martedì 27 maggio 2025

FUTEBOL E CALCIO POSSONO ASSOMIGLIARSI

 


In teoria si poteva dargli torto un po' su tutto, ma in pratica, avendoci a che fare personalmente, poteva convincere chiunque che la ragione e il torto a lui non interessavano proprio.

Come l'eterno dualismo politico destra-sinistra, a che cosa poteva servirgli se non a spostare quasi automaticamente il baricentro del suo pensiero su qualcos'altro di più attuale, meno formaggesco, ma più ciccioso, anche se per inerzia era diventato un quasi vegetariano?

Per esempio un vino rosso ghiacciato d'estate per lui era il toccasana, non perché tutti gli altri facevano il contrario che lui dovesse poi pecoronescamente seguirli, e a guardare bene quelli erano quasi tutti italiani e lui non si sentiva più tanto un peninsulare, solo quando gli faceva comodo insomma, cioè quasi mai.

Era un tipo che spaccava il secondo, in alcuni casi anche il terzo, e non sto parlando solo di tempo, ma anche di denaro.

Insomma, come aveva già accennato a suo tempo Felipão (Filippone, cioè Luis Felipe Scolari, allenatore del Brasile vittorioso nel mondiale del 2002, in Giappone e Corea) alcune tecniche o schemi interessanti si possono usare anche fuori dal calcio. Romano Benedetti aggiunse che la creatività ha un estremo bisogno di libertà e delle conseguenti intuizioni artistiche.

Allenava da anni il Juventude di Caxias, che riuscì quell’anno ad aggiudicarsi a sorpresa coppa e campionato, nella Libertadores poi fu sconfitto di misura, 5 a 4, in finale a Medellin dal Boca Juniors argentino.

Non era facile essere tifoso dell'Atalanta in Brasile, ma chi lo conosceva bene, non per questo necessariamente apprezzandolo, lo chiamava scherzosamente Ademola, che aveva a che fare certo con Lookman, l'uomo che guarda.

Raccontò su una rivista, che secondo me in pochi lessero, ma era la spiegazione del perché aveva scelto di essere fan di quella squadra e poi gli piaceva l’allenatore Gasperini, dell’epoca dell’esplosione italiana di quella squadra.

 

Il nome della squadra si rifà al personaggio di Atalanta, giovane eroina della mitologia greca – famosa per le sue doti nella caccia. Spesso si associa il soprannome di “La Dea” alla squadra bergamasca quando scende in campo ed i fluenti capelli al vento sono un’immagine appropriata, amata dai tifosi. Ma perché è fondamentale comprendere la storia di Dea?

Il mito racconta che il padre di Atalanta fosse alla ricerca spasmodica di un figlio maschio; la sua nascita fu dunque un evento non atteso e non voluto, tanto che venne abbandonata sul monte Pelio. Artemide, una delle divinità dell’Olimpo, decise di inviare un’orsa che le avrebbe fatto da madre, prima che dopo un po’ di anni venne ritrovata da un gruppo di cacciatori che decisero di allevarla. Tante furono le avventure in cui si imbatté nel corso della vita, tanto da riuscire a ferire per prima, nel corso di una battuta di caccia, il cinghiale di Calidone (altro essere presente nella mitologia greca).

Quest’impresa fece nascere nel padre un rimorso, che decise a quel punto di tornare sui suoi passi e di riconoscerla. Si mise di mezzo però un oracolo – come spesso accade nei miti greci – che aveva previsto che, una volta sposata, avrebbe perduto le sue abilità. Atalanta quindi promise di sposarsi solo con chi l’avesse battuta in una gara di corsa e per i partecipanti non sarebbe stata un’impresa semplice: la vittoria, e quindi la sposa, oppure la morte, in caso di sconfitta. Fu Melanione (o Ippomene), forte del suo amore, a volerla sfidare, ma prima chiese aiuto ad Afrodite. La dea trovò un semplice stratagemma: dare tre mele d’oro prese dal Giardino delle Esperidi e il giovane, durante la corsa, le avrebbe fatte cadere. Atalanta fu attratta dal prezioso dono, e ogni volta si fermò per raccoglierla, perdendo però il tempo necessario per vincere la corsa. Il finale però non è di quelli romantici, anzi: celebrato il matrimonio, i due però vennero severamente puniti da Afrodite, che li scoprì intenti in atteggiamenti amorosi in un tempio dedicato a Cibele. Per questo vennero così trasformati in leoni dato che i greci ritenevano che i leoni non si accoppiassero tra loro.

 

Però a lui piaceva essere ricordato come Romelu, per via di Lukaku, un altro leone, africano ma naturalizzato belga e napoletano. Tutti eroi calcistici degli anni passati, quando il nostro eroe viveva ancora in Italia.

Diciamo che il suo pensiero filosofico era più facilmente identificabile con quello partenopeo, per via delle lontane ma forti origini greche.

Lasciamo piuttosto parlare le sue stesse frasi però, quelle che certo non sempre venivano comprese, ma facevano spesso riflettere proprio coloro che non erano tanto abituati a farlo:

“Mi è venuto in mente più di una volta, e non dico che questa sia finalmente quella buona, ma scrivere la mia personale versione della filosofia, è stata un’idea ricorrente, mai realizzata sulla carta, anche se qui si tratta di altro, qualcosa a vedere con i dannati pixel, insomma.

Non sono il tipo che si fa castelli in aria, io non m’illudo, casomai faccio il contrario. Non parlo di teoria o perlomeno non ne ho l’intenzione, ma vorrei scrivere qualcosa di non troppo pretenzioso o fondamentale, su quello che mi pare il codice segreto dei miei pensieri.

Naturalmente questa specie di costituzione personale ha a che fare con quello che si pensa di essere o di fare, mentre spesso poi nella pratica ci si comporta in maniera assai divergente.

Ci siamo chiesti più volte chi diavolo fossimo e dove minchia eravamo diretti, le risposte sono sempre state piuttosto vaghe, ma diciamo che in tanti atteggiamenti durante gli anni si cambia anche, per esempio io mi sono sentito in due modi molto differenti quando stavo con una donna stabilmente oppure quando ero solo e abbandonato alle intemperie di un mondo che allora, specialmente quando ero solo, capivo e amavo molto meno.

Facebook è purtroppo diventato un metro di paragone: fino a poco tempo fa ho avuto la pretesa di togliere quello che non mi piaceva, sia persone che gruppi, ogni tipo di pubblicità. Poi ho notato un particolare: quello che buttavo fuori era un 95 per cento di quello che c’era a disposizione e allora ho lasciato perdere.

Una volta la stagione calda era la mia preferita ora invece è quella autunnale o invernale, non dico la pioggia, ma il freddo mi piace di più del caldo, parlando di estremi esagerati e sgradevoli.

Se per alcuni, a volte, la notte porta consiglio, di sicuro qui nel nostro stato, il Rio Grande do Sul, porta cambiamenti.”

Era un teorico del calcio istintivo e spettacolare, non irrazionale ma creativo, i suoi giocatori erano spesso dei grandi dribblatori, non protestavano ai falli degli avversari, ma non visti gli tiravano botte da orbi. Eppure come allenatore in Italia gli era stato simpatico Sarri, uomo che rideva raramente, ma suscitava negli altri il sorriso, la benevola constatazione o anche il più gioviale vaffanculo possibile. Strano a dirsi ma ai suoi tempi i giocatori di Sarri giocavano di prima e non dribblavano quasi mai.

La filosofia di Romano con il tempo era diventata piuttosto l’opposto: se ci sono troppi soldi di mezzo, se il calcio è diventato un business, se per inseguire il risultato non si dribbla mai e il gioco è diventato una ripetizione pedissequa di schemi pallosi e senza fantasia, non si vuole rischiare mai e questo a lungo andare è il maggior rischio.

La velocità è importante, giocare di prima anche, ma a corrente alternata, il fattore sorpresa lo è anche di piu, il Brasile una volta faceva la melina, ai bei tempi, palleggiava con estrema lentezza e poi partiva con improvvise e letali accellerazioni, così bisogna fare.

Dopo il fallimento annunciato di Ancelotti (che aveva avuto poco tempo a disposizione ed era stato influenzato se non bullizzato dai giornalisti e dall’opinione pubblica,) che aveva portato la Seleção a un ingiustificato (e decisamente ingiustificabile) secondo posto, lo chiamarono ad allenare la nazionale brasiliana.

Romano Benedetti, ma per gli amici Romelu, Lookman, ogni tanto anche piuttosto Ademola, d’acchito pensò di rifiutare.

Non tanti anni prima lo aveva fatto anche Muricy Ramalho e proprio per questo gli era diventato improvvisamente simpatico, anche se aveva mentito sui motivi, quelli veri.

Però considerò in un secondo momento e successivamente in un terzo, finalmente in un quarto... che poi fu quello definitivo, che gli stavano consegnando, loro malgrado, un’occasione d’oro.

Finalmente avrebbe fatto intravedere non solo al Brasile, ma al mondo intero, che l’importante non era vincere... e nemmeno partecipare.

Nel suo primo discorso pubblico disse che Zeman era il suo modello, in Brasile nessuno lo conosceva, ma lui per essere capito meglio disse che il risultato preferito suo era il tre a due, a limite un cinque a quattro, o anche un fantasmagorico otto a sette, e a chi non piacerebbe un bell’otto a sette? Decisamente non uno squallido quattro o cinque a zero.

La stampa ovviamente lo massacrò, poi tutti pensarono che lo avessero giustamente umiliato... e che lo avrebbero cacciato via, almeno così credettero, ma lui intanto - secondo me - se la rideva e da sottolineare che non aveva ancora giocato una partita come allenatore della canarina.

Poi, prima della partita con l’Uruguay, vinta per quattro a tre a Montevideo, disse che quella non era stata affatto un’eccezione: lui era orientato a convocare principalmente i giocatori che non giocavano altrove, solo quelli, o principalmente quelli che per soldi non se ne erano andati in Europa o peggio ancora.

Il peggio ancora ovviamente non esisteva, continuò, ma era giustificato, spiegò in seguito, dal fatto che proprio da là avevano influenzato e fatto cambiare in peggio il gioco del Brasile, che prima era il più spettacolare e redditizio del mondo. Questo ragionamento però alla gente piacque.

Bene o male, con qualche normale incidente di percorso e due o tre invasioni di campo, vinsero tutte le partite delle qualificazioni e solo per questo non lo mandarono via, forse all’inizio gli sarebbe piaciuto assai, ma non erano più tanto sicuri.

La seleção segnò ottantaquattro goal e ne incassò settanta, un caso mai presentatosi agli occhi poco cerulei e increduli del tifoso gialloverdebiancoblù (che qua si chiama torcedor).

Vinse la coppa America senza strafare, ma divertendo gli spettatori come il Brasile dei bei tempi.

Il presidente della CBF, tale Aloisio Maranhão di Belem do Parà, era uno che quando parlava non si capiva se era scemo o se faceva finta, forse tutte e due le cose, di sicuro e comunque era manovrato, con evidenti conflitti d’interessi e corrotto come voleva la prassi. Certamente anche qui in entrambi i casi, ma in percentuali da stabilirsi.

E i diritti per le partite in TV, gli sponsor, le scommesse regolarizzate, le grandi multinazionali di articoli sportivi?

Il portiere del S.Caetano, preso direttamente dalla terza divisione, segnò ventisei goal nelle qualificazioni, tre dei quali di testa, due di destro e due di sinistro, gli altri su punizioni o rigori. Nel suo ruolo fu il primo capocannoniere delle qualificazioni ai mondiali della storia del calcio mondiale.

Intervistato da Galvão Bueno, che da suo acerrimo detrattore era diventato il suo più entusiastico e maggiore appoggio in televisione e Youtube, Romano disse a sproposito:

“Martin Chivers era un grosso centroavanti inglese, giocava nel Tottenham Hotspurs di Londra e nella nazionale britannica nei primi anni settanta.

Era un giovinottone alto e riccioluto, che ebbe i suoi discreti successi, sia nel suo club che in nazionale, sebbene con un certo amaro in bocca.

Oltre che essere forte nel gioco aereo e in acrobazia, era abilissimo nel battere dei lunghi falli laterali, utili specialmente in attacco, perché risultavano essere come dei calci d’angolo, ma più precisi.

In tali azioni evidentemente sarebbe stato ottimale uno come lui in area di rigore, per poterle sfruttare al meglio, per farci opportuni e copiosi goals, ma con tutta la sua prestanza fisica, più la sua grande e buona volontà, non riuscì mai a esserci, non fu mai capace di conciliare e sfruttare al massimo le sue due maggiori e migliori specialità.

L’onnipresenza signori miei è un dono che nessuno ha qui sulla terra, forse gli dei nell’alto dei cieli o dovunque essi siano, ammesso che esistano o siano mai esistiti.

Ma nemmeno tutti.”

Nessuno capì a cosa si riferisse, ma tutti finsero  di sì e applaudirono.

Uno dei suoi schemi rivoluzionari era proprio l’apporto del portiere in sede offensiva, quando l’avversario attaccava il difensore estremo inopinatamente fuggiva a falcate verso il centrocampo, distraendo anche gli avversari allibiti, appena un giocatore s’impadroniva della palla lanciava lungo e Catalão in qualche maniera faceva il sospirato goal.

Magari dopo le prime volte la voce si era sparsa e lo sapevano tutti, il difficile per gli avversari era capire quando veniva applicato lo schema, uno trai tanti innovativi e fantasiosi dei suoi.

Di solito era quando si intuiva che i nemici avrebbero perso la palla e lì bisognava essere sveltissimi.

Un parte consistente dei goal subiti era stata fatta quando lo schema aveva fallito, poteva essere sia per incompetenza propria o bravura degli avversari.

Un’altra trovata era che al segnale prestabilito tutti gli attaccanti andavano in difesa e i difensori all’attacco, i centrocampisti mezzi da una parte e mezzi dall’altra, si creava un vuoto, riempito solo dagli avversari disorientati che giravano come mosche senza testa.

Il Fuoriclasse Neto (Craque Neto), ex giocatore, al presente becero presentatore televisivo, Youtuber sensazionalista e urlatore, tentò di distruggerlo per i primi sei mesi, con i suoi commenti infuocati e le sue argomentazioni gridate e rigorosamente false, ma quando vide che il pubblico si era spostato dalla sua parte, automaticamente diventò un suo fan, anche abbastanza indiavolato.

A suo tempo il soprannome di fuoriclasse che si era dato da solo, era stato più volte contestato da chi ci aveva convissuto, da chi ci aveva giocato insieme, uno disse che avrebbe potuto anche diventarlo, forse un giorno che non aveva mai albeggiato, ma solo se avesse lasciato perdere le scappate notturne, le puttane e l’alcool.

Romano dava raramente interviste, ma ogni tanto mandava ragionamenti indiretti, che facevano pensare chi ne era ancora capace.

“Se devo trascorrere la mia vita a lottare per gli spiccioli, se ho una casa troppo grande che mi complica l'esistenza, se ho bisogno di molti mezzi materiali, se devo cambiare macchina ogni anno, e così via, dovrò spendere il mio tempo a lavorare per tutto questo, e poi lavorare affinché non mi derubino, e via dicendo, fino a quando non diventerò un vecchio rattrappito e pieno di malanni.

Essere frugale, essere sobrio, è una strategia calcolata, premeditata, che mi consente di avere tempo per essere libero.

Ogni ora della mia esistenza che devo spendere a risolvere le cose materiali della vita è un'ora che non posso dedicare a ciò che più mi appassiona, a quel che mi rende felice e libero.

Ai giovani vorrei dire: non fatevi scippare la vita, non lasciatevi trasformare in schiavi per correre dietro a questioni materiali.

Non conformatevi a vivere in ginocchio, o sulle spalle degli altri, non trasformatevi in sfruttatori; non vivete neppure in un mondo di sperperi; non fatevi prendere per il naso da una campagna di marketing, perché dice che la camicia che portate non è di moda, i campioni che avete come modelli non sono di moda.

La moda è essere liberi, e per essere liberi bisogna avere tempo. [...]

Tempo per amore, tempo per le relazioni con gli altri, tempo per il gruppo di amici... cose piccole per il mondo, ma grandi per l'individuo.”

Per questo pensiero di José Mujica (Pepe), con il quale lui affettivamente si identificava e si immedesimava, talvolta veniva considerato comunista, il che non lo faceva scandalizzare più che di essere chiamato fascista. Per lui ormai erano aggettivi romantici, roba di un passato polveroso, che ricordava a volte con nostalgia, altre volte con una non ben identificata languida irritazione.

Il Brasile intanto vinceva sempre di misura, o quasi, ma nelle competizioni ad eliminazione diretta mai andavano ai supplementari o ai rigori.

Insomma non perdeva e non pareggiava, e questo era quello che contava, ma i goal che faceva e la sua maniera di interpretare una struttura nuova di automatismi e meccanismi, straordinariamente flessibile e imprevedibile, che era unica al mondo e cominciavano già a imitarla di qua e di là.

Grazie ai giornalisti brasiliani, opportunamente aizzati da Romano Benedetti, riuscirono a coinvolgere i colleghi un po’ in tutto il mondo occidentale. La FIFA, altro modello di corruzione più europea, si trovò ben presto obbligata e cambiò diverse regole, tra cui l’abolizione del fuorigioco e del VAR, introduzione di due arbitri e quattro guardalinee.

Si vendicarono e inventarono un mondiale in Cina di sessantaquattro squadre, giocato in due mesi e mezzo. Il Brasile non vinse, ma non fu solo colpa del sestetto arbitrale e la stanchezza.

La gente festeggiò uno spettacolare e meraviglioso terzo posto tutta la notte del 15 luglio. Fu la prima volta nella storia del calcio mondiale.

Benedetti non morì di infarto, ma ci mancò poco e dovette abbandonare il suo mestiere, gli provocava una certa ansia.

Come opinionista era piuttosto taciturno, spesso laconico o telegrafico,  ma le facce che faceva alla TV e su Youtube erano abbastanza eloquenti e lo invitavano a tutti i programmi, non solo a quelli sportivi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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