venerdì 11 maggio 2018

NEL SUD DEL BRASILE





A Porto Alegre li chiamano Sebos, forse per via dell’unto di dita sudate sulle pagine, questi luoghi romantici dove si vendono libri di seconda, terza o quarta mano, a volte anche di quinta o sesta, rigorosamente mai di prima. Ci vado spesso quando sono in centro, ed era epoca di Carnevale quando trovai quel libro, in uno di questi negozi, ma quella fu una scoperta da segnare sul calendario. È vero che era un po’ rovinato, mancava la copertina, c’era un nome e cognome scritto a penna sulla prima pagina bianca, c’erano numerose macchie di misteriosa e differente materia e origine, perfino un pezzo di cibo, per quel che sembrava, indurito e verdastro a pagina 12. Però dall’incipit avevo capito subito che mi sarebbe piaciuto.
Mi succede ogni tanto di trovare dei libri che mi piacciono, poi mi ci affeziono, li rileggo e ci trovo anche delle cose nuove ogni volta che me li ripasso. Non è certo per il loro valore commerciale che li apprezzo, ma per il contenuto, per lo stile, per le atmosfere che ci scopro dentro che poi posso riviverle a comando, da solo, la sera a letto o in giardino, che ne so, davanti al caminetto acceso, come quel volumetto di poco più di 100 pagine, che lessi e rilessi a sazietà.

Il caso volle che, non più di una settimana dopo Luiz Martinho Casagrande, il mio socio, mi disse che il nome scritto sulla pagina del libro, corrispondeva a un vecchio di origine italiana, tale Sauro José Gastolfini, che gli avevano riferito risolvesse i casi più intricati, e senza muoversi dal suo giardino, in uno dei quali io mi trovavo impantanato proprio in quei giorni. Di casi, non di giardini.
Il portone era quasi caduto quando aveva aperto, ma lui non ci fece particolare caso, notai che era vestito di varie maglie, magliette, pigiami, calzoni della tuta, insomma a strati, tutta roba scolorita ma anche piuttosto profumata. Mi fece sedere sotto un albero enorme, su una sedia di plastica che un tempo doveva essere stata bianca, mi offrì una spremuta di arancio, che stava bevendo da una brocca finemente lavorata, forse di cristallo di Boemia, evidentemente l’avevo interrotto mentre era sprofondato in tali testi vecchi e ingialliti, mi pare che fossero in tedesco. Aveva i capelli cortissimi e la barba della stessa lunghezza, pensai che si tosasse tutto insieme, per praticità, come le pecore, magari una volta l’anno.
Mentre gli spiegavo il caso mi ascoltava assai attentamente e prendeva appunti su un taccuino, le lenti spesse gl’ingrandivano gli occhi in maniera suggestiva. Non parlò finché non ebbi esposto il mio problema. In fondo era solo per quello che lo cercavano, anche se piuttosto raramente, ma se la faccia di chi bussava alla sua vecchia porta non gli garbava non apriva nemmeno e i suoi cani ricominciavano automaticamente ad abbaiare in maniera impressionante e chiunque capiva che era meglio andarsene. Non parlava spesso con la gente, mi avevano avvisato, se avesse accettato di farlo era solo per simpatia, con gli altri, se e quando interrogato, era capace di rispondere a grugniti, al massimo sì o no.
 “Sono un poliziotto privato, ho un caso che non mi riesce di risolvere, mi hanno detto che lei aiuta chiunque, senza muoversi da qui e che non vuole compensi in denaro, ma accetta uova, galline, prosciutti, salami e verdura di vario tipo, lei conferma?”
“Sì, continui pure.”
“Io la pagherei in cose da mangiare che devo comunque comprare, quindi può scegliere.”
“Meraviglioso, è tanto tempo che non mangio lo speck e il formaggio parmigiano.”
“Non ci sono problemi.”
“E la mozzarella italiana di bufala.”
“Giusto.”
“E il caso in questione?”
“Il caso in questione è questo qui...”
Gli spiegai per sommi capi quello che sapevo e ciò che volevo e lui mi disse di tornare con le prove che avevo e un riassunto registrato a voce, o scritto, di tutto il busillis in questione, quando volevo. Cinque ore dopo tornai e lo trovai ansioso di vedere cosa gli avevo portato, alle sue richieste avevo aggiunto di mia iniziativa un secchiellino di mozzarella trasparente colle palline che nuotavano nel siero. Trasparente il secchiellino, non la mozzarella. Era notte e lui mi fece entrare nella casa di foratini senza intonaco, ben nascosta in mezzo agli alberi, là dentro però i mattoni non si vedevano più perché era foderata di libri su ogni parete. Notai che non c’erano sveglie o orologi in giro, ma vidi un computer acceso in una stanzina insonorizzata, colla porta e le pareti imbottite, là dentro c’era un letto e una comoda poltrona, ma noi ci accomodammo in quella che era una cucina-tinello-soggiorno che occupava il resto del pianterreno della casa, con un tavolo enorme e sei sedie, due poltrone vecchie ma comode, un grande televisore antiquato ma ben funzionante acceso senza volume, vari acquari con pesci di ogni tipo, il più grande faceva da divisorio tra i fornelli e la parte del tinello-sala.
José Sauro Gastolfini mi fece accomodare, dette un’occhiata ai reperti, rimase assorto un minuto o due e disse che mi avrebbe richiamato lui. Mi accompagnò alla porta senza dire una parola e mi ritelefonò il giorno dopo informandomi che aveva risolto il caso, di portare un chilo di parmigiano, mezzo chilo di speck da tagliare e due secchielli di mozzarella grandi.
Sulla sola base della teoria aveva veramente trovato il colpevole materiale, la maniera di incastrarlo e vari tipi di prova, che - se non funzionavano tutte - una sola di quelle sarebbe bastata. Io ci rimasi di sasso, erano due settimane che ci stavo diventando matto e non riuscivo a credere che in nemmeno 24 ore lui aveva sgamato tutto e senza muoversi da casa sua.
Il Gastolfini scandiva ogni parola senza fretta e si esprimeva in un portoghese-brasiliano assai raffinato e colorito. Io ero ansioso di andarmene in quel momento, anche se poi lo sarei diventato di tornarci, ma ancora non lo sapevo, ero sbalordito e di conseguenza piuttosto confuso. Con la sua faccia impassibile, la pigrizia congenita e la rinuncia sistematica che apparivano al visitatore occasionale, per quanto riguardasse ogni forma di vita esterna al suo maniero di mattoni forati, là tra quei muri essenziali - invece - lui era il sapere, la profondità e la bellezza fors’anche, ma non nel modo che s’intende comunemente, oltre quegli alberi, quell’abbaiare furioso dei suoi cani. Il Gastolfini viveva in Brasile ma non ci sarebbe stata differenza se non nel clima, se fosse stato in Libia o in Persia, in Australia o in Siberia, perché lui non usciva, non si muoveva dal suo luogo ideale di studio e meditazione e mi toccò ben presto di rivisitarlo, e mentre ci andavo, in macchina su quella collina limitrofa alla città di Porto Alegre, quartiere Vila Nova, mi accorsi che lo facevo volentieri, che lo avrei rivisto e ascoltato le sue interminabili dissertazioni con piacere, anzi con molto piacere.
La seconda volta c’era una donna molto più giovane di lui che mi aprì, disse che Sauro stava parlando al telefono, ma lei lo aveva chiamato Dino, accompagnando con un sorriso malandrino il gioco di parole. Doveva essere la sua fidanzata, per così dire, non mi avevano detto che ne aveva una. Lei vide che guardavo incuriosito i merli del rudimentale castello, fatti di foratini anche quelli, senza intonaco, ma perfettamente modellati e tagliati, prima non li avevo notati, sia per i rami degli alberi che nascondevano il maniero, che per l’oscurità, che per la mia confusione mentale.
“Quelli li ha fatti lui, sono ridicoli, così senza cemento sopra, una volta un rudimentale intonaco c’era, poi col tempo e il sole e l’acqua piovana è caduto, ma a lui piacciono, non so come. Dino ho rinunciato da tempo a capirlo, va preso così come viene, se e quando viene, non so se mi spiego.”
Il Gastolfini arrivò vestito con un caffettano di stile arabo e un berretto nero con scritto sopra YES in un rosso slabbrato, come se fosse sangue fresco. Si sedette un po’ assorto nei suoi pensieri evidentemente fronzuti ma assai liberi, al lieve venticello del sud. Mi salutò, bevemmo il caffè che la ragazza ci portò e cominciai a spiegargli il caso, poi gli mostrai il rapporto scritto e le prove che avevo racimolato.
Anche stavolta risolse tutto in meno di 24 ore e il compenso fu un bottiglione di olio d’oliva extra-vergine italiano da 5 litri. Masticando i miei bocconi intanto io continuavo quel libro che forse anche suo malgrado mi sembrava sempre più misterioso e affascinante.
Io ero uno che viveva da solo e quindi leggevo mangiando, mi abbuffavo di fronte al computer, mantenevo in funzionamento le ganasce mentre guidavo la macchina, masticavo quando parlavo al telefono, guardavo la TV sgranocchiando. Insomma facevo sempre almeno due cose contemporaneamente e una era quasi sempre il mangiare.
Gli mostrai il libro in questione, disse che non lo conosceva e che non aveva nemmeno la pessima abitudine di scrivere il proprio nome sulle pagine dei libri, personalmente disprezzava persino chiunque leggesse mangiando, o che anche solo facesse due cose allo stesso tempo.
Sauro s’interessò molto al cibo rinvenuto a pagina 12.
Da quel momento in poi lo consultai spesso e volentieri. Il Gastolfini, protetto dai muri e dai cani, si metteva ogni giorno sotto il grande albero (di cui purtroppo non sapeva ancora il nome ma stava facendo delle ricerche) a scrivere, o a studiare. O a riflettere. In buona sintesi se c’era la naturale luce del giorno, se la sera gradevole e la notte non troppo ventosa, se non pioveva, era sempre seduto sotto quell’albero. O anche se non era troppo freddo. O se non era troppo caldo. Perché nel sud del Brasile, magari la sensazione termica era sgradevole, per via dell’azione combinata del vento e dell’umidità e allora il Gastolfini usava dei grandi cuscini colorati sotto il sedere e tra la schiena e lo schienale della sedia di plastica, si proteggeva con ripetuti strati di maglie e magliette, pigiami e tute da ginnastica. Non era raro vederlo che si toglieva uno strato o se ne metteva uno. Perché anche col caldo si doveva proteggere dagli insetti, non era il calore in se stesso che lo distoglieva dai suoi manoscritti, ma piuttosto zanzare e moscerini di vario tipo e insistenza, che in Brasile difficilmente ti lasciano da solo, anche se presi a giornalate, sentono che hai un estremo bisogno di loro e ne puoi massacrare a decine che non se ne fanno un cruccio né una ragione. Il corpo magro del Gastolfini quindi non sudava quasi più, non era il calore in se stesso che lo disturbava ma piuttosto gli insetti che ne fuoriuscivano a frotte come conseguenza indiretta, che però pungevano direttamente le parti lasciate incautamente esposte e se avevano la giusta disposizione, specie prima di un acquazzone, a volte anche attraverso i tessuti di un pigiama o di una maglietta.
La terza volta gli lasciai il libro, raschiò un pezzetto di quella sostanza verdastra a pagina 12 e disse che l’avrebbe analizzata, fece una foto con una piccola macchina fotografica di ogni macchia di ogni pagina che ne recasse una, e ce ne erano almeno una ventina, si tenne il libro, che mi avrebbe restituito appena io ne avessi manifestato la necessità, cioè mai più.
Mi sentivo a mio agio con lui, la sua compagnia, sebbene differente da tutto quello che avessi provato prima, era l’ideale per me. Sauro non parlava se non ce n’era bisogno, ma non se ne sentiva la mancanza come con altre persone. Era un uomo totalmente privo d’ansia e starsene zitti con lui non era affatto imbarazzante. In più avevamo diversi interessi in comune, tra cui la lettura.
Presi a visitarlo ogni volta che avevo del tempo libero, senza pensarci troppo, almeno all’inizio, ma spesso portandogli degli omaggi alimentari e quindi c’era sempre una visita obbligata a quel negozio di prodotti italiani della Rua Goethe. Se lui se ne era sorpreso non lo aveva dimostrato, o io non ci avevo fatto caso. Mi riceveva sempre senza fare commenti sul tempo atmosferico, o sull’ultima partita del Gremio, cosa rara a quelle latitudini, mi ringraziava del prosciutto o della pasta fresca e mi accompagnava al suo studio sotto l’albero di cui ancora, purtroppo, non era riuscito a trovare il nome in internet, sebbene più volte l’avesse visitata a quest’uopo. L’importante, spiegava, era che facesse quell’ombra fitta e lì sotto, come se le sue foglie piccole e dentellate funzionassero da deterrente, c’erano molti meno insetti che altrove.
Intanto il suo rapporto con le donne era sempre stato problematico, forse era la convivenza che gli pesava, a Geraldo, anche se non l’aveva mai provata. Il Gastolfini disse che anche lui non aveva troppa voglia di femmine in giro, ma che quella lì, Dione, aveva insistito assai e alla fine non era troppo male, perché la sera se ne tornava a casa sua e non aveva pretese assurde. Fu la prima volta che gli parlò di sé e gli parve che non ci avesse mai pensato prima, a quel determinato tipo di argomento, che i suoi occhi si illuminarono di sorpresa, scoprendo quelle verità insieme a Geraldo, mentre gliele stava raccontando.
Non so come il Gastolfini fosse riuscito ad analizzare quel resto di cibo mummificato, ma fatto sta che all’incontro seguente determinò che si trattasse di pesto alla genovese e accostandoci il naso, secondo lui, il puzzo di aglio e di basilico si sentiva ancora, cosa che constatai subito, che aveva un odore strano lo potei sentire, ma che quelli fossero aglio e basilico era già un altro discorso, completamente a sé stante, secondo me. Secondo lui, invece, questo ci restringeva già il campo perché c’era di mezzo un italiano o qualcuno che aveva a che fare, in qualche maniera. Però doveva essere qualcuno che lui conosceva, se costui conosceva Sauro Gastolfini, bene o male e aveva scritto lì il suo nome. Oppure il pesto era stato versato da qualcun altro, in qualche altra epoca, obiettai io, visto che il libro era vecchio assai, aveva avuto più proprietari e poteva addirittura essere stato imprestato a qualcun’altro, forse più persone diverse.Il Gastolfini disse che però era bello che un libro se ne andasse in giro così, significava che la gente era ancora curiosa ed entusiasta, oppure che quelli s’interessavano piuttosto a vendere, quindi ai soldi, obiettai io e fui mandato forse anche giustamente affanculo.
Il volumetto in questione parlava della stupidità umana, tra le altre cose, lo faceva con grafici e dimostrazioni pratiche, se non era del tutto da prendere sul serio, alcune cose calzavano a pennello e intanto ci si facevano anche delle risate, constatando che tante delle cose che si fanno, non solo sono del tutto irrazionali e illogiche, ma se si fanno per imitare gli altri, sono tanto assurdamente umane quanto idiote. La stupidità è una cosa prettamente umana, dichiarava lo scrittore, perché nell’ambito della nostra specie si possono fare dei confronti con l’eventuale  anche se sempre più rara intelligenza. Secondo lui non era come dire che negli animali non si trovava traccia d’intelligenza, ma che tra di loro l’intelligenza era eccezione e non regola. Qui si potrebbe anche discordare e controbattere che anche tra gli uomini, intesi come umanità, lo è, magari lo faremo in seguito. Lo storico in questione, che alcuni di voi avranno già riconosciuto, dichiarava inoltre che uno dei motivi portanti delle crociate fu ristabilire il traffico di spezie dall’estremo oriente che era stato interrotto dai musulmani e che i romani erano andati incontro alla rovina del loro impero anche perché servivano le bevande bollite in recipienti di piombo per uccidere i microbi e così sterilizzavano anche se stessi.
Il Gastolfini lesse anche il libriccino, per curiosità ma non mi disse se gli era garbato o no, sebbene glielo avessi più volte chiesto. Una caratteristica di quest’uomo, per altri versi piacevole e degno di stima, era che rispondeva piuttosto raramente alle altrui domande. Magari la sua vita interiore era più forte, i suoi pensieri e i relativi interrogativi più pressanti.
Un altro dato interessante, secondo lui, era il fatto che il volumetto era in lingua portoghese. Se l’uomo che cercavamo, benché potesse anche risultare una donna, leggeva in quella lingua doveva trattarsi d'un italiano o un’italiana che vivevano in Brasile da un po’ di tempo e questo restringeva ulteriormente il campo di ricerca a poche migliaia di persone, sparse non si sa dove, magari nemmeno più abitanti in quella nazione. Le leggi delle probabilità non erano tra quelle che preoccupavano maggiormente Sauro Gastolfini. Mi chiese di andare a vedere nel negozio in questione se il proprietario o eventuale commesso si ricordasse chi gli aveva venduto il libro. Intanto aveva stabilito che due delle macchie erano di caffè, la seconda delle quali di un caffè più forte e denso della prima, e qui si poteva ipotizzare, senza sforzarci troppo, che fosse stato un espresso all’italiana. In più c’era una macchia di Campari che avvalorava le nostre ipotesi, una di pomodoro e anche se di origine sudamericana e arrivato oltre oceano solo dopo la scoperta di Cristoforo Colombo, chi è che usa di più il pomodoro nel mondo? Non certo i tedeschi, né i cinesi. Le restanti chiazze sulle pagine restarono misteriose, almeno per il momento, ma sempre aperte ad analisi rigorosamente scientifiche e a fantasiose interpretazioni.

In quei giorni Geraldo si chiese più volte se la loro non fosse un’occupazione piuttosto idiota, il Gastolfini era riuscito a coinvolgerlo come nessun altro avrebbe saputo fare, la sua serietà era in qualche modo contagiosa, anche se talvolta assumeva risvolti che facevano Geraldo sorridere di nascosto, mentre l’entusiasmo bambino che gli dimostrava lo trasportava, faceva diventare quella causa persa anche sua e importante non tanto per il risultato ma piuttosto nella lunga, tortuosa e incerta strada da fare. Non avendo al momento indagini da sviluppare, l’investigatore privato si era buttato a peso morto in quella bizzarra corsa contro lo spazio e il tempo.
Andai quel giorno stesso al vecchio negozio di libri vecchi e non mi smontai quando il proprietario mi disse che non si ricordava, chiesi se lì ci lavorasse qualcun altro e allora mi dette l’indirizzo e il numero di telefono del suo unico dipendente, tale Zinho che abitava in un quartiere malfamato della zona nord, detto Rubem Berta. Trovai Zinho al bar sotto casa e gli pagai il suo secondo caffellatte, io presi un frullato di avocado e mango. Uno di quei bar-tavola calda brasiliani tutti mattonellati in bianco che parevano obitori, ma che davano un’apparenza di pulizia, anche se quasi mai effettiva. Zinho disse che la settimana in questione aveva comprato una caterva di libri da Pitù, un ometto che andava in giro a fare lavoretti di diverso tipo, tra cui sgombrare e pulire soffitte e cantine, appartamenti sfitti da affittare di nuovo. Ripresi la mia Elba familiare e mi recai di nuovo nella zona sud, in un quartiere povero, la case popolari COHAB, popolate da un sottobosco di individui da film sul degrado delle periferie. Pitù non c’era, lo trovai solo il giorno dopo, prima che cominciasse il suo giro, era abbastanza fresco, il clima, e lui stesso non aveva ancora cominciato a sudare. Quando lo vidi uscire e lo riconobbi subito, Pitù è il nome di una cachaça oltre che di una specie di gambero e l’ometto somigliava vagamente a un crostaceo, in più aveva la faccia di chi non disdegnasse i superalcolici più a buon mercato. Purtroppo non mi servì che a farmi dire che non sapeva leggere, quindi ogni libro per lui era uguale a un altro. Gli spiegai che doveva rammentarselo, invece, perché era piccolo, vecchio e ingiallito, senza copertina. Avevo tardato a capire che la sua memoria doveva essere in qualche modo aiutata a funzionare e gli detti un biglietto da dieci, al che automaticamente gli sovvenne di uno sgombero in via João Salomoni, proprio lì vicino, il numero non lo sapeva ma era nel condominio di fronte al minimercato Naubert. Nel luogo in questione c’era un casermone orribile con dentro una quarantina di appartamenti. L’amministratore Levandoski, di origine polacca, fu assai gentile nei modi ma purtroppo aveva da fare e mi chiuse la porta in faccia. Per fortuna Maria Conceição, la donna delle pulizie convenzionata, che per caso aveva udito quel rapido scambio di idee e bestemmie, mi chiese 10 reais e mi portò di fronte all’appartamento in questione, dove viveva il signor Robles, di origine argentina, morto il mese prima  e che si lamentava sempre della musica alta dei vicini, perché amava leggere e non glielo lasciavano mai fare in pace. Con un biglietto da cinquanta tornai dall’amministratore e lui trovò più disposizione e tempo per dirmi che il figlio di Robles viveva ad Alegrete, a circa 400 km da Porto Alegre, sul confine con l’Argentina o l’Uruguay, quello non se lo ricordava troppo bene, l’indirizzo no, purtroppo non ce lo aveva e mi richiuse, stavolta un po’ più educatamente, ma pur sempre la porta sul naso. Naturalmente telefonai al Gastolfini prima d’imbarcarmi in quel viaggio di ore per strade non sempre ben asfaltate che quando per sventura lo sembravano, ecco che qualche profondo cratere sorgeva improvvisamente ad attentare indirettamente alla vita del povero guidatore distratto e più direttamente a quella dell’innocente pneumatico o della disgraziata ruota stessa. A evitarmi quell’odissea fu Iva, la cagna di Sauro Gastolfini, il quale mi raccontò che la notte, in quello stesso periodo di ogni anno, abbaiava con forza e determinazione, incessantemente fino all’alba e lui, per via della sua stessa indole curiosa, non aveva potuto fare a meno di notare che non era per via di cani limitrofi o delinquenti notturni e probabilmente anche malintenzionati. No, Iva secondo lui rispondeva al relativo abbaiare di voce canina lontana, ma ancora udibile per il nostro assai più scarso orecchio umano, che lui aveva stimato approssimativamente proveniente dalla strada parallella alla sua, Rua Amapá, ma sul dorso di un crinale di collina assai più alto. Gli chiesi più civilmente possibile che minchia c’entrasse la cagna con il nostro ben determinato tipo di problema, non parve accorgersi della questione da me sollevata, mi spiegò invece che quella era la zona dove Iva era nata e cresciuta fino gli otto mesi di età, cioè prima di essere da lui adottata e riattaccò. Allora pensai che era colpa mia, perché mi perdevo dietro ai deliri di un povero vecchio rincoglionito? Me ne tornai a casa e mi riposai. Per un bel po’ non ebbi sue notizie e lui nemmeno di me.
Però quella sua abilità di risolvere i casi a distanza mi fece riflettere. E mentre ci riflettevo fingendo di pensare ad altre cose, il mio socio mi disse che lo potevamo far entrare in società con noi, tanto per fare una battuta, ma l’idea a me parve maledettamente seria e anche fattibile.
Naturalmente il Gastolfini non ne volle sapere niente, almeno all’inizio, ma io sapevo qual era il suo punto debole e iniziai a lavorarmelo di cibarie care e tipicamente italiane, che dopo pochi mesi ci trovammo a dividere carta intestata e relativi compiti, che lui assolveva senza sforzo e naturalmente senza muoversi da casa o dal suo giardino, Casagrande e io invece sul campo, ma la grande differenza era che ora si andava sempre a colpo sicuro.
Circa dieci anni ci portarono nell’olimpo dell’investigazione privata, se ne fosse mai esistito uno, ce ne andavamo in aereo su e giù per il Brasile e guadagnavamo bigliettoni su bigliettoni.
L’unico caso che non risolse e rimase l’unico neo nella nostra onorata carriera fu quello del Lameira. Un uomo fu ucciso dalla moglie, i figli lo sapevano a memoria, noi anche, ma non ci riuscì di provare un bel niente. Quello che impedì al Gastolfini di trovare il bandolo della matassa fu che il Lameira era un suo vicino e lo conosceva addirittura personalmente. Noi non gli avevamo detto niente, ma sono sicuro che lui sentì qualche coinvolgimento diretto che lo ostacolò e lo fece brancolare nel buio.
Nella vita di Sauro non cambio granché, a parte il fatto che le cibarie se le faceva portare direttamente dall’Italia e nei fine settimana, di solito il sabato sera, pagava un cuoco in pensione per venirgli a cucinare quello che lui gli anticipava una settimana prima, in modo che si potesse preparare. Non ci ha mai invitato, ma noi non gliene vogliamo, sappiamo che è uno stravagante e meno male che è così.









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