martedì 15 maggio 2018

ZIO COSIMO



Berlino era una città fredda, dicevano, perché popolata principalmente da tedeschi. Il che era verità, ma c’erano anche tante altre nazionalità e razze, provenienti da tutte le terre emergenti dal mare, del nostro piccolo, ma formicolante globo. Il clima era pure di un ben determinato tipo, per il quale, d'inverno, per mesi, il cielo rimaneva coperto da una cortina grigia… tanto che gli italiani dei ristoranti scherzavano coi tedeschi dicendogli, in quella mistura di tedesco, d’italiano e di dialetti del sud: Ao kino (cinema) dovete andare, se volete vedere ‘o sole!
Eh sì, erano gli ultimi anni del Muro, anche se nessuno lo sospettava, la metropoli ferveva, aveva tutto il suo bel fascino misterioso. Là il passato s'incontrava tutti i giorni col futuro... e quello che ne usciva fuori si chiamava presente, cosa che potrebbe succedere anche altrove, ma non sempre ci riesce. Forse-forse perché quella Berlino, più che quella di adesso, o quella di altre epoche, era una città che viveva ventiquattr'ore su ventiquattro, molti suoi bar e discoteche chiudevano solo un'ora al giorno, per fare le pulizie, i ristoranti aprivano a mezzogiorno e chiudevano a mezzanotte, alcuni rimanevano aperti anche fino alla mattina.
A Berlino tutto era differente, forse anche per il fatto singolare di essere un'isoletta consumista nel bel mezzo del comunismo della Germania Est, anzi, più vicina alla Polonia che alla sorella occidentale. Una grande città che era divisa, più che altro simbolicamente, tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Berlino Est era invece, assai meno simbolicamente, russa. A Berlino Ovest la Germania non poteva avere esercito, visto che era occupata dagli alleati. Una città riconosciuta come uno splendido paradiso di tolleranza, cosmopolita e aperta, proprio perché era chiusa, strano ma vero, un’autentica meraviglia. La presenza di un bell’arcobaleno di cittadini del mondo, faceva sì che la vita nei locali notturni fosse movimentata e la musica avesse il suo grande potere di aggregazione. Jazz, latina, elettronica, rock... e, quello che era il meglio, era proprio che si suonava e pure si ballava ogni tipo di musica. La città era assai più viva di adesso... strano a dirsi, ciò che faceva la vivacità del luogo era proprio il muro, o meglio: le sue impreviste conseguenze. Un po’ come il Vesuvio che, dicono, ha reso la mentalità del napoletano spensierata... visto che da un momento all’altro la sua vita poteva terminare sotto una colata di lava, allora tanto valeva divertirsi, senza pensarci troppo.
Come ogni famiglia italiana, là a Berlino, vivevamo nel nostro mondo all'interno del loro, con le nostre preferenze e conoscenze, generalmente di stampo italiano, per non voler dire meridionali. La nostra famiglia gestiva un ristorante sulla Kant strasse con vaghe pretese di cucina pugliese. Piatto forte: la Crudaiola: fusilli al dente con su una splendida salsa di ortaggi crudi, parmigiano e olio d’oliva, la quale si lasciava ad amalgamare ventiquattr’ore, prima di essere servita. Nella nostra cucina c’erano sempre delle tinozze piene di questo sugo crudo, ma cucinato dal tempo, dalla forza tutta mediterranea del basilico fresco e dell’aglio, una mistura tanto ben ideata e caratteristica che noi proponevamo anche sulla pizza. Anche la nostra salsa, a Berlino, viveva ventiquattr’ore su ventiquattro, in più non doveva andare al cinema per vedere il sole, ce l’aveva dentro di sé. Ostuni era il nome del ristorante e della nostra città di origine, in provincia di Brindisi. Della famiglia, chi poteva camminare, lavorava là dentro, eravamo in otto e tutti parenti. Uno dei due cuochi ero io e facevo il turno di mattina, così alle cinque avevo finito, me ne potevo andare per i fatti miei, libero come il vento, ma solo fino al giorno dopo.  Il turno di chiusura non c’era, ma non che ci mancasse… e che dovevamo fare? Il ristorante era la nostra unica ricchezza, messo su con il lavoro continuato di tanti anni, perciò non si poteva fermare.
Mai.
Ai fornelli, avevo sostituito zio Cosimo da un po’ di tempo, ora lui si alternava alla cassa e a parlare con i clienti, visto che era il personaggio più conosciuto, più affabile e  non ce la faceva più, a sessant’anni, a stare in cucina. Da come si lamentava e a giudicare da come camminava, con le mani appoggiate sempre in certi punti fissi, si capiva tutto:
“Sento un doloretto qua e uno di là, alternati o a volte contemporanei, le gambe non sono più quelle di una volta e la schiena fa pietà a se stessa, mi pare che pensa al passato con grande dignità, riconoscendo che si tratta di tempi gloriosi, ma remoti.”
Nella nostra famiglia litigiosa, rumorosa e numerosa, il più simpatico era proprio zio Cosimo, un ometto magro e dai baffetti nerissimi, nonostante i capelli bianchi, due occhi più che vivaci e una lingua sempre in movimento, una poco comune capacità di ascoltare, a bocca aperta e cogli occhi sgranati, ma non senza interrompere. Era difficile per lui stare zitto, parlava soprattutto quando non aveva niente da dire, le sue parole si tramutavano in pensiero durante il percorso, il risultato era comico, anche e specialmente quando voleva essere serio. Zio Cosimo frequentava una compagnia mista di sudisti che s'incontravano al bar Italia, dove non si perdevano una partita di calcio italiano (non so che diavoleria di antenna avevano messo, solo per questo), giocavano a carte e commentavano gridando e, all’occorrenza, pure bestemmiando, tutto il commentabile. Non potevano starsene sempre al bar, più che altro ci andavano durante la settimana, la sera o quando c’era qualche avvenimento sportivo importante. La domenica, per esempio, la sera era d’obbligo, perché davano i gol delle partite italiane, pochi mancavano all’appello per vedere la Domenica Sportiva, alle dieci e trenta, e poi giù commenti infuocati e polemiche. Erano perlopiù pensionati che lavoravano, un po’ come zio Cosimo, senza grandi obblighi di orario, e avevano perciò tutto il tempo di vivere di nostalgia, ma di una nostalgia a pancia piena, perché stavano bene, anche se usavano lamentarsi un po’, come tutti gli italiani, forse per una mentalità da commercianti, o meglio da mercanti, ereditata insieme alle origini del nostro popolo. Mio zio diceva che quelli che si lamentavano meglio di tutti erano gli italiani che lavoravano veramente come commercianti, perché univano le due forze: quella della modernità e del presente a quella della tradizione e del passato. Una malinconia basata sulla mancanza che sentivano del proprio paese, fatta di storie vere e inventate, esagerate o fedeli solo alla realtà di chi le raccontava, quella che cambiava, cioè, di volta in volta.
Quando ero piccolo a volte anch'io andavo con lo zio e mi affascinava sentire certe cose strane che non avevo mai udito in famiglia, o anche fuori, cose che non avrei mai avuto occasione di venire a conoscere in altra maniera, che rappresentavano per me un universo fantastico, la commedia della vita, però più scherzosa, paesana e meridionale di quella che vivevamo al presente, a Berlino, che era invece una metropoli straniera, fredda e teutonica. La domenica si trovavano, verso le tre e mezza, cioè dopo il turno del pranzo dei rispettivi ristoranti, in piazzetta, dicevano.
È chiaro: il modo di dire era quello paesano, ma quella era una piazzetta dentro all'Europa Center, nello shopping, ai primi piani del grattacielo, a lato della Gedächtnis Kirche, ovvero: la Chiesa della Memoria, quella che era stata restaurata in maniera da poter mostrare ancora i segni dei bombardamenti, per  servire come lezione, in futuro. Se Berlino era stata definita il centro dell’Europa, quell’edificio ne rappresentava, di nome e di fatto, il centro del centro. Ciò nonostante la domenica i negozi erano tutti chiusi e loro dovevano stare in piedi a parlare, appoggiati ai parapetti di legno, perché non era possibile nemmeno sedersi. Erano una decina di italianacci che avevano navigato nello spazio e nel tempo, attraverso il bene e il male, in  ricchezza e in povertà… eccetera, eccetera. Nelle domeniche buone erano in quindici o più, venivano dalle Puglie, dalla Basilicata, dalla Campania, dagli Abruzzi, dalla Calabria e dalla Sicilia. Non sempre erano tutti presenti, ma se gli altri si alternavano un poco, mio zio non mancava mai. Solo quando scendeva in Puglia, con zia Rachele e i suoi figli Albertino e Maria, disertava, per forza maggiore, le riunioni del club dei bugiardi, come lo chiamava lui. Ogni due o tre anni andavano a trovare i parenti e ci stavano un mese. Dopo tornava con storie nuove e un vigore maggiore, si rigenerava.
 Là dentro all’Europa Center, in piedi, senza fretta, si facevano delle belle bottiglie di vino italiano, che venivano da tutte le zone del meridione nostro. Quando il centro dell’Europa è stato poi stato trasferito in casa, il vino e le altre abitudini sono rimaste le stesse. Certo, qualcuno poteva sedersi, ma le sedie per tutti non c’erano, qualcuno si metteva sul letto, ma lo zio protestava. I bicchieri erano di vetro, li aveva portati Lazzaro dal ristorante Vesuvietto, li avevano comprati nuovi, là e quelli vecchi, dei bei calici costosi, imitazione di cristallo di Boemia, erano stati ereditati dalla confraternita, una sciccheria di antiquariato.
Dall'epoca in cui si è ammalato tutti hanno cominciato a venire a casa nostra, la domenica, in camera dello zio e facevano più onore al termine sedute, cioè non stavano più in piedi, anche se mantenevano lo stesso spirito di quelle dell'Europa Center. Si prendevano in giro, a volte litigavano, ma tutti si volevano bene, anche se non lo dimostravano apertamente. Niente di più tipicamente italiano: avere un cuore grande e tenerlo nascosto per paura che qualcuno se ne approfitti.
Il destino ha voluto che, costretto zio Cosimo a letto per una grave malattia, ci spingessimo a osare una cosa impensata e imprevista. Per decisione dell’assemblea riunita, era stato deliberato che gli incontri domenicali sarebbero stati fatti a casa mia, in camera dell’amico impossibilitato e bisognoso di compagnia. Nei primi tempi li spiavo da una fessura della porta, poi ho perfezionato il trucco, con un finto specchio. In un secondo momento avevo messo anche un microfono, poi invitavo anche degli amici, uno alla volta, per assistere allo spettacolo. Finché, entusiasti dalle possibilità di quella compagnia teatrale involontaria, abbiamo deciso di riprendere quelle scene. Il passo successivo è stato girare un film, con l’aiuto di un mio amico, Piet, l’olandese cineamatore, che si è subito entusiasmato e ci ha dato a tempo pieno la sua consulenza e la sua telecamera. Dopo qualche tempo di riprese alterne e troppo amatoriali, Piet ha cominciato ad arrivare a casa mia un’ora prima, tutte le domeniche pomeriggio, preparava gli attrezzi, sistemava le luci nella camera, faceva delle prove, preparava tutto a dovere. Mentre questo accadeva, io parlavo con lo zio di quello che poteva essere l’argomento del giorno, il quale aveva il compito di dirigere la conversazione, di moderare gli interventi, di spingere o smorzare, a seconda del momento, in più faceva il suo ruolo di zio Cosimo, nel quale era il migliore al mondo. Piet non capiva tutto quello che dicevano gli ignari attori, ma si divertiva lo stesso. Alcune volte, probabilmente, le nostre risate sono arrivate dall’altra parte, all’orecchio di qualche diffidente meridionale, ma c’era abbastanza confusione per potersi confondere, o per pensare che venissero da altre stanze di quell’enorme appartamento abitato e visitato da un numero imprecisato di sagome viventi, di eccelse figure del libro di storia della nostra vita.
Allora ci venne quell’idea che lo fece divertire tanto, che ci ha impegnati per quasi un anno, e che ha cucinato al dente tutta la crudezza della situazione. Quando zio Cosimo è morto avevamo quasi cinquanta ore di registrazione, con quelle poi, facendo un condensato di due, nonostante la qualità tecnicamente scadente del filmato, abbiamo partecipato al festival del cinema di Berlino. È chiaro: era un film troppo alternativo, fatto solo di scene originali, sarebbe stato un quasi documentario, ma non era esattamente nemmeno quello. Non ci siamo classificati, forse perché eravamo a cavallo tra due generi. Oltretutto le espressioni del gergo dei ristoranti di Berlino, tradotte in qualsiasi lingua perdevano molto del loro brio. Il dialetto dei ristoranti era divertente perché raccoglieva in sé espressioni e modi di dire di varie zone del nostro meridione. Era quello che noi parlavamo da sempre, da quando avevamo lasciato Ostuni.
Dico avevamo e sbaglio, perché io non ero ancora nato, la mia famiglia era venuta di là e aveva cominciato da quel momento a imbastardire il proprio dialetto, già durante il viaggio in treno, mischiati a tanti altri meridionali che se ne andavano dall'Italia per trovare un lavoro, tanti che lasciavano il calore del sud per il freddo del nord, l'amore per la propria amara terra per una nostalgia ancora più affettuosa. Insomma un documento di valore per il cinema, apprezzabile dagli addetti ai lavori, principalmente. Infatti soprattutto loro, i personaggi si sono divertiti a rivedersi in quelle scene. Si sono sorpresi e alcuni si sono perfino offesi, all’inizio, ma, poi, abituatisi all’idea, tutti hanno apprezzato, alla loro maniera rustica, senza mostrare veramente cosa pensavano. Zio Cosimo diceva che un film era veramente bello quando, guardandolo, ti dimenticavi che era un film. Qualità che il nostro aveva più di tutti gli altri, perché era stato costruito senza pensare, almeno inizialmente, a un film. 
Anche dopo, mentre noi ci davamo da fare di nascosto, gli attori non sapevano ancora niente e recitavano la scena della loro vita con la massima naturalezza.
Lo zio è morto senza poter vedere il nostro piccolo - ma concreto - trionfo al cinema o alla televisione, lo ha saputo, con certezza, in paradiso o dovunque se ne fosse andato, non importa, anche là sarà stato pieno di emigranti italiani, di ristoranti e di storie raccontate in dialetti diversi, con quella gestualità tipica e qualche bella bestemmia, con certezza avrà potuto conversarne con i compari e discutere o raccontare i retroscena, la storia dei singoli episodi.
La cosa migliore non so quale è stata, ma che lui negli ultimi mesi di vita si sia sentito sollevato, divertito da quel buffo segreto tra di noi, è un fatto. Quando rivedevamo insieme il risultato delle precedenti registrazioni, nei giorni successivi, ci stordivamo dal ridere. Posso dire che zio Cosimo è morto contento, cosa rara a questo mondo, prima di tutto per essersi goduto la vita finché ha potuto, poi per essere diventato attore dei suoi ultimi giorni, avendo occasione di dimenticarne un poco la malinconia, vivendo gli atti finali della commedia della sua vita, quanto più possibile, allegramente.
Zio Cosimo, con la testa appoggiata al cuscinone di piume vere, guardando nel vuoto con quella sua espressione triste e dolce, malinconica e stanca, ma ancora assai piena di vita, diceva ogni tanto, con il gergo bastardo ma colorito dei ristoranti di Berlino:
“Guaglió, durante la nostra corta apparizione su questa nostra terra insomma, quello che dovremmo fare è spiritualizzare la materia, capisci? Sowieso! Noi dobbiamo rendere immortale ogni attimo, impegnarci, hai capito o no? Sì, per dare un aspetto gradevole a ogni momento che attraversiamo, come se non fosse per caso o magari spinti da qualcos’altro, che ci motiviamo per affrontare le vicende di tutti i giorni.
Fermarci ogni tanto a guardare noi stessi e quello che ci circonda, prendere le cose per gioco, ma sul serio, questo è il grande segreto, senza esagerare, figlio mio, assaporando le piccole gioie che sono poi le uniche che non ci abbandonano mai, perché sono tanto varie che risultano inesauribbbili.
Peppì - mi diceva - Se la vita è una commedia, la morte è un intervallo... tra un atto e l’altro, o fors’anche la fine della commedia... che ne so io, e se anche fosse la fine, di questa messa in scena, dico... poi ne comincia un’altra, poi un’altra ancora, e via e via... Certamente i protagonisti non potremmo essere sempre noi, guagliò, lasciamo il posto anche agli altri, e che cazzo! Oltre a meritarselo ne hanno anche il sacrosanto diritto!”


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