la commedia
della vita, però più scherzosa, paesana e meridionale di quella che vivevamo al
presente, a Berlino, che era invece una metropoli straniera, fredda e
teutonica. La domenica si trovavano, verso le tre e mezza, cioè dopo il turno
del pranzo dei rispettivi ristoranti, in
piazzetta, dicevano.
È chiaro: il modo di dire era quello paesano, ma
quella era una piazzetta dentro all'Europa Center, nello shopping, ai primi
piani del grattacielo, a lato della Gedächtnis Kirche, ovvero: la Chiesa della
Memoria, quella che era stata restaurata in maniera da poter mostrare ancora i
segni dei bombardamenti, per servire
come lezione, in futuro. Se Berlino era stata definita il centro dell’Europa,
quell’edificio ne rappresentava, di nome e di fatto, il centro del centro. Ciò
nonostante la domenica i negozi erano tutti chiusi e loro dovevano stare in
piedi a parlare, appoggiati ai parapetti di legno, perché non era possibile
nemmeno sedersi. Erano una decina di italianacci che avevano navigato nello
spazio e nel tempo, attraverso il bene e il male, in ricchezza e in povertà… eccetera, eccetera.
Nelle domeniche buone erano in quindici o più, venivano dalle Puglie, dalla
Basilicata, dalla Campania, dagli Abruzzi, dalla Calabria e dalla Sicilia. Non
sempre erano tutti presenti, ma se gli altri si alternavano un poco, mio zio
non mancava mai. Solo quando scendeva in Puglia, con zia Rachele e i suoi figli
Albertino e Maria, disertava, per forza maggiore, le riunioni del club dei bugiardi, come lo chiamava lui.
Ogni due o tre anni andavano a trovare i parenti e ci stavano un mese. Dopo
tornava con storie nuove e un vigore maggiore, si rigenerava.
Là dentro
all’Europa Center, in piedi, senza fretta, si facevano delle belle bottiglie di
vino italiano, che venivano da tutte le zone del meridione nostro. Quando il
centro dell’Europa è stato poi stato trasferito in casa, il vino e le altre
abitudini sono rimaste le stesse. Certo, qualcuno poteva sedersi, ma le sedie
per tutti non c’erano, qualcuno si metteva sul letto, ma lo zio protestava. I
bicchieri erano di vetro, li aveva portati Lazzaro dal ristorante Vesuvietto,
li avevano comprati nuovi, là e quelli vecchi, dei bei calici costosi,
imitazione di cristallo di Boemia, erano stati ereditati dalla confraternita,
una sciccheria di antiquariato.
Dall'epoca in cui si è ammalato tutti hanno cominciato
a venire a casa nostra, la domenica, in camera dello zio e facevano più onore
al termine sedute, cioè non stavano più in piedi, anche se mantenevano lo
stesso spirito di quelle dell'Europa Center. Si prendevano in giro, a volte
litigavano, ma tutti si volevano bene, anche se non lo dimostravano
apertamente. Niente di più tipicamente italiano: avere un cuore grande e
tenerlo nascosto per paura che qualcuno se ne approfitti.
Il destino ha voluto che, costretto zio Cosimo a letto
per una grave malattia, ci spingessimo a osare una cosa impensata e imprevista.
Per decisione dell’assemblea riunita, era stato deliberato che gli incontri
domenicali sarebbero stati fatti a casa mia, in camera dell’amico
impossibilitato e bisognoso di compagnia. Nei primi tempi li spiavo da una
fessura della porta, poi ho perfezionato il trucco, con un finto specchio. In
un secondo momento avevo messo anche un microfono, poi invitavo anche degli
amici, uno alla volta, per assistere allo spettacolo. Finché, entusiasti dalle
possibilità di quella compagnia teatrale involontaria, abbiamo deciso di
riprendere quelle scene. Il passo successivo è stato girare un film, con l’aiuto
di un mio amico, Piet, l’olandese cineamatore, che si è subito entusiasmato e
ci ha dato a tempo pieno la sua consulenza e la sua telecamera. Dopo qualche
tempo di riprese alterne e troppo amatoriali, Piet ha cominciato ad arrivare a
casa mia un’ora prima, tutte le domeniche pomeriggio, preparava gli attrezzi,
sistemava le luci nella camera, faceva delle prove, preparava tutto a dovere.
Mentre questo accadeva, io parlavo con lo zio di quello che poteva essere
l’argomento del giorno, il quale aveva il compito di dirigere la conversazione,
di moderare gli interventi, di spingere o smorzare, a seconda del momento, in
più faceva il suo ruolo di zio Cosimo, nel quale era il migliore al mondo. Piet
non capiva tutto quello che dicevano gli ignari attori, ma si divertiva lo
stesso. Alcune volte, probabilmente, le nostre risate sono arrivate dall’altra
parte, all’orecchio di qualche diffidente meridionale, ma c’era abbastanza
confusione per potersi confondere, o per pensare che venissero da altre stanze
di quell’enorme appartamento abitato e visitato da un numero imprecisato di
sagome viventi, di eccelse figure del libro di storia della nostra vita.
Allora ci venne quell’idea che lo fece divertire
tanto, che ci ha impegnati per quasi un anno, e che ha cucinato al dente tutta
la crudezza della situazione. Quando zio Cosimo è morto avevamo quasi cinquanta
ore di registrazione, con quelle poi, facendo un condensato di due, nonostante
la qualità tecnicamente scadente del filmato, abbiamo partecipato al festival
del cinema di Berlino. È chiaro: era un film troppo alternativo, fatto solo di
scene originali, sarebbe stato un quasi documentario, ma non era esattamente
nemmeno quello. Non ci siamo classificati, forse perché eravamo a cavallo tra
due generi. Oltretutto le espressioni del gergo dei ristoranti di Berlino,
tradotte in qualsiasi lingua perdevano molto del loro brio. Il dialetto dei
ristoranti era divertente perché raccoglieva in sé espressioni e modi di dire
di varie zone del nostro meridione. Era quello che noi parlavamo da sempre, da
quando avevamo lasciato Ostuni.
Dico avevamo e sbaglio, perché io non ero ancora nato,
la mia famiglia era venuta di là e aveva cominciato da quel momento a
imbastardire il proprio dialetto, già durante il viaggio in treno, mischiati a
tanti altri meridionali che se ne andavano dall'Italia per trovare un lavoro,
tanti che lasciavano il calore del sud per il freddo del nord, l'amore per la
propria amara terra per una nostalgia ancora più affettuosa. Insomma un
documento di valore per il cinema, apprezzabile dagli addetti ai lavori,
principalmente. Infatti soprattutto loro, i personaggi si sono divertiti a
rivedersi in quelle scene. Si sono sorpresi e alcuni si sono perfino offesi,
all’inizio, ma, poi, abituatisi all’idea, tutti hanno apprezzato, alla loro
maniera rustica, senza mostrare veramente cosa pensavano. Zio Cosimo diceva che
un film era veramente bello quando, guardandolo, ti dimenticavi che era un
film. Qualità che il nostro aveva più di tutti gli altri, perché era stato
costruito senza pensare, almeno inizialmente, a un film.
Anche dopo, mentre noi ci davamo da fare di nascosto,
gli attori non sapevano ancora niente e recitavano la scena della loro vita con
la massima naturalezza.
Lo zio è morto senza poter vedere il nostro piccolo -
ma concreto - trionfo al cinema o alla televisione, lo ha saputo, con certezza,
in paradiso o dovunque se ne fosse andato, non importa, anche là sarà stato
pieno di emigranti italiani, di ristoranti e di storie raccontate in dialetti
diversi, con quella gestualità tipica e qualche bella bestemmia, con certezza
avrà potuto conversarne con i compari e discutere o raccontare i retroscena, la
storia dei singoli episodi.
La cosa migliore non so quale è stata, ma che lui
negli ultimi mesi di vita si sia sentito sollevato, divertito da quel buffo
segreto tra di noi, è un fatto. Quando rivedevamo insieme il risultato delle
precedenti registrazioni, nei giorni successivi, ci stordivamo dal ridere. Posso
dire che zio Cosimo è morto contento, cosa rara a questo mondo, prima di tutto
per essersi goduto la vita finché ha potuto, poi per essere diventato attore
dei suoi ultimi giorni, avendo occasione di dimenticarne un poco la malinconia,
vivendo gli atti finali della commedia della sua vita, quanto più possibile, allegramente.
Zio Cosimo, con la testa appoggiata al cuscinone di
piume vere, guardando nel vuoto con quella sua espressione triste e dolce,
malinconica e stanca, ma ancora assai piena di vita, diceva ogni tanto, con il
gergo bastardo ma colorito dei ristoranti di Berlino:
“Guaglió, durante la nostra corta apparizione su
questa nostra terra insomma, quello che dovremmo fare è spiritualizzare la
materia, capisci? Sowieso! Noi dobbiamo rendere immortale ogni attimo,
impegnarci, hai capito o no? Sì, per dare un aspetto gradevole a ogni momento
che attraversiamo, come se non fosse per caso o magari spinti da qualcos’altro,
che ci motiviamo per affrontare le vicende di tutti i giorni.
Fermarci ogni tanto a guardare noi stessi e quello che
ci circonda, prendere le cose per gioco, ma sul serio, questo è il grande
segreto, senza esagerare, figlio mio, assaporando le piccole gioie che sono poi
le uniche che non ci abbandonano mai, perché sono tanto varie che risultano
inesauribbbili.
Peppì - mi diceva - Se la vita è una commedia, la
morte è un intervallo... tra un atto e l’altro, o fors’anche la fine della
commedia... che ne so io, e se anche fosse la fine, di questa messa in scena,
dico... poi ne comincia un’altra, poi un’altra ancora, e via e via... Certamente
i protagonisti non potremmo essere sempre noi, guagliò, lasciamo il posto anche
agli altri, e che cazzo! Oltre a meritarselo ne hanno anche il sacrosanto
diritto!”
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