In teoria si poteva dargli torto un po' su tutto, ma in
pratica, avendoci a che fare personalmente, poteva convincere chiunque che la
ragione e il torto a lui non interessavano proprio.
Come l'eterno dualismo politico destra-sinistra, a che cosa poteva servirgli se non a spostare quasi automaticamente il baricentro del suo pensiero su qualcos'altro di più attuale, meno formaggesco, ma più ciccioso, anche se per inerzia era diventato un quasi vegetariano?
Per esempio un vino rosso ghiacciato d'estate per lui era
il toccasana, non perché tutti gli altri facevano il contrario che lui dovesse
poi pecoronescamente seguirli, e a guardare bene quelli erano quasi tutti
italiani e lui non si sentiva più tanto un peninsulare, solo quando gli faceva
comodo insomma, cioè quasi mai.
Era un tipo che spaccava il secondo, in alcuni casi anche
il terzo, e non sto parlando solo di tempo, ma anche di denaro.
Insomma, come aveva già accennato a suo tempo Felipão
(Filippone, cioè Luis Felipe Scolari, allenatore del Brasile vittorioso nel
mondiale del 2002, in Giappone e Corea) alcune tecniche o schemi interessanti
si possono usare anche fuori dal calcio. Romano Benedetti aggiunse che la
creatività ha un estremo bisogno di libertà e delle conseguenti intuizioni
artistiche.
Allenava da anni il Juventude di Caxias, che riuscì quell’anno
ad aggiudicarsi a sorpresa coppa e campionato, nella Libertadores poi fu
sconfitto di misura, 5 a 4, in finale a Medellin dal Boca Juniors argentino.
Non era facile essere tifoso dell'Atalanta in Brasile, ma
chi lo conosceva bene, non per questo necessariamente apprezzandolo, lo
chiamava scherzosamente Ademola, che aveva a che fare certo con Lookman, l'uomo che guarda.
Raccontò su una rivista, che secondo me in pochi lessero,
ma era la spiegazione del perché aveva scelto di essere fan di quella squadra e
poi gli piaceva l’allenatore Gasperini, dell’epoca dell’esplosione italiana di
quella squadra.
Il nome della squadra si rifà al personaggio
di Atalanta, giovane eroina della mitologia greca – famosa per le sue doti
nella caccia. Spesso si associa il soprannome di “La Dea” alla squadra
bergamasca quando scende in campo ed i fluenti capelli al vento sono
un’immagine appropriata, amata dai tifosi. Ma perché è fondamentale comprendere
la storia di Dea?
Il mito racconta che il padre di Atalanta
fosse alla ricerca spasmodica di un figlio maschio; la sua nascita fu dunque un
evento non atteso e non voluto, tanto che venne abbandonata sul monte Pelio.
Artemide, una delle divinità dell’Olimpo, decise di inviare un’orsa che le
avrebbe fatto da madre, prima che dopo un po’ di anni venne ritrovata da un
gruppo di cacciatori che decisero di allevarla. Tante furono le avventure in
cui si imbatté nel corso della vita, tanto da riuscire a ferire per prima, nel
corso di una battuta di caccia, il cinghiale di Calidone (altro essere presente
nella mitologia greca).
Quest’impresa fece nascere nel padre un
rimorso, che decise a quel punto di tornare sui suoi passi e di riconoscerla.
Si mise di mezzo però un oracolo – come spesso accade nei miti greci – che
aveva previsto che, una volta sposata, avrebbe perduto le sue abilità. Atalanta
quindi promise di sposarsi solo con chi l’avesse battuta in una gara di corsa e
per i partecipanti non sarebbe stata un’impresa semplice: la vittoria, e quindi
la sposa, oppure la morte, in caso di sconfitta. Fu Melanione (o Ippomene),
forte del suo amore, a volerla sfidare, ma prima chiese aiuto ad Afrodite. La
dea trovò un semplice stratagemma: dare tre mele d’oro prese dal Giardino delle
Esperidi e il giovane, durante la corsa, le avrebbe fatte cadere. Atalanta fu
attratta dal prezioso dono, e ogni volta si fermò per raccoglierla, perdendo
però il tempo necessario per vincere la corsa. Il finale però non è di quelli
romantici, anzi: celebrato il matrimonio, i due però vennero severamente puniti
da Afrodite, che li scoprì intenti in atteggiamenti amorosi in un tempio
dedicato a Cibele. Per questo vennero così trasformati in leoni dato che i
greci ritenevano che i leoni non si accoppiassero tra loro.
Però a lui piaceva essere ricordato come Romelu, per via
di Lukaku, un altro leone, africano ma naturalizzato belga e napoletano. Tutti
eroi calcistici degli anni passati, quando il nostro eroe viveva ancora in
Italia.
Diciamo che il suo pensiero filosofico era più facilmente
identificabile con quello partenopeo, per via delle lontane ma forti origini
greche.
Lasciamo piuttosto parlare le sue stesse frasi però,
quelle che certo non sempre venivano comprese, ma facevano spesso riflettere
proprio coloro che non erano tanto abituati a farlo:
“Mi è venuto in mente più di una volta, e non dico che
questa sia finalmente quella buona, ma scrivere la mia personale versione della
filosofia, è stata un’idea ricorrente, mai realizzata sulla carta, anche se qui
si tratta di altro, qualcosa a vedere con i dannati pixel, insomma.
Non sono il tipo che si fa castelli in aria, io non
m’illudo, casomai faccio il contrario. Non parlo di teoria o perlomeno non ne
ho l’intenzione, ma vorrei scrivere qualcosa di non troppo pretenzioso o
fondamentale, su quello che mi pare il codice segreto dei miei pensieri.
Naturalmente questa specie di costituzione personale ha a
che fare con quello che si pensa di essere o di fare, mentre spesso poi nella
pratica ci si comporta in maniera assai divergente.
Ci siamo chiesti più volte chi diavolo fossimo e dove
minchia eravamo diretti, le risposte sono sempre state piuttosto vaghe, ma
diciamo che in tanti atteggiamenti durante gli anni si cambia anche, per
esempio io mi sono sentito in due modi molto differenti quando stavo con una
donna stabilmente oppure quando ero solo e abbandonato alle intemperie di un
mondo che allora, specialmente quando ero solo, capivo e amavo molto meno.
Facebook è purtroppo diventato un metro di paragone: fino
a poco tempo fa ho avuto la pretesa di togliere quello che non mi piaceva, sia
persone che gruppi, ogni tipo di pubblicità. Poi ho notato un particolare:
quello che buttavo fuori era un 95 per cento di quello che c’era a disposizione
e allora ho lasciato perdere.
Una volta la stagione calda era la mia preferita ora
invece è quella autunnale o invernale, non dico la pioggia, ma il freddo mi
piace di più del caldo, parlando di estremi esagerati e sgradevoli.
Se per alcuni, a volte, la notte porta consiglio, di
sicuro qui nel nostro stato, il Rio Grande do Sul, porta cambiamenti.”
Era un teorico del calcio istintivo e spettacolare, non
irrazionale ma creativo, i suoi giocatori erano spesso dei grandi dribblatori, non
protestavano ai falli degli avversari, ma non visti gli tiravano botte da orbi.
Eppure come allenatore in Italia gli era stato simpatico Sarri, uomo che rideva
raramente, ma suscitava negli altri il sorriso, la benevola constatazione o
anche il più gioviale vaffanculo possibile. Strano a dirsi ma ai suoi tempi i
giocatori di Sarri giocavano di prima e non dribblavano quasi mai.
La filosofia di Romano con il tempo era diventata
piuttosto l’opposto: se ci sono troppi soldi di mezzo, se il calcio è diventato
un business, se per inseguire il risultato non si dribbla mai e il gioco è
diventato una ripetizione pedissequa di schemi pallosi e senza fantasia, non si
vuole rischiare mai e questo a lungo andare è il maggior rischio.
La velocità è importante, giocare di prima anche, ma a
corrente alternata, il fattore sorpresa lo è anche di piu, il Brasile una volta
faceva la melina, ai bei tempi, palleggiava con estrema lentezza e poi partiva
con improvvise e letali accellerazioni, così bisogna fare.
Dopo il fallimento annunciato di Ancelotti (che aveva avuto
poco tempo a disposizione ed era stato influenzato se non bullizzato dai
giornalisti e dall’opinione pubblica,) che aveva portato la Seleção a un
ingiustificato (e decisamente ingiustificabile) secondo posto, lo chiamarono ad
allenare la nazionale brasiliana.
Romano Benedetti, ma per gli amici Romelu, Lookman, ogni tanto anche piuttosto Ademola, d’acchito pensò di rifiutare.
Non tanti anni prima lo aveva fatto anche Muricy Ramalho
e proprio per questo gli era diventato improvvisamente simpatico, anche se
aveva mentito sui motivi, quelli veri.
Però considerò in un secondo momento e successivamente in
un terzo, finalmente in un quarto... che poi fu quello definitivo, che gli
stavano consegnando, loro malgrado, un’occasione d’oro.
Finalmente avrebbe fatto intravedere non solo al Brasile,
ma al mondo intero, che l’importante non era vincere... e nemmeno partecipare.
Nel suo primo discorso pubblico disse che Zeman era il
suo modello, in Brasile nessuno lo conosceva, ma lui per essere capito meglio
disse che il risultato preferito suo era il tre a due, a limite un cinque a
quattro, o anche un fantasmagorico otto a sette, e a chi non piacerebbe un bell’otto
a sette? Decisamente non uno squallido quattro o cinque a zero.
La stampa ovviamente lo massacrò, poi tutti pensarono che
lo avessero giustamente umiliato... e che lo avrebbero cacciato via, almeno
così credettero, ma lui intanto - secondo me - se la rideva e da sottolineare
che non aveva ancora giocato una partita come allenatore della canarina.
Poi, prima della partita con l’Uruguay, vinta per quattro
a tre a Montevideo, disse che quella non era stata affatto un’eccezione: lui era
orientato a convocare principalmente i giocatori che non giocavano altrove,
solo quelli, o principalmente quelli che per soldi non se ne erano andati in
Europa o peggio ancora.
Il peggio ancora
ovviamente non esisteva, continuò, ma era giustificato, spiegò in seguito, dal
fatto che proprio da là avevano influenzato e fatto cambiare in peggio il gioco
del Brasile, che prima era il più spettacolare e redditizio del mondo. Questo ragionamento
però alla gente piacque.
Bene o male, con qualche normale incidente di percorso e
due o tre invasioni di campo, vinsero tutte le partite delle qualificazioni e
solo per questo non lo mandarono via, forse all’inizio gli sarebbe piaciuto
assai, ma non erano più tanto sicuri.
La seleção
segnò ottantaquattro goal e ne incassò settanta, un caso mai presentatosi agli
occhi poco cerulei e increduli del tifoso gialloverdebiancoblù (che qua si chiama torcedor).
Vinse la coppa America senza strafare, ma divertendo gli
spettatori come il Brasile dei bei tempi.
Il presidente della CBF, tale Aloisio Maranhão di Belem
do Parà, era uno che quando parlava non si capiva se era scemo o se faceva
finta, forse tutte e due le cose, di sicuro e comunque era manovrato, con
evidenti conflitti d’interessi e corrotto come voleva la prassi. Certamente
anche qui in entrambi i casi, ma in percentuali da stabilirsi.
E i diritti per le partite in TV, gli sponsor, le
scommesse regolarizzate, le grandi multinazionali di articoli sportivi?
Il portiere del S.Caetano, preso direttamente dalla terza
divisione, segnò ventisei goal nelle qualificazioni, tre dei quali di testa,
due di destro e due di sinistro, gli altri su punizioni o rigori. Nel suo ruolo
fu il primo capocannoniere delle qualificazioni ai mondiali della storia del
calcio mondiale.
Intervistato da Galvão Bueno, che da suo acerrimo
detrattore era diventato il suo più entusiastico e maggiore appoggio in
televisione e Youtube, Romano disse a sproposito:
“Martin Chivers era un grosso centroavanti inglese,
giocava nel Tottenham Hotspurs di Londra e nella nazionale britannica nei primi
anni settanta.
Era un giovinottone alto e riccioluto, che ebbe i suoi discreti
successi, sia nel suo club che in nazionale, sebbene con un certo amaro in
bocca.
Oltre che essere forte nel gioco aereo e in acrobazia,
era abilissimo nel battere dei lunghi falli laterali, utili specialmente in
attacco, perché risultavano essere come dei calci d’angolo, ma più precisi.
In tali azioni evidentemente sarebbe stato ottimale uno
come lui in area di rigore, per poterle sfruttare al meglio, per farci
opportuni e copiosi goals, ma con tutta la sua prestanza fisica, più la sua
grande e buona volontà, non riuscì mai a esserci, non fu mai capace di
conciliare e sfruttare al massimo le sue due maggiori e migliori specialità.
L’onnipresenza signori miei è un dono che nessuno ha qui
sulla terra, forse gli dei nell’alto dei cieli o dovunque essi siano, ammesso
che esistano o siano mai esistiti.
Ma nemmeno tutti.”
Nessuno capì a cosa si riferisse, ma tutti finsero di sì e applaudirono.
Uno dei suoi schemi rivoluzionari era proprio l’apporto
del portiere in sede offensiva, quando l’avversario attaccava il difensore
estremo inopinatamente fuggiva a falcate verso il centrocampo, distraendo anche
gli avversari allibiti, appena un giocatore s’impadroniva della palla lanciava
lungo e Catalão in qualche maniera faceva il sospirato goal.
Magari dopo le prime volte la voce si era sparsa e lo
sapevano tutti, il difficile per gli avversari era capire quando veniva
applicato lo schema, uno trai tanti innovativi e fantasiosi dei suoi.
Di solito era quando si intuiva che i nemici avrebbero
perso la palla e lì bisognava essere sveltissimi.
Un parte consistente dei goal subiti era stata fatta
quando lo schema aveva fallito, poteva essere sia per incompetenza propria o
bravura degli avversari.
Un’altra trovata era che al segnale prestabilito tutti
gli attaccanti andavano in difesa e i difensori all’attacco, i centrocampisti
mezzi da una parte e mezzi dall’altra, si creava un vuoto, riempito solo dagli
avversari disorientati che giravano come mosche senza testa.
Il Fuoriclasse Neto (Craque Neto), ex giocatore, al
presente becero presentatore televisivo, Youtuber sensazionalista e urlatore,
tentò di distruggerlo per i primi sei mesi, con i suoi commenti infuocati e le
sue argomentazioni gridate e rigorosamente false, ma quando vide che il
pubblico si era spostato dalla sua parte, automaticamente diventò un suo fan,
anche abbastanza indiavolato.
A suo tempo il soprannome di fuoriclasse che si era dato
da solo, era stato più volte contestato da chi ci aveva convissuto, da chi ci
aveva giocato insieme, uno disse che avrebbe potuto anche diventarlo, forse un
giorno che non aveva mai albeggiato, ma solo se avesse lasciato perdere le
scappate notturne, le puttane e l’alcool.
Romano dava raramente interviste, ma ogni tanto mandava
ragionamenti indiretti, che facevano pensare chi ne era ancora capace.
“Se devo trascorrere la mia vita a lottare per gli
spiccioli, se ho una casa troppo grande che mi complica l'esistenza, se ho
bisogno di molti mezzi materiali, se devo cambiare macchina ogni anno, e così
via, dovrò spendere il mio tempo a lavorare per tutto questo, e poi lavorare
affinché non mi derubino, e via dicendo, fino a quando non diventerò un vecchio
rattrappito e pieno di malanni.
Essere frugale, essere sobrio, è una strategia calcolata,
premeditata, che mi consente di avere tempo per essere libero.
Ogni ora della mia esistenza che devo spendere a
risolvere le cose materiali della vita è un'ora che non posso dedicare a ciò
che più mi appassiona, a quel che mi rende felice e libero.
Ai giovani vorrei dire: non fatevi scippare la vita, non
lasciatevi trasformare in schiavi per correre dietro a questioni materiali.
Non conformatevi a vivere in ginocchio, o sulle spalle
degli altri, non trasformatevi in sfruttatori; non vivete neppure in un mondo
di sperperi; non fatevi prendere per il naso da una campagna di marketing,
perché dice che la camicia che portate non è di moda, i campioni che avete come
modelli non sono di moda.
La moda è essere liberi, e per essere liberi bisogna
avere tempo. [...]
Tempo per amore, tempo per le relazioni con gli altri, tempo
per il gruppo di amici... cose piccole per il mondo, ma grandi per
l'individuo.”
Per questo pensiero di José Mujica (Pepe), con il quale
lui affettivamente si identificava e si immedesimava, talvolta veniva
considerato comunista, il che non lo faceva scandalizzare più che di essere
chiamato fascista. Per lui ormai erano aggettivi romantici, roba di un passato
polveroso, che ricordava a volte con nostalgia, altre volte con una non ben
identificata languida irritazione.
Il Brasile intanto vinceva sempre di misura, o quasi, ma nelle
competizioni ad eliminazione diretta mai andavano ai supplementari o ai rigori.
Insomma non perdeva e non pareggiava, e questo era quello
che contava, ma i goal che faceva e la sua maniera di interpretare una
struttura nuova di automatismi e meccanismi, straordinariamente flessibile e
imprevedibile, che era unica al mondo e cominciavano già a imitarla di qua e di
là.
Grazie ai giornalisti brasiliani, opportunamente aizzati
da Romano Benedetti, riuscirono a coinvolgere i colleghi un po’ in tutto il
mondo occidentale. La FIFA, altro modello di corruzione più europea, si trovò
ben presto obbligata e cambiò diverse regole, tra cui l’abolizione del
fuorigioco e del VAR, introduzione di due arbitri e quattro guardalinee.
Si vendicarono e inventarono un mondiale in Cina di
sessantaquattro squadre, giocato in due mesi e mezzo. Il Brasile non vinse, ma
non fu solo colpa del sestetto arbitrale e la stanchezza.
La gente festeggiò uno spettacolare e meraviglioso terzo
posto tutta la notte del 15 luglio. Fu la prima volta nella storia del calcio
mondiale.
Benedetti non morì di infarto, ma ci mancò poco e dovette
abbandonare il suo mestiere, gli provocava una certa ansia.
Come opinionista era piuttosto taciturno, spesso laconico
o telegrafico, ma le facce che faceva
alla TV e su Youtube erano abbastanza eloquenti e lo invitavano a tutti i
programmi, non solo a quelli sportivi.
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