domenica 20 agosto 2023

ADOLESCENZA

 


 

Non sempre l’adolescenza è un trampolino.

La prima cotta è difficile da localizzare, forse Lorella in quinta elementare. Poi Rosanna la mia vicina di casa. Dopo Lia al Quercione e decine di altre cotte e crude, insomma al sangue. In tanti casi come Immanuel Kant loro, le dirette interessate, non lo hanno nemmeno mai sospettato, io facevo di tutto per nasconderlo, per auto-sabotarmi, ma come facevo a saperlo?

Sulla 126 di mamma ho imparato a guidare e l’ho sbattuta sullo spesso muretto di pietra di un ponticello dalle parti di Vorno, distruggendo abbastanza la parte davanti, ma fu solo colpa dell’alcool e della strada bagnata. Tornavamo da una festa piuttosto bruttina e pochissimo frequentata io e Marzio.

La Chrisler era un macchinone lungo assai e forse per questo riuscii magistralmente a incastrarla in diagonale all’entrata del cancello che non andava più avanti né indietro.

I libri di Woody Allen, erano comici ma anche esistenziali e per qualche tempo sono stati la mia lettura preferita.

L’adolescenza è l'epoca molto delicata in cui si dovrebbero tirare le somme di un'infanzia che raramente è completamente felice, ma anche se lo fosse, può facilmente rovinarsi nel giro di pochi anni, quando cioè il bambino, che sta diventando adulto, potrebbe rifiutare di fare questo salto di qualità, che in tanti casi significa quasi retrocedere in uno stato di rassegnazione e di abulia.

Nel mio caso non è stato differente, un’epoca in cui timidezza e altre componenti di rivoluzione interna mi hanno tarpato completamente o quasi, il calcio mi è servito, forse e anche la musica, a sfuggire alla mia atrofizzazione generale.

“Le cattive compagnie” hanno fatto il resto, nel senso che io stesso posso essere stato negativo per tanti, dipende dai punti di vista. Si può dare la colpa a questa gente però, che invece di portarmi avanti mi portava indietro e non a caso, poi, c’è stata un’inversione di marcia, un cambiamento di stile di vita. Dopo aver frequentato coetanei di classe media, per anni, mi trovai a conoscere e a passare anni insieme a gente di livello finanziario inferiore e con una storia personale piuttosto diversa dalla mia. Ho iniziato a vedere le cose da un altro punto di vista, meno stereotipato, meno da figlio di papà viziato, quale forse non ero, non completamente, ma un poco sì e lo erano alcuni di quelli che frequentavo.

Ho avuto più o meno da sempre un rifiuto dell’Italia e una voglia di andarmene altrove che poi si è realizzata molto dopo. Ho capito il suo valore, che non è poco, ma solo quando sono stato per un po’ di tempo fuori dalla penisola.

A livello di musica pure sono stato eccessivamente esterofilo, almeno sul nascere, rimanendo anni lontano dalla cosiddetta patria ho iniziato ad apprezzare di più anche la sua musica e ce n’è di bella o bellissima.

Ricordo bene che alla mia prima e unica settimana bianca a Piandelagotti, per la scuola, doveva essere il 1972, arrivammo di sera e sull’autobus qualcuno metteva e rimetteva due canzoni di Lucio Battisti, La canzone del sole e Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi. Per anni ho creduto fosse la stessa canzone, magari per l’insistita ripetizione sull’autobus, ma anche perché una parlava di certe difficoltà di uno scoglio per arginare il mare, e l’altra spiegava che forse era perché si trattava di un mare nero.

I registratori a cassetta, che funzionavano anche a pile, sono stati introdotti dalla Philips nel 1963 e lanciati sul mercato nel 1965 come dispositivi per dettatura vocale progettati per uso portatile. In origine non erano stati pensati per essere sostituti dei magnetofoni.

Credo ne abbiamo avuto uno in casa nei primi anni del ’70. Durante le vacanze in Spagna, alle isole Baleari, mio padre comprò un LP, dove c’erano canzoni di vari autori, ma lui apprezzava specialmente Y viva España e sul nastro ce la mise più volte.

Lentamente ma con crescente vigore poi ne ho registrate a centinaia, ne facevo di miste anche per gli amici, quando sono passate in disuso, qua in Brasile, ne avevo oltre 500 e hanno fatto una misera fine.

Bao Radio in Pharneta era un’emittente fasulla, che fingevo esistesse su queste cassette miste che facevo agli altri e venivano anche apprezzate, sebbene io ci facessi sopra il DJ e con un microfono annunciassi e commentassi le canzoni in maniera piuttosto petulante e stereotipata.

Prima c’era stata un’epoca di rivoluzione interna però, in cui avevo incontrato Martino, amico di Rinaldo, ma essendo assai timido, facevo spesso scena muta, specialmente quando c’era gente che non conoscevo, o c'erano più persone.

Ero stato anche ispirato da una cassetta di Burt Bacharach dal vivo che Martino fece per me e all’inizio, mentre lo presentava, lui al microfono ringraziava per gli applausi del pubblico.

La mia vicina di casa mi prestò due dischi di De André, avevo letto da più fonti che era un genio. Mi pare anche dalla Famiglia Cristiana che sfogliavo dai nonni, i quali erano abbonati anche al Frate Indovino, ma lì si parlava più che altro dei tempi opportuni per potare, o seminare e cose del genere.

All’inizio De André non mi piacque, ma sentivo che c’era qualcosa di nuovo per me e lo registrai. A forza di ascoltarlo mi cominciò a garbare, si trattava di Vol.8 e Storia di un impiegato.

Rinaldo oltre alle mie solite cose straniere seguiva vari cantanti e cantautori dei nostri, tra cui Battisti, io ero molto di più per roba che venisse da Inghilterra e Usa, per partito preso, forse perché mi faceva sognare di più. Nel frattempo a scuola stavo migliorando in inglese, proprio per via di quei testi, che comunque mi ispiravano di più quando non li capivo, ma la curiosità aveva deciso per me.

Una volta ho registrato parte delle canzoni che lui aveva messo su una cassetta, c’era Samba pa ti dei Santana, Let me try again di Sinatra, If I didn’t care di David Cassidy, My sweet lord di George Harrison, una bella canzone cattolica e tutto, ma l'ex Beatles ha dovuto pagare un sacco di soldi per averla copiata.

Il tribunale di New York reputò George Harrison colpevole di aver, con la celebre My Sweet Lord, “inconsciamente” plagiato la canzone He's so fine delle Chiffons (1963) dal punto di vista melodico.

Alla settimana bianca capitai in camera con una specie di castoro, certo Mieli di classe mia, uno così rompiscatole che diventava buffo senza volerlo.

A sciare io mi ero messo a fare il fondo, perché non mi riusciva imparare, ma mi vennero a cercare. C’era la maestra di sci che ci voleva insegnare, era brava e io e lui, il Mieli, imparammo a sciare a spazzaneve più o meno alla stessa maniera, ma era assai divertente e in poco tempo venivamo giù senza grossi problemi.

Lo chiamavano Pelo, forse per via dei capelli ritti e ispidi, quando scendeva gli urlavano:

VAIIII PELO!!! INSISTISCIIIII!!!

Lui si emozionava e usciva fuori pista.

Alla competizione finale gli imposero di non urlargli niente, lui vinse il Premio Prudenza e fu acclamato dalla folla. Probabilmente ero l’unico che avrebbe potuto competere con lui, ma non avevo voluto partecipare.

Tornati a valle i nostri equipaggiamenti di ascolto e registrazione erano scarsissimi, ma c’era una continua volontà di rinnovamento e miglioramento. All’inizio registravo le canzoni alla radiolina, poi con lo stesso microfono dal giradischi mono. Poi cominciai a poter usare uno stereo di mio padre, al quale in un secondo momento feci un coperchio di legno, fil di ferro e nylon, per via della polvere.

Ascoltavo Hit Parade e Dischi Caldi, che trasmettevano le classifiche di vendite in Italia, in genere erano canzoni italiane e di musica leggera come i Cugini di Campagna, Umberto Balsamo, Paolo Frescura, poi roba più articolata come Baglioni, Venditti, De Gregori, Battisti eccetera.

Ci presi sempre più gusto, in un secondo momento già ascoltavo Supersonic, del quale sul Radio Corriere venivano anticipate le canzoni che avrebbero trasmesso. E qui erano quasi tutte straniere, per lo più inglesi e americane.

Carpet Crawlers dei Genesis all’inizio mi lasciò perplesso, ma ci sentivo qualcosa di misterioso e nuovo.

Epiche, ma per me poche, le mattinate al bar della Manifattura, con Rinaldo e il sottofondo di Rock the boat degli Hues Corporation a giocare a biliardino, biliardo, ping- pong eccetera. Qualche volta siamo andati anche a Viareggio in treno o in autobus.

Non sempre quando salavo andavo fuori casa, in soffitta ci si stava bene e avevo fatto un comodo giaciglio dove potevo continuare a dormire o a leggere, finché mia madre non se ne accorse per via dei rumori.

Inoltre, in quel periodo mi chiedeva perché giocavo ancora con le figurine.

La prima ragazza, che non fosse solo virtuale, ce l’ho avuta che guidavo già la macchina, Rinaldo - quel dannato - invece aveva già avuto una notevole esperienza.

L’adolescenza io l’ho iniziata piuttosto in ritardo, dopo che gli altri l’avevano già finita e dimenticata. Quella forse comincia quando si parla di cotte a volte un po’ crude, amoretti virtuali e robe del genere.

Una volta iniziato a lavorare, ho pensato che era finalmente agli sgoccioli, ma non sapevo ancora spiegarmi se e quando era principiata. Sullo slancio ho preso la patente di guida e ho fatto il militare.

Ricordo una volta che il gruppo di amici di Buonsuolo rise per una mia battuta, a casa di Martino, che lui aveva ripetuto ad alta voce per tutti, poi dichiarò pure che era frase mia, perché io le dicevo troppo piano e non le sentiva nessuno.

Era uno che lavorava e poteva permettersi una bella macchina e vestiti eleganti, spesso comprati da Agostino, che fu anche il mio allenatore a Buonsuolo.

Un ultimo dell'anno a Carambola per soli maschi, fu caratterizzato da diverse e mischiate libagioni, poi ripetute e insistite, Martino vomitò e cascò in un fosso sporcando un cappotto di cammello che costava una cifra. Perse i documenti e andammo insieme a pregare alla madonnina verso la polla del Banti.

Troppe cose in quel periodo si attorcigliavano accumulate e instabili dentro di me. Attraverso il calcio e il lavoro di manovale, all'inizio, poi di barista, poi di cameriere, almeno cominciai a uscire da un labirinto di siepi alte e scure, di due passi avanti e tre indietro. Iniziai, senza in realtà mai aver smesso, ad andare per esclusione, in modo più cosciente, ma non troppo.

Se le amicizie da una parte mi aiutavano, da quell'altra mi ostacolavano. Notavo che tante cose nella mia vita funzionavano in tale maniera bilaterale, come minimo, a cominciare dalla famiglia.

Martino un po’ come tutti si atteggiava a duro, ma era un tenerone, anche se ci ho messo del tempo a capirlo. Con le ragazze aveva poco successo come me, si innamorava sempre da solo, una cosa che ci accomunava e comunque eravamo poco originali, come noi ce ne erano tanti. Quelli come Rinaldo erano eccezioni, in anticipo non solo sui coetanei, si era concentrato sulle sue donne, che non erano poche.

Per me la realtà era molto più complicata, forse la mia educazione era poco aperta e lungimirante. Magari era anche la società chiusa e competitiva. Oppure io pensavo troppo e male.

Giocare a pallone era una ginnastica efficace anche per il cervello. Il calcio magari è basato sulla prepotenza, ma anche sull’intelligenza e la forza fisica. Poi lo sport ossigena i pensieri che sennò diventano asfittici.

Insomma se da bambino-adolescente ero una promessa, poi non arrivai mai a giurare. Non ero così fanatico quanto avrei voluto e quando squadre più in alto mi cercavano ci aveva pensato mio padre a rifiutare senza chiedermi niente.

Certi giorni giocavo come Pelé e altri come Gattuso, dipendeva da tante cose, anche dall'alcool del giorno prima. La potenza fisica, il fiato, il talento e l'inventiva c'erano, mancavano però la disciplina, la volontà e soprattutto l'ambizione.

Intanto i nostri negozi preferiti erano diventati di due tipi, quelli di dischi e quelli di articoli sportivi, ma nei primi passavamo più tempo, a Lucca ce ne erano vari.

Rinaldo ed io, per vedere se c’erano novità e fare le rituali quattro chiacchiere, facevamo una capatina di almeno una mezz’ora, tutte le volte che andavamo in città, in un piccolo negozio di dischi, dove lavorava un'amica che abitava di fronte a lui, più grande di noi, ma molto allegra e simpatica.

L’Italia ai mondiali aveva fatto una magra figura, nella stessa epoca, più o meno nel 1974, ho conosciuto Aldo, era in classe mia al liceo, timido e di poche parole anche lui. Abbiamo fatto tre anni insieme nel frattempo abbiamo condiviso vacanze, feste e ubriacature. Ci piaceva anche la musica pop e i dischi che acquistavamo ce li imprestavamo a vicenda, per registrarli in cassetta, facendo bene attenzione a non comprare gli stessi. Abbiamo condiviso la passione per alcuni LP di autori che gli altri non apprezzavano, come quelli dei Flash & the Pan australiani, o del canadese Dan Fogelberg.

In classe nostra, al liceo scientifico, c’era anche Alberto, di origine siciliana, come noi poco studioso e appassionato dei Genesis e dei Pink Floyd. Attraverso lui ho conosciuto la mia prima ragazza, perché in un gruppo di giovinastri suoi conoscenti c'era questa Maria e la sua sorella, lui cercò di farsela amica ma non andò oltre.

L'epoca in cui andavo spesso a casa sua, mentre lui armeggiava tra esperimenti elettrici ed elettronici, si ascoltava la cassetta registrata dal disco Genesis live. Mi era piaciuto Automobili di Lucio Dalla prestatomi da Aldo e Jesus Christ Superstar, sempre cantato ad alta voce dal Bondini a scuola, non mi piacque più di tanto, salvo quelle due o tre canzoni. L’occhialuto Corsani, sempre in classe mia, in precedenza mi aveva fatto conoscere Selling England by the Pound dei Genesis, Desire di Bob Dylan, Photos of Ghosts della Premiata Forneria Marconi, che avevo duplicato, e Rinaldo mi aveva regalato Living in the Material World di George Harrison che era un po’ storta e stonava anche un po'. Tutte cassette originali meno quella di Harrison, una copia pirata in più forse lasciata ai raggi del sole per un po’. Le ascoltavo sempre la sera mentre leggevo Dracula o Frankenstein a letto.

Aldo proveniva da Milano, però con genitori di Piombino, lassù da bambino aveva avuto problemi di salute, per questo stava dagli zii a Lucca. In prima liceo avevo notato che aveva movimenti un po' legnosi, ma era un bel ragazzo e anche assai forte fisicamente.

Eravamo entrambi silenziosi e timidi, io cresciuto in campagna e lui nella più grande città d'Italia. Diciamo che fino a una certa età ci siamo intesi bene, ma lo stile di vita è diventato quasi opposto, con l'andare degli anni.

In poco tempo, a quell'età foruncolosa, ci sono dei repentini cambiamenti, forse dovuti all'adolescenza stessa, alle cattive e alle buone compagnie, alle pur necessarie e relative briae… alla trasformazione da bambini, insomma, a volte anche senza volerlo, bisognava purtroppo diventare adulti, in qualche maniera, o qualcosa del genere.

Cominciavamo le festicciole danzanti e poi ad andare timidamente anche in discoteca, nel nostro caso prima di tutte fu il Green Ship, a Nave.

A scuola c’ero e non c’ero, nel senso che la mia testa era altrove, non so nemmeno dove, ma di certo non lì. In senso generale mi aveva deluso, o forse più ancora avevo deluso io la scuola, insomma era un sentimento reciproco, o forse non era neanche un sentimento. Un po’ come quando ero militare, qualche tempo dopo.

Nel 1978 avevo diciannove anni e l’adolescenza avanzata forse stava per terminare, l’Italia nel mondiale di Argentina si comportò bene. Le ultime partite le vidi a Roma, dovendo dare gli esami per il Rousseau, un istituto di recupero, avevo fatto tre anni in uno e avevo perfino studiato un po’.

Verso i vent’anni con la mia 126 FIAT beige che poi era di mia madre, ho in qualche modo sperato di essere pronto e ho tentato invano, con la mia famosa muta immobilità, di avere qualche innamorata.

A scuola avevo conosciuto e frequentato giovinotti un po' più benestanti, la tendenza all'alcool ce l'avevano un po' tutti in comune, ma i nuovi amici erano più assidui.

I precedenti si limitavano ai fine-settimana alle feste comandate, che essendo comandate non si potevano certo evitare. Insomma mancavano di continuità, gli studenti, ma quelli che lavoravano invece no e io avevo appunto cominciato a lavorare.

Poi ci siamo scambiati qualche innamorata, Aldo ed io, ma a dir la verità erano loro che si scambiavano noi, che potevamo essere di tutto meno che svegli.

 

 

 

GLI OCCHI E LO SGUARDO

 

Gli occhi sono quelli che ci trasmettono quello che veramente importa di chi ci sta davanti. La profondità dello sguardo è una cosa che è difficile da simulare. Noi invece in pochi minuti abbiamo un ritratto, che, se abbiamo fatto attenzione, si manterrà sempre fedele ad una linea essenziale: la sua personalità e zone limitrofe. Dalla maniera di guardare capiamo se una persona ci è gradevole. Anche se poi non possiamo illuderci: non la conosceremo mai completamente. È anche vero che poca gente ci fa attenzione e che sono tutti impegnati con eventuali pericoli, perlopiù immaginari.

Trovare gente che valga la pena della curiosità di conoscerla meglio è un passatempo costruttivo e internazionale, che può durare anche tutta la vita, stimolerà la nostra capacità e ne troveremo sempre di nuova. Mio padre diceva che c’era gente che faceva finta di pensare, e me lo disse a proposito del mio professore di disegno.

Al liceo mi ricordo che un giorno, in una noiosissima riunione di professori e alunni, tanto per passare il tempo, decisi di fingere uno sguardo intelligente.

Guardavo nel vuoto con una espressione piena e pensosa, lontana ma non troppo, che voleva trasmettere il mio profondo ascolto a chi stava in quel momento parlando, alle sue eventuali parole, significati delle frasi annessi.

 Beh, credo che volessi che gli altri pensassero che io fossi veramente così intelligente come volevo sembrare.

Solo io sapevo di non esserlo.

Con grande soddisfazione, appresi poi, la madre di un mio compagno, aveva commentato esattamente quello che volevo, cioè che avevo uno sguardo veramente intelligente, nonostante i miei pessimi voti.

L'adolescenza è stata un'epoca piuttosto foruncolosa della mia carriera di essere umano e soprattutto disumana per via di tanti piccoli, medi e grandi episodi... anche se non hanno avuto alcun luogo, ma che magari li avrei desiderati.

La mia immobilità è stata marmorea per qualche anno appena venata dallo studio… o per meglio dire dal mio andare a scuola. Al liceo scientifico una professoressa si era accorta di me, in quanto timido ma non disprezzabile essere umano e mi interpellava abbastanza spesso, soprattutto dopo un mio tema comicamente introspettivo, che lesse alla classe e dopo anche ai compagni rimasi più simpatico. Non ero quel pesce lesso che sembravo e se uno avesse avuto la pazienza di chiedermi qualcosa ero perfino capace di dare risposte sensate.

Diverse amicizie poi diventate durature sono nate in questo periodo, ma quelle vengono fuori con il tempo, forse indipendentemente dall'epoca che si attraversa. Magari la spontaneità è la cosa che favorisce di più, e quella è una cosa che mi è uscita fuori in qualità e quantità, nel bene e nel male, non sono mai riuscito a dosarla, oppure non ci ho nemmeno mai provato.

 

 

 

 

 

 

IL TEATRO ALLO SPECCHIO

 

Penso che avrete sentito parlare del filosofo contemporaneo Corrado Ciompi, barbuto uomo di stazza internazionale e mio amico da una vita.

Mi riceve sempre con grande piacere e mi offre castagne crude, vino bòno, nocino, cetrioli e altri sottaceti che è difficile perfino riconoscere cosa fossero prima di entrare in quei minacciosi barattoloni di vetro verdastro.

Ogni tanto vado da lui per capire cosa devo fare, alla sua maniera mi consiglia e immancabilmente mi ritrovo con la soluzione in mano. Lui dice che c'era anche prima, ma è un fatto consumato che senza di lui non avrei potuto accorgermene.

I suoi lunghi silenzi, con lievi rumori di masticazione, più qualche sommesso ruttino, mi invitano a sviscerare i miei problemi.

"Inutilmente ci ho girato intorno, ma l’argomento è inevitabile. Lo confesso: sono ragionevolmente preoccupato per la nostra sorte, parlo della classe di ferro 1959, spero che tu abbia già drizzato le orecchie."

"Beh..."

"Non c’ è bisogno di dirlo, il mio timore è che le nostre energie siano già andate - a nostra insaputa e piuttosto prematuramente - in pensione?"

"Forse."

"Insomma. Chi non è ancora rincoglionito scagli la prima pantofola! Io vorrei tanto poterlo fare, ma non so se ne ho la forza."

"Effettivamente."

Due grossi cani Maremmani Abruzzesi ci girano intorno, sperando forse di ricevere qualche boccone.

Invano.

Ogni tanto escono dalla porta aperta, vanno fuori ad abbaiare, poi ritornano.

"A poco più di sessant’anni la vita ci riserva pochi rassicuranti programmi alla televisione e buoni libri ogni tanto, va bene, ma le emozioni dove si sono cacciate? Abbiamo fatto scoppiettare già tutte le cartucce? E se sì, perché erano quasi tutte a salve?

Non posso pensare a tutti i sogni che avrei potuto fare e poi invece me ne sono dimenticato, perché ora pare un po’ troppo in salita la spirale che avvita la mia vita.

Spero di sbagliarmi, ma purtroppo non credo.

Torniamo indietro mezzo secolo, magari, anche se dirlo fa già impressione. Vediamo cosa è successo, in che cosa abbiamo fallito?

È stata colpa nostra, inutile negarlo, ma il mondo non ci ha aiutato come avrebbe potuto.

Ammettiamo pure che il mondo abbia tutto il diritto di fregarsene della classe ’59, anzi, secondo me non prende troppo in considerazione nemmeno le altre.

Con la classe ’63 ha fatto anche di peggio, basta guardare mio cugino Romolo e il nostro vicino di casa Mimmo, che ora abita altrove, ma anche noi non abitiamo più lì.

Sono due molluschi che si pensano importanti, ma non hanno nemmeno la metaforica e regolamentare conchiglia attorno."

"Non mi pare di conoscerli."

"No, infatti. Due idioti che si credono intelligenti o viceversa, anche se in maniera differente l’uno dall’altro, ma si invidiano a vicenda, o a Vicenza, non importa.

Non lo so, vorrei tanto sbagliarmi, ma ho perso il bandolo della matassa.

“Magari sì.”

“Però come ci avevano presentato l’infanzia, alla benedetta o maledetta porta di entrata, ci avevano fatto intendere che doveva essere una roba mista con dentro una specie di scuola, per quello che veniva dopo s’intende, cioè l’adolescenza e poi la vecchiaia adiacente.

Se non fosse che intanto il mondo stava cambiando e quello che c’insegnavano, nel frattempo, non serviva più.”

“Sissì.”

“L’ottimismo sarebbe sempre stata la nostra carta vincente, ma non lo sapevamo ancora, infatti non ne abbiamo mai avuto e questi sono i risultati.

Mentre ci si pensava, stavamo già guastando quello che stava per succedere, alla fine non succedeva niente, o andava tutto male, i singoli episodi si sommavano e si moltiplicavano nella peggior sequenza possibile.

Fare la cosa sbagliata è più facile che fare quella giusta, per via delle leggi delle probabilità.”

“Bravo.”

“Dove erano queste probabilità, a quei tempi non ce lo ha mai detto nessuno, non so se sarebbe servito a qualcosa, ma a giudicare da come vivevano, secondo me, non lo sapevano nemmeno loro.

Ogni cosa aveva le sue conseguenze, si diceva in giro, ma quel niente era fin troppo invadente, eppure non sapeva aprire le nostre porte.

Dunque si stava meglio quando si stava peggio? Non lo so, non ce ne rendevamo conto, allora come ora.

Lo stare meglio è una cosa che funziona solo retroattivamente?

Pare di sì, ma non è ancora stato provato scientificamente.

A farla breve, la vita che pareva aprirsi docilmente al nostro passaggio, quando eravamo giovani, ci ha fatto girare alla tonda per tutti questi anni per dirci solo ora, che siamo vecchietti, che abbiamo perso il treno."

"In un certo senso..."

"Lo sai meglio di me.

Ci avevano fatto capire, senza mai dircelo chiaramente, che era una specie di acquario con spesse pareti di vetro che ci permettevano di vedere, sì, ma che non avremmo potuto mai e poi mai rompere, o scavalcare, per passare dall’altra parte, per pescare e poi addentare avidamente quei pesci colorati che erano i nostri desideri. Non avevamo nemmeno la maschera subacquea, questa è la verità.

Andiamo per ordine, però.

La grande quercia magari era un platano, a voler essere generosi, un tiglio. Là sotto ci trovavamo solo per motivi importanti: sanguinose cerimonie di iniziazione, interminabili preparazioni di attrezzatura per escursioni sulle colline e naturalmente per sbafarci la Nutella.

Noi, intanto, ci eravamo saliti anche sopra, alla grande quercia.

Da lassù il mondo era diverso, senza dubbio, ma non assomigliava per niente a Marte o a Venere, che anche se non c’eravamo mai stati, avevamo visto in abbondanza film di fantascienza a proposito.

Sembrava proprio non fare nessuna differenza, se quello era un altro tipo di albero, l’importante era mantenere quel nome romantico. Suonava meglio e in più lo avevamo letto su qualche libro."

“Magari.”

"Nella vita, come nella morte, le regole tacite sono le più ferree, semplicemente perché non sono scritte e allora non si possono correggere?"

“Non sempre.”

"E anche questo è vero. Intanto però, mentre noi si biscareggiava, girando attorno come mosche senza testa, il mondo stava ingranando le marce basse. Si stava lentamente partendo per una vita che si stava appena delineando, mostrandosi ancora assai misteriosa, per questo ci piaceva, oppure non ci pensavamo, insomma non ne eravamo preoccupati.

E sbagliavamo.

L’incoscienza giovanile permetteva a noi, cuccioli di gente, di spassarcela, ma avevamo troppo da fare per rendercene conto. Ci divertivamo con poco, come quella volta in cui chiudemmo il nostro vicino Fabrizio nella buia cantina della vecchia casa di Riccardo e lo tornammo a prendere una decina di ore dopo, minacciati dai suoi genitori. Solo recentemente Fabrizio ci ha detto che lui non si era divertito.

Credo che avesse dei gusti più complicati di noi, almeno da bambino, poi ci siamo persi di vista. Non sempre dopo il rock viene il roll, tanto è vero che le ciambelle senza il buco prendono un altro nome."

“Ma non ti è venuta un po’ di fame? A me sì.”

Senza aspettare una mia risposta, mi passa un pezzo di pane casalingo e un piattino con dei sottaceti ondulati, come li facevano una volta, forse rape e carote. Chissà dove li trova. Mentre parlavo lui non ha mai smesso di sgranocchiarli. A volte penso che non mi ascolti nemmeno, ma lui dice di sì, magari il suo è un ascolto diagonale, in senso generale.

 

 

UMANI O NO?

 

“Sono poche le cose che ancora ci fanno sentire umani e romantici come il rintocco del campanile della chiesa per le ore (e anche le mezz’ore, ma un po’ meno). Purtroppo le sentiamo solo di notte, perché di giorno c’è troppo rumore e qui siamo in campagna. Tutto intorno il movimento che c’è qui e prima non c’era, è diretto altrove, a dimenticare chi siamo e da dove veniamo.

La tecnologia ci schiavizza ma in verità non è lei, siamo noi che gli diamo troppa importanza.

Noi che abbiamo la tendenza a dimenticare le storie del passato troppo assorbiti dal presente, che poi invece ci scappa dalle mani ed è già futuro?

Ecco.

Spesso penso a Milano, e a quando ero militare, a quanti casi interessanti ci sarebbero da raccontare, a ricordarseli, ad aver voglia di farlo, a trovare qualcuno a cui potesse interessare leggerli.

Invece no?

No. Comunque ho fatto il militare a Milano tanti anni fa, non so neppure quanti, ma se erano gli inizi degli anni ottanta, direi quasi quaranta anni fa. Per fortuna che c’ho una buona memoria, o magari per sfortuna, comunque ce l'ho e non mi pare bello non sfruttarla, visto che la maggior parte della gente non ce l'ha e vorrebbe avercela, io che ce l'ho, dirglielo o solo pensare di non voler avercela, mi pare uno schiaffo morale, non so a chi, di certo a qualcuno e poi se ne lamenterebbe, magari in silenzio, ma non credo. I lamenti silenziosi rimbombano eccessivamente nei cervelli e quando se ne escono come un torrente in piena, qualche volta camuffati, d’accordo, si può anche riconoscerli, ma è difficile, quando dicono una cosa e ne sottintendono un’altra, o viceversa, soprattutto viceversa.

 Ma che vuoi dire con questo, non si capisce bene.

Non lo so, forse non si capisce nemmeno male, ma la fantasia esagerata talvolta cozza con la memoria buona, faccio un esempio scemo ma calzante: tanti anni fa stavo cominciando a interessarmi al calcio, quando vidi alla TV la finale della coppa Uefa tra Liverpool e Borussia Moenchengladbach. Forse la prima partita che ho guardato per intero, non lo so. Mi piacque assai, ma la partita di ritorno in Germania non la vidi, perché non la trasmisero in TV, il Borussia vinse 2 a 0, siccome nella prima aveva perso 3 a 1, automaticamente si aggiudicò la coppa, o almeno io ho creduto così, grazie alla regola dei gol fatti in trasferta che valgono doppio. Durante gli anni ho ripensato più volte alle scene di quella prima partita frenetica e turbolenta, giocata nel fango di quello stadio inglese. Ultimamente ho preso un almanacco del calcio e ho creduto di aver visto un pacchiano errore, che nel 1973 il Liverpool si era aggiudicato la coppa, avendo vinto la prima partita 3 a 0 e perduto la seconda come ho già detto. Sono andato per curiosità a vedere in internet e anche lì insistevano nell’errore, in più pagine e siti, che roba incredibile! Solo io ero testimone della verità? Mi è venuto il dubbio che la mia memoria elefantina avesse perso una zanna o due e così sono andato su Youtube a controllare. Lì ho finalmente capito che a sbagliare ero stato io, perché a Liverpool il Borussia effettivamente ebbe un calcio di rigore a favore, ma che il portiere parò e di qui evidentemente la mia fantasia aveva galoppato, come ogni tanto succede. Poi i festeggiamenti dei giocatori del Liverpool in Germania, con la coppa Uefa in mano mi hanno tolto ogni dubbio.

Te pensi troppo, dammi retta, fai come me, lascia pensare gli elefanti, piuttosto, che channo la testa grossa!

Sì, ma anche la mia non scherza. Sempre parlando di calcio, quando militavo negli juniores del Buonsuolo, a Fornaci di Barga giocammo una partita difficile, non per la forza degli avversari, ma per la violenza del vento, doveva essere inverno, era anche freddo. Nel secondo tempo stavo per segnare di testa a due passi dalla porta ma con una folata improvvisa il pallone girò e mi evitò. Dopo il nostro faticoso 0 a 0 c’era un provino di calciatori più grandi di noi, non solo di età. Se noi eravamo juniores quelli non so cosa fossero, a quale categoria appartenessero. Avevano giocato una partita sul campo vicino, poi si misero a fare i tiri in porta, mentre noi facevamo la doccia e ci preparavamo per tornare a Buonsuolo. Forse la mia memoria è stata ingannata in qualche maniera dalla mia percezione, magari dalla mia stanchezza, dal buio che stava sopraggiungendo, ma il fatto strano era però che quelli erano degli armadi con le gambe, mai visto gente più forte e larga, le botte che tiravano nella porta erano fucilate paurose. Quando il mastodontico portiere ne parava qualcuna si sentiva il colpo da lontano, se prendeva la traversa il pallone poi volava a sparire nel cielo, se sbatteva sul palo poi si nascondeva nell’oscurità a bordo campo. Del vento loro non se ne accorgevano neanche. Fatico ancora a capire se era vero o no, eppure me lo ricordo così, anche le piccole teste dei giocatori, sproporzionate al resto sembravano quelle delle statue degli eroi greci, anche i capelli riccioluti e i nasi dritti e decisi, degli atleti delle prime olimpiadi viste su un libro che avevo una volta, trovato nel mobile in salotto a Mologno, dai nonni, lasciato da chissà chi e poi perso chissà dove.

 

 

 

LONDRA

 

Non era tanto tempo che mi ero interessato al calcio, ma forse proprio per questo ne ero assai entusiasmato, avevo 13 anni o 14 eravamo nel 72 o nel 73, con mio padre e con monsignor Chieti amico suo facemmo questo viaggio a Londra. Era sabato, giorno delle partite, mio padre disse che si poteva andare a vederne una, io ero entusiasta.

Il suo ragionamento era che bastava andare nel Tempio del Calcio Inglese ed essendoci una mezza dozzina di squadre londinesi in prima divisione, forse altrettante in seconda, una sicuramente ci avrebbe giocato.

Probabilmente non c'è città al mondo con così tante squadre nella Prima Divisione Nazionale forse solo Buenos Aires ci si avvicina, si tratta di due città grandi o grandissime.

Con la metropolitana ci si arrivava in poco tempo, si veniva dalla linea Grigia alla linea Viola, da Baker Street e dal nostro famoso Sherlock Holmes Hotel. A Finchley Road bisognava cambiare, per andare sulla linea Viola, solo che non avevamo capito che esistono due Finchley Road, cioè una è Finchley Road e basta, l’altra è Finchley Road & Frognal. Quindi abbiamo fatto quattro cinque volte avanti e indietro, trovandoci sempre e comunque a Finchley Road. Probabilmente oggi sarebbe indicato in maniera migliore, o magari io sarei più sveglio. Mio padre è morto nel 1996.

Abbiamo perso parecchio tempo insomma e ci siamo ritrovati, poi bestemmiando un po', finalmente a destinazione, a un orario approssimativo, che secondo mio padre doveva essere quello giusto.

Bene anzi male, l'immenso posteggio sterrato era deserto, il Tempio del Calcio Britannico eccolo lì davanti a noi, tra il giallastro e il beige, meno maestoso di quello che ci aspettavamo, ma soprattutto non c'era nessunissima partita. Io mi misi a piangere e il guardiano ci disse che a Wembley, che era anche il nome del quartiere, giocava solo la nazionale.

 

 

A SUO MODO BARTELLONI

 

Mio padre era uno studioso della natura umana, per deformazione professionale e curiosità innata, gli piaceva mettere alla prova gli altri, molto meno sé stesso. Lo sapeva fare in maniera che non si offendessero, provocandoli un po’ ma non troppo, almeno fuori dalla famiglia, lì diventava un elefante in un negozio di cristalli.

Era capace di innamorarsi letteralmente di una persona nuova, appena conosciuta, di entusiasmarsi per la simpatia e la genuinità schietta di un essere umano, poi, una volta studiato meglio, nel suo complessivo, visti gli inevitabili difetti, se ne schifava con la stessa rapidità.

Per fare i nostri viaggi turistici, il pover’uomo doveva convincere mia madre per mesi, ma che era importante, noi dopo lo abbiamo capito. Mi ha insegnato anche ad aprire la mente, indirettamente, viaggiando o leggendo, insomma pensando a cose poco convenzionali, per uscire dalla routine e dai pensieri fisiologici e anche troppo comuni a tutti gli altri.

Mio padre ha fatto il possibile perché noi aprissimo i nostri orizzonti, anche se poi il suo carattere rabbioso ce ne chiudeva altri, o gli stessi che lui ci aveva appena aperto. Non riusciva a controllarsi, specie se aveva bevuto un po’, ma sicuramente ci ha insegnato tante cose utili, come quella di non limitare mai la nostra idea del mondo al proprio luogo di residenza, o alle cose che tutti fanno, ma di uscire dalla realtà di tutti i giorni, di viaggiare anche solo con il cervello e il cuore, insomma di cercare di manovrare la routine, prima che essa manovrasse noi.

Certo, i suoi modi erano bruschi, non si poteva contrariarlo, ma sapeva anche essere simpatico, se stava bene. Quando bevevano, tutti insieme, là alla baracca del lago, venivano fuori tante storie da raccontare, proprio come sto facendo ora, che più scrivo e più me ne vengono in mente.

Rodolfo Bartelloni ha pianto prima di lasciarmi ad Albenga per il servizio militare. Non ha voluto salutarmi quando sono venuto in Brasile, ma il giorno dopo mi ha telefonato e mi ha chiesto scusa, poi per lettera mi ha detto che avevo avuto ragione a partire.

Comunque sia, per me non è morto affatto, ogni tanto viene a visitarmi nei miei sogni e, almeno là dentro, non litighiamo.

 

 

 

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