Non
sempre l’adolescenza è un trampolino.
La
prima cotta è difficile da localizzare, forse Lorella in quinta elementare. Poi
Rosanna la mia vicina di casa. Dopo Lia al Quercione e decine di altre cotte e
crude, insomma al sangue. In tanti casi come Immanuel Kant loro, le dirette
interessate, non lo hanno nemmeno mai sospettato, io facevo di tutto per
nasconderlo, per auto-sabotarmi, ma come facevo a saperlo?
Sulla 126 di mamma ho imparato a guidare e l’ho
sbattuta sullo spesso muretto di pietra di un ponticello dalle parti di Vorno,
distruggendo abbastanza la parte davanti, ma fu solo colpa dell’alcool e della
strada bagnata. Tornavamo da una festa piuttosto bruttina e pochissimo
frequentata io e Marzio.
La Chrisler era un macchinone lungo assai e forse per
questo riuscii magistralmente a incastrarla in diagonale all’entrata del
cancello che non andava più avanti né indietro.
I libri di Woody Allen, erano comici ma anche esistenziali e per qualche tempo sono stati la mia lettura preferita.
L’adolescenza è l'epoca molto delicata in cui si dovrebbero tirare
le somme di un'infanzia che raramente è completamente felice, ma anche se lo
fosse, può facilmente rovinarsi nel giro di pochi anni, quando cioè il bambino,
che sta diventando adulto, potrebbe rifiutare di fare questo salto di qualità,
che in tanti casi significa quasi retrocedere in uno stato di rassegnazione e
di abulia.
Nel mio caso non è stato differente, un’epoca in cui timidezza e
altre componenti di rivoluzione interna mi hanno tarpato completamente o quasi,
il calcio mi è servito, forse e anche la musica, a sfuggire alla mia atrofizzazione
generale.
“Le cattive compagnie” hanno fatto il resto, nel senso che io stesso posso essere stato negativo per tanti, dipende dai punti di vista. Si può dare la colpa a questa gente però, che invece di portarmi avanti mi portava indietro e non a caso, poi, c’è stata un’inversione di marcia, un cambiamento di stile di vita. Dopo aver frequentato coetanei di classe media, per anni, mi trovai a conoscere e a passare anni insieme a gente di livello finanziario inferiore e con una storia personale piuttosto diversa dalla mia. Ho iniziato a vedere le cose da un altro punto di vista, meno stereotipato, meno da figlio di papà viziato, quale forse non ero, non completamente, ma un poco sì e lo erano alcuni di quelli che frequentavo.
Ho avuto più o meno da sempre un rifiuto dell’Italia e una voglia
di andarmene altrove che poi si è realizzata molto dopo. Ho capito il suo
valore, che non è poco, ma solo quando sono stato per un po’ di tempo fuori
dalla penisola.
A livello di musica pure sono stato eccessivamente esterofilo,
almeno sul nascere, rimanendo anni lontano dalla cosiddetta patria ho iniziato
ad apprezzare di più anche la sua musica e ce n’è di bella o bellissima.
Ricordo bene che alla mia prima e unica settimana bianca a
Piandelagotti, per la scuola, doveva essere il 1972, arrivammo di sera e
sull’autobus qualcuno metteva e rimetteva due canzoni di Lucio Battisti, La canzone del sole e Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi.
Per anni ho creduto fosse la stessa canzone, magari per l’insistita ripetizione
sull’autobus, ma anche perché una parlava di certe difficoltà di uno
scoglio per arginare il mare, e l’altra spiegava che forse era perché
si trattava di un mare nero.
I registratori a cassetta, che funzionavano anche a pile, sono
stati introdotti dalla Philips nel 1963 e lanciati sul mercato nel 1965 come dispositivi per dettatura vocale progettati per
uso portatile. In origine non erano stati pensati per essere sostituti
dei magnetofoni.
Credo ne abbiamo avuto uno in casa nei primi anni del ’70. Durante
le vacanze in Spagna, alle isole Baleari, mio padre comprò un LP, dove c’erano
canzoni di vari autori, ma lui apprezzava specialmente Y viva
España e sul nastro ce la mise più volte.
Lentamente ma con crescente vigore poi ne ho registrate a
centinaia, ne facevo di miste anche per gli amici, quando sono passate in
disuso, qua in Brasile, ne avevo oltre 500 e hanno fatto una misera fine.
Bao Radio in Pharneta era un’emittente fasulla, che fingevo
esistesse su queste cassette miste che facevo agli altri e venivano anche
apprezzate, sebbene io ci facessi sopra il DJ e con un microfono annunciassi e
commentassi le canzoni in maniera piuttosto petulante e stereotipata.
Prima c’era stata un’epoca di rivoluzione interna però, in cui
avevo incontrato Martino, amico di Rinaldo, ma essendo assai timido, facevo
spesso scena muta, specialmente quando c’era gente che non conoscevo, o c'erano
più persone.
Ero stato anche ispirato da una cassetta di Burt Bacharach dal
vivo che Martino fece per me e all’inizio, mentre lo presentava, lui al
microfono ringraziava per gli applausi del pubblico.
La mia vicina di casa mi prestò due dischi di De André, avevo
letto da più fonti che era un genio. Mi pare anche dalla Famiglia Cristiana che
sfogliavo dai nonni, i quali erano abbonati anche al Frate Indovino, ma lì si
parlava più che altro dei tempi opportuni per potare, o seminare e cose del
genere.
All’inizio De André non mi piacque, ma sentivo che c’era qualcosa
di nuovo per me e lo registrai. A forza di ascoltarlo mi cominciò a garbare, si
trattava di Vol.8 e Storia di un impiegato.
Rinaldo oltre alle mie solite cose straniere seguiva vari cantanti
e cantautori dei nostri, tra cui Battisti, io ero molto di più per roba che
venisse da Inghilterra e Usa, per partito preso, forse perché mi faceva sognare
di più. Nel frattempo a scuola stavo migliorando in inglese, proprio per via di
quei testi, che comunque mi ispiravano di più quando non li capivo, ma la
curiosità aveva deciso per me.
Una volta ho registrato parte delle canzoni che lui aveva messo su
una cassetta, c’era Samba pa ti
dei Santana, Let me try again di
Sinatra, If I didn’t care di
David Cassidy, My sweet lord di
George Harrison, una bella canzone cattolica e tutto, ma l'ex Beatles ha dovuto
pagare un sacco di soldi per averla copiata.
Il tribunale di New York reputò George Harrison colpevole di aver,
con la celebre My Sweet Lord, “inconsciamente” plagiato la
canzone He's so fine delle Chiffons (1963) dal punto di vista melodico.
Alla settimana bianca capitai in camera con una specie di castoro,
certo Mieli di classe mia, uno così rompiscatole che diventava buffo senza
volerlo.
A sciare io mi ero messo a fare il fondo, perché non mi riusciva
imparare, ma mi vennero a cercare. C’era la maestra di sci che ci voleva
insegnare, era brava e io e lui, il Mieli, imparammo a sciare a spazzaneve più
o meno alla stessa maniera, ma era assai divertente e in poco tempo venivamo
giù senza grossi problemi.
Lo chiamavano Pelo, forse per via dei capelli ritti e ispidi, quando
scendeva gli urlavano:
VAIIII PELO!!! INSISTISCIIIII!!!
Lui si emozionava e usciva fuori pista.
Alla competizione finale gli imposero di non urlargli niente, lui
vinse il Premio Prudenza e fu acclamato dalla folla. Probabilmente ero l’unico che avrebbe
potuto competere con lui, ma non avevo voluto partecipare.
Tornati a valle i nostri equipaggiamenti di ascolto e
registrazione erano scarsissimi, ma c’era una continua volontà di rinnovamento
e miglioramento. All’inizio registravo le canzoni alla radiolina, poi con lo
stesso microfono dal giradischi mono. Poi cominciai a poter usare uno stereo di
mio padre, al quale in un secondo momento feci un coperchio di legno, fil di
ferro e nylon, per via della polvere.
Ascoltavo Hit Parade e Dischi Caldi, che trasmettevano le
classifiche di vendite in Italia, in genere erano canzoni italiane e di musica
leggera come i Cugini di Campagna, Umberto Balsamo, Paolo Frescura, poi roba
più articolata come Baglioni, Venditti, De Gregori, Battisti eccetera.
Ci presi sempre più gusto, in un secondo momento già ascoltavo
Supersonic, del quale sul Radio Corriere venivano anticipate le canzoni che
avrebbero trasmesso. E qui erano quasi tutte straniere, per lo più inglesi e
americane.
Carpet Crawlers dei Genesis all’inizio mi lasciò perplesso, ma ci
sentivo qualcosa di misterioso e nuovo.
Epiche, ma per me poche, le mattinate al bar della Manifattura,
con Rinaldo e il sottofondo di Rock the boat degli Hues Corporation a
giocare a biliardino, biliardo, ping- pong eccetera. Qualche volta siamo andati
anche a Viareggio in treno o in autobus.
Non sempre quando salavo andavo fuori casa, in soffitta ci si
stava bene e avevo fatto un comodo giaciglio dove potevo continuare a dormire o
a leggere, finché mia madre non se ne accorse per via dei rumori.
Inoltre, in quel periodo mi chiedeva perché giocavo ancora con le
figurine.
La prima ragazza, che non fosse solo virtuale, ce l’ho avuta che
guidavo già la macchina, Rinaldo - quel dannato - invece aveva già avuto una
notevole esperienza.
L’adolescenza io l’ho iniziata piuttosto in ritardo, dopo che gli
altri l’avevano già finita e dimenticata. Quella forse comincia quando si parla
di cotte a volte un po’ crude, amoretti virtuali e robe del genere.
Una volta iniziato a lavorare, ho pensato che era finalmente agli
sgoccioli, ma non sapevo ancora spiegarmi se e quando era principiata. Sullo
slancio ho preso la patente di guida e ho fatto il militare.
Ricordo una volta che il gruppo di amici di Buonsuolo rise per una
mia battuta, a casa di Martino, che lui aveva ripetuto ad alta voce per tutti,
poi dichiarò pure che era frase mia, perché io le dicevo troppo piano e non le
sentiva nessuno.
Era uno che lavorava e poteva permettersi una bella macchina e
vestiti eleganti, spesso comprati da Agostino, che fu anche il mio allenatore a
Buonsuolo.
Un ultimo dell'anno a Carambola per soli maschi, fu caratterizzato
da diverse e mischiate libagioni, poi ripetute e insistite, Martino vomitò e
cascò in un fosso sporcando un cappotto di cammello che costava una cifra.
Perse i documenti e andammo insieme a pregare alla madonnina verso la polla del
Banti.
Troppe cose in quel periodo si attorcigliavano accumulate e
instabili dentro di me. Attraverso il calcio e il lavoro di manovale,
all'inizio, poi di barista, poi di cameriere, almeno cominciai a uscire da un
labirinto di siepi alte e scure, di due passi avanti e tre indietro. Iniziai,
senza in realtà mai aver smesso, ad andare per esclusione, in modo più
cosciente, ma non troppo.
Se le amicizie da una parte mi aiutavano, da quell'altra mi
ostacolavano. Notavo che tante cose nella mia vita funzionavano in tale maniera
bilaterale, come minimo, a cominciare dalla famiglia.
Martino un po’ come tutti si atteggiava a duro, ma era un
tenerone, anche se ci ho messo del tempo a capirlo. Con le ragazze aveva poco
successo come me, si innamorava sempre da solo, una cosa che ci accomunava e
comunque eravamo poco originali, come noi ce ne erano tanti. Quelli come
Rinaldo erano eccezioni, in anticipo non solo sui coetanei, si era concentrato
sulle sue donne, che non erano poche.
Per me la realtà era molto più complicata, forse la mia educazione
era poco aperta e lungimirante. Magari era anche la società chiusa e
competitiva. Oppure io pensavo troppo e male.
Giocare a pallone era una ginnastica efficace anche per il
cervello. Il calcio magari è basato sulla prepotenza, ma anche
sull’intelligenza e la forza fisica. Poi lo sport ossigena i pensieri che sennò
diventano asfittici.
Insomma se da bambino-adolescente ero una promessa, poi non
arrivai mai a giurare. Non ero così fanatico quanto avrei voluto e quando
squadre più in alto mi cercavano ci aveva pensato mio padre a rifiutare senza
chiedermi niente.
Certi giorni giocavo come Pelé e altri come Gattuso, dipendeva da
tante cose, anche dall'alcool del giorno prima. La potenza fisica, il fiato, il
talento e l'inventiva c'erano, mancavano però la disciplina, la volontà e
soprattutto l'ambizione.
Intanto i nostri negozi preferiti erano diventati di due tipi,
quelli di dischi e quelli di articoli sportivi, ma nei primi passavamo più
tempo, a Lucca ce ne erano vari.
Rinaldo ed io, per vedere se c’erano
novità e fare le rituali quattro chiacchiere, facevamo una capatina di almeno una mezz’ora, tutte le
volte che andavamo in città, in un piccolo negozio di dischi, dove lavorava
un'amica che abitava di fronte a lui, più grande di noi, ma molto allegra e
simpatica.
L’Italia ai
mondiali aveva fatto una magra figura, nella stessa epoca, più o meno nel 1974,
ho conosciuto Aldo, era in classe mia al liceo, timido e di poche parole anche
lui. Abbiamo fatto tre anni insieme nel frattempo abbiamo condiviso vacanze,
feste e ubriacature. Ci piaceva anche la musica pop e i dischi che acquistavamo
ce li imprestavamo a vicenda, per registrarli in cassetta, facendo bene
attenzione a non comprare gli stessi. Abbiamo condiviso la passione per alcuni
LP di autori che gli altri non apprezzavano, come quelli dei Flash & the
Pan australiani, o del canadese Dan Fogelberg.
In classe
nostra, al liceo scientifico, c’era
anche Alberto, di origine siciliana, come noi poco studioso e appassionato dei
Genesis e dei Pink Floyd. Attraverso lui ho conosciuto la mia prima ragazza,
perché in un gruppo di giovinastri suoi conoscenti c'era questa Maria e la sua
sorella, lui cercò di farsela amica ma non andò oltre.
L'epoca in cui andavo spesso a casa sua, mentre lui
armeggiava tra esperimenti elettrici ed elettronici, si ascoltava la cassetta
registrata dal disco Genesis live. Mi
era piaciuto Automobili di Lucio
Dalla prestatomi da Aldo e Jesus Christ
Superstar, sempre cantato ad alta voce dal Bondini a scuola, non mi piacque
più di tanto, salvo quelle due o tre canzoni. L’occhialuto Corsani, sempre in
classe mia, in precedenza mi aveva fatto conoscere Selling England by the Pound dei Genesis, Desire di Bob Dylan, Photos
of Ghosts della Premiata Forneria Marconi, che avevo duplicato, e Rinaldo
mi aveva regalato Living in the Material
World di George Harrison che era un po’ storta e stonava anche un po'.
Tutte cassette originali meno quella di Harrison, una copia pirata in più forse
lasciata ai raggi del sole per un po’. Le ascoltavo sempre la sera mentre
leggevo Dracula o Frankenstein a letto.
Aldo
proveniva da Milano, però con genitori di Piombino, lassù da bambino aveva
avuto problemi di salute, per questo stava dagli zii a Lucca. In prima liceo
avevo notato che aveva movimenti un po' legnosi, ma era un bel ragazzo e anche
assai forte fisicamente.
Eravamo
entrambi silenziosi e timidi, io cresciuto in campagna e lui nella più grande
città d'Italia. Diciamo che fino a una certa età ci siamo intesi bene, ma lo
stile di vita è diventato quasi opposto, con l'andare degli anni.
In poco
tempo, a quell'età foruncolosa, ci sono dei repentini cambiamenti, forse dovuti
all'adolescenza stessa, alle cattive e alle buone compagnie, alle pur
necessarie e relative briae… alla trasformazione da bambini, insomma, a volte
anche senza volerlo, bisognava purtroppo diventare adulti, in qualche maniera,
o qualcosa del genere.
Cominciavamo
le festicciole danzanti e poi ad andare timidamente anche in discoteca, nel
nostro caso prima di tutte fu il Green Ship, a Nave.
A scuola
c’ero e non c’ero, nel senso che la mia testa era altrove, non so nemmeno dove,
ma di certo non lì. In senso generale mi aveva deluso, o forse più ancora avevo
deluso io la scuola, insomma era un sentimento reciproco, o forse non era
neanche un sentimento. Un po’ come quando ero militare, qualche tempo dopo.
Nel 1978
avevo diciannove anni e l’adolescenza avanzata forse stava per terminare, l’Italia
nel mondiale di Argentina si comportò bene. Le ultime partite le vidi a Roma,
dovendo dare gli esami per il Rousseau, un istituto di recupero, avevo fatto
tre anni in uno e avevo perfino studiato un po’.
Verso i
vent’anni con la mia 126 FIAT beige che poi era di mia madre, ho in qualche
modo sperato di essere pronto e ho tentato invano, con la mia famosa muta
immobilità, di avere qualche innamorata.
A scuola
avevo conosciuto e frequentato giovinotti un po' più benestanti, la tendenza
all'alcool ce l'avevano un po' tutti in comune, ma i nuovi amici erano più
assidui.
I precedenti
si limitavano ai fine-settimana alle feste comandate, che essendo comandate non
si potevano certo evitare. Insomma mancavano di continuità, gli studenti, ma
quelli che lavoravano invece no e io avevo appunto cominciato a lavorare.
Poi ci siamo
scambiati qualche innamorata, Aldo ed io, ma a dir la verità erano loro che si
scambiavano noi, che potevamo essere di tutto meno che svegli.
GLI
OCCHI E LO SGUARDO
Gli occhi sono quelli che ci
trasmettono quello che veramente importa di chi ci sta davanti. La profondità
dello sguardo è una cosa che è difficile da simulare. Noi invece in pochi
minuti abbiamo un ritratto, che, se abbiamo fatto attenzione, si manterrà
sempre fedele ad una linea essenziale: la sua personalità e zone limitrofe.
Dalla maniera di guardare capiamo se una persona ci è gradevole. Anche se poi
non possiamo illuderci: non la conosceremo mai completamente. È anche vero che
poca gente ci fa attenzione e che sono tutti impegnati con eventuali pericoli,
perlopiù immaginari.
Trovare gente che valga la pena della
curiosità di conoscerla meglio è un passatempo costruttivo e internazionale,
che può durare anche tutta la vita, stimolerà la nostra capacità e ne troveremo
sempre di nuova. Mio padre diceva che c’era gente che faceva finta di pensare,
e me lo disse a proposito del mio professore di disegno.
Al liceo mi ricordo che un giorno, in
una noiosissima riunione di professori e alunni, tanto per passare il tempo,
decisi di fingere uno sguardo intelligente.
Guardavo nel vuoto con una
espressione piena e pensosa, lontana ma non troppo, che voleva trasmettere il
mio profondo ascolto a chi stava in quel momento parlando, alle sue eventuali
parole, significati delle frasi annessi.
Beh, credo che volessi che gli altri
pensassero che io fossi veramente così intelligente come volevo sembrare.
Solo io sapevo di non esserlo.
Con grande soddisfazione, appresi
poi, la madre di un mio compagno, aveva commentato esattamente quello che volevo,
cioè che avevo uno sguardo veramente intelligente, nonostante i miei pessimi
voti.
L'adolescenza è stata un'epoca
piuttosto foruncolosa della mia carriera di essere umano e soprattutto disumana
per via di tanti piccoli, medi e grandi episodi... anche se non hanno avuto
alcun luogo, ma che magari li avrei desiderati.
La mia immobilità è stata marmorea
per qualche anno appena venata dallo studio… o per meglio dire dal mio andare a
scuola. Al liceo scientifico una professoressa si era accorta di me, in quanto
timido ma non disprezzabile essere umano e mi interpellava abbastanza spesso,
soprattutto dopo un mio tema comicamente introspettivo, che lesse alla classe e
dopo anche ai compagni rimasi più simpatico. Non ero quel pesce lesso che
sembravo e se uno avesse avuto la pazienza di chiedermi qualcosa ero perfino
capace di dare risposte sensate.
Diverse amicizie poi
diventate durature sono nate in questo periodo, ma quelle vengono fuori con il
tempo, forse indipendentemente dall'epoca che si attraversa. Magari la
spontaneità è la cosa che favorisce di più, e quella è una cosa che mi è uscita
fuori in qualità e quantità, nel bene e nel male, non sono mai riuscito a
dosarla, oppure non ci ho nemmeno mai provato.
IL TEATRO ALLO SPECCHIO
Penso che avrete sentito parlare del filosofo contemporaneo Corrado Ciompi,
barbuto uomo di stazza internazionale e mio amico da una vita.
Mi riceve sempre con grande piacere e mi offre castagne crude, vino bòno,
nocino, cetrioli e altri sottaceti che è difficile perfino riconoscere cosa
fossero prima di entrare in quei minacciosi barattoloni di vetro verdastro.
Ogni tanto vado da lui per capire cosa devo fare, alla sua maniera mi
consiglia e immancabilmente mi ritrovo con la soluzione in mano. Lui dice che
c'era anche prima, ma è un fatto consumato che senza di lui non avrei potuto
accorgermene.
I suoi lunghi silenzi, con lievi rumori di masticazione, più qualche
sommesso ruttino, mi invitano a sviscerare i miei problemi.
"Inutilmente ci ho girato intorno, ma
l’argomento è inevitabile. Lo confesso: sono ragionevolmente preoccupato per la
nostra sorte, parlo della classe di ferro 1959, spero che tu abbia già drizzato
le orecchie."
"Beh..."
"Non c’ è bisogno di dirlo, il mio
timore è che le nostre energie siano già andate - a nostra insaputa e piuttosto
prematuramente - in pensione?"
"Forse."
"Insomma. Chi non è ancora
rincoglionito scagli la prima pantofola! Io vorrei tanto poterlo fare, ma non
so se ne ho la forza."
"Effettivamente."
Due grossi cani Maremmani Abruzzesi ci girano intorno, sperando forse di
ricevere qualche boccone.
Invano.
Ogni tanto escono dalla porta aperta, vanno fuori ad abbaiare, poi
ritornano.
"A poco più di sessant’anni la vita
ci riserva pochi rassicuranti programmi alla televisione e buoni libri ogni
tanto, va bene, ma le emozioni dove si sono cacciate? Abbiamo fatto
scoppiettare già tutte le cartucce? E se sì, perché erano quasi tutte a salve?
Non posso pensare a tutti i sogni che
avrei potuto fare e poi invece me ne sono dimenticato, perché ora pare un po’
troppo in salita la spirale che avvita la mia vita.
Spero di sbagliarmi, ma purtroppo non
credo.
Torniamo indietro mezzo secolo, magari,
anche se dirlo fa già impressione. Vediamo cosa è successo, in che cosa abbiamo
fallito?
È stata colpa nostra, inutile negarlo, ma
il mondo non ci ha aiutato come avrebbe potuto.
Ammettiamo pure che il mondo abbia tutto
il diritto di fregarsene della classe ’59, anzi, secondo me non prende troppo
in considerazione nemmeno le altre.
Con la classe ’63 ha fatto anche di
peggio, basta guardare mio cugino Romolo e il nostro vicino di casa Mimmo, che
ora abita altrove, ma anche noi non abitiamo più lì.
Sono due molluschi che si pensano
importanti, ma non hanno nemmeno la metaforica e regolamentare conchiglia
attorno."
"Non mi pare di conoscerli."
"No, infatti. Due idioti che si
credono intelligenti o viceversa, anche se in maniera differente l’uno
dall’altro, ma si invidiano a vicenda, o a Vicenza, non importa.
Non lo so, vorrei tanto sbagliarmi, ma ho
perso il bandolo della matassa.
“Magari sì.”
“Però come ci avevano presentato
l’infanzia, alla benedetta o maledetta porta di entrata, ci avevano fatto
intendere che doveva essere una roba mista con dentro una specie di scuola, per
quello che veniva dopo s’intende, cioè l’adolescenza e poi la vecchiaia
adiacente.
Se non fosse che intanto il mondo stava
cambiando e quello che c’insegnavano, nel frattempo, non serviva più.”
“Sissì.”
“L’ottimismo sarebbe sempre stata la
nostra carta vincente, ma non lo sapevamo ancora, infatti non ne abbiamo mai
avuto e questi sono i risultati.
Mentre ci si pensava, stavamo già
guastando quello che stava per succedere, alla fine non succedeva niente, o
andava tutto male, i singoli episodi si sommavano e si moltiplicavano nella
peggior sequenza possibile.
Fare la cosa sbagliata è più facile che
fare quella giusta, per via delle leggi delle probabilità.”
“Bravo.”
“Dove erano queste probabilità, a quei
tempi non ce lo ha mai detto nessuno, non so se sarebbe servito a qualcosa, ma
a giudicare da come vivevano, secondo me, non lo sapevano nemmeno loro.
Ogni cosa aveva le sue conseguenze, si
diceva in giro, ma quel niente era fin troppo invadente, eppure non sapeva
aprire le nostre porte.
Dunque si stava meglio quando si stava
peggio? Non lo so, non ce ne rendevamo conto, allora come ora.
Lo stare meglio è una cosa che funziona
solo retroattivamente?
Pare di sì, ma non è ancora stato provato
scientificamente.
A farla breve, la vita che pareva aprirsi
docilmente al nostro passaggio, quando eravamo giovani, ci ha fatto girare alla
tonda per tutti questi anni per dirci solo ora, che siamo vecchietti, che
abbiamo perso il treno."
"In un certo senso..."
"Lo sai meglio di me.
Ci avevano fatto capire, senza mai dircelo
chiaramente, che era una specie di acquario con spesse pareti di vetro che ci
permettevano di vedere, sì, ma che non avremmo potuto mai e poi mai rompere, o
scavalcare, per passare dall’altra parte, per pescare e poi addentare
avidamente quei pesci colorati che erano i nostri desideri. Non avevamo nemmeno
la maschera subacquea, questa è la verità.
Andiamo per ordine, però.
La grande quercia magari era un platano, a
voler essere generosi, un tiglio. Là sotto ci trovavamo solo per motivi
importanti: sanguinose cerimonie di iniziazione, interminabili preparazioni di
attrezzatura per escursioni sulle colline e naturalmente per sbafarci la
Nutella.
Noi, intanto, ci eravamo saliti anche
sopra, alla grande quercia.
Da lassù il mondo era diverso, senza
dubbio, ma non assomigliava per niente a Marte o a Venere, che anche se non
c’eravamo mai stati, avevamo visto in abbondanza film di fantascienza a
proposito.
Sembrava proprio non fare nessuna
differenza, se quello era un altro tipo di albero, l’importante era mantenere
quel nome romantico. Suonava meglio e in più lo avevamo letto su qualche
libro."
“Magari.”
"Nella vita, come nella morte, le
regole tacite sono le più ferree, semplicemente perché non sono scritte e
allora non si possono correggere?"
“Non sempre.”
"E anche questo è vero. Intanto però,
mentre noi si biscareggiava, girando attorno come mosche senza testa, il mondo
stava ingranando le marce basse. Si stava lentamente partendo per una vita che
si stava appena delineando, mostrandosi ancora assai misteriosa, per questo ci
piaceva, oppure non ci pensavamo, insomma non ne eravamo preoccupati.
E sbagliavamo.
L’incoscienza giovanile permetteva a noi,
cuccioli di gente, di spassarcela, ma avevamo troppo da fare per rendercene
conto. Ci divertivamo con poco, come quella volta in cui chiudemmo il nostro
vicino Fabrizio nella buia cantina della vecchia casa di Riccardo e lo tornammo
a prendere una decina di ore dopo, minacciati dai suoi genitori. Solo
recentemente Fabrizio ci ha detto che lui non si era divertito.
Credo che avesse dei gusti più complicati
di noi, almeno da bambino, poi ci siamo persi di vista. Non sempre dopo il rock
viene il roll, tanto è vero che le ciambelle senza il buco prendono un altro
nome."
“Ma non ti è venuta un po’ di fame? A me
sì.”
Senza aspettare una mia risposta, mi passa
un pezzo di pane casalingo e un piattino con dei sottaceti ondulati, come li
facevano una volta, forse rape e carote. Chissà dove li trova. Mentre parlavo
lui non ha mai smesso di sgranocchiarli. A volte penso che non mi ascolti
nemmeno, ma lui dice di sì, magari il suo è un ascolto diagonale, in senso
generale.
UMANI O
NO?
“Sono poche le cose che
ancora ci fanno sentire umani e romantici come il rintocco del campanile della
chiesa per le ore (e anche le mezz’ore, ma un po’ meno). Purtroppo le sentiamo
solo di notte, perché di giorno c’è troppo rumore e qui siamo in campagna.
Tutto intorno il movimento che c’è qui e prima non c’era, è diretto altrove, a
dimenticare chi siamo e da dove veniamo.”
“La tecnologia ci schiavizza ma in verità
non è lei, siamo noi che gli diamo troppa importanza.”
“Noi che abbiamo la tendenza a dimenticare
le storie del passato troppo assorbiti dal presente, che poi invece ci scappa
dalle mani ed è già
futuro?”
“Ecco.”
“Spesso penso a Milano,
e a quando ero militare, a quanti casi interessanti ci sarebbero da
raccontare, a ricordarseli, ad aver voglia di farlo, a trovare qualcuno a cui
potesse interessare leggerli.”
“Invece no?”
“No. Comunque ho fatto
il militare a Milano tanti anni fa, non so neppure quanti, ma se erano gli
inizi degli anni ottanta, direi quasi quaranta anni fa. Per fortuna che c’ho
una buona memoria, o magari per sfortuna, comunque ce l'ho e non mi pare bello
non sfruttarla, visto che la maggior parte della gente non ce l'ha e vorrebbe
avercela, io che ce l'ho, dirglielo o solo pensare di non voler
avercela, mi pare uno schiaffo morale, non so a chi, di certo a qualcuno e
poi se ne lamenterebbe, magari in silenzio, ma non credo. I lamenti silenziosi rimbombano
eccessivamente nei cervelli e quando se ne escono come un torrente in piena,
qualche volta camuffati, d’accordo, si può anche riconoscerli, ma è difficile,
quando dicono una cosa e ne sottintendono un’altra, o viceversa, soprattutto
viceversa.”
“Ma che vuoi dire con questo, non si capisce
bene.”
“Non lo so, forse non
si capisce nemmeno male, ma la fantasia esagerata talvolta cozza con la memoria
buona, faccio un esempio scemo ma calzante: tanti anni fa stavo cominciando a
interessarmi al calcio, quando vidi alla TV la finale della coppa Uefa tra
Liverpool e Borussia Moenchengladbach. Forse la prima partita che ho guardato
per intero, non lo so. Mi piacque assai, ma la partita di ritorno in Germania
non la vidi, perché non la trasmisero in TV, il Borussia vinse 2 a 0, siccome
nella prima aveva perso 3 a 1, automaticamente si aggiudicò la coppa, o almeno
io ho creduto così, grazie alla regola dei gol fatti in trasferta che valgono
doppio. Durante gli anni ho ripensato più volte alle scene di quella prima partita frenetica e turbolenta, giocata nel
fango di quello stadio inglese. Ultimamente ho preso un almanacco del calcio e
ho creduto di aver visto un pacchiano errore, che nel 1973 il Liverpool si era
aggiudicato la coppa, avendo vinto la prima partita 3 a 0 e perduto la seconda
come ho già detto. Sono andato per curiosità a vedere in internet e anche lì
insistevano nell’errore, in più pagine e siti, che roba incredibile! Solo io
ero testimone della verità? Mi è venuto il dubbio che la mia memoria elefantina
avesse perso una zanna o due e così sono andato su Youtube a controllare. Lì ho
finalmente capito che a sbagliare ero stato io, perché a Liverpool il Borussia
effettivamente ebbe un calcio di rigore a favore, ma che il portiere parò e di
qui evidentemente la mia fantasia aveva galoppato, come ogni tanto succede. Poi
i festeggiamenti dei giocatori del Liverpool in Germania, con la coppa Uefa in
mano mi hanno tolto ogni dubbio.”
“Te pensi troppo, dammi
retta, fai come me, lascia pensare gli elefanti, piuttosto, che c’hanno la testa grossa!”
“Sì, ma anche la mia
non scherza. Sempre parlando di calcio, quando militavo negli juniores del
Buonsuolo, a Fornaci di Barga giocammo una partita difficile, non per la forza
degli avversari, ma per la violenza del vento, doveva essere inverno, era anche
freddo. Nel secondo tempo stavo per segnare di testa a due passi dalla porta ma
con una folata improvvisa il pallone girò e mi evitò. Dopo il nostro faticoso 0
a 0 c’era un provino di calciatori più grandi di noi, non solo di età. Se noi
eravamo juniores quelli non so cosa fossero, a quale categoria appartenessero.
Avevano giocato una partita sul campo vicino, poi si misero a fare i tiri in
porta, mentre noi facevamo la doccia e ci preparavamo per tornare a Buonsuolo.
Forse la mia memoria è stata ingannata in qualche maniera dalla mia percezione,
magari dalla mia stanchezza, dal buio che stava sopraggiungendo, ma il fatto
strano era però che quelli erano degli armadi con le gambe, mai visto gente più
forte e larga, le botte che tiravano nella porta erano fucilate paurose. Quando
il mastodontico portiere ne parava qualcuna si sentiva il colpo da lontano, se
prendeva la traversa il pallone poi volava a sparire nel cielo, se sbatteva sul
palo poi si nascondeva nell’oscurità a bordo campo. Del vento loro non se ne
accorgevano neanche. Fatico ancora a capire se era vero o no, eppure me lo
ricordo così, anche le piccole teste dei giocatori, sproporzionate al resto
sembravano quelle delle statue degli eroi greci, anche i capelli riccioluti e i
nasi dritti e decisi, degli atleti delle prime olimpiadi viste su un libro che
avevo una volta, trovato nel mobile in salotto a Mologno, dai nonni, lasciato
da chissà chi e poi perso chissà dove.”
LONDRA
Non era tanto tempo che mi ero interessato al calcio, ma forse
proprio per questo ne ero assai entusiasmato, avevo 13 anni o 14 eravamo nel 72
o nel 73, con mio padre e con monsignor Chieti amico suo facemmo questo viaggio
a Londra. Era sabato, giorno delle partite, mio padre disse che si poteva
andare a vederne una, io ero entusiasta.
Il suo ragionamento era che bastava andare nel Tempio del Calcio
Inglese ed essendoci una mezza dozzina di squadre londinesi in prima divisione,
forse altrettante in seconda, una sicuramente ci avrebbe giocato.
Probabilmente non c'è città al mondo con così tante squadre nella
Prima Divisione Nazionale forse solo Buenos Aires ci si avvicina, si tratta di
due città grandi o grandissime.
Con la metropolitana ci si arrivava in poco tempo, si veniva dalla
linea Grigia alla linea Viola, da Baker Street e dal nostro famoso Sherlock
Holmes Hotel. A Finchley Road bisognava cambiare, per andare sulla linea Viola,
solo che non avevamo capito che esistono due Finchley Road, cioè una è Finchley
Road e basta, l’altra è Finchley Road & Frognal. Quindi abbiamo fatto
quattro cinque volte avanti e indietro, trovandoci sempre e comunque a Finchley
Road. Probabilmente oggi sarebbe indicato in maniera migliore, o magari io
sarei più sveglio. Mio padre è morto nel 1996.
Abbiamo perso parecchio tempo insomma e ci siamo ritrovati, poi
bestemmiando un po', finalmente a destinazione, a un orario approssimativo, che
secondo mio padre doveva essere quello giusto.
Bene anzi male, l'immenso posteggio sterrato era deserto, il
Tempio del Calcio Britannico eccolo lì davanti a noi, tra il giallastro e il
beige, meno maestoso di quello che ci aspettavamo, ma soprattutto non c'era
nessunissima partita. Io mi misi a piangere e il guardiano ci disse che a
Wembley, che era anche il nome del quartiere, giocava solo la nazionale.
A SUO MODO
BARTELLONI
Mio padre era uno studioso
della natura umana, per deformazione professionale e curiosità innata, gli
piaceva mettere alla prova gli altri, molto meno sé stesso. Lo sapeva fare in
maniera che non si offendessero, provocandoli un po’ ma non troppo, almeno
fuori dalla famiglia, lì diventava un elefante in un negozio di cristalli.
Era capace di innamorarsi
letteralmente di una persona nuova, appena conosciuta, di entusiasmarsi per la
simpatia e la genuinità schietta di un essere umano, poi, una volta studiato
meglio, nel suo complessivo, visti gli inevitabili difetti, se ne schifava con
la stessa rapidità.
Per fare i nostri viaggi
turistici, il pover’uomo doveva convincere mia madre per mesi, ma che era
importante, noi dopo lo abbiamo capito. Mi ha insegnato anche ad aprire la
mente, indirettamente, viaggiando o leggendo, insomma pensando a cose poco
convenzionali, per uscire dalla routine e dai pensieri fisiologici e anche
troppo comuni a tutti gli altri.
Mio padre ha fatto il possibile
perché noi aprissimo i nostri orizzonti, anche se poi il suo carattere rabbioso
ce ne chiudeva altri, o gli stessi che lui ci aveva appena aperto. Non riusciva
a controllarsi, specie se aveva bevuto un po’, ma sicuramente ci ha insegnato
tante cose utili, come quella di non limitare mai la nostra idea del mondo al
proprio luogo di residenza, o alle cose che tutti fanno, ma di uscire dalla
realtà di tutti i giorni, di viaggiare anche solo con il cervello e il cuore,
insomma di cercare di manovrare la routine, prima che essa manovrasse noi.
Certo, i suoi modi erano
bruschi, non si poteva contrariarlo, ma sapeva anche essere simpatico, se stava
bene. Quando bevevano, tutti insieme, là alla baracca del lago, venivano fuori
tante storie da raccontare, proprio come sto facendo ora, che più scrivo e più
me ne vengono in mente.
Rodolfo Bartelloni ha pianto
prima di lasciarmi ad Albenga per il servizio militare. Non ha voluto salutarmi
quando sono venuto in Brasile, ma il giorno dopo mi ha telefonato e mi ha
chiesto scusa, poi per lettera mi ha detto che avevo avuto ragione a partire.
Comunque sia, per me non è
morto affatto, ogni tanto viene a visitarmi nei miei sogni e, almeno là dentro,
non litighiamo.
Nessun commento:
Posta un commento