A Porto Alegre li
chiamano Sebos, forse per via dell’unto di dita sudate sulle pagine, questi
luoghi romantici dove si vendono libri di seconda, terza o quarta mano, a volte
anche di quinta o sesta, rigorosamente mai di prima. Ci vado spesso quando sono
in centro, ed era epoca di Carnevale quando trovai quel libro, in uno di questi
negozi, ma quella fu una scoperta da segnare sul calendario. È vero che era un po’ rovinato, mancava la copertina, c’era
un nome e cognome scritto a penna sulla prima pagina bianca, c’erano numerose
macchie di misteriosa e differente materia e origine, perfino un pezzo di cibo,
per quel che sembrava, indurito e verdastro a pagina 12. Però
dall’incipit avevo capito subito che mi sarebbe piaciuto.
Mi
succede ogni tanto di trovare dei libri che mi piacciono, poi mi ci affeziono,
li rileggo e ci trovo anche delle cose nuove ogni volta che me li ripasso. Non
è certo per il loro valore commerciale che li apprezzo, ma per il contenuto,
per lo stile, per le atmosfere che ci scopro dentro che poi posso riviverle a
comando, da solo, la sera a letto o in giardino, che ne so, davanti al
caminetto acceso, come quel volumetto di poco più di 100 pagine, che lessi e
rilessi a sazietà.
Il caso volle che, non più
di una settimana dopo Luiz Martinho Casagrande, il mio socio, mi disse che il
nome scritto sulla pagina del libro, corrispondeva a un vecchio di origine
italiana, tale Sauro José Gastolfini, che gli avevano riferito risolvesse i
casi più intricati, e senza muoversi dal suo giardino, in uno dei quali io mi
trovavo impantanato proprio in quei giorni. Di
casi, non di giardini.
Il portone era quasi
caduto quando aveva aperto, ma lui non ci fece particolare caso, notai che era
vestito di varie maglie, magliette, pigiami, calzoni della tuta, insomma a
strati, tutta roba scolorita ma anche piuttosto profumata. Mi
fece sedere sotto un albero enorme, su una sedia di plastica che un tempo
doveva essere stata bianca, mi offrì una spremuta di arancio, che stava bevendo
da una brocca finemente lavorata, forse di cristallo di Boemia, evidentemente
l’avevo interrotto mentre era sprofondato in tali testi vecchi e ingialliti, mi
pare che fossero in tedesco. Aveva i capelli cortissimi e la barba della stessa
lunghezza, pensai che si tosasse tutto insieme, per praticità, come le pecore,
magari una volta l’anno.
Mentre gli spiegavo il caso mi
ascoltava assai attentamente e prendeva appunti su un taccuino, le lenti spesse
gl’ingrandivano gli occhi in maniera suggestiva. Non parlò finché non ebbi esposto il mio problema. In
fondo era solo per quello che lo cercavano, anche se piuttosto raramente, ma se
la faccia di chi bussava alla sua vecchia porta non gli garbava non apriva
nemmeno e i suoi cani ricominciavano automaticamente ad abbaiare in maniera
impressionante e chiunque capiva che era meglio andarsene. Non
parlava spesso con la gente, mi avevano avvisato, se avesse accettato di farlo
era solo per simpatia, con gli altri, se e quando interrogato, era capace di
rispondere a grugniti, al massimo sì o no.
“Sono un poliziotto privato, ho un caso che
non mi riesce di risolvere, mi hanno detto che lei aiuta chiunque, senza
muoversi da qui e che non vuole compensi in denaro, ma accetta uova, galline,
prosciutti, salami e verdura di vario tipo, lei conferma?”
“Sì, continui pure.”
“Io la pagherei in cose da
mangiare che devo comunque comprare, quindi può scegliere.”
“Meraviglioso, è tanto tempo
che non mangio lo speck e il formaggio parmigiano.”
“Non ci sono problemi.”
“E la mozzarella italiana di
bufala.”
“Giusto.”
“E il caso in questione?”
“Il caso in questione è questo
qui...”
Gli spiegai per sommi capi
quello che sapevo e ciò che volevo e lui mi disse di tornare con le prove che
avevo e un riassunto registrato a voce, o scritto, di tutto il busillis in
questione, quando volevo. Cinque ore dopo tornai e lo trovai ansioso di vedere
cosa gli avevo portato, alle sue richieste avevo aggiunto di mia iniziativa un
secchiellino di mozzarella trasparente colle palline che nuotavano nel siero. Trasparente
il secchiellino, non la mozzarella. Era notte e lui mi fece entrare nella casa di
foratini senza intonaco, ben nascosta in mezzo agli alberi, là dentro però i
mattoni non si vedevano più perché era foderata di libri su ogni parete. Notai
che non c’erano sveglie o orologi in giro, ma vidi un computer acceso in una
stanzina insonorizzata, colla porta e le pareti imbottite, là dentro c’era un
letto e una comoda poltrona, ma noi ci accomodammo in quella che era una
cucina-tinello-soggiorno che occupava il resto del pianterreno della casa, con
un tavolo enorme e sei sedie, due poltrone vecchie ma comode, un grande
televisore antiquato ma ben funzionante acceso senza volume, vari acquari con
pesci di ogni tipo, il più grande faceva da divisorio tra i fornelli e la parte
del tinello-sala.
José Sauro Gastolfini mi fece
accomodare, dette un’occhiata ai reperti, rimase assorto un minuto o due e
disse che mi avrebbe richiamato lui. Mi accompagnò alla porta senza dire una
parola e mi ritelefonò il giorno dopo informandomi che aveva risolto il caso,
di portare un chilo di parmigiano, mezzo chilo di speck da tagliare e due
secchielli di mozzarella grandi.
Sulla sola base della teoria
aveva veramente trovato il colpevole materiale, la maniera di incastrarlo e
vari tipi di prova, che - se non funzionavano tutte - una sola di quelle
sarebbe bastata. Io ci rimasi di sasso, erano due settimane che ci stavo
diventando matto e non riuscivo a credere che in nemmeno 24 ore lui aveva
sgamato tutto e senza muoversi da casa sua.
Il Gastolfini scandiva ogni
parola senza fretta e si esprimeva in un portoghese-brasiliano assai raffinato
e colorito. Io ero ansioso di andarmene in quel momento, anche se poi lo sarei
diventato di tornarci, ma ancora non lo sapevo, ero sbalordito e di conseguenza
piuttosto confuso. Con la sua faccia impassibile, la pigrizia congenita e la rinuncia
sistematica che apparivano al visitatore occasionale, per quanto riguardasse
ogni forma di vita esterna al suo maniero di mattoni forati, là tra quei muri
essenziali - invece - lui era il sapere, la profondità e la bellezza
fors’anche, ma non nel modo che s’intende comunemente, oltre quegli alberi,
quell’abbaiare furioso dei suoi cani. Il Gastolfini viveva in Brasile ma non ci
sarebbe stata differenza se non nel clima, se fosse stato in Libia o in Persia,
in Australia o in Siberia, perché lui non usciva, non si muoveva dal suo luogo
ideale di studio e meditazione e mi toccò ben presto di rivisitarlo, e mentre
ci andavo, in macchina su quella collina limitrofa alla città di Porto Alegre,
quartiere Vila Nova, mi accorsi che lo facevo volentieri, che lo avrei rivisto
e ascoltato le sue interminabili dissertazioni con piacere, anzi con molto
piacere.
La
seconda volta c’era una donna molto più giovane di lui che mi aprì, disse che
Sauro stava parlando al telefono, ma lei lo aveva chiamato Dino, accompagnando
con un sorriso malandrino il gioco di parole. Doveva essere la sua fidanzata,
per così dire, non mi avevano detto che ne aveva una. Lei vide che guardavo incuriosito
i merli del rudimentale castello, fatti di foratini anche quelli, senza
intonaco, ma perfettamente modellati e tagliati, prima non li avevo notati, sia
per i rami degli alberi che nascondevano il maniero, che per l’oscurità, che
per la mia confusione mentale.
“Quelli
li ha fatti lui, sono ridicoli, così senza cemento sopra, una volta un
rudimentale intonaco c’era, poi col tempo e il sole e l’acqua piovana è caduto,
ma a lui piacciono, non so come. Dino ho rinunciato da tempo a capirlo, va
preso così come viene, se e quando viene, non so se mi spiego.”
Il
Gastolfini arrivò vestito con un caffettano di stile arabo e un berretto nero
con scritto sopra YES in un rosso slabbrato, come se fosse sangue fresco. Si
sedette un po’ assorto nei suoi pensieri evidentemente fronzuti ma assai liberi,
al lieve venticello del sud. Mi salutò, bevemmo il caffè che la ragazza ci
portò e cominciai a spiegargli il caso, poi gli mostrai il rapporto scritto e
le prove che avevo racimolato.
Anche
stavolta risolse tutto in meno di 24 ore e il compenso fu un bottiglione di
olio d’oliva extra-vergine italiano da 5 litri.
Masticando i miei bocconi intanto io continuavo quel libro che forse anche suo
malgrado mi sembrava sempre più misterioso e affascinante.
Io ero uno che viveva da
solo e quindi leggevo mangiando, mi abbuffavo di fronte al computer, mantenevo
in funzionamento le ganasce mentre guidavo la macchina, masticavo quando parlavo
al telefono, guardavo la TV sgranocchiando. Insomma
facevo sempre almeno due cose contemporaneamente e una era quasi sempre il mangiare.
Gli mostrai il libro in
questione, disse che non lo conosceva e che non aveva nemmeno la pessima
abitudine di scrivere il proprio nome sulle pagine dei libri, personalmente
disprezzava persino chiunque leggesse mangiando, o che anche solo facesse due
cose allo stesso tempo.
Sauro s’interessò molto al cibo
rinvenuto a pagina 12.
Da
quel momento in poi lo consultai spesso e volentieri. Il Gastolfini, protetto
dai muri e dai cani, si metteva ogni giorno sotto il grande albero (di cui
purtroppo non sapeva ancora il nome ma stava facendo delle ricerche) a
scrivere, o a studiare. O a riflettere. In buona sintesi se c’era la naturale luce
del giorno, se la sera gradevole e la notte non troppo ventosa, se non pioveva,
era sempre seduto sotto quell’albero. O anche se non era troppo freddo. O se
non era troppo caldo. Perché nel sud del Brasile, magari la sensazione termica
era sgradevole, per via dell’azione combinata del vento e dell’umidità e allora
il Gastolfini usava dei grandi cuscini colorati sotto il sedere e tra la
schiena e lo schienale della sedia di plastica, si proteggeva con ripetuti
strati di maglie e magliette, pigiami e tute da ginnastica. Non era raro vederlo
che si toglieva uno strato o se ne metteva uno. Perché anche col caldo si
doveva proteggere dagli insetti, non era il calore in se stesso che lo
distoglieva dai suoi manoscritti, ma piuttosto zanzare e moscerini di vario
tipo e insistenza, che in Brasile difficilmente ti lasciano da solo, anche se
presi a giornalate, sentono che hai un estremo bisogno di loro e ne puoi
massacrare a decine che non se ne fanno un cruccio né una ragione. Il corpo
magro del Gastolfini quindi non sudava quasi più, non era il calore in se
stesso che lo disturbava ma piuttosto gli insetti che ne fuoriuscivano a frotte
come conseguenza indiretta, che però pungevano direttamente le parti lasciate
incautamente esposte e se avevano la giusta disposizione, specie prima di un
acquazzone, a volte anche attraverso i tessuti di un pigiama o di una
maglietta.
La
terza volta gli lasciai il libro, raschiò un pezzetto di quella sostanza
verdastra a pagina 12 e disse che l’avrebbe analizzata, fece una foto con una
piccola macchina fotografica di ogni macchia di ogni pagina che ne recasse una,
e ce ne erano almeno una ventina, si tenne il libro, che mi avrebbe restituito
appena io ne avessi manifestato la necessità, cioè mai più.
Mi sentivo a mio agio con lui, la sua compagnia, sebbene differente da
tutto quello che avessi provato prima, era l’ideale per me. Sauro non parlava
se non ce n’era bisogno, ma non se ne sentiva la mancanza come con altre
persone. Era un uomo totalmente privo d’ansia e starsene zitti con lui non era
affatto imbarazzante. In più avevamo diversi interessi in comune, tra cui la
lettura.
Presi a visitarlo ogni volta che avevo del tempo libero, senza pensarci
troppo, almeno all’inizio, ma spesso portandogli degli omaggi alimentari e
quindi c’era sempre una visita obbligata a quel negozio di prodotti italiani
della Rua Goethe. Se lui se ne era sorpreso non lo aveva dimostrato, o io non ci avevo
fatto caso. Mi riceveva sempre senza fare commenti sul tempo
atmosferico, o sull’ultima partita del Gremio, cosa rara a quelle latitudini,
mi ringraziava del prosciutto o della pasta fresca e mi accompagnava al suo
studio sotto l’albero di cui ancora, purtroppo, non era riuscito a trovare il
nome in internet, sebbene più volte l’avesse visitata a quest’uopo. L’importante, spiegava, era che facesse
quell’ombra fitta e lì sotto, come se le sue foglie piccole e dentellate
funzionassero da deterrente, c’erano molti meno insetti che altrove.
Intanto il suo rapporto con le donne era sempre stato problematico,
forse era la convivenza che gli pesava, a Geraldo, anche se non l’aveva mai
provata. Il Gastolfini disse che anche lui non aveva troppa voglia di femmine in
giro, ma che quella lì, Dione, aveva insistito assai e alla fine non era troppo
male, perché la sera se ne tornava a casa sua e non aveva pretese assurde. Fu
la prima volta che gli parlò di sé e gli parve che non ci avesse mai pensato
prima, a quel determinato tipo di argomento, che i suoi occhi si illuminarono
di sorpresa, scoprendo quelle verità insieme a Geraldo, mentre gliele stava
raccontando.
Non so come il Gastolfini fosse riuscito ad analizzare quel resto di
cibo mummificato, ma fatto sta che all’incontro seguente determinò che si
trattasse di pesto alla genovese e accostandoci il naso, secondo lui, il puzzo
di aglio e di basilico si sentiva ancora, cosa che constatai subito, che aveva
un odore strano lo potei sentire, ma che quelli fossero aglio e basilico era
già un altro discorso, completamente a sé stante, secondo me. Secondo lui, invece, questo ci restringeva già
il campo perché c’era di mezzo un italiano o qualcuno che aveva a che fare, in
qualche maniera. Però doveva essere qualcuno che lui conosceva, se costui
conosceva Sauro Gastolfini, bene o male e aveva scritto lì il suo nome. Oppure
il pesto era stato versato da qualcun altro, in qualche altra epoca, obiettai
io, visto che il libro era vecchio assai, aveva avuto più proprietari e poteva
addirittura essere stato imprestato a qualcun’altro, forse più persone
diverse.Il Gastolfini disse che però era bello che un libro se ne andasse in
giro così, significava che la gente era ancora curiosa ed entusiasta, oppure
che quelli s’interessavano piuttosto a vendere, quindi ai soldi, obiettai io e
fui mandato forse anche giustamente affanculo.
Il volumetto in questione parlava della stupidità umana, tra le altre
cose, lo faceva con grafici e dimostrazioni pratiche, se non era del tutto da
prendere sul serio, alcune cose calzavano a pennello e intanto ci si facevano
anche delle risate, constatando che tante delle cose che si fanno, non solo
sono del tutto irrazionali e illogiche, ma se si fanno per imitare gli altri,
sono tanto assurdamente umane quanto idiote. La stupidità è una cosa prettamente umana,
dichiarava lo scrittore, perché nell’ambito della nostra specie si possono fare
dei confronti con l’eventuale anche se
sempre più rara intelligenza. Secondo lui non era come dire che negli animali
non si trovava traccia d’intelligenza, ma che tra di loro l’intelligenza era
eccezione e non regola. Qui si potrebbe anche discordare e controbattere che
anche tra gli uomini, intesi come umanità, lo è, magari lo faremo in seguito. Lo
storico in questione, che alcuni di voi avranno già riconosciuto, dichiarava
inoltre che uno dei motivi portanti delle crociate fu ristabilire il traffico
di spezie dall’estremo oriente che era stato interrotto dai musulmani e che i
romani erano andati incontro alla rovina del loro impero anche perché servivano
le bevande bollite in recipienti di piombo per uccidere i microbi e così
sterilizzavano anche se stessi.
Il
Gastolfini lesse anche il libriccino, per curiosità ma non mi disse se gli era
garbato o no, sebbene glielo avessi più volte chiesto. Una caratteristica di
quest’uomo, per altri versi piacevole e degno di stima, era che rispondeva
piuttosto raramente alle altrui domande. Magari la sua vita interiore era più
forte, i suoi pensieri e i relativi interrogativi più pressanti.
Un
altro dato interessante, secondo lui, era il fatto che il volumetto era in
lingua portoghese. Se l’uomo che cercavamo, benché potesse anche risultare una
donna, leggeva in quella lingua doveva trattarsi d'un italiano o un’italiana che
vivevano in Brasile da un po’ di tempo e questo restringeva ulteriormente il
campo di ricerca a poche migliaia di persone, sparse non si sa dove, magari
nemmeno più abitanti in quella nazione. Le leggi delle probabilità non erano
tra quelle che preoccupavano maggiormente Sauro Gastolfini. Mi chiese di andare
a vedere nel negozio in questione se il proprietario o eventuale commesso si
ricordasse chi gli aveva venduto il libro. Intanto aveva stabilito che due
delle macchie erano di caffè, la seconda delle quali di un caffè più forte e
denso della prima, e qui si poteva ipotizzare, senza sforzarci troppo, che fosse
stato un espresso all’italiana. In più c’era una macchia di Campari che
avvalorava le nostre ipotesi, una di pomodoro e anche se di origine
sudamericana e arrivato oltre oceano solo dopo la scoperta di Cristoforo
Colombo, chi è che usa di più il pomodoro nel mondo? Non certo i tedeschi, né i
cinesi. Le restanti chiazze sulle pagine restarono misteriose, almeno per il
momento, ma sempre aperte ad analisi rigorosamente scientifiche e a fantasiose
interpretazioni.
In
quei giorni Geraldo si chiese più volte se la loro non fosse un’occupazione
piuttosto idiota, il Gastolfini era riuscito a coinvolgerlo come nessun altro
avrebbe saputo fare, la sua serietà era in qualche modo contagiosa, anche se
talvolta assumeva risvolti che facevano Geraldo sorridere di nascosto, mentre l’entusiasmo
bambino che gli dimostrava lo trasportava, faceva diventare quella causa persa
anche sua e importante non tanto per il risultato ma piuttosto nella lunga,
tortuosa e incerta strada da fare. Non avendo al momento indagini da sviluppare,
l’investigatore privato si era buttato a peso morto in quella bizzarra corsa
contro lo spazio e il tempo.
Andai quel giorno stesso al vecchio negozio di libri vecchi e non mi
smontai quando il proprietario mi disse che non si ricordava, chiesi se lì ci
lavorasse qualcun altro e allora mi dette l’indirizzo e il numero di telefono
del suo unico dipendente, tale Zinho che abitava in un quartiere malfamato
della zona nord, detto Rubem Berta. Trovai Zinho al bar sotto casa e gli pagai il
suo secondo caffellatte, io presi un frullato di avocado e mango. Uno di quei
bar-tavola calda brasiliani tutti mattonellati in bianco che parevano obitori,
ma che davano un’apparenza di pulizia, anche se quasi mai effettiva. Zinho
disse che la settimana in questione aveva comprato una caterva di libri da
Pitù, un ometto che andava in giro a fare lavoretti di diverso tipo, tra cui
sgombrare e pulire soffitte e cantine, appartamenti sfitti da affittare di
nuovo. Ripresi la mia Elba familiare e mi recai di nuovo nella zona sud, in un
quartiere povero, la case popolari COHAB, popolate da un sottobosco di
individui da film sul degrado delle periferie. Pitù non c’era, lo trovai solo
il giorno dopo, prima che cominciasse il suo giro, era abbastanza fresco, il
clima, e lui stesso non aveva ancora cominciato a sudare. Quando lo vidi uscire
e lo riconobbi subito, Pitù è il nome di una cachaça oltre che di una specie di
gambero e l’ometto somigliava vagamente a un crostaceo, in più aveva la faccia
di chi non disdegnasse i superalcolici più a buon mercato. Purtroppo non mi
servì che a farmi dire che non sapeva leggere, quindi ogni libro per lui era
uguale a un altro. Gli spiegai che doveva rammentarselo, invece, perché era
piccolo, vecchio e ingiallito, senza copertina. Avevo tardato a capire che la
sua memoria doveva essere in qualche modo aiutata a funzionare e gli detti un
biglietto da dieci, al che automaticamente gli sovvenne di uno sgombero in via
João Salomoni, proprio lì vicino, il numero non lo sapeva ma era nel condominio
di fronte al minimercato Naubert. Nel luogo in questione c’era un casermone
orribile con dentro una quarantina di appartamenti. L’amministratore Levandoski,
di origine polacca, fu assai gentile nei modi ma purtroppo aveva da fare e mi
chiuse la porta in faccia. Per fortuna Maria Conceição, la donna delle pulizie
convenzionata, che per caso aveva udito quel rapido scambio di idee e
bestemmie, mi chiese 10 reais e mi portò di fronte all’appartamento in
questione, dove viveva il signor Robles, di origine argentina, morto il mese
prima e che si lamentava sempre della
musica alta dei vicini, perché amava leggere e non glielo lasciavano mai fare
in pace. Con un biglietto da cinquanta tornai dall’amministratore e lui trovò più
disposizione e tempo per dirmi che il figlio di Robles viveva ad Alegrete, a
circa 400 km da Porto Alegre, sul confine con l’Argentina o l’Uruguay, quello
non se lo ricordava troppo bene, l’indirizzo no, purtroppo non ce lo aveva e mi
richiuse, stavolta un po’ più educatamente, ma pur sempre la porta sul naso.
Naturalmente telefonai al Gastolfini prima d’imbarcarmi in quel viaggio di ore
per strade non sempre ben asfaltate che quando per sventura lo sembravano, ecco
che qualche profondo cratere sorgeva improvvisamente ad attentare
indirettamente alla vita del povero guidatore distratto e più direttamente a
quella dell’innocente pneumatico o della disgraziata ruota stessa. A evitarmi
quell’odissea fu Iva, la cagna di Sauro Gastolfini, il quale mi raccontò che la
notte, in quello stesso periodo di ogni anno, abbaiava con forza e
determinazione, incessantemente fino all’alba e lui, per via della sua stessa
indole curiosa, non aveva potuto fare a meno di notare che non era per via di
cani limitrofi o delinquenti notturni e probabilmente anche malintenzionati.
No, Iva secondo lui rispondeva al relativo abbaiare di voce canina lontana, ma
ancora udibile per il nostro assai più scarso orecchio umano, che lui aveva
stimato approssimativamente proveniente dalla strada parallella alla sua, Rua
Amapá, ma sul dorso di un crinale di collina assai più alto. Gli chiesi più
civilmente possibile che minchia c’entrasse la cagna con il nostro ben
determinato tipo di problema, non parve accorgersi della questione da me
sollevata, mi spiegò invece che quella era la zona dove Iva era nata e
cresciuta fino gli otto mesi di età, cioè prima di essere da lui adottata e
riattaccò. Allora pensai che era colpa mia, perché mi perdevo dietro ai deliri
di un povero vecchio rincoglionito? Me ne tornai a casa e mi riposai. Per un
bel po’ non ebbi sue notizie e lui nemmeno di me.
Però
quella sua abilità di risolvere i casi a distanza mi fece riflettere. E mentre ci
riflettevo fingendo di pensare ad altre cose, il mio socio mi disse che lo
potevamo far entrare in società con noi, tanto per fare una battuta, ma l’idea a
me parve maledettamente seria e anche fattibile.
Naturalmente il Gastolfini non ne volle sapere niente, almeno
all’inizio, ma io sapevo qual era il suo punto debole e iniziai a lavorarmelo
di cibarie care e tipicamente italiane, che dopo pochi mesi ci trovammo a
dividere carta intestata e relativi compiti, che lui assolveva senza sforzo e naturalmente senza muoversi da
casa o dal suo giardino, Casagrande e io invece sul campo, ma la grande differenza era
che ora si andava sempre a colpo sicuro.
Circa
dieci anni ci portarono nell’olimpo dell’investigazione privata, se ne fosse mai esistito uno, ce ne andavamo
in aereo su e giù per il Brasile e guadagnavamo bigliettoni su bigliettoni.
L’unico
caso che non risolse e rimase l’unico neo nella nostra onorata carriera fu quello
del Lameira. Un
uomo fu ucciso dalla moglie, i figli lo sapevano a memoria, noi anche, ma non
ci riuscì di provare un bel niente. Quello
che impedì al Gastolfini di trovare il bandolo della matassa fu che il Lameira
era un suo vicino e lo conosceva addirittura personalmente. Noi non gli avevamo
detto niente, ma sono sicuro che lui sentì qualche coinvolgimento diretto che
lo ostacolò e lo fece brancolare nel buio.
Nella vita di Sauro non cambio granché, a parte il fatto che le cibarie
se le faceva portare direttamente dall’Italia e nei fine settimana, di solito
il sabato sera, pagava un cuoco in pensione per venirgli a cucinare quello che
lui gli anticipava una settimana prima, in modo che si potesse preparare. Non
ci ha mai invitato, ma noi non gliene vogliamo, sappiamo che è uno stravagante e
meno male che è così.
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