domenica 20 agosto 2023

INFANZIA

 


 

Proveniamo un po’ tutti dalla campagna e se i nostri genitori fossero stati abitanti di una città, forse i nostri ricordi non sarebbero così ruspanti e casalinghi. Per esempio mio padre aveva conosciuto mia madre in una di quelle feste da ballo della Garfagnana, forse a Barga o a Gallicano. Ero nato di conseguenza, come a volte succede in questi casi, la mia famiglia viveva a Marilia, nella casa paterna a tre piani che ora è occupata dalla famiglia di Giorgio, che è figlio di Lorenzo, fratello di mio padre, il quale è stato il primo a morire dei quattro. Poi credo che sia stata Ada, mio padre e per ultima Magali.

A Marilia ci sono rimasto poco tempo, due o tre anni, perché poi ci siamo trasferiti nella casa del manicomio di Miggiano e lì ci siamo rimasti fino al 1967. Prima di venire al Quercione eravamo andati a vedere una casa a Pigna, abbastanza vicino al recinto dell’ospedale psichiatrico. Era una casa vecchia, che doveva essere rimessa un po' a posto, sicuramente una casa abbastanza affascinante, direi ora, ma quel tempo non mi piacque, c’eravamo andati in un giorno di pioggia e mi era sembrata scura, minacciosa. Ero un bambino di circa sette anni.

I ricordi mi vengono giù a rate, senza ordine, per cui vedi che le cose, per come mi arrivano sparse, cerco di seguire una cronologia lineare, ma non mi riesce.

Della casa paterna i ricordi più concreti me li sono fatti dopo, quando visitavo gli zii suddetti, a volte posteggiato là per alcuni giorni, al piano terra, da zia Magali. Il paradiso era però il secondo piano, non perché vi avevo abitato, agli albori della mia carriera di bambino, ma piuttosto perché allora non ci stava nessuno. Era diventata piuttosto una giungla di armadi e casse e qualsiasi tipo di involucri, insomma, che potevano contenere tesori e misteri. Scaffali alti e impolverati, oggetti sconosciuti e scatoloni pieni che non si svuotavano mai. Reti finissime ereditate da ragni che non le avevano costruite personalmente, ma ricevute dai figli di figli di pazienti pescatori d’insetti, nell’oscurità dimenticata, nell'insieme di rumori ovattati di una vita remota che, fuori di là, aveva un altro ritmo e un’altra intensità di luce.

Giocavo sul lastrico di mattoni rossi con i rocchetti di legno di cui anche la cantina era piena, poiché un tempo si erano fabbricati nell’adiacente segheria Milesi.
Li mettevo uno sopra l’altro, facendone costruzioni di stili diversi, per me casuali, perché ancora sconosciute.
Palazzi pieni di colonne che s'allungavano presuntuosamente verso il cielo, come gotiche torri di Babele, a volte si stendevano piuttosto sul terreno come arzigogolate e barocche muraglie cinesi.

Per fortuna o per sfortuna, per quanto riguarda la memoria, quando sono nato la mia famiglia viveva in un manicomio, quello di Miggiano, le prime cose che rivedo, sul telone dietro ai miei occhi, sono di là.
La vita era molto più lenta di adesso, molto più a dimensione umana, c’erano poche automobili e i computer erano chiamati ancora cervelli elettronici, erano enormi e a disposizione di pochi, che però lavoravano per la comunità.

 

 

PER COMINCIARE UN’INFANZIA

 

I mondiali di calcio, oggi come oggi mi servono per ricordarmi cosa facevo in quell’epoca, come era la mia vita, insomma di che cosa mi occupavo. Quei pratici intervalli di quattro anni evidenziano tendenze e confermano (o smentiscono) alcune proiezioni della mia mente o del film di una vita passata.

Nel 1958 il Brasile stravince in Svezia, piuttosto interessante direi, io però non ero ancora nato. Nel 1962 ancora il Brasile in Cile, ma a tre anni non mi rendevo bene conto di che o come, di chi né quando. Finalmente nel 1966 sul Corriere dei Piccoli c’erano le figurine dei calciatori sagomate da ritagliare, ma a quei tempi c’avevo la biciclettina con il manubrio da corsa e mi garbava di più il ciclismo e poi le partite in TV, che era in bianco e nero, non c’erano ancora.

Li avevo già sfogliati curiosamente, prima di saper leggere, anche i fumetti, e sono stati un passaggio essenziale, senza contare che mi piacciono ancora. Forse il mio primo libro è stato la Bibbia dei Piccoli con tante figure a colori, poi Pinocchio, Gian Burrasca anche quelli con le figure. I ragazzi di via Pal, Pecos Bill, Sfida all'OK Corral, Alice nel paese delle meraviglie e Tre uomini in barca forse sono stati i primi senza le figure. La mia fantasia, forse non mi sorpresi nemmeno di constatare, non ne aveva bisogno.

Oltre dieci anni poi ci sono stati progressivamente Moby Dick, Dottor Jekyll e Mister Hyde, Padre Brown, Dracula e Frankenstein.

Al cinema i primi film che ricordo sono stati diversi cartoni animati di Walt Disney tra cui Bambi, La Bibbia di John Houston, Corri uomo corri con Tomas Milian visti a Viareggio al cinema davanti alla Stazione Ferroviaria, Via col Vento a Fornaci alla SMI.

I programmi televisivi possono anche situarti con una certa precisione in una determinata epoca, il peggio erano i commenti di mio padre, specialmente la sera a cena, era l’unico che parlava e di solito quello che diceva non interessava a nessuno.

Il mondo fluttua nell’universo, che dicono addirittura sia infinito, ma non ce n’era bisogno, a riguardo eravamo già abbastanza confusi. Insomma se tutto è in movimento, una specie di fottuta rotazione, ci vogliono dei punti fermi, anche se sono solo ideali, sennò ci si perde nello spazio siderale, ci si può anche bruciare contro uno dei tanti soli, o stelle che siano, ma l’effimera fiammata sulla terra la vedrebbero solo parecchi anni luce dopo.

Quando le coincidenze coincidono troppo allora cambiano nome, confesso che non so come si chiamerebbero, ma avendo tempo e voglia ci farebbero anche riflettere.

Un giorno gli storici magari non capiranno quando scopriranno che da piccolo abitante di Miggiano andavo a scuola a S.Marta in Collina e dopo aver traslocato al Quercione invece andavo a scuola a Miggiano.

La legge Basaglia, senza rendersi conto, mi ha lasciato uscire dal Manicomio e andare in giro tranquillamente fino a oggi, addirittura dopo aver vissuto due anni in Germania e quasi trenta in Brasile.

Là c'era il Puccineli con una elle sola, spiegava che durante la guerra gli avevano impiccato l'altra, magari i tedeschi.

Pino viveva al nostro lato, era portiere e amico di famiglia, ci ha fatto anche dei lavori di muratura in casa poi al Quercione. Suo figlio primogenito è stato compagno di giochi di mio fratello e io me lo ricordo gattonare in quella cucina grande con il blocco dei fornelli in muratura nel mezzo della stanza. Le mattonelle per terra, sui muri e attorno ai fornelli erano di un marroncino tipo cannella. Era giorno ma la luce era fioca, il soffitto era basso, c’era solo una finestra piccola in alto. Franco faceva la pipì e la popò per terra e lì ci buttavano la segatura, poi la spazzavano.

Abitavamo dentro al Manicomio, là ho conosciuto Mauro, abbiamo giocato insieme a pallone in giardino prima ancora di andare a scuola. Abbiamo fatto buona parte delle elementari assieme, poi le medie e un anno di liceo scientifico.

Suo padre era assai simpatico e calmo, amico di mio padre, hanno studiato insieme all’università, vivevano nella stessa stanza in affitto, però papà si lamentava per le sue eccessive scorregge. Ciò nonostante suo padre ha frequentato il mio fin quando è morto, tutti e due sono ormai defunti, ma prima il mio se la memoria non m’inganna.

Alla fine della giornata io facevo sempre la pipì a letto e questo mi faceva sentire ancora più piccolo e indifeso tanto che mio fratello Umberto, più giovane di me, non aveva paura di dormire da solo e cercava di rincuorarmi dicendo che i fantasmi non esistevano e io al solo sentire quella parola mi sentivo peggio ancora.

Le macchine avute in famiglia possono darmi un’idea del tempo e delle situazioni, ricordo che una Seicento verdolina cercai di farla sbatacchiare contro il padiglione delle donne, al Manicomio, togliendo il freno a mano in discesa, ma mio padre saltò dentro e riuscì a evitare il peggio. Dovevo avere quattro o cinque anni.

La Simca 1100 la collego alle serate alla baracca a Massaciuccoli, aveva un portabagagli capiente per i vari recipienti, per portare i pesci vivi a casa, quindi in un’epoca confinante avevo già anche il vivaio in muratura.

Marzio sarebbe diventato un amico di Mauro, ma non si erano ancora conosciuti. Avevamo fatto la seconda elementare insieme poi in quarta liceo scientifico ci siamo ritrovati. Quando andavamo all’asilo dalle suore di S.Marta, lui aveva anche la parte del budino, nel senso che io non ne avevo diritto, forse i miei pagavano un po’ meno e io avevo accesso alla pasta al pomodoro, per esempio, ma al budino no, la pasta era schifosa ma il budino al limone invece era buono assai e io avrei invertire quella tendenza, ma non si poteva.

Avrei rinunciato volentieri anche agli schiaffi di suor Loretta, ma anche a quelli non si poteva dire di no. A volte si metteva all’entrata del cancellino e tutti quelli che arrivavano prendevano la loro dose.

Dalla scuola all’asilo ci saranno ancora quei duecento, trecento metri al massimo, quando si usciva c’era una gara a chi arrivava primo all’asilo, che vinceva sempre Marzio e io secondo, ma a volte lui doveva andare dalla zia, che aveva una cartoleria lì accanto e allora mi mandava a prendere il suo posto di primo arrivato.

Nel 1970, con l’entusiasmo attorno per l’Italia in finale, mi sono fatto contagiare e probabilmente visto che vivevamo al Quercione, avevo cominciato anche a giocare a pallone nel campo sotto la chiesa.

Sicuramente nel 72 ero già un appassionato di calcio, seguii le partite degli Europei vinti dalla Germania, uno squadrone! Facevo l’album delle figurine, che riuscii anche a completare, mi ricordo i pittoreschi scambi in via Fillungo, sotto la scuola media Carlo Del Prete: Ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho, doppione tre volte… mi manca!

Per un periodo abbastanza lungo il sabato si andava a giocare a pallone dietro casa sua, a S.Mario, anche con Roberto. Mauro c’aveva un campetto dove si sono fatte delle sfide notevoli. Sono stato più costante, ma all’inizio io ero il peggio dei tre, sono diventato il meglio, anche perché poi loro hanno smesso.

Roberto era nato in una casa tra i campi, dove vive ancora, che è stata una delle poche vendute dai frati, di solito preferiscono affittare. La Certosa è a duecento metri e lì c'è il famoso viale cipressato che apparirebbe certamente tra le cartoline del Quercione se mai esistessero.

Roberto è un curioso per natura e non c'è nessuno al Quercione che non lo conosca. Cacciatore e pescatore appassionato, da bambino sparava già con il fucile di suo padre e qualche volta siamo andati a caccia vicino a casa sua in mezzo ai campi di granturco.

Beveva il vino che si portava anche a scuola in una bottiglietta per la merenda. Suo zio Ugo aveva un motorino Garelli, di quelli con il serbatoio in discesa e lui apriva il tappo della benzina e ci si metteva sopra sdraiato ad aspirare con il naso.

Mangiava i girini per fare il bravo e si metteva anche i pesci in bocca per assaporarne la fragranza, ma poi non li mordeva. Tra tutti era il più quercionesco, campagnolo e ruspante. Una volta si tuffò di testa nel laghetto sotto casa mia e si piantò nel fango.

Ho fatto dalla terza alla quinta con lui a scuola a Miggiano e c'era anche Mauro. Insieme poi noi tre abbiamo cominciato a giocare nel Nave, categoria giovanissimi. Il più dotato era proprio Roberto, all’occorrenza era anche un bravo portiere, nella prima partita fece subito due gol, ma smisero tutti e due quasi subito, Mauro e Roberto. Invece io fin da adulto ho insistito, fino a spaccarmi la faccia, nel 1990 in uno scontro aereo, lì ho capito che era il momento giusto per appendere le scarpette al cosiddetto chiodo.

Rinaldo era arrivato dopo, là oltre il laghetto, la prima volta che l’ho visto ha messo in fuga i presenti. Già a quei tempi non stava zitto un secondo, con il tempo ha aumentato il ritmo, il volume e tagliato le già scarse pause.

Non lo conoscevo ancora e già mi aveva impressionato, con il suo ritmo e la sua parlantina.

Quei ragazzetti si erano nascosti, ma come potevano salvarsi? Andavano lì tutti i giorni, lui lo sapeva che erano lì. Li aveva visti da lontano, si era messo seduto tranquillamente su un tronco, nel senso che non aveva fretta di andarsene, ma la tranquillità quella, purtroppo…

Ero ancora alle elementari, ma lui pur essendo del 1959 come me, andava alla scuola di S.Mario, perché viveva là e io invece a Miggiano, perché ero del Quercione, tre paesi comunque vicini e confinanti.

Ho conosciuto gente, specialmente in Italia ma non solo, per cui parlare è un po' come respirare. Se dovessero stare zitti morirebbero per mancanza di ossigeno, non c'è niente da fare. Rinaldo era un ribaldo perché urlava e parlava tanto che ti annichiliva, da adulto poi ha mantenuto le aspettative.

Quando la sua casa era in costruzione io ci andavo a giocare dentro e sono stato accusato anche di aver rubato un trapano, da un muratore napoletano, ma non ero stato io.

Tra le tante bischerate che diceva alcune erano simpatiche, il suo teatro contemporaneo aveva successo con femmine e maschi, faceva divertire assai i bambini più grandi di noi e inscenava piccole commedie improvvisate anche al freddo invernale della fermata dell’autobus alle 8 la mattina.

Siamo stati inseparabili per anni, io parlavo poco e quindi eravamo una coppia perfetta.

 

 

AMICIZIA

 

La nostra amicizia funzionava perché aveva interessi comuni: pescare nel laghetto, giocare a pallone, esplorare boschi e insomma tutte le cose che fanno i bambini quando sono abbastanza liberi, ma con un raggio di azione che ora se lo sognano.

Prima di tutto oltre che a piedi ci muovevamo in bicicletta, senza limiti né proibizioni, poi con il Ciao, lui ce ne aveva uno arancione, nel mio caso era un Bravo marrone e beige.

Mio padre, dopo insistiti lamenti, ci aveva comprato un motorino usato con le marce, dai Briganti di Vignavecchia, che erano i nostri benzinai e meccanici di fiducia, si fa per dire, perché erano un po’ grossolani e se c’erano dei guasti al motore cambiavano subito in blocco i pezzi, senza perdere tempo a capire se era lì il problema, o meno ancora ad aggiustarli.

Più volte ho rischiato per la loro incompetenza, inutile negare che anche noi eravamo ignoranti nel giudicarli, sennò avremmo cambiato meccanici.

Insomma con questo motorino avevamo difficoltà a cambiare le marce e facevano delle sfollate formidabili, che si sentivano da chilometri di distanza e facevano sobbalzare la gente per lo spavento. Ricordo le faccette che faceva mio fratello quando si guardava intorno per vedere se c’era qualcuno che lo aveva notato.

Roberto disapprovò aspramente la nostra decisione di cambiarlo con un motorino senza marce, che poi fu una scelta azzeccatissima, alla luce di anni di fedele locomozione economica e senza problemi, ma quando la gente dice di non fare una cosa di solito è quella la scelta giusta, questo poi è diventato un po’ il motto ispiratore della mia vita.

Quando al Quercione è arrivato Rinaldo Biancucci avevamo circa undici anni, avevamo terminato le scuole elementari e ci apprestavamo a cominciare le medie. Il gruppo di ragazzetti di cui ero, senza volerlo, il capo, era basato sul sodalizio con Roberto Ambrosini che era una specie di mio vice, nel senso che era più sveglio di me, ma io ero più grosso e poi lui non aveva i fondamenti necessari per essere un leader. Per esempio se si giocava a soldati romani improvvisamente tirava fuori un mitragliatore e ci faceva la figura dell'ignorante, anche se poi non tutti gli altri se ne accorgevano. Con l'avvento di Rinaldo che era più sveglio, loquace e prepotente anche di lui, insieme a me che ero fisicamente più forte, più pieno di interessi e di quella cultura minima necessaria, Roberto fu scalzato.

Vicino a noi abitava un signore che lavorava alla Perugina e bruciava le cioccolate scadute sotto casa, anche delle scatole di Baci o di cose ancora confezionate. Ogni volta a bruciarle ci provava, ma appena se ne andava, noi intervenivamo tempestivamente. Dicevano che facevano male a mangiarsele, le cioccolate scadute, ma a noi non ce ne hanno mai fatto.

La frutta era disposta sul territorio, oltre che sugli alberi, in una certa maniera strategica e in determinate stagioni, che ormai noi avevamo assimilato, catalogato e mappato, in maniera che difficilmente potevamo dimenticarci di qualcosa nell'epoca giusta e nel posto opportuno.

Le susine ce le avevamo vicino a casa e bastava scendere lungo e verso il fondo del laghetto, le mangiavamo acerbe e mature, senza tralasciare le intermedie. Le pesche erano là dai frati e ce n'erano anche di quelle grosse, dure e bianche dentro. Le ciliegie, dal sarto e dal Caproni, che ci elargiva anche le mele e le pere, di uva ce n’era tanta e a portata di mano, ma l’uva fragola era più rara e buona, bisognava starci un po’ più attenti.

Insomma non ci mancava niente, bastava andare al momento giusto nel posto giusto e tutto era a disposizione, se avevamo un vuoto di memoria la nostra continua perlustrazione ci ricordava cosa e come, dove e perché.

I padroni non sempre erano comprensivi, ma non ci hanno mai preso a fucilate, anche perché, per via di ogni dubbio possibile, eravamo felpati nei passi e rapidi nell’azione.

Di capannelli ne abbiamo avuti diversi: al manicomio c'erano dei finestroni abbandonati ma in perfetto stato, mettendoli insieme erano un bel rifugio, ma si vedeva tutto dentro e questo andava contro i taciti fondamenti di un buon capannello.

Al Quercione un capanno sulla strada sterrata che portava al laghetto rimase il nostro rifugio per un po' di tempo e ci si teneva sempre un barattolo grande di Nutella.

Il salottino sull'albero era a picco sul laghetto e si andava su con dei gradini di tavolette inchiodate direttamente sul fusto di un alto pioppo, i cui rami erano messi così bene che inchiodato un vecchio tavolino di finta fòrmica su due di loro, messi quasi pari, sui lati altri due grossi paralleli rami facevano da panche.

Se si cadeva sotto c'era l'acqua bassa, sotto ancora parecchio fango, ma non credo che i genitori moderni permetterebbero ai figli di andare su a cinque o sei metri di altezza.

Per giocare a pallone c'erano innumerevoli luoghi, sotto casa la struttura del terrazzo era una porta perfetta, prima ancora la porta del garage, ma si faceva troppo rumore e quando c’era mio padre non si poteva.

Stessa cosa nello spazio tra la casa e il muro alla sua sinistra, lì si usava un pallone più piccolo, ma le botte contro la canala erano considerevoli.

Sulla strada c'era il problema delle automobili, non si capiva perché dovevano passare continuamente proprio di lì. Poi Rinaldo, che faceva i cross per i miei colpi di testa, forava spesso e volentieri il nostro bel pallone Yashin, di solito marrone, appena comprato alla cartoleria da Lola, sulle punte della cancellata del Pelliccia.

In precedenza anche il piazzale cosparso di ghiaino della chiesa è stato usato per un bel po'. Andavamo alla dottrina e lì ci si poteva giocare, usando come porte i due tigli dalla parte più in basso e di sopra lo spazio tra la statua ai caduti e la scalinata della chiesa. Non veniva considerato che la squadra che aveva la fortuna di giocare in discesa e con la porta più visibile, tra i due grandi alberi, vinceva sempre.

Nel campo sotto la chiesa agli stessi due problemi si aggiungeva quello della strettezza progressiva verso la porta in salita, molto in salita e l'erba anche era troppo alta, frenava gli attacchi e favoriva assai la difesa da quella parte.

In più poi quella porta non aveva la traversa e per chi difendeva ogni tiro non rasoterra era purtroppo da considerarsi alto e lì ho capito che le interpretazioni sono sempre molteplici, anche quando la verità è univoca ed evidente, non solo per incompetenza, ma anche per una apparentemente confortevole disonestà.

La musica anche potrebbe essere uno scheletro del passato, per esempio: quando esattamente ho cominciato a registrare le canzoni alla radio con il microfono e il registratore a cassette? Penso che fosse intorno al 1974, forse anche nel ‘73.

Un giorno stavo ascoltando alla radio una canzone che io credevo fosse dei Beatles, ma quando arrivò Mauro mi disse che invece erano i Bee Gees, My World, ho scoperto in seguito.

Quando comprai i primi dischi, due doppi antologici dei Beatles, Rinaldo disse che ero scemo, ma poi anche lui fece la stessa cosa, cominciò a spendere i pochi soldi che aveva nei dischi di vinile, che a quei tempi i Ciddì non esistevano ancora.

Quando io mi feci comprare un modesto stereo di un catalogo per corrispondenza, pure disse che ero stupido, passò qualche tempo, ma lui poi se ne fece regalare uno super mega.

I Pink Floyd, i Jethro Tull, i Crosby Stills Nash & Young e Cat Stevens per la prima volta in alta fedeltà, li ho sentiti a casa di Mauro, erano dischi di suo fratello maggiore, ma piacevano anche a lui.

Questo mi fa ricordare che studiavamo insieme a Marzio, era il 1976 ed eravamo in quarta al liceo scientifico, giocavamo anche a pallone nel campetto dietro casa di Mauro, ma io avevo già anni di calcio nelle squadre di Nave e Aquila Sant’Anna, dove avevamo vinto il campionato provinciale allievi e io ero stato uno dei migliori nella trionfale fase finale, facendo tre reti importanti.

Nel 1974, prima del mondiale, avevo cominciato anche a fare l’album relativo. Sento ancora l’odore delle figurine autoadesive la sera al tavolo mentre i miei genitori guardavano il Rischiatutto e la canzone Non gioco più, era la sigla finale, di Mina.

Roberto e Rinaldo non sono mai andati d'accordo, ancora oggi vivono a poche centinaia di metri di distanza, ma si ignorano completamente.

È vero che c’è stata un’epoca in cui salavano insieme, a scuola, d’accordo, ma non è durata molto tempo.

Roberto era una peste da bambino, magari più degli altri, lo chiamavano anche Fistio per via del suo forte e improvviso lacerante sibilo da pastore, lanciato trai denti davanti.

Assieme a mio fratello Umberto andarono avanti e indietro, da casa a Marina di Massa alla roulotte di Giuliana, moglie di Vicente il Pelliccia, uomo assai simpatico morto giovane di cancro. Quando erano là non vedevano l’ora di tornare a casa e viceversa.

Un capitolo a parte merita Rosanna, la figlia di Vicente e Giuliana, di cui mi ero innamorato all’inizio, ma lei non mi volle e aveva anche ragione, ero un biscarotto, rozzo e infantile. La sua era una bellezza un po’ differente dal solito, sembrava una principessa berbera, ma era anche furba e simpatica in maniera naturale, come suo padre.

Nel frattempo altri bambini erano venuti ad abitare al Quercione. Patrizio era un precursore in fatto di bullismo, una parola che non esisteva ancora, almeno da noi. All'inizio ci dicemmo che lo dovevamo difendere, poiché era manifestamente più debole. Successivamente picchiarlo diventò un passatempo, quando non c'era niente da fare, io ne ridevo ma non partecipavo. Più che altro era Giacomo, altro nuovo al Quercione, ma un po' precedente, oltre a mio fratello Umberto. Questi due formarono un sodalizio piuttosto negativo, tanto che Giacomo, proveniente da Massa Carrara, finì più volte in galera e una volta adulto sua madre ce lo portò, un giorno, a vedere se con noi parlava. Era diventato grande e gonfio, ma non aprì mai la bocca e giammai cambiò espressione.

La madre era una bravissima persona, ma il padre e i fratelli avevano precedenti penali e un aspetto losco e perennemente incazzato. Elisona lavorò da noi come donna di servizio per qualche anno, era simpatica e più che sovrappeso e quando mio nonno le disse che era una bella donna, lei diventò rossa e tutti si misero a ridere. Negli ultimi tempi al Quercione Giacomo ci rubò tutte le macchinine di ferro, quando noi eravamo al mare, non ne abbiamo mai avuto conferma, ma sicuramente era stato lui, perché aveva libero accesso alla nostra casa per via della madre. Poi crescendo, anche fisicamente, diventò prepotente finché una volta i bambini di Miggiano e del Quercione si riunirono e lo pestarono per bene.

Visto che la nostra attività maggiore per un certo periodo fu pescare nel laghetto del Caproni, sotto casa nostra, conoscemmo e frequentammo diversi bambini e adolescenti che venivano lì per quello. Tra i quali c'era il Salvani, ora già morto per complicazioni da alcolici o cose del genere. A quei tempi aveva un motorino Garelli come quello di Zio Ugo, e gli aveva foderato il sedile con una pelliccia bianca di pecora, c’aveva messo degli specchietti più lucidi e il risultato era una solenne pacchianata, che comunque a noi - che andavamo in bicicletta - ci piaceva e glielo invidiavamo addirittura.

Enzo era prepotente a volte, ma simpatico e abbastanza umile per mischiarsi a noi, assai più piccoli di lui e passavamo le giornate a pescare. Lui andava anche a pescare in fiume, cosa che noi invece noi non facevamo. Accadde più volte che irritato dal comportamento palloso di Rinaldo e di Roberto, Enzo ebbe a buttarli dentro il lago. Una volta addirittura la canna telescopica con il mulinello di Roberto, fu lanciata ai pesci. Il bambino si mise a piangere, ma era stato più volte avvertito.

A seguito di Enzo tanti altri ragazzotti di Miggiano, suoi amici, arrivarono e frequentarono il laghetto per anni tra cui uno era Mazzino che era un rompiscatole, nel senso buono, bravo ragazzo, ma ingarbugliatore di lenze sue e altrui, manualmente piuttosto imbranato, tanto che Enzo creò il modo di dire: se vuoi fare casino chiama Mazzino 3 1 3 1.

I gobbi o persici sole sono state le nostre prime prede, erano facili da pescare, si potevano prendere anche con un secchio, specialmente nella stagione del frego, a primavera. I maschi avevano le pinne fosforescenti e all'ombra si vedevano solo quelle muoversi ipnoticamente. Facevano una specie di conca nella ghiaia fina, vicino alla riva, lì dovevano poi portarci le femmine a metterci le uova. Anche al lago di Massaciuccoli c'erano questi pesci assai colorati di origine americana che al massimo arrivavano a un palmo e non avevano valore alimentare perché erano pieni di lische.

In precedenza il negozio di giocattoli era stato il nostro favorito. Una volta al 48 a Viareggio zio Albo d'Inghilterra mi portò a scegliere un regalo. Io non avevo ancora capito bene come funzionava quella cosa strana di fare i complimenti. Nessuno mi aveva spiegato che bisognava solo fingere di rifiutare, ma poi accettare. Le offerte là dentro erano veramente tante, costose e belle, ma non presi niente, tra lo stupore generale. In un primo momento mi sentii un eroe e poi, in maniera definitiva, un fesso.

Con il tempo e il cambiare degli interessi il negozio di caccia e pesca diventò il mio preferito, ma solo la parte delle canne e relative attrezzature venatorie, senza interessarmi ai fucili e alle cartucce, anche perché i pesci io li ammiravo nei vari vivai che di volta in volta mi costruivo con grossi pezzi di nylon, per imparare che bisognava cambiargli l'acqua ogni tanto, che troppo al sole i pesci morivano, che granchi, gamberi e pesci di mare anche.

Mi accorgo che con la musica ho un'infinità di ricordi, mio cugino Saverio mi fece curiosità parlando di PFM, Genesis Emerson Lake and Palmer, quando non li conoscevo ancora. Penso che fosse in vacanza a Mologno, viveva già in Venezuela.

Le prime canzoni dei Beatles, David Bowie, Dylan e Bee Gees le ho registrate alla radiolina con le cassette.

Frin frin di Tony Renis e Un giorno dopo l'altro di Tenco erano sigle della serie televisiva di Maigret.

La canzone di Dalla, 4 marzo 1943 l'avevo ascoltata fuori dalle medie in via Fillungo, alla scuola Carlo Del Prete.

Lo zio Rolando è stato un cantante famoso in Venezuela, prima ho sentito i suoi dischi e le sue canzoni romantiche, poi l'ho conosciuto di persona e mi è garbato anche lui. Pare che sia stato ammazzato a colpi di machete e che fosse omosessuale, ma sono voci che non so se corrispondono a verità.

Un suo LP in particolare lo sentivamo tutte le sere a letto con un giradischi portatile rosso. C’era anche una di quelle borse a fisarmonica con 45 giri di Morandi, Rita Pavone, Claudio Villa, Johnny Dorelli e altri che forse era stata di mia madre. Avevamo anche un mangiadischi, pure quello rosso, ma gli Ellepì non c'entravano.

Mio padre dalla Francia mi aveva portato un 45 giri che cantava canzonette francesi, penso ricavate da filastrocche tradizionali, sulla copertina colorata e plastificata c’erano disegni e i testi. Io non ci capivo granché, ma mi piacevano, ci immaginavo situazioni e scene transalpine.

Da bambino e poi da adolescente sono stato in Inghilterra, la prima volta solo a Londra, la seconda fino in Scozia e al Loch Ness. Avevamo parenti a Carlisle, proprio vicino al confine a nord, alcuni di loro veramente simpatici.

Quando venivano in Italia per le ferie, le donne come gli uomini, bevevano come dannati mischiando tutto. Anche i nonni avevano vissuto là da giovani, insieme ad altri parenti e alcuni di loro ci si erano arricchiti, per tornare a Mologno o a Barga. I nonni per fortuna invece non avevano fatto i soldi, erano tornati prima e non erano diventati antipatici.

Mio padre normalmente era ostacolato da mia madre nei suoi progetti di viaggi futuri, ai quali si era abituato forse per i congressi dei medici, in giro per l’Europa, a volte anche fuori, nei quali era sovvenzionato dall’associazione.

Ogni anno voleva andare da qualche parte, meglio se all’estero. Mamma non era così appassionata di cose per le quali si spendevano soldi e doveva convincerla con un lavorare di lima e stucco, per mesi e mesi.

Praticamente un anno prima cominciava a scassare i cosiddetti e intanto preparava il viaggio sulle cartine, su guide come il Touring Club e poi se le studiava durante e dopo, diceva che così viaggiava tre volte.

Io non ci volevo andare, ma poi mi garbava, anche se non lo confessavo si vedeva. Il rapporto con mio padre non è mai stato facile, non sempre per colpa sua.

Una volta a Londra non volevo uscire dall'albergo perché c'era una partita di seconda divisione alla TV, Millwall-Qpr 0 a 0 !

Alla fine era un burbero benefico, la passione per i viaggi ce l’ha tramandata un po’ a tutti e tre i figli, ma la parte buona l’ho scoperta troppo tardi, forse perché voleva fare il prepotente e i tempi stavano cambiando, i padri padroni erano già in disuso.

In Inghilterra la birra gli piaceva ma non troppo, quando trovava dei negozi di prodotti italiani ne approfittava e faceva dei piccoli stock di bottiglie di vino, sia in Inghilterra che in Scozia. A Glasgow trovò un negozio la mattina e per tutto il giorno ci caricò un po’ troppo. Mio fratello Umberto si lamentò con lui dicendo la frase che poi rimase negli annali:

“Compra sempre le vernacce e poi ci tocca portarle a noi.”

Effettivamente le bottiglie erano diverse e pesanti, portarle tutto il giorno, su e giù nelle nostre lunghe camminate da turisti era una tortura.

 

 

 

GASTRONOMIA

 

Un cenno sulle mie abitudini alimentari può giovare forse a capire un'indole pigra, ma piena di attività mentale, che poi sfociava in un conseguente movimento, che è sempre stato cercato e ottenuto in funzione del piacere, che ho più o meno sempre provato per l'attività, non frenetica ma abbastanza continua. Lo sport per esempio mi stimolava degli appetiti considerevoli, specialmente il calcio, ma poi il tennis e la corsa, camminate in seguito, da anzianotto.

Da bambini, la sera caffelatte e Biscotti Della Nonna o Bucaneve per anni, per un certo periodo cracker imburrati, ne ricordo anche l'uso mattiniero a Valbona

Ho sempre mangiato tanto e un po' di tutto, il pesce l'ho iniziato ad apprezzare a Berlino, forse perché prima veniva cucinato male e lì invece no, al ristorante La Marmora. Anche a periodi, ma ho mangiato di tutto e piuttosto alla svelta e quindi ora in vecchiaia ho problemi di digestione. Non mi sono mai piaciuti: la cacciagione, il fegato, la trippa e i cetrioli.

Mio fratello Umberto da piccolo ha passato periodi lunghissimi mangiando solo una cosa, sempre quella. C'è stato il periodo delle patate fritte, quello degli spaghetti alla pomarola e per ultimo quello dell'uovo al tegamino.

Mio padre spesso diceva che mia madre passava poco tempo cucinando. La povera donna, oltre a fare il suo lavoro di maestra elementare, ci faceva da mangiare a tutti e a volte avevamo cinque pietanze differenti. In vecchiaia il cibo per noi era rimasta la sua ossessione, anche molto tempo dopo aver smesso di cucinare. L’alzheimer le aveva oscurato tanti ricordi e pensieri, ma le sembrava che fosse sempre domenica e doveva per forza prepararci qualcosa di speciale.

La cena di natale da noi più che altro era un pranzo, che si faceva il 25, il 24 significava la Messa del Gallo alla quale a volte andava anche mio padre, per motivi romantici. Dalla nonna, a Mologno, preparavano montagne di roba, a noi bambini non ci piacevano molto, eravamo abituati a una cucina molto più raffinata. Per esempio il pomodoro del sugo di carne doveva essere rigorosamente senza pelle.

Mio padre non mangiava il pollame, la cacciagione e il pesce. La domenica e per le feste comandate mia madre doveva preparare qualcosa che andasse bene per tutti, ma non era affatto una faccenda semplice. Di solito erano i tordelli, gli gnocchi, le lasagne, tutti fatti in casa da lei, con il famoso sugo di carne, che gli eventuali ma rari ospiti apprezzavano anche parecchio. Di secondo l’arrosto di manzo o il polpettone, patate arrosto. Talvolta i quadri di mio fratello servivano da ripiano per fare la pasta casalinga, per le lasagne e i tordelli. E poi anche gli gnocchi di patate, che non sono più riuscito a trovarne di paragonabili da nessuna parte. Insomma mia madre cucinava bene assai e faceva tutto a occhio, quasi mai seguendo le ricette nelle quantità.

Nelle vacanze a Lido di Camaiore mi ricordo il ristorante Da Beppino, il quale dicevano che era omosessuale e che aveva lavorato in altri ristoranti famosi, ma che poi aveva aperto questo abbastanza inusuale, perché si apparecchiava in mezzo a un campo a mezzogiorno, con degli alberi alti intorno che facevano ombra perché era agosto, era un caldo bestiale e lui portava da mangiare alla numerosa gente seduta a questi grandi tavoli in mezzo a un campo.

Vedo ancora lui magro abbronzato con pantaloni neri e camicia bianca, mi pare che fosse l’unico a servire e doveva galoppare assai, ma era bravissimo. L’idea era buona, e soprattutto si mangiava bene, abbastanza rustico e campagnolo. Della pastasciutta al sugo di carne, striscine con patate o insalata, mai niente di molto complicato, però era tutta roba sana e si stava bene, via, era un tipo di atmosfera differente da tutti gli altri. Chissà come è andata a finire, ho domandato in giro ma nessuno si ricorda.

La mattina presto al bagno Ninetta era fatta di mare liscio e di rumori caratteristici come quello dei pescherecci di ritorno a volte. Egisto era il bagnino, aiutato da ogni tipo di volenterosi passava la sciabica per pescare pochi pescetti e noi bambini anche tiravamo dai due lati la grande rete. Una volta gli dissi che mia madre aveva detto se ci poteva dare delle triglie e lui bestemmiò trai denti, perché ce ne saranno state due o tre, piccolissime, erano biancastre ma si riconoscevano per le pinne rosse e per i barbigli.

Una notte mio cugino Saverio ospitato da noi per qualche giorno, mi chiese, mentre dormivo, perché non mi comprassi un carro armato. Io continuando a dormire - e questo me lo ha raccontato lui, perché io non ne avevo nessuna memoria - gli ho risposto di no, che in effetti non mi serviva.

 

 

 

 

 

ZIA MAGALI

 

Erano i tempi di guerra e subito dopo, c’era tanta miseria, secondo mio padre, a casa Bartelloni si preferivano le mele marce alle buone, tanto per non buttarle via. Mentre mangiavano quelle, marcivano anche le altre.

Questo un dialogo spesso ripetuto tra nonna Gianna e sua figlia:

- Com’è cattiva questa mela, la vuoi Magali?
- Se è cattiva, la devo mangiare io?
- Ma non è proprio cattiva, insomma... magari è perché non ho più fame, allora, la vuoi o no?

E lei la prendeva e la mordeva, più che altro per bontà, più che altro per vocazione, per religiosità.
La mangiava, anche se non aveva fame, perché, se non lo faceva, si doveva buttare via... ed era peccato mortale.

È sempre stata molto cattolica, Magali, ma non per mostrarsi fedele alle leggi di Dio, lo era nel profondo, alla lettera.

Puritano il suo modo di vedere le cose, non ha mai avuto un uomo, non ha conosciuto il sesso, o l’amore per una persona che non fosse quello per qualcuno della famiglia, o per qualche amica.

Sua sorella Ada era una bella ragazza ed era considerata di più, magari lo meritava meno di lei.
Le sue amiche erano due sorelle zitellone, che da giovani e poi da adulte possedevano e gestivano un deposito di dolcetti, di generi alimentari e per la casa, per cui erano soprannominate le Deposite.

Erano famose per la loro ignoranza, oltre che per i ramificati pettegolezzi e morirono vergini anche loro.

Una volta venne fuori una voce che mio padre aveva un’amante. Mia zia telefonò a mia madre, perché la colpa era sua, secondo Magali, che lo trascurava, che lo aveva obbligato a fare una cosa del genere.

Mia madre non riuscì nemmeno a dire una frase, fu investita da un treno di parole che finì solo quando mia zia riattaccò il ricevitore.

Zia Magali veniva in visita da noi e ci rimaneva a volte per giorni, oppure noi bambini venivamo lasciati un po' da lei, a Marilia.

Quando mio padre si ammalò lei rimase per quasi un anno a casa nostra al Manicomio, col mio fratellino Umberto, mentre io e mia madre stavamo a Valbona cinque giorni su sette.

Io le dicevo sempre che quando sarei diventato ricco l’avrei mandata a prendere con la mia limousine, per venire a stare a casa mia.

Poi ricco non sono mai diventato ed è stata lei, invece, che ha lasciato a tutti noi nipoti qualche bel milioncino di vecchie lire, quando è morta.

Parlava sempre della gente del paese di Marilia, che però noi tutti non conoscevamo. Pure mio padre, spesso, non si ricordava e si arrabbiava come una bestia, quando lei insisteva nel volergli spiegare chi era quel tale all’ospedale o quell’altro, appena morto, stanco della giornata di lavoro, voleva solo stare in silenzio a guardare la televisione.

Andavamo in giro con la mente, quando lei partiva per tutta quella serie di ragionamenti, che anche quando c’impegnavamo a farlo, avevamo difficoltà a seguire.

Quella sfilza di gente che noi non avevamo mai conosciuto, era troppo lontana dal nostro mondo, anche se il paese dove lei e mio padre erano nati e cresciuti non era a più di quindici chilometri di distanza.

Uno dei protagonisti principali dei racconti era il prete di Marilia, il Piovano, che siccome stava nella Pieve, lei chiamava Pievano. Storpiava alcune determinate parole, diceva telefanare invece di telefonare e polistirolo invece di colesterolo.

Quando per la prima volta vidi i dinosauri nell’enciclopedia Conoscere, ne rimasi impressionato e chiesi a mio padre com’erano, cosa ci facevano sul nostro stesso pianeta, la gente come poteva convivere con quei mostri?

Mio padre rise di gusto e disse che lui non era ancora nato, purtroppo, ma avrei potuto chiedere a zia Magali.

Così andai da lei ansioso di avere una risposta.

Magali sorrise e disse che non era poi così vecchia. Non c’era rimasta male, mi resi conto molto dopo che non c’era niente in lei di vanitoso.

Quando mia zia nacque, la famiglia era alla sua terza esperienza, avevano già un bambino e una bambina, era appena finita una guerra, alla prossima mancavano ancora venti anni, ma loro non ci pensavano, non potevano saperlo. Le attenzioni si allontanarono subito da lei, non ci sarebbe nemmeno stato bisogno che nascesse un quarto e ultimo figlio, mio padre, perché ci se ne dimenticasse.

Sia fisicamente che moralmente dovette battersi per conquistare il suo posto, anche se non era un granché, lottò ancora di più per abituarcisi. Sviluppò le sue qualità internamente, non erano virtù brillanti, ma piuttosto una certa resistenza alla sorte avversa. La sua vita è stata più continua e coerente di tante altre, non tanto per scelta, ma quasi per condanna.

Attraverso la testardaggine, tipicamente italiana e peculiare talento di famiglia, la sua missione sulla terra è stata chiara fin dall’inizio: viveva per il bene degli altri, dando poca importanza a sé stessa.

Zia Magali era grassoccia, almeno da adulta, camminava con passi incerti, usava il bastone bianco dei ciechi, negli ultimi tempi. A volte cerco d’immaginare come era il mondo visto da lei; secondo le sue parole era un carosello di ombre grigie. Non conosceva i colori, i rammendi che faceva ai calzini provocavano la rabbia di nonna Gianna.

Gli occhi di zia Magali erano belli e celesti, grandi e luminosi, ma si vedeva che non vedevano, almeno non nella maniera comunemente intesa. Ho visto le sue foto, quando era piccola, aveva un viso grassoccio, il naso largo, gli occhi ingigantiti da lenti spesse. La vista da bambina era poca, ma è andata peggiorando col tempo, se prima poteva leggere accostando le parole agli occhi, se poteva uscire e camminare, con una certa prudenza e cadendo, a volte malamente, col passare degli anni, tutto è progressivamente degenerato, finché in vecchiaia non leggeva più nulla e camminava sempre meno. Usava la televisione come se fosse una radio, non poteva più uscire di casa da sola senza troncarsi una gamba o fratturarsi un braccio.

Andava avanti senza dare troppa importanza a quello che non avrebbe mai avuto, non ha mai saputo nemmeno come erano fatte certe cose. Non conosceva piaceri vani, scarsamente durevoli, che facevano diventare le persone altezzose, vanitose. La fortuna di Magali è stata il non sapere nemmeno da che cosa sono costituite le situazioni vuote di cui molte persone riempiono la loro vita.

Se da una parte le sono mancate la vista e la bellezza, dall’altra le sono cresciuti altri attributi. Le ho voluto un gran bene, non perché fosse mia zia, ma forse perché era diversa da tutti gli altri, ho sempre sentito un contatto buono con lei, qualcosa di confortante.

È morta già da qualche anno, ma per me è ancora viva, perché noi abbiamo sempre comunicato fuori e oltre le parole, forse perché ci vedeva sempre peggio, la sua idea di me era una cosa che non aveva bisogno di apparenze.

I suoi modi non erano gentili, ma nemmeno scortesi, diciamo che non faceva troppe cerimonie.

Mi ricordo zia Magali tutta rugosa e con quel naso largo, i suoi labbroni, i suoi occhiali dalle lenti spesse le ingrandivano quegli occhioni che pareva che non vedessero, ma che alla loro maniera vedevano più degli altri.”

 

 

 

PRIMA DEL 1966

 

La storia della mia vita cominciò al manicomio e questo basterebbe già per capire tutto. In realtà sono nato alle Barbantine, cioè in città, però in quell'epoca la mia famiglia viveva a Marilia, nella casa paterna.

Di quei primi due anni naturalmente non ricordo niente, però alcune cose sono venute fuori dopo, frequentando quella stessa casa in visita alla famiglia di mio zio Lorenzo, che abitava al primo piano e al piano terreno c'era invece zia Magali, dalla quale venivo lasciato spesso in alternativa ai nonni materni, in Garfagnana o quasi, tutte le volte che i miei dovevano assentarsi per qualche giorno, per una qualche vacanza, anche viaggi all'estero, per dei Congressi dei Medici in tutta Europa una volta mio padre andò anche in Tunisia.

La casa di Marilia e la casa di Mologno erano diventate parte della mia storia, anche perché in quei due posti scoprivo cose nuove e la mia vita era differente da quella che poteva essere quella del manicomio, che era comunque abbastanza interessante perché avevamo un grande spazio a disposizione e potevo liberamente circolare in bicicletta o a piedi per una regione abbastanza vasta.

Cose che i bambini di oggi nella stessa zona della Toscana non sono assolutamente liberi di fare e poi non mi si venga a parlare della qualità di vita, che invece di migliorare è peggiorata.

Il manicomio di Miggiano sembrerebbe piuttosto far parte di S.Marta in Collina. Se la geografia politica gli dà questo nome, è perché il suo territorio si allunga di sbieco sulla collina, oltre una fitta macchia di alberi, dal sottobosco umido e impenetrabile. Ultimamente lo hanno chiamato Fondazione Marco Torino e c'ha pure il suo bravo valore storico da preservare perché è nato, come monastero, addirittura nel 560 dopo Cristo.

È noto che abbia respirato gli odori di una bella fetta di storia, molto tempo prima che l'Italia avesse questo nome, quello strano luogo in cui arrivai, da bambino che appena camminava.

Sono cresciuto nel grande recinto di un manicomio, non perché eravamo matti - e non che non lo fossimo - ma mio padre ci lavorava come neuropsichiatra. La nostra seconda casa non fu nostra, nemmeno la prima, però non pagavamo l'affitto. Mio padre era all’inizio della sua carriera e non aveva soldi per comprarne una.

Assai grande e dai soffitti alti, con un vasto giardino che era campo di battaglia e di calcio, superficie lunare, foresta, mare e tutto quello che potevamo inventare io e Umberto, mio fratello nato in una notte in cui mio padre era a pescare con gli amici.

Oltre al grande giardino c’era anche un orto di equivalente superficie, dove facevamo laghetti di fango e giocavamo con il proposito di diventare marroni. C’erano una decina di peri in fila a dividere per il loro diverso uso, i due appezzamenti di terra, anche se per noi la funzione era la stessa.

C’era un magazzino degli attrezzi e dei giocattoli e di moltissime altre cose come giornali vecchi e oggetti che non conoscevo, ma che usavo con mio fratello per i vari giochi che inscenavamo nel vastissimo spazio a nostra disposizione, che pochi bambini ne hanno avuto uno paragonabile. 

Lo dovevamo dividere, oltre che con il personale medico e paramedico, con i vari inservienti e con i cosiddetti malati, come li chiamava mio padre.

I quali, poveracci, stavano lì perché non potevano andare altrove e a casa non li volevano, parevano bambinoni ingabbiati e dagli occhi arrossati, colla barba lunga, i capelli ritti e gli sguardi perduti. I loro recinti, divisi per tipo e gravità di malattia, erano dentro quello grande, tutto a nostra disposizione.

Era come una città, piena di verde, grandi alberi, vasche di pesci rossi, edifici antichi, strade e sentieri... ma non c’erano altri bambini.

Vivere i primi anni della nostra vita in un manicomio, certamente ci porta a pensare in una maniera differente dagli altri.

Dopo aver ricevuto qualche schiaffone, per un qualsiasi motivo, da mio padre o da mia madre, sentendo di aver subito un'ingiustizia, scappavo di casa e resistevo, solo contro tutti, anche contro il tempo. A volte anche un'ora. Stringendo i denti, perfino due.

Dopodiché non mi pareva più una cosa pratica, il melodramma era affascinante, d’accordo, ma svaniva inevitabilmente nel primo bussare dell’appetito. Era opportuno rimanere nei pressi per spiare le reazioni, che però tardavano in maniera insopportabile a manifestarsi e tutta la drammaticità della situazione ne soffriva irrimediabilmente. Allora rientravo senza che nessuno se ne fosse accorto. Forse però stavano solo fingendo.

Il melodramma, la commedia, il teatro, il conseguente e più moderno cinema, sono stati inconsciamente sviluppati nel quotidiano, dal tipo di famiglia in cui sono nato e vissuto, dove si litigava spesso e si gridava sempre.

La polemica era il più frequente motivo di dialogo, spesso pareva un’arringa di un avvocato, oppure di un attore che impersonava un avvocato o una avvocatessa, nel caso di mia madre, unica e formidabile femmina in mezzo a quattro tremendi maschi, già che un mio secondo fratello nacque, poi, dopo il trasloco in una terza casa.

La mia potrebbe anche essere stata una di quelle che si dicono infanzie felici. Però ha avuto qualcosa di più e di meno, nel senso che crescere in un manicomio, per un bambino è certo un’esperienza che rimane indelebile per tutta la vita.

Mio padre era un uomo chiuso, colto e intelligente, a suo modo anche simpatico, ma spesso poco positivo, incapace di controllarsi in alcune situazioni.

Tutto questo certo ha segnato l'inizio e lo sviluppo della mia famigerata sensibilità.

Quella era la mia realtà, un rapporto vissuto con giornalieri contrasti psicologici, nel bene e nel male, in una battaglia dove il cuore batteva forte, dove i sentimenti non solo esistevano ed erano pure assai vivaci, ma erano mascherati da una drammaticità che andava sempre, sistematicamente, oltre la realtà.

Avrei potuto diventare un attore, un regista o un pazzo, invece iniziai a scrivere. Ho pensato che le altre cose le avrei fatte dopo con calma, ma non mi si è presentata ancora l'occasione.

Un giocattolo vivo fu il gattino Patisci, tra i più magri e bruttarelli che ci potessero essere e con tutti quelli che circolavano per il recinto del manicomio potremmo dire che la scelta fu più sua che mia, ma poi mi ci affezionai tantissimo.

Il nome glielo dette mio padre per causa della sua malattia: aveva la rogna.

Il manicomio era pieno di gatti, il cibo che avanzava dei malati era il loro sostentamento e vivevano all'aperto, specialmente vicino ai padiglioni occupati, per sfruttare le rimanenze di cibo.

Dietro il padiglione più vicino alla mia casa c'era l'accampamento più grande dove abitavano in tane ricavate in un boschetto decine di gatti che erano diventati quasi selvatici.

D'agosto i calabroni invadevano lo spazio per fare festa: un dentro e fuori le pere marce cadute a terra. Noi due, piccole pesti ignare del pericolo, affascinate da quegli insettoni ronzanti, giocavamo a dargli delle bastonate, con tutta la forza che avevamo, a loro e alle pere. Il nostro movimento mulinava, liquidi misti schizzavano di qua e di là e noi fuggivamo e tornavamo per dargli altre bastonate, ridendo e correndo, senza che ci capitasse niente di male. I calabroni si spiaccicavano, è vero, ma poi ne venivano altri e il gioco continuava.

Finché una mattina, mio padre si rese conto di quello che stava succedendo e intervenne. Si guadagnò una provvisoria zampa d’elefante al posto della mano e noi fummo salvi.

Ero un bambino vivace, si può capire dalle espressioni della faccia, nelle foto, ma anche dalle affermazioni entusiastiche di parenti ed amici di famiglia. Non ero affatto timido, durante i miei primi passi sul pianeta, al contrario, ma attualmente cerco di dissimulare. Sul viale a mare, a Viareggio, appena avevo imparato a parlare, ecco che ne approfittavo subito per chiedere cinque lire ai villeggianti a passeggio.

Volevo comprare quelle sfere di plastica trasparente delle macchinette automatiche, che contenevano automobiline, soldatini o cose del genere.

Mio fratello Umberto, come tutti i grandi geni, viveva con la testa in mezzo alle nuvole. Approfittavo sempre della sua lentezza dando prontamente la colpa a lui, quando mi si accusava di qualche misfatto. Se veramente era lui che aveva fatto il danno, allora facevo la spia.

I nostri genitori avevano un ruvido metodo per formare una scorza dura per noi figli: se ci capitava qualcosa di male, la colpa era sempre nostra, qualunque fosse la situazione, o l'eventuale antagonista. Se esisteva una qualsiasi discordia, la ragione era sempre degli altri, non c’era nemmeno bisogno di discutere.

Ora da adulto, qualsiasi cosa che accade, io faccio un rapido mea culpa di routine, scoprendo che una parte di torto ce l'ho sempre anch'io. Con il tempo ho cambiato leggermente il sistema, cercando di capire veramente i due lati, senza attribuire a me stesso troppo facilmente ragione o torto.

Il trucco è che se si dà la colpa agli altri, come tanti fanno, poi ci si sente impotenti, ma se la responsabilità è nostra, anche solo in parte, ci si può lavorare sopra. Nelle giuste proporzioni, se amministrato con saggezza, il sistema funziona e la nostra pellaccia è veramente dura come volevasi forgiare.

Durante alcun tempo fuggivo correndo regolarmente dal mio letto per rifugiarmi nel loro, specie la mattina presto, quando mi svegliavo e mi trovavo solo e bisognoso d'affetto. Una mattina entrai timidamente dalla porta mentre mio padre stava russando, come era sua abitudine, in maniera abbastanza irregolare, sia per volume, che per intensità e durata. Mentre stavo passando il confine della soglia, per estrema sfortuna e coincidenza, il genitore sparò un grugnito assai più sonoro, tanto che mi spaventò e fuggii di nuovo nel mio letto.

Da quel giorno smisi di andarci e nacque una nuova era. A quei tempi una vecchia biciclettina con il manubrio da ciclista fu il più straordinario giocattolo che abbia mai avuto.

Facevo il Giro d’Italia, nel circuito che saliva girando attorno alla parte vecchia del manicomio, per poi scendere dall’altra parte.

Il Giro di Francia era invece attorno al padiglione delle donne, cominciava in discesa, poi dopo aver girato intorno al grande edificio, in mezzo a platani altissimi, si risaliva in direzione di casa mia e l'arrivo era in salita.

Un giorno tornati dalla Spagna i miei genitori mi portarono dei piccoli corridori ciclisti di plastica.

Iniziai allora, in loro omaggio, anche il giro di Spagna.

Poi integrai i giri in bicicletta con quelli dei piccoli ciclisti di plastica, come due rappresentazioni complementari di uno stesso gioco, visto da lontano e dall'alto o in primo piano.

Mio padre diceva che mi piaceva giocare coi soldatini, le palline, le cose piccole. Notava anche la mia voglia di uscire sempre dalla realtà, come per esempio se ero in macchina facevo finta di essere su un’astronave; su una barca, di essere su un aereo, se veramente ero su un aereo allora immaginavo di essere in un sommergibile e così via.

Molti anni dopo ho compreso che quando gioca, il bambino entra in una dimensione libera, in un presente assoluto, spazza via i doveri, le paure… ed è felice.

Se non permettiamo al mondo di atrofizzare questa parte della nostra personalità, efficacemente capace di astrarsi, avremo sempre una marcia in più, una possibilità supplementare di evadere dalla realtà, che a volte ci appare troppo stretta.

Tornando al manicomio in questione, la vita che abbiamo avuto là è stata interessante e piacevole, io avevo uno spazio enorme a mia disposizione, la mia fantasia penso che si sia sviluppata in una maniera differente dagli altri bambini proprio per la mia infanzia al manicomio, non c'erano altri bambini e gli adulti erano tutti abbastanza ben disposti verso di me, che giravo con una biciclettina con un manubrio da corsa e che giocavo poi anche insieme a mio fratello Umberto.

All’inizio andavo all'asilo, poi a scuola, ma le visite di altri bambini a casa nostra erano abbastanza rare, tra cui c'è stata sicuramente più spesso quella di Raffaello Paloschi e qualche volta di Mauro Del Grande.

La demenza senile sta arrivando e mi sono messo fretta per terminare la mia seconda autobiografia. Ho romanzato un po’, certi dialoghi sono inventati, ma senza cambiare la sostanza nel raccontare, sempre se la memoria non m’inganna.

La storia della geografia ovviamente coincide abbastanza con la geografia della storia. Della geografia pura all’inizio se ne fece meno uso, ma con l’andar del tempo gli spostamenti aumentarono e certo anche gli eventi, insomma tutto si è intensificato, quando ho scoperto che le mappe corrispondono veramente a laghi, fiumi, colline, montagne e mare, paesi e città fatti di case, palazzi e ponti e così via.

Quella casa antica era sede anche della posta di Marilia, dove tutta la famiglia aveva lavorato. Di quel mondo polveroso e antico faceva parte anche zia Magali, sorella di mio padre. A Marilia, in quei miei primi due anni passai una bella porzione di tempo con lei. Dopo, ogni volta che mi vedeva, mi raccontava che gli avevo fatto la pipì in tasca tante volte, da neonato, quando i pannolini non esistevano e le fasciature che si adoperavano erano tutt’altro che ermetiche. Per fortuna lei era dotata di una grande pazienza e di una vestaglia impermeabile.

Anche mio zio Lorenzo, come mio padre, aveva sposato una donna della Garfagnana, che da Marilia sono quaranta chilometri e a quel tempo ci voleva un bel po’ ad arrivarci.

Era un uomo consumato dal cancro, l’ho sempre visto a letto, scheletrico e in mutande e canottiera, sempre allegro e con la sigaretta in bocca, alla luce artificiale giallastra di camera sua.

 

 

VALBONA

 “Da casa nostra a Valbona c’erano vari chilometri e raramente in pianura o in discesa, corrispondenti a più di un’ora di treno, mezz’ora di automobile e un’ora a piedi. Salivamo verso la montagna ancora in quei vagoni dai sedili di legno, trascinati dalle ultime locomotive a vapore. 

L’uomo che ci scarrozzava con la lucida Millecento grigia era Righetto, un baffino piuttosto sull’ambiguo. Ricordo l’odore di plastica dei sedili e il fumo della sigaretta sempre accesa. Non stava un secondo zitto, ma non diceva mai niente d’interessante. Da Castelnuovo ci portava fino a Isola dove la strada terminava. A volte c’era anche l’altra maestra, la signorina Laura, che abitava non lontano da noi.

Al bivio, dalla provinciale, la strada sterrata si buttava giù a picco come nelle Montagne Russe. A Isola continuavamo a piedi caricati delle nostre valigie.

Una volta che aveva piovuto assai, camminammo per un bel po’ affondati mezzo metro nel fango. Per me fu divertente, un’esperienza nuova, era come passeggiare dentro la Nutella, ma senza profumo di nocciola. Mia madre, però, imprecava a denti stretti.

Il sentiero, qualche curva prima dell’arrivo, passava di fronte ad una casa abbandonata che si chiamava Taccona. Nei mesi più caldi lì intorno era pieno di serpi, sento ancora l’odore dolciastro di una grossa biscia morta, sulla strada polverosa.

La scuola era stata costruita quasi sul greto del ruscello, solo un po’ più in alto per via delle piene ed era la prima cosa che si vedeva del paese, passato l’ultimo costone di pietra.

A volte, nell’intervallo delle dieci e mezza, andavamo a giocare a nascondino nella legnaia. C’era una montagna di mezzi tronchetti, della misura giusta per la stufa, dall’intenso odore un po’ muschioso, che ogni volta che sento mi viene in mente quell’immagine. Quando in mezzo alla legna trovarono una vipera e una nidiata di viperine, non ci potemmo più andare a giocare; da allora, la porta poi rimase sempre chiusa.

Salendo verso il paese, a destra c’era un forno dove i genitori di Nico, Sabina e Giuli, che erano pastori, facevano dei pani enormi, che poi tutto il paese mangiava per una settimana. La prima volta che vidi sfornare quelle pagnottone era maggio. Sotto il lampione, dalla luce bluastra, c’era un vortice di maggiolini, alcuni di loro storditi dalla luminosità e dal calore cadevano a terra ai nostri piedi.

Sulla salita, prima di arrivare nella piazzetta, viveva la Florinda, che era una vecchietta che aveva la porta di casa divisa in due, per poter aprire solo la parte di sopra quando c’era la neve alta. Era famosa perché mangiava pezzi di formaggio pecorino stagionato dentro il caffèlatte.

Una volta mio padre, che era medico, la visitò e siccome non voleva essere pagato, lei gli regalò un salamino nerissimo e rinsecchito, forse originariamente una salsiccia, che comunque doveva aver custodito gelosamente chissà quanto, in attesa di una degna occasione per sacrificarlo.

A Valbona rimanevamo cinque giorni e tornavamo a casa solo per il fine settimana. Mio padre era malato, costretto a letto. Al Manicomio, con lui, stavano mia zia e mio fratello più piccolo, che aveva tre anni. Eravamo nel 1964.

A mezzogiorno, dopo la scuola, mangiavamo tutti insieme in una stanza con un lungo tavolo e un’unica finestra. Indiretta ma intensa luce che veniva da fuori, trasformava tutto in un film in bianconero, con pochissimo grigio, i contrasti esaltati.

La sera la luce delle lampadine era fioca, ma ci si vedeva a sufficienza, anche se, qualche volta, si rimaneva a luce di candela. A Valbona l'elettricità era un lusso e spesso mancava, di solito quando c'era la partita alla televisione, ma non solo. La stanza allora era gremita di tutti i suoi abitanti, che non erano pochi, più alcuni sportivi del paese. Se mancava la luce, aspettando - a volte invano - che tornasse, si giocava a carte, con varie candele accese ed era senz’altro più divertente.

I Lunardi erano gente ospitale che aveva l'unico negozio del paese che era posta, telefono pubblico, bar, alimentari e vendeva anche articoli per la casa e ferramenta da lavoro. Insomma: tutto quello che si poteva comprare o ricevere, dal mondo circostante era lì, o non c’era. Tutto quello che esisteva era stato trasportato sulla schiena di un mulo, certo la cabina telefonica era smontabile.

Il padre dei miei due migliori compagni di gioco, Patrizia e Arnaldo, faceva il postino e durante il giorno non c’era quasi mai. Invece c’erano sempre: la madre, la nonna da parte del padre e la nonna da parte della madre. Le tre donne di casa adulte litigavano ogni sera per chi dovesse lavare i piatti, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tutte e tre ambivano a lavarli.

Insieme a noi alloggiava anche l’altra maestra, che veniva dal Quercione, la signorina Laura.

La valle era scura e umida, non ci batteva mai il sole. Tutte le case del paese erano fatte di grosse pietre dagli angoli smussati dal ruscello, la via lastricata di piccole pietre arrotondate, disposte a scalini nei punti più ripidi. Le numerose pecore e capre provvedevano a foderare gli interstizi di olivette nere dall’odore fragrante.

Sull’altra riva non c’erano costruzioni, eppure là c’era più luce e calore solare. Magari agli inizi non c’era il ponte e tutto fu costruito dal lato della strada provinciale, anello di congiunzione con il resto del mondo.

I paesaggi erano belli e selvaggi e a primavera tutto si riempiva di fiori di tutti i colori. Allora facevamo gite sulle montagne circostanti, visitando le case più isolate dei miei compagni. Alcuni di loro dovevano camminare per un’ora e più, ogni mattina, per arrivare a scuola e poi per tornare. Mentre camminavamo, gli adulti raccontavano storie di guerra e di scheletri ritrovati di soldati tedeschi o di partigiani.

La sera, prima dell’imbrunire, spesso si andava agli orti, che erano subito fuori il paese, per raccogliere verdure coltivate e erbe selvatiche per fare l’insalata. Gli abitanti di Valbona in tutto non erano più di una ventina. I bambini erano cinque e tutti miei compagni di giochi. Le poche case, arrampicate sulla montagna e appena sopra il ruscello impetuoso e dalle acque gelate, erano sovrastate da grandi abeti che lasciavano cadere delle pigne allungate che di volta in volta, diventavano uccelli, pesci, pistole, bombe a mano e un’infinità di altri oggetti o animali, nei nostri giochi. Quando c’era la neve il paese rimaneva isolato, ma per i bambini era sempre una festa, arrivavamo a sera bagnati e paonazzi.

Nei primi tempi, avevamo alloggiato nella stessa piazzetta, in una delle poche case che si aprivano su quell’unica area pavimentata, insieme alla chiesa. Dietro c’era un precipizio, dove buttavano la spazzatura del bar. Tra i fondi di caffè e altri rifiuti, riuscivamo a trovare i preziosi tappini della birra Peroni, che poi usavamo come monete tra di noi. Da lì, se uno cadeva andava a tuffo dritto dentro il ruscello.

C’era un piccolo parco pubblico con immagini sacre, statuette di divinità cattoliche, aiuole piante e fiori, tutto abbastanza modesto e dimesso, credo che fosse la chiesa che era davanti, a pochi metri che se ne occupasse, almeno a livello amministrativo.

Una chiesa che aveva un sacerdote stabile che abitava lì, in quel paese di poche anime, isolato dal mondo.

Nelle mattinate d’inverno, per lavarsi, a volte si doveva rompere il ghiaccio della brocca smaltata e versare l’acqua nella catinella, poi con zampate leggere da gatto ci si doveva bagnare il meno possibile. Spesso i panni stesi ad asciugare congelavano e diventavano duri come baccalà.

Ogni tanto mia madre sentiva pena di svegliarmi, la mattina, quando era troppo freddo, allora mi lasciava la colazione con un messaggio scritto sul cartone dei biscotti, quando mi svegliavo la raggiungevo a scuola.

Una notte un topo enorme ci stette a guardare incuriosito, per un bel po’, da sopra all’armadio, mentre cercavamo di renderci conto se quella era proprio la realtà o se stavamo sognando.

Nella seconda casa dove siamo stati ospitati, dai Lunardi, nella camera dove dormivamo noi, io e mia madre, c’era tutto l'intonaco nel soffitto scrostato. Va detto che anche era molto freddo e umido, le macchie del soffitto avevano delle forme che ogni giorno mi davano delle impressioni differenti. Per esempio un giorno mi sembrava una certa forma di Lombardia, il giorno dopo magari diventava il Piemonte, quella che era una Toscana poteva facilmente qualche giorno dopo diventare una Corsica, forse dipendeva ance dalla stanchezza o dall’inclinazione della mia testa sul lettone.

Facevo la prima elementare, ma avevo solo cinque anni, con mia madre come maestra e in una classe con prima, seconda e terza insieme, perché di ognuna c’erano solo uno, due o tre bambini. Quando mia madre interrogava gli altri, le risposte erano troppo facili e se ne uscivano da sole dalla mia bocca. Ne ricevevo subito il meritato premio a manate.

I bambini di pianura, per non parlare di quelli di città, sono sempre stati più rompiscatole di quelli di montagna, chissà perché.” 

 

MASSACIUCCOLI

“Con mio padre e altri suoi amici andavamo quasi tutti i fine settimana alla baracca sul lago di Massaciuccoli.

Era una palafitta di legno di cui vari soci approfittavano, con la scusa di pescare, per prendersi delle epiche e nobili sbronze. Erano tutti infermieri, medici e portieri del manicomio. Non potrei affermare, se qualcuno me lo chiedesse, che la pesca non gli interessasse, perché ci si dedicavano con passione. Anzi, quando non pescavano niente, si avvilivano e bevevano anche di più.

Questi amici della buona compagnia e del fiasco di vino, erano anche delle figure mitologiche, almeno per me, come gli dei greci, con le loro debolezze e fissazioni, ma anche con capacità soprannaturali.

Partivamo il sabato pomeriggio, se il tempo era buono. Con la pioggia si rinunciava, a meno che non fosse settembre, epoca di partenza delle anguille per il Mar dei Sargassi. Dopo pranzo cominciava la preparazione, con un’atmosfera di allegria e mutua collaborazione.

Si riempiva una vecchia sporta di plastica forellata turchese con formaggio, pane, salumi e altre cose da mangiare, perché là, dove tutto pareva lontano, ci veniva più fame. Poi una o più torce a pila, fiammiferi, spago, detersivo e altre cose utili. Per bilanciarne meglio i due lati, papà ci metteva sempre due fiaschi di vino, rosso se era autunno o inverno, bianco se era primavera o estate, perché in quelle condizioni di isolamento la sete diventava più forte. Facevamo una lista di altre cose da comprare, riempivamo una damigiana piccola di acqua potabile, raccoglievamo anche gli arnesi per eventuali riparazioni e prendevamo anche gli zampironi per le zanzare, che là era il loro regno e al tramonto arrivavano a nuvole.

Insomma: messo insieme tutto ciò che ci sarebbe stato indispensabile, una volta che le acque ci avessero separato dal resto del mondo, c’infilavamo in macchina e partivamo.

Eravamo trasportati prima da una Simca 1000 rossa, dopo da una metallizzata, poi da una 1100 della stessa marca ma di colore bianco, nell’ordine cronologico, le tre macchine che mio padre aveva in quegli anni.

Si saliva il Monte Quiesa, che poi era un passo tra una catena di colline, oltre le quali c’era la pianura della Versilia, poi il mare. Lo stesso lago di Massaciuccoli al tempo dei Romani era stato parte del mare, tutta quella fetta di terra oltre il Monte Quiesa era sott’acqua. Quiesa era anche il nome del paese che attraversavamo prima di arrivare alla Piaggetta, cioè dov’era la casa della barca, la prima e unica mai vista col pavimento fatto d’acqua.

No. Prima dovevamo andare a prendere il Lipparelli, di nome Ilio, che era una specie di guardiano della Baracca, cioè della palafitta di legno dove andavamo a pescare. Trattavasi di sessantenne nei pressi dei settanta, che viveva di opre, cioè di lavoretti come vangare, piantare e seminare.

Aveva una faccia scolpita nel legno scuro, tipo indiano Apache, occhi incredibilmente incavati e piccole pupille lontane in due cavernette buie. Era simpatico, ma senza nessun proposito di esserlo, non rideva quasi mai e parlava molto poco. Pareva dotato di una specie di saggezza lacustre che se ne usciva libera e leggera dalle sue espressioni verbali in gergo, rare ma sincere, dai suoi sorrisi appena accennati, ma soprattutto dai suoi lunghi silenzi. Parlava un dialetto tipico del padule, forse anagramma di palude, come loro chiamano insomma quel grande stagno, della cui pesca e della terra nera e fertile lì attorno, piena di  torba, viveva la gente come lui.

Quando mio fratello era troppo piccolo, ci andavo da solo con mio padre, poi anche Umberto si unì al gruppo. A pensarci bene, lui era nato proprio in una notte di settembre di qualche anno prima, di temporale e di pesca alle anguille che partivano con destinazione Mar dei Sargassi. Mio padre era tornato tardi, era più mattina che notte e con mia madre non erano nemmeno riusciti ad arrivare all’ospedale, avevano appena fatto a tempo a chiamare un ostetrico dell’ospedale psichiatrico, nel recinto del quale vivevamo e Umberto se n’era uscito fuori da mia madre come un tappo dalla bottiglia di spumante, diciamo.

Il Lipparelli non aveva telefono, perciò arrivavamo sempre a casa sua senza preavviso, a volte non c’era e lo andavamo a cercare. Raramente andavamo a pescare senza di lui. Poi andavamo all’alimentari, per comprare quello che mancava ancora, scritto su una lista di foglio di quaderno o di carta gialla per alimenti, prima di avventurarci in mezzo ai canali.

Era d’obbligo anche la capatina breve, ma senza alcuna fretta, nel bar Abetone, dove mio padre offriva da bere qualcosa a Ilio e gli comprava due pacchetti delle lunghissime sigarette President, che lui adorava e che rappresentavano il simbolico pagamento per la sua opera di manutenzione e controllo generale della baracca. Naturalmente, da quel momento, fino al giorno dopo, Ilio Lipparelli era mantenuto da mio padre, ma là non c’era da spendere più niente, solo mangiare e bere, soprattutto bere.

Poi arrivavamo alla Piaggetta, lì c’era la casa della barca, che essendo di legno, aveva anche bisogno della sua protezione dalle intemperie e da eventuali furti.

Lasciata la macchina a riposare fino al giorno dopo, dalla casa della barca alla baracca c’erano forse duecento metri, fino alla bocca del lago, dove entrava il nostro e un altro canale più largo che poi andava verso il mare.

Ci volevano forse dieci minuti, con la massima calma. Il remo del Lipparelli, che funzionava da propulsore e da timone allo stesso tempo, faceva un leggerissimo sciacquio. Se remava mio padre il silenzio già cambiava suono e nome.

Quel tipo di divertimento del fine settimana era definito anche andare al retone, che poi era la grande rete quadrata che aveva la stessa larghezza del canale, cioè una decina di metri di lato. Si alzava dai quattro angoli con un sistema di carrucole collegate a un paranco azionato a manovella, mettendo - nel giro di pochi secondi - a secco tutti i pesci che stavano transitando in quel momento, poi si ritiravano da là dentro con un guadino con un lunghissimo manico, chiamato presacchio.

I pesci una volta portati sulla piattaforma della baracca, per conservarli meglio, visto che ci si rimaneva delle ore, venivano introdotti in una gabbia di rete metallica, detta burchio e poi nell’acqua stessa del canale.

Mi ricordo che una volta chiesi a mio padre se quelli poi non avrebbero comunicato coi pesci liberi e fatto la spia, ma risero tutti e non mi risposero.

A meno che piovesse forte o ci fossero condizioni atmosferiche troppo sgradevoli, il nostro arrivo era previsto sempre prima del tramonto e il ritorno dopo l’alba, ma non per caso. Il suggestivo affogare del sole in mezzo al lago e il suo risorgere dalla parte opposta, dietro le colline, in direzione di Lucca, coincidono con gli orari dei pasti principali dei pesci, quando escono dai loro nascondigli di canne e di alghe in cerca di cibo e si rendono più vulnerabili alla cattura da parte dei pescatori.

La gente, per natura amante del pettegolezzo, era convinta che mio padre e i suoi compari andassero là solo per ubriacarsi. Invece no, mangiavano anche assai e la pesca aveva la sua importanza, pur se i pesci, poi, non li voleva nessuno.

Mio padre non mangiava pesce, né pollo, né cacciagione, né nessun tipo di volatile, mia madre invece apprezzava tutte queste cose, ma se doveva essere pesce, preferiva che fosse di mare.

La fauna ittica del lago di Massaciuccoli, come di ogni lago o fosso stagnante, ha sapore di fango ed è difficile cucinarla in maniera che possa diventare appetibile.

Nei primi tempi della baracca, quando non prendevo parte ancora a quelle escursioni del fine settimana, mio padre portava a casa sacchetti pieni di prede ancora vive. Nell’epoca seguente, la mia, gli era già stata proibita qualsiasi azione del genere, mia madre non voleva più svegliarsi la mattina di domenica e trovare l’acquaio della cucina pieno di tinche boccheggianti, anguille serpeggianti, lucci mordenti o carpe saltellanti.

Però i minuscoli, trasparenti e argentati crognoli, proprio per la loro semplicità, non richiedevano lavoro per essere puliti e potevano essere fritti interi, in più erano pesci marini, anche se in villeggiatura, nelle più miti acque dolci. Per questo erano ancora accettati e lo rimasero almeno fino a che la baracca rimase tale.

Dopo l’incendio, che determinò la sua fine, si passò in un altro luogo, dove non si pescavano crognoli e si prendeva poco pesce in generale, ma questa è già un’altra storia, o magari, il finale di questa qui.

Era Ilio Lipparelli, comunque, che riceveva quasi sempre il sacchetto maleodorante, sua moglie era di là ed era abituata a certe cose. Da mia madre, invece, come dalla maggioranza delle mogli dei pescatori del fine settimana, era considerata un’aggressione morale e forse anche un poco fisica.

Per un certo periodo di tempo, ricordo che anche le anguille erano state permesse dalla legge della casa. Poi successe che un sacchetto ermeticamente chiuso dentro un altro, con una decina di esemplari di anguille di media e piccola grandezza, rimase dimenticato dentro al frigo, insieme a tanti altri sacchetti contenenti le vivande più varie, ma che dall’esterno erano irriconoscibili. Quando mia madre, un mese dopo, vide che era doppio, ne capì, per esperienza, il perché. Allora lo prese con la punta delle dita e me lo consegnò con la missione di sotterrarlo da qualche parte, purché lontano da casa.

Io invece, che all’epoca apprezzavo perfino lo studio anatomico di un bel pesce marcio, aprii il doppio involucro, già pronto a tapparmi il naso e rimasi di sasso: le poverette, un po’ più magre, certo un po’ meno vivaci, erano ancora vive.

Mio padre non ha nemmeno mai saputo di quella storia, era talmente schizzinoso che gliel’abbiamo sempre tenuta nascosta. Anzi, una sera, alla baracca, Renzo - detto Porco il Lupo - cucinò delle scaloppine di vitella che piacquero a tutti, specie a mio padre, che se ne servì più volte e lodò ripetutamente sia la bontà della carne, che l’abilità del cuoco. Quando una persona beve troppo, parla anche di più e Porco il Lupo rivelò che quella formidabile vitella, tanto complimentata da tutti, invece era tacchino. Ci rimase male mio padre, per via di quella vitella tacchinata, evidentemente non ci si poteva più fidare di nessuno.

Si disse anche più volte che l’aria del lago faceva venire più fame e che anche la sete se ne giovava, pur non essendocene effettivo bisogno. Specialmente la sete di alcolici aumentava, là alla baracca e un’altra volta, durante la notte, bevuta buona parte di quello che c’era da bere, era finita l’acqua e tutti erano già ubriachi, quando inventarono di fare il caffè con il vino e poi di correggerlo con il rum e la grappa.

Una volta l’invitato fu un compaesano che aveva vissuto in Argentina e raccontava storie della pampa e bevevano tutti e ridevano, friggendo e pescando. A dir la verità pescavano e friggevano pezzi di canne, alghe di vario tipo, pescetti piccoli e buoni, con altri troppo spinosi e ditischi o scarabei acquatici. Il signor Gaudenzio sgranocchiò uno di questi ultimi, una specie di blatta alla milanese, mentre era impegnatissimo a parlare. Non tutti se ne accorsero e nessuno disse niente, perché il signor Gaudenzio era un tipo assai irascibile. Lo scarafaggio acquatico era un po’ più croccante dei pesci, ma il sapore non doveva essere cattivo, perché se lo mangiò tutto.

Come linea generale di comportamento, tentavano spesso di ubriacare il Lipparelli, con tale impegno che poi loro non riuscivano più a parlare e a camminare, mentre Ilio rideva forse un poco di più, ma neanche tanto. Mio padre diceva che era perché era troppo abituato a bere superalcolici tutti i giorni. Al bar si sparava in gola dei bicchierotti di whisky a buon mercato e cognac di terza categoria, amari e vermut in dosi cavalline, come se fosse acqua, l’avevo visto anch’io e il suo adiacente comportamento non sortiva variazioni di rilievo.

A mio padre piaceva la compagnia del Lipparelli, perché era spontaneo e tranquillo come la superficie increspata del lago e lo stormire delle canne alla brezza, si combinava con l’ambiente naturale dove aveva sempre vissuto. Era un uomo semplice e aveva l’anima leggera, quando lo prendevano in giro rideva bonariamente, allora quelli ci perdevano il gusto, ma non ci rinunciavano mai definitivamente, faceva parte della loro indole curiosa e polemica tipicamente toscana.

Altri eventuali partecipanti alla battuta di pesca, come Renzo e altri meno frequenti come lo scrittore e collega di mio padre Marco Torino, arrivavano in tempi differenti e con i loro mezzi di locomozione, se vedevano che la barca non c’era, allora ci chiamavano gridando di là e noi andavamo a recuperarli.

Renzo di Marilia, forse era l'unico membro della congrega esterno al manicomio, ma non per questo meno eccentrico, era soprannominato Porco il Lupo, per la sua esclamazione peculiare.

Era capace di cantare pezzi d’opera al chiaro di luna, interpretandoli con grande trasporto emotivo e alzando le braccia verso il lago, in posa canora evocativa.

Noi bambini ci ammazzavamo dalle risate a un metro di distanza, ma lui continuava serissimo e in fondo tutti applaudivano e gli davano un ulteriore bicchierotto traboccante di vino.

Una volta il famoso Marco Torino, scrittore e scapolone, uomo simpatico e stravagante, dopo vari fiaschi di vino bevuti insieme a mio padre e altri pescatori del fine settimana, facendo rapida marcia indietro, sfasciò la macchina nuova contro un massiccio palo della luce di cemento apparso dal niente.

Dopo essere sceso e aver visto l’entità del danno, gridò al silenzio della notte che avrebbe fatto causa all’impresa di elettricità, che lo aveva piantato là, dove prima non c’era e oltretutto senza avvertirlo.

Il dottor Torino era stato il vincitore del premio Strega con uno dei suoi romanzi che parlava proprio del nostro manicomio, due dei suoi romanzi poi sono anche diventati film. Quando salì sul palco per ricevere il premio in questione, avendo alzato il gomito come di consueto, prese il microfono e ringraziò i critici letterari, che riuscivano a trovare nei suoi romanzi assai di più di quello che lui aveva immaginato scrivendoli.

Torino amava la vita da scapolo, era un mezzo dongiovanni, non si sposò mai e abitò per tanti anni al manicomio, dove oggi si può visitare la sua stanza. Solo negli ultimi anni, da pensionato, si trasferì in un appartamento di Sant'Anna da solo.

Più di venti anni dopo, lo incontrai appena fuori città, che stava passeggiando col suo inseparabile bastone. Iniziai a parlargli della mia nuova passione, la scrittura, nella speranza che potesse aiutarmi a pubblicare i miei manoscritti. Fu, come al solito, simpatico, affabile e tutto il resto.

Però quando ci salutammo scoprii che non mi aveva riconosciuto. Non molto tempo dopo, seppi che era morto, ma in me vive ancora, così come papà.

Per mio padre, il punto più critico del ritorno a casa era la prima curva in discesa, sul Monte Quiesa. Se era in buona forma alcolica, e spesso lo era, fermava quasi la Simca di turno, per riuscire a farla senza sbandare e noi bambini morivamo dal ridere.

Papà, a volte, incrociava le parole che non si capiva più niente. Quando giungeva a livelli alcolici più alti, cantava la canzone natalizia Astro del ciel in tedesco, cioè Stille nacht.

Fui io a dargliela la tragica fine a quella prima baracca, insieme al mio amico Roberto detto Fistio, ma mio padre non l’ha mai saputo, sennò sarebbe stata anche la mia. Era giorno di scuola, ma noi in motorino andammo alla baracca. Una volta là, Fistio notò che da un buco del soffitto venivano fuori pagliuzze di canneto, portate là dentro dai topi, che vivevano nell’intercapedine del tetto e pensò bene di dargli fuoco. Subito dopo ci venne in mente che poteva essere pericoloso e le spegnemmo.

Poco dopo tornammo a casa, per pranzo, come al solito, simulando l’orario di uscita da scuola. Però, evidentemente, c’era rimasta qualche pagliuzza accesa. La sera stessa ricevemmo la notizia telefonica dal Lipparelli che la baracca era bruciata, c’erano rimasti solo i mozziconi dei pali anneriti appena fuori dall’acqua.

La seconda baracca fu meno epica e romantica della prima. Anche se era più grande e bella, in un altro canale, ci si pescava poco, ma anche lì ci si beveva abbastanza.

L’avevano costruita assieme, mio padre e alcuni amici di famiglia, vicini di casa, che negli ultimi tempi erano diventati anche loro pescatori del sabato sera. Ai lavori partecipammo un poco anche io e Umberto, sebbene il capomastro, di nome Paolino, falegname di professione e rompiscatole nel tempo libero, ci disse che non sapevamo piantare nemmeno un chiodo. Però, per fare la piattaforma, ne avevamo piantati centinaia, magari mezzi storti e battendoci anche qualche volta sulle dita.

Il silenzio incredibile del lago era una cosa che mi affascinava e mi spaventava allo stesso tempo, ma iniziai a vederlo dal punto di vista romantico quando ci andai con una ragazza di cui ero innamorato, anni dopo e si trattava già della nuova baracca.

Mio padre ci aveva mostrato, con quelle uscite del fine settimana, che un mondo parallelo esisteva a pochi chilometri da casa. Una vita e una maniera di comportarsi avevano molte sfaccettature possibili, bastava cercarle e per farlo bisognava prima credere che esistessero, da qualche parte.

Credo che sia stata la più grande lezione che avrebbe potuto darci, perché è ampliando il nostro orizzonte che capiamo che c’è sempre speranza, anche quando le cose vanno male.

Quando le cose vanno bene invece, sappiamo che può durare, magari con qualche pausa, dopo qualche bella ricaduta inevitabile e necessaria per accorgersi della differenza. Prima della sua morte, non mi sono mai reso conto del valore pratico di quello che succedeva tra di noi, quasi ogni sabato, al lago di Massaciuccoli.

Insieme a Rinaldo ci passammo anche un ultimo dell’anno con delle ragazze e un amico suo che lui ebbe a definire comatoso grosso. Era freddo e ci si scaldò accendendo la stufa economica e bevendo quello che c’era di forte.

Anche la seconda baracca finì in un rogo, purtroppo, ma stavolta noi eravamo innocenti.

Altre fughe dalla routine del manicomio di Miggiano venivano rappresentate da quelle a Viareggio per le vacanze e all'Abetone. Piano-piano sì cominciava anche ad andare all'estero, per prima quella Svizzera di cui mi ricordo poco a parte uno spaghetto al burro sul treno passando le Alpi, ci avevamo caricato la macchina che credo che fosse la Simca 1000 rossa e poi a Lugano il panorama dalla finestra… anzi dal terrazzo dell'albergo, e ricordo che giocavo con una Mercedes decappottabile Pagoda bianca, modellino che mi era stato comprato da mio padre appena arrivati dall'Italia. Ricordo Andermatt bellissimo paese alpino e poche altre cose, perché penso che non avessi ancora sei anni, dovevo averne quattro o giù di lì.

In seguito si visitò anche S.Marino, che è all’estero per modo di dire e so di sicuro che successe dopo, perché c’era anche mio fratello Umberto.

La casa del Quercione era abbastanza di recente costruzione, prima ci abitava il proprietario, che mi pare che si chiamasse Avancini. All'inizio non c’è stato bisogno quasi di nessun cambiamento strutturale, dopo qualche anno il garage diventò la sala e lo studio di mio padre diventò un'altra sala. Quella meno frequentata era la parte di basso della casa, il seminterrato. Era quasi senza porte, almeno dalla parte d'entrata di sotto e quindi di inverno era molto difficilmente riscaldata.

 

 

DAL 1967

 

Un bambino in un ambiente come il Quercione degli anni sessanta era in una specie di paradiso, le opzioni di gioco erano varie e interessanti, gli adulti attorno amichevoli, le macchine erano poche e non correvano come oggi, i mulini avevano ancora le ruote di legno e il semaforo sulla Bazzanese era una realtà che nessuno a quei tempi poteva prevedere.

Figurarsi che noi si andava ai primi allenamenti a Nave in bicicletta, ma qui eravamo già negli anni Settanta.

 Pasquale gestiva l'alimentari dove si segnava sul libretto, si vendevano anche frutta e verdura, anche se tutti sapevano che era un furbone, notavano anche la sua cordialità e simpatia. Al Bar della Salute Beppina si alternava al figlio Roberto che invece non aveva voglia di stare lì e sembrava sempre incazzato. Suo fratello Edoardo invece studiava ed era un tipo assai più affabile. Il giorno che si laureò in medicina chiese a tutti quelli che entravano, al bar della Salute, se magari non avevano pensato possibile che uno con la faccia a biscaro come la sua avrebbe potuto laurearsi, ma invece era successo e lui era diventato medico.

Anni dopo faceva medicina sportiva a Ponte San Pierino e io che avevo spesso infortuni giocando nel San Mario, mi curavo da lui, nella palazzina sulla curva davanti al distributore di benzina che da anni non esiste più. Da bambino mi ci portavano, quando ero malato, dal dottor Dantini.

Edoardo mentre mi faceva la cura degli ultrasuoni mi guardava, scuoteva la testa e diceva: “Un ci ‘apisco nulla!”

 Alla Cooperativa c'era Tista Panconi, un vecchietto magro e ridanciano, un ghiacciolo costava 20 lire e a quei tempi c'erano ancora pensionati che giocavano a carte.

Dopo ci fecero la pizzeria La Pineta con il forno a legna e la pizza era buona. Ci lavorava tutta una famiglia di cui figlie e madre sovrappeso. Mio fratello ci ha fatto il cameriere e siccome non gli davano da mangiare, ogni tanto spariva un cameriere o una cameriera, in uno sgabuzzino a sbafarsi una pizza alla svelta, frutto di un’ordinazione falsa.

Mi ricordo di aver visto lì alla televisione, a 10 anni di età, il primo sbarco sulla Luna. Mia madre era incinta di Leonardo, era giugno, lui nacque poi alle Zitine il giorno di Ferragosto.

 

 

CANI

 

Da bambino non ho avuto tanti cani perché mio padre non voleva. Il primo fu Dick, sporco e simpatico, trovato per strada. Un bastardino, come si diceva a quei tempi, in cui non bisognava arrufianarsi con le parole. Probabilmente era stato sperso e la mia famiglia fece lo stesso, dopo pochi giorni, l’ho saputo da poco, già da vecchietto. Dicevano che puzzava, ma non sarebbe bastato fargli un bagno? Dopo diversi anni in cui siamo rimasti senza, fu adottato il primo cane stabile della famiglia, Blacky, donato a mio padre da qualcuno, dove lavorava. Era nero e non di razza pura, poi quasi completamente oscurato nella nostra memoria dalla maggior personalità e simpatia del secondo Blacky, molto simile al primo, almeno fisicamente, preso al canile da mio padre a dispetto delle sue convinzioni precedenti. Per anni aveva detto e ridetto che se prendevamo un cane se ne andava via lui e sebbene non ci paresse proprio una cattiva idea, forse per motivi di praticità, non si passò mai alla pratica. Successivamente lui cambiò opinione, perché noi figli non gli stavamo fornendo quei nipoti di cui avrebbe avuto bisogno per fare il nonno.

 

 

 

FINE ANNI 70

 

Allontanarsi da Marzio è stato automatico e fisiologico, mentre lui andava dietro ai soldi e al potere, io ne scappavo da sempre, ma ogni giorno di più in maniera cosciente. La mia vita era stata differente, quando c’erano state delle necessarie scelte erano state divergenti e le nostre esistenze in fondo si erano incrociate per poco tempo.

Un giorno mi aveva raccontato una cosa che me ne aveva fatto capire altre. Aveva fatto il bagno con il mare mosso e dopo non riusciva a tornare a riva, mulinelli e risucchio della corrente lo avevano messo in tale difficoltà, da temere di affogare, ma mi confessò che giammai avrebbe chiesto aiuto, pur di non fare una figura a biscaro avrebbe preferito morire. Capii che per lui mostrare di essere grande e forte era più importante di esserlo. Lateralmente pensai che era così ossessionato dalla paura di essere ingannato, che per me invece era meglio esserlo qualche volta, nel frattempo si poteva stare un po' più tranquilli.

Quello che ho sentito attorno a me, specialmente tra le persone che mi sono state relativamente più vicine, è stata la totale mancanza di ambizione che ho trovato in Raffaello, Aldo, Roberto, Mauro, Martino e in altri, che poi si è associata anche alla non competitività appresa in seguito.

Marzio diceva spesso, quando eravamo appena maggiorenni, che noi non avevamo ancora combinato niente, non avevamo fatto un cazzo, ma non sapeva spiegarmi cosa avremmo dovuto fare, per realizzare qualcosa di vero e importante. L'ho capito solo dopo, era tutto in relazione ai soldi, forse al potere, insomma a quel mondo che io inconsciamente avevo già rifiutato. Certo i soldi erano necessari, ma quel tanto che ti basta per vivere e alimentare le tue passioni, i tuoi passatempi, i tuoi valori, insomma l'evasione regolare e manovrata dal mondo così come era. Quella stessa vita che loro criticavano ma che alimentavano giorno per giorno senza accorgersi, con la loro maniera di essere.

 

 

 

RICORDI?

 

 “ Un settembre non molto piovoso, oggi è il venti e l’estate non è ancora finita, ma pare finalmente agli sgoccioli. Giro in bici tra S.Marta in Collina e Nezzano, lungo il fiume e tra le viuzze sotto il castello, sento i profumi della gente a cena, non c’è quasi nessuno in giro, passano rare macchine. Dopo il Paloschi faccio la salita e non resisto, entro nel manicomio di Miggiano.”

“Bello, lo sai che ora ci fanno le visite guidate?”

“Figurati, una volta ci sono stato e hanno registrato anche la mia testimonianza per fare un libro, che finalmente è uscito, dopo una decina d’anni.”

“Allora nel libro c’è anche la tua testimonianza?”

“No, non ce lhanno messa. Forse non gli è piaciuta.”

“Ah…

Ma te quanto tempo ci hai vissuto?”

Credo sei anni, o forse meno, ma sono stati i miei primi, con la memoria nuova e lucida, insomma appena staccata dalla fabbrica, i primi effettivi due a Marilia, mi garberebbe, ma non me li posso ricordare.

“Beh, a quei tempi qui cera un sacco di gente e di movimento, no?

A quei tempi il manicomio era sicuramente anche un investimento interessante, ci lavorava tanta gente che abitava nei dintorni, alcuni li ho conosciuti dopo, oltre ai pazienti che erano parecchi e molti tra di loro davano un personale contributo di mano d’opera al manicomio: postini, giardinieri eccetera-eccetera.

Ma dove abitavate voi?

La nostra casa ormai non esiste più, ci hanno fatto un moderno centro di raccolta per analisi mediche, credo, in una certa epoca precedente c’è stata anche l’anagrafe.

Non c’è più il cancellino di ferro dipinto di verde, la rete metallica nascosta dalla siepe che era anche più alta e spinosa, macchiato dalle numerose palline rosse dal sapore agro che noi bambini mangiavamo, a volte, ma senza troppo entusiasmo, giacché allappavano la bocca.

Sotto il cemento è sparita la panchina verde scuro di legno come quella dei parchi, a lato del tavolino di ferro sotto l’albero, col ripiano di marmo bianco. Proprio lì dove il nonno Pitta disse, per me la prima volta, la famosa frase del cocomero, che faceva arrabbiare nonna Nina perché lui la doveva dire sempre, non poteva resistere, era troppo più forte di lui, tutte le volte che vedeva un cocomero e delle bocche che lo mangiavano, bevevano e si lavavano la faccia.

Ah… bellassai. Piuttosto dimmi come ci si stava in mezzo ai matti e agli infermieri?

Non lo so, per quel che mi ricordo mi pare bene. I matti di dentro non erano peggiori di quelli di fuori, forse erano anche meglio. Quella era una specie di città, anomala e tutto, d’accordo. Al Manicomio si stava bene, secondo mia madre, diceva che sono stati gli anni più felici della sua vita, eppure eravamo una unica famiglia dentro un ospedale psichiatrico, grande e pieno di cosiddetti malati, che non circolavano ancora liberi, eravamo ai tempi in cui non era ancora uscita la legge Basaglia. Non saprei dire se la suddetta legge è stata giusta o sbagliata, mio padre era contrario, in precedenza ci aveva portati a vivere all’interno del manicomio e noi ci sentivamo proprio a nostro agio, per strano che possa sembrare.

Difficile capire cosa sia successo al mondo occidentale, ma se andiamo a oriente, o anche a sud, diventa tutto ancor più intelleggibile, per noi sembrano altri pianeti.

La televisione ha fatto del suo meglio per farci perdere l’idea del contatto reale con la natura, con i sentimenti autentici e meno con i sentimentalismi indotti e fini a sé stessi, ma poi ci sono state anche tante altre cose, tra cui il computer e l’internet.

Mi ricordo bene assai che dopo aver visto un film sui pellerossa americani, noi due bambini piccoli, si andava a giro a petto nudo colla maggior naturalezza, solo che era febbraio e la mamma quando ci vide si disperò e ci fece rivestire prima che si prendesse un malanno, che fortunatamente non ci prese, ma prima che lei se ne fosse accorta avevamo passato una mezz’ora buona correndo e saltando proprio come fanno gli indiani alla televisione.

Prima che nascessi e poi da neonato, i miei genitori e gli amici di famiglia mi chiamavano scherzosamente il Sarchiapone, ispirati da una scenetta comica televisiva in cui c’era un essere misterioso e forse anche pericoloso, secondo il proprietario che lo teneva in una valigia bucherellata, in uno scompartimento del treno. Gli altri viaggiatori non lo avevano mai visto, non avevano proprio mai sentito quella parola, ma si vergognavano ad ammetterlo.

L’affetto anche degli amici, per qualcuno che ancora non conoscevano, la loro maniera di scherzare di quei tempi mi pare sana e positiva. Niente a che fare con tutta quell’ansia malata di oggi, questa protezione esagerata anche a costo di far diventare un imbecille il neovivente.

Mi ricordo tanti altri fatti che sono seguiti, frasi, parole o semplici omissioni, dai quali ho compreso che eravamo assai più liberi e spensierati, a quei tempi, ma non è certo una novità, lo sanno tutti, ma non ci si può fare più niente ormai.

In seguito mi chiamarono Momo, perché così dicevo il mio nome, da piccolo. Alle scuole medie Minatore, perché vagavo gattoni sotto i banchi alla ricerca di non so cosa.”

“E il tempo, ti pare che passasse in modo diverso là al manicomio?”

“Sì. Ci penso spesso al tempo, almeno attualmente, a quei tempi però non ci pensavo mai. Quando abitavamo al Manicomio di Miggiano la nostra giornata era fatta di piacevole realtà ed era per di più moltiplicata, o forse solo sommata alle precedenti, come dovrebbe sempre essere, ma chissà perché spesso non lo è.

Ma questo che vorrebbe dire in pratica?

Non lo so, forse che si stava bene, solo perché ero un bambino, mio fratello minore anche e magari di più, ma i miei genitori stessi erano più giovani e vivaci, bambini anche loro, in un certo senso, nella maniera di essere adulti certo più sinceri e anche ingenui di quello che sarebbero oggigiorno.

Beh, anche tutto attorno allora era diverso.

Magari il mondo attorno era molto più spontaneo di adesso e ci si poteva godere meglio la vita, unico senso che esista o che sia mai esistito, almeno qui sulla terra, l’unico senso valido, voglio dire, tutti gli altri sono indotti dalla società e quindi sono distorsioni.

Ma anche la società di allora era migliore di quella di adesso?

Ecco, direi di sì, perfino senza volerlo.

Perché?

Era, senza ombra di dubbio, più entusiasta e meno decadente. Forse più rigida, più ingenua, ma anche meno ipocrita.

E come mai?

Forse perché la sopravvivenza in generale è necessaria, ma quando uno pensa che ce lha più o meno assicurata ecco che la povera mente umana non sa più che pesci pigliare, perché quelli, i pesci, perdono consistenza e si dovrebbe avere una filosofia che li sostiene a mezz’acqua, sennò spariscono in mezzo alle alghe che ci sono sul fondo.

Forse ci vuole anche qualcosa di più della vita ripetuta tutti i giorni. Bisogna sognare, credere a qualcosa da raggiungere.

Ecco.

 

 

 

 

LAMPI ALL’INDIETRO

 

Nel 1959, mio anno di nascita, il numero dei passeggeri degli aerei aveva superato il numero dei passeggeri delle navi, per la prima volta. Insomma la modernità aveva piantato le basi per quello che sarebbe stato il futuro.

Però abbiamo ragione di credere che il mondo fosse molto più umano e a misura di essere vivente, indirettamente anche quel paesone e la mia famiglia, come quelle vicine, ne risentivano, secondo me in maniera più scarna eppure più sincera, di quello che potrebbe essere oggi, la realtà è più complicata e quindi anche più falsa, purtroppo globalizzata.

Ho passato la mia infanzia, o perlomeno buona parte, in un manicomio, non è stata una mia scelta, ma è stata un’esperienza positiva. Almeno i matti non si sono mai lamentati di noi, e nemmeno noi di loro.

Prima del manicomio c’era stata la casa paterna e marliese che offriva varie stanze su tre piani, diverse persone di due famiglie, più zia Magali che era a sé e c’è rimasta tutta la vita.

Di quei primi due anni non me ne ricordo, quello che poi ho avuto come rimembranza di quelle persone e di quegli spazi, non solo della casa, ma anche lì attorno e in giro per Marilia, pur avendoli dentro anche prima, in teoria li ho conosciuti dopo, quando abitavamo già al manicomio e andavamo a visitare i parenti rimasti in loco.

Certo è che da bambino ho passato molto tempo da solo. I primi due anni a Marilia, anche se lì la memoria non funzionava ancora, questo non significa che il piccino in questione fosse insensibile, anzi come una spugnetta rosa assorbiva tutto ciò che succedeva intorno, e anche quello che non succedeva. Ne parlo alla terza persona singolare, come se non fossi stato io e me ne sorprendo sempre, ma il fatto è che sono piuttosto plurale anche oggi, in questo momento non mi sento affatto di essere uno solo, forse per questo non soffro la solitudine come gli altri.

Là nel manicomio di Miggiano, la mia verde vita di due anni appena, proseguì in maniera poco comune, dopo il trasloco dalla casa paterna di Marilia. Mentre mio padre lavorava là dentro, nell’Ospedale Psichiatrico, nel grande recinto, in una casa apposita, ci vivevamo insieme: lui, io e mia madre, di cui quest’ultimi due abbastanza estratti da tutto ciò che ci circondava.

Insieme a mio fratello Umberto, nato là dentro, due anni dopo di me, ci rimanemmo dal 1961 al 67, epoca determinante nella formazione del nostro carattere.

Nostro padre naturalmente era uno che si portava il lavoro a casa, visto che, oltretutto, la casa era dentro al manicomio. Forse senza volerlo, però divertendosi, di nascosto anche a sé stesso, indagava nelle nostre piccole esistenze in formazione, in maniera involontariamente professionale e il suo cervello voleva sempre entrare nel nostro, per questo formammo, come potemmo, le nostre corazze, le nostre giovani ma sempre più strenue difese.

Non riuscivo a capire come facesse ad accorgersi sempre di quando stavo mentendo e più avanti a sbaragliare con facilità i miei primi prototipi di tattiche, dandomi una perenne sensazione di impotenza, un po’ come quel dannato occhio di Dio che ti vede e ti giudica sempre e dovunque.

Ce la siamo anche spassata, là, nel manicomio, abbiamo dei bei ricordi e la nostra vita, anche dopo, è sempre stata piena di alti e bassi, quindi interessante.

Certo che la nostra visione del mondo è ancora filtrata, almeno in parte, dalla testa di mio padre, morto da anni e da quell’ambiente dove siamo cresciuti, la nostra profondità è più o meno insondabile, anche per noi stessi.

La nostra affannosa ricerca delle cose, tutto il nostro rapporto esistenziale con i vari ambienti attraversati, passavano sempre e necessariamente dentro un purgatorio di studio, involontario e sempre meno ignorante, dei caratteri umani.

La mia mente è diventata inafferrabile, una bella cosa, nel senso che gli altri ci provano e non ci riescono, anche se a volte pure io la vorrei tanto acchiappare e non ce la faccio.

Ammetto che è stata una faticata, ma ora capisco almeno che nello scrivere è necessario esprimersi in maniera semplice, affinché tutti possano capire, ma proprio tutti.

Spesso le persone gentili sono considerate deboli, o chi scrive in maniera semplice è considerato incapace, ma per me è il contrario.

Io non ho un mio pubblico, ma se ce lo avessi, vorrei che capisse tutto quello che voglio dire, non che fosse d’accordo con me, anche perché quello che scrivo non sono necessariamente le mie idee, ma quello che sento dire, quello che mi pare utile riportare o perfino denunciare, senza sempre necessariamente esprimere la mia opinione.

La conoscenza che ho del carattere delle persone è il risultato di un’osservazione attenta e continua, almeno da quando esisto, eppure incredibilmente cominciata prima della mia nascita, dentro il cervello di mio padre.

Anche mio fratello Umberto sarebbe un osservatore fenomenale, ma è più pigro e incline a considerare che non ne valga troppo la pena, eppure conoscere gli altri è la migliore maniera per arrivare a sé stessi e viceversa.

Personalmente non ho ho ancora capito se poi ne vale veramente, quella pena lì, ma per alcune cose ha la sua brava utilità: conoscere la gente ci può favorire, basta non essere né troppo ottimisti, né troppo pessimisti, ma il più possibile realisti.

Un abbastanza esatto senso della realtà, è forse quello che rappresenta il lato positivo di questo studio continuato degli esseri umani, visto che in mezzo a loro dobbiamo sempre viverci, volenti o nolenti.

Certo è che, a volte, quando le cose vanno male, le facce diventano mostruose, le preoccupazioni semplici ingigantiscono, tutto impazzisce nel meccanismo esagerato del nostro cervello.

Allora bisogna essere estremamente razionali, qui si deve imparare a fare da soli, per questo io dico che a volte, per fare delle necessarie pause, forse è meglio concentrarsi su altri soggetti, come i bachi da seta o il tiro con l’arco. La natura ci aiuta e anche parecchio, basta saperla assorbire, interpretare e viverci più possibile in mezzo, agli alberi e al verde incontaminato, può essere un vero e proprio antidoto.

Quando ero piccolo non ero molto diverso da oggi, la vita che ho fatto però è stata un po' differente da quello che è la vita di un essere umano normale. Forse perché ho sempre sentito di dover rifiutare tante cose tipiche degli adulti, e a volte ci sono anche riuscito a evitarle per un bel po’ di tempo, perfino quando ero diventato a mia volta adulto e forse non avrei voluto.

Magari per questo sono rimasto un caratteraccio ribelle e rude, come ero da bambino. Passo molto tempo da solo, scrivo proprio perché ho una normale necessità di essere ascoltato, almeno da me stesso, che già lì dentro non è facile, figuriamoci fuori.

Al manicomio c’era un qualcosa di differente dalle normali realtà alle quali i bambini sono abituati, crescono probabilmente indotti da un ambiente che c'è intorno, a cominciare dalla famiglia, che anche quella, nel mio caso, era piuttosto complicata.

L'ambiente di un manicomio, anche se è uno di quelli con i matti chiusi nei vari padiglioni con relativo recinto, con in più intorno un sacco di natura libera a disposizione, è un ambiente diverso dal solito e quindi la persona cresce in una maniera anomala, nel bene e nel male.

Voglio dire che la pazzia comunque è una grossa fetta della nostra vita futura, anche se spesso mezzo nascosta e così là dentro, senza volerlo, mi sono messo avanti con il lavoro.

La tragedia e la commedia fanno parte della routine, ma ci devono essere tutt’e due. O perlomeno io c’ho dentro il computer del mio cervello, sempre e comunque collegato al cuore, queste due componenti base, da cui partono tutte le altre ramificazioni.

 

 

RAMMENTEREI

 

 “Il mondo è una delle cose più romantiche che conosciamo, qualsiasi altro pianeta ci ispira una certa diffidenza, forse perché non ci porta ricordi con i quali possiamo immedesimarci.”

“Veramente ci sarebbe la luna, ci fu qualcuno che ci andò a ritrovare il senno perduto. Forse porta alla mente la pazzia, essere lunatici o avere la luna di traverso sono cose poco positive.”

“E poi non è neanche un pianeta e comunque noi la guardiamo di sbieco.”

“Effettivamente.”

 “Insomma siamo tutti terrestri, volenti o nolenti, la nostra personalità si costituisce sui ricordi, anche quelli dimenticati. Per questo non voglio scordarmi di ricordare di quando ero bambino, sulla spiaggia a Viareggio, c’era un venditore di bibite e gelati che passava sudando, cento volte al giorno, mandava il suo grido di riconoscimento e, non si sa se per causa o per effetto, si chiamava Arieccolo. Quando anche il figlio iniziò ad aiutarlo, logicamente fu chiamato Arieccolino. Quanto a sudare Arieccolo non sudava già più, le prime centinaia di passate lo avevano prosciugato.

Ce n’era un altro con il tipico cappello con la N grande di Napoleone, anche se il vero Napoleone probabilmente non ce l’aveva così. Vendeva le schiacciatine da un enorme cesto, e gridava: Volete Napoleone o viceversa?

Io ingenuo bambino, cresciuto in un manicomio con la conseguente fantasia esagerata dall’ambiente e dalle situazioni contingenti, ho sempre pensato che Viceversa fosse la moglie di Napoleone, che vendeva magari qualcos’altro, oppure le stesse cose, sulle spiagge limitrofe, o su quella stessa spiaggia, ma che non era ancora arrivata e magari bisognava dichiarare e specificare di volere lei, e non Napoleone.

Sempre sulla spiaggia ricordo un giorno che aveva piovuto, era ancora un po’ freddino e la sabbia era bagnata, a quei tempi per asciugarle meglio disponevano le sdraio a schiera, girate dalla parte giusta, come se fosse un cinema con il telone davanti, che poi era il resto del mondo. Rimanevano delle parti più grandi di distese di sabbia senza niente e per noi era anche meglio. Io e mio fratello ci mettemmo a giocare a pallone, io avevo il costume da bagno con i colori dell’Inter e lui del Milan, mio padre leggeva il giornale cercando di addomesticarlo al vento, su una seconda fila di sdraio ancora umide. Ricordo bene che avevo un foruncolo all’angolo della bocca che mi dava noia, c’abbiamo delle foto a colori di quel giorno, forse tra le prime non in bianconero, mi sa che ce le aveva fatte uno di quei fotografi a pagamento che passano sulla spiaggia.

Allora i soldi, quando noi siamo bambini, sono o non sono meno importanti?

Sì e no, di sicuro per capire l’importanza del denaro non solo ho dovuto iniziare a lavorare, ma anche andarmene da casa dove ero protetto anche se adulto, da ogni tipo di attacco anti-economico alla mia sopravvivenza. Se vivevo a Lucca o lì vicino questo aiuto potenziale era nascosto ma sempre a disposizione.

Insomma quando sono andato a Berlino, forse, dopo qualche mese, dopo aver perso il lavoro, ho cominciato a capire il cappio che abbiamo sempre al collo e che ci obbliga sempre a mantenere la testa bassa e a lavorare, ad andare sempre a letto esausti e la mattina dopo ricomincia inesorabilmente tutto di nuovo. Nel fine settimana poi non hai voglia di far niente, devi recuperare le forze, se ce la fai, figurati poi se hai dei figli, una famiglia, diventi un prigioniero.

Non si può stare a pensarci troppo, sennò tutto perde senso.

No, forse no, ma è così. La società ci obbliga a vedere il denaro come libertà, ma più facilmente quello ce la toglie e ci soffoca.

“Vabbè. Ora parliamo di cose più romantiche, magari.

Se riusciamo a farci caso, quelle non mancano mai.

Là al manicomio cera spesso una civetta che cantava: tutto mio! tutto mio! Anche di giorno.

Forse una civetta matta.

Più volte lanciava il suo lugubre richiamo dal tetto del padiglione delle donne, che sotto riecheggiava in direzione della nostra casa, e siccome lassù c’era una specie di camino che aveva una forma strana, con dei grandi occhi che erano degli oblò, io pensavo che la civetta fosse quella, troppo gigantesca per essere vera. Infatti mi chiedevo perché non si muoveva.

Forse perché era fatta di mattoni e cemento, più qualche tegola rossa.

I ricordi di queste cose a volte ci fanno chiedere se era veramente così o se ce lo siamo solo immaginato noi.

Infatti. Magari sarebbero belli anche se fossero falsi. In passato la mia stessa fantasia galoppante mi ha portato a visioni di ricordi sovrapposti di un luogo, in maniera di vederlo come se fosse un altro e qui è anche difficile spiegarlo. È successo solo con posti che ho vissuto nell’infanzia e poi ho continuato a frequentare anche dopo. Come la casa del manicomio di Miggiano, da determinati punti di vista la ricordo in due maniere, quella più antica e quella più recente. La casa dei nonni, per esempio, come la vidi da bambino piccolo e dopo con gli anni il ricordo si modificava crescendo, io, non la casa e il luogo attorno... o comunque cambiando un po’ tutti e tre.

Scherzi della memoria.

 Sì, la memoria è burlona assai, piuttosto leopardata direi, cioè funziona a chiazze, magari ci si ricordano cose insignificanti e ci si dimenticano tante altre importanti, insomma non c’è un criterio: belle o brutte, insignificanti o importanti, piacevoli o sgradevoli, vicine o lontane nel tempo. Nella stessa epoca, più o meno, andammo all’Abetone, papà, mamma ed io, mio fratello Umberto doveva essere già nato, magari era troppo piccolo, forse era dai nonni, o da zia Magali.

Penso che ci rimanemmo poco, forse una settimana, all’Albergo Tirolo, che esiste ancora e pare quasi uguale. Intorno è cambiato assai però, sotto c’era una stupenda radura con degli alberi enormi, dove si poteva passeggiare, ora è tutto pieno di case, villette o villone.

Al Tirolo si mangiava bene, ricordo che il sugo della pasta veniva servito a parte, dentro dei vasetti di porcellana bianchi a becco lungo, come si chiamano? Con dentro un cucchiaio, fosse ragù o pomarola. La pasta anche era di qualità, di solito larghe tagliatelle all’uovo, sempre in bianco, con un po’ di burro per non diventare un blocco unico come un nido di rondine.

Nel pomeriggio, dopo un riposino in camera, che a me non piaceva, ma bisognava farlo, andavamo sui prati lì vicino, quelli che d’inverno diventavano piste da sci. C’era l’erba alta e al sole era caldo, ma all’ombra assai fresco e la sera pure ci si doveva mettere una maglia di lana.

A dire il vero mi annoiavo, non conoscevo altri bambini e quelli che c’erano all’albergo erano antipatici, non mi volevano far giocare con loro.

Mi comprarono il Corriere dei Piccoli e fra i tanti insetti che c’erano su quei prati montani, ne seppi riconoscere alcuni e potei chiamarli con il loro nome, consultando le figurine del giornalino.

Ero un bambino con tanta voglia di conoscere, come il nome di quell’enciclopedia che ci comprarono e che abbiamo ancora, la guardavo con grande interesse, curiosità d’imparare, cominciata forse con gli animali, i dinosauri per arrivare poi a tutto il resto di geografia e storia…”

In altre parole spazio e tempo.

Sì. In unepoca precedente e in un altro luogo, per esempio a Marilia, giocavo a pallone su quel piccolo lastrico di mattoni, il tavolino di ferro e marmo - che deve esistere ancora da qualche parte - era la porta dove dovevo segnare, ma il pallone andava spesso a finire fuori rimbalzando oltre il fico e di là c’era il vivaio delle piante.  Ci aveva giocato mio padre da bambino, mio cugino Guido, figlio del fratello di mio padre, Vincenzo e ora il suo nipote, che non so come si chiama e lui non l’ha nemmeno mai conosciuto. C’era anche un cespuglio grande e alto di mortellino, una palma mezza rinsecchita, su un pezzetto di terra polverosa che è stato lastricato da un po’ di tempo.

In camera Guido aveva giornalini differenti dai Corrieri dei Piccoli, Topolini e Geppi che leggevo io, tra cui Monelli e Intrepidi, erano forse più adatti ad adolescenti quale lui era. All’inizio guardavo solo le figure, ma alcuni fumetti mi cominciavano a garbare come Pedrito El Drito, lo sceriffo di una città di ubriaconi, le cui mogli cercavano sempre di togliergli gli alcolici, ma loro glieli riprendevano spesso alla fine, sfidando i loro notturni mattarelli dietro le porte.

 

Quella casa ora appartiene solo a Guido che ci vive con la moglie, le due figlie e il figlio di una di loro.

Quando mi lasciavano lì da zia Magali per qualche giorno non potevo dimenticarmi di giocare con i rocchetti di legno, scarti della segheria del Caselli, (lì accanto, che è diventata un’impresa enorme, e che tratta vari materiali di costruzione,) in cantina ce ne erano una grande quantità, che poi loro bruciavano nel caminetto. Ci facevo dei castelli, delle muraglie cinesi e non, qualsiasi altra cosa che avessi visto alla TV.

Ultimamente con mio fratello Stefano siamo andati a Marilia, per via di un documento per l’invalidità di mia madre, eravamo in anticipo e siamo andati a fare un giretto, volendo vedere la casa paterna. Siamo entrati allora in una corte che prima non c’era e siamo rimasti stupiti di quanto era cambiata, la casa di mio padre, ci avevano addirittura fatto la show room per la ditta Caselli, siamo rimasti esterrefatti e dispiaciuti.

Solo uscendo ci siamo resi conto che ci eravamo sbagliati noi, quella era la corte dove abitava Garita madre di Renzo, ma non di Renzo Andreini detto Porco il Lupo, che anche lui abitava lì, ma era più vecchio assai.

Quando ero bambino, tra noi e la corte dove abitava Garita, c’era il vivaio delle piante, poi il fosso e il lavatoio e siccome dall’altro lato, sulla strada, c’era un meccanico, spesso sull’acqua trasparente e vorticosa vedevo passare velocemente dei riflessi arcobaleno causati da olio o altri idrocarburi.

In corte, sul muro esterno di una specie di magazzino degli attrezzi, c’erano delle mensole, sotto una tettoia, con dei vasi e delle relative piccole piante, che i bonsai non si sapeva ancora cosa fossero. Seminascosti in mezzo, soldatini e macchinine, elicotteri e dinosauri, elefanti e insetti di plastica più o meno tutti della stessa grandezza che Garita trovava nel detersivo Tide e siccome non aveva bambini, le dispiaceva di buttarli via e li metteva lì a fare capolino dal fogliame, dietro i vasi, di piante grasse e magre, a far sviluppare la mia fantasia al galoppo.

Ci passavo ogni tanto, nelle mie esplorazioni e mi incuriosivano, ma non ne rubai mai, non perché fosse cosa non appartenente al mio stile. Magari mi pareva di toglierli dal loro ambiente, di rompere una certa armonia di un’ambientazione di cui non mi rendevo conto, forse c’era qualcosa del genere anche dentro di me, qualcosa che faceva intravedere storie e qualche film non ancora girato, ma solo immaginato.

 Un altro ricordo di Marilia è di un giorno caldo, con mia madre saliamo a trovare mia zia Malena, moglie di Lorenzo, credo al primo piano della vecchia casa paterna. Lei fa il caffè e loro lo bevono sedute nella cucina con il tavolo e le sedie di formica verdolina, che però quel giorno non si vedono, tanto la cucina è buia con la luce che filtra appena dagli sporti chiusi delle finestre. La strada polverosa e bianca sotto è silenziosa, ogni tanto passa una macchina, ora ci sarebbe un traffico infernale, ma a quel tempo il mondo era ancora un po’ più vivibile, anche a Marilia.

 

 

PICNIC

 

A casa avevamo un formidabile cestino di vimini per i picnic, dentro c'erano piatti e bicchieri di plastica e altre cose utili per fare le merende all'aperto, tra cui anche minuscole scatoline che si aprivano svitandole e che si potevano anche avvitare tra di loro in fila. Avevano la perfetta forma e grandezza che ci avrebbero permesso di arrivare a destinazione senza temere le eventuali scosse delle buche di strade di campagna, che secondo i geniali ideatori avrebbero altrimenti messo in pericolo i gusci delle uova sode. Penso che la nostra famiglia lo abbia usato una o due volte, questo cestino, forse perché era pesante e occupava troppo spazio in macchina, ma anche perché i supellettili che conteneva non erano del tutto efficaci, i picnic non erano tanto frequenti, oltretutto il lunedì di Pasqua la pioggia scoraggiava anche i più audaci.

 A proposito ricordo che mio padre mi raccontò che quando venne fuori questa parola, a Marilia venne subito storpiata e divenne pitinic. Sicché le cosiddette Deposite, allora giovani figlie dei proprietari del deposito, che vendeva cioccolatini, boeri e caramelle varie, quando un coetaneo le invitò per un pitinic loro non conoscevano ancora questa parola, pensarono che fosse una cosa sconcia e lo presero a borsettate.

Ida e Sunta, poi rimaste zitelle vita natural durante, erano nostre lontane parenti e grandi amiche di mia zia Magali, anche lei non si sposò mai, ma si fidanzò, insieme a loro, al fecondo pettegolezzo di paese.

 

 

MOLOGNO

 

 “La vita è piena di ingiustizie, tant’è vero che difficilmente il lunedì di Pasqua il cielo si mantiene sereno, di solito quando la gente parte per il picnic, illusa da un timido sole mattinale che spunta tra le nebbie, si aspetta già di dover apparecchiare poi sotto un ponte, o in qualche affollatissimo capannone abbandonato.

Dipendendo dalla clemenza del tempo atmosferico la gente di Mologno, nel giorno del cosiddetto Merendino, giocava a bocce sul circuito squadrato delle strade sassose, quelle con la fascia di erba nel mezzo, che come angoli avevano le loro quattro case in mezzo ai campi, oltre il passaggio a livello del treno, andando verso il fiume Serchio. Mi ricordo di averne seguito un giorno gli sviluppi, ero bambino e chi non giocava portava il vino e la roba da mangiare. Era un divertimento, perché si facevano coloriti commenti accompagnati dalle relative bestemmie e da bicchierotti di rosso, una cosa alimentava l'altra. Le vecchie tradizioni ora si sono perse e, anche chiedendo agli abitanti dei luoghi in questione, si ricordano appena di questa cosa, secondo me invece d'importanza non indifferente.”

“Vero. E tua madre?”

 Te l’ho già raccontato, una tragedia. Il medico di famiglia si è sorpreso della sua resistenza, non sapevo se lo aveva detto per scherzo o no, ma secondo lui era dovuta alle castagne, considerata anche la provenienza Garfagnina, o quasi.

Mi sono informato e ho scoperto che il medico non scherzava, dal punto di vista nutrizionale, le castagne, hanno una notevole quantità di carboidrati complessi, per questo sono in grado di sostituire i più pregiati cereali, con il vantaggio però di non contenere glutine.

Ricche di minerali che contribuiscono al buon funzionamento dell’organismo, le castagne aiutano a rinforzare il sistema immunitario. Stiamo parlando, quindi, di un prodotto di elevata qualità che grazie all’alto contenuto di amidi, proteine, sali minerali come il potassio, il fosforo, lo zolfo, il magnesio, il calcio e il ferro, insieme alle vitamine C, B1, B2 e PP, una bassa percentuale di grassi, è indicato anche per chi effettua attività sportiva. Inoltre, sono molto digeribili e consigliate a chi soffre di anemia o inappetenza e grazie all’abbondante presenza di fibre, sono anche molto utili per la funzionalità dell’intestino.”

“Io ne ho mangiate un mucchio, eppure senza saperlo. Ma fammi vedere queste foto.” Chiede il Giuntini e io gliele passo. Poi dico:

Guardando le foto di quando era bambina e poi giovane e bella, penso a lei, a come era nei vari periodi della sua vita. Prima non assomigliava per niente alla nonna, mi pareva, ma da vecchia diventava sempre più simile, in alcune foto poi sembra la Giovannina, una signora nostra parente che a volte è venuta ad aiutare. È strano ma logico che con la malattia affiorino le maniere di esprimersi della gioventù, l’accento garfagnino e anche tante parolacce che forse per dare l’esempio a noi figli, prima non diceva mai. È la persona che conosco da più tempo, non ricordo bene i particolari, ma sono uscito fuori da lei.

Hai dei testimoni? Scherza sempre e non ride mai, il Giuntini. Un fenomeno vivente di burbero dal cuore grande.

Quanti ne vuoi. Quando siamo andati al cimitero di Barga, che è piuttosto grande, te lo sai, non sapevamo dove era la tomba dei nonni, non c’ero mai stato, mia moglie Adriana ha chiesto mentalmente aiuto a loro stessi e l’abbiamo trovata subito. Alza lo sguardo dalle piccole foto in bianconero e mi guarda, un po’ come se avessi raccontato una barzelletta che non fa ridere.

Non ci credo. Dice.

Eppure è vero.

E che ti ricordi della vecchia e romantica Garfagnana? Se una cosa non gli garba, cambia subito discorso.

Dicono che Mologno non ne faccia parte. Per esempio. E neanche Barga.

Barga no, ma Mologno comunque è sul confine, se caschi nel fiume vai a finire in Garfagnana.

 Non ce n’è alcun bisogno, ne ho un ricordo nitido e nebuloso allo stesso tempo. Una volta stavo aspettando in macchina, su un’ampia curva, in salita di una strada costeggiata da ciliegi e tante altre automobili erano posteggiate sui due lati. Non ricordo dov’era, ma certo da quelle parti, Mediavalle o Garfagnana, forse era al di là dei confini, la curva dei ciliegi. Non so chi stavo aspettando, penso che fosse mio padre e che questo sia successo più volte, la macchina dovrebbe essere una Simca 1000 rossa, o grigia metallizzata, ero bambino e rimanevo lì da solo, per un tempo ragionevolmente lungo. Doveva essere non lontano dalla casa dei nonni, a Mologno

 Ah. E di Mologno allora che ti ricordi? Il Giuntini è di Sommocolonia, ma dice sempre che è di Castelvecchio Pascoli, non so perché. Forse gli garbano le poesie.

Trai primi ricordi della mia vita c’è quello della casa dei nonni materni, un edificio imponente e bianco che spunta da una fitta nebbia, in una fredda giornata d’autunno o d’inverno.

Dovevo aver certo più di due anni, ma non molti di più.

Forse non avvenuta quello stesso giorno la macellazione del maiale, da me seguita a distanza, nel garage dei vicini, con le varie parti sanguinanti poi appese ai ganci, comunque associata a una somigliante porzione di tempo piovviginosa e fredda.

 Comera questa casa? Era grande?

Era grande e ci abitavano altre due famiglie, i contadini. Al seminterrato c’era la cantina, un’abitazione più piccola sul davanti, dove abitavano la Meri e il Cavani, gente simpaticissima. Dalla parte opposta, dove c’era l’ingresso della cantina, sopra c’era una famiglia piegata dal lavoro e dall’alcool, non parlavano, papà, mamma e nonno, avevano lo sguardo nel vuoto, i due bambini più o meno della nostra età erano piuttosto sporchi, ma ancora normali.

Una casa vecchia?

Sì, con i muri larghi e fatti di sassi di fiume.

Che facevate quando stavate lì?

La maggior parte del tempo noi la passavamo in cucina, specialmente dinverno, cera il caminetto e la cucina economica, che si chiama così perché scalda e ci si può anche cucinare sopra.

Dinverno doveva essere freddo…”

“Pare che tu abbia sempre vissuto nel deserto del Sahara, ma te Giuntini l’hai mai visto il mare?”

“Cho anche fatto dei tuffi non indifferenti, a Marina di Massa, o di Carrara, un ci credi?”

“Ci credo, chissà panciate.”

“Invece no, sono mezzo montanaro e va bene, ma perché poi dovrei aver fatto delle panciate?”

“Perché come nuotatori e tuffatori i Garfagnini non sono mai stati trai primi del mondo, per esempio.”

“Ma io sono di Castelvecchio Pascoli.”

“Mi risulta che piuttosto tu sia di Sommocolonia, ma anche se fossi di Castelvecchio sarebbe lo stesso.”

“Diciamo che sono nato a Sommocolonia, ma ho vissuto quasi tutta l’infanzia a Castelvecchio, tecnicamente entrambe non sono Garfagnana, diciamocelo; inoltre sono cristiano cattolico praticante…”

“E con questo?”

“Te lo sai o no che noi del comune di Barga apparteniamo alla diocesi di Pisa?”

“Lo so. E allora?”

“Mai sentito parlare delle Repubbliche Marinare?”

La sua logica è così ferrea che mi stende, di solito parla poco, ma quando lo fa è cassazione. Quando ci siamo ripresi ho continuato.

“Noi comunque si facevano le mondine nel caminetto e si andava a letto presto. La sera dopo cena si giocava sul tavolino, di legno foderato di fòrmica rossa sul piano. I grandi a volte giocavano a carte, noi avevamo un gioco degli animali con delle figurine abbastanza spesse e rigide, che non so chi aveva lasciato in un armadietto che c'era nel salotto dei nonni, nel quale noi andavamo sempre a cercare qualcosa e a volte ci trovavamo delle novità, perché magari gli inglesi quando erano stati lì in vacanza ci avevano lasciato delle cose vecchie, che non gli interessavano più. Questo gioco era incompleto, mancavano delle figurine ma noi le usavamo in un'altra maniera.”

“Ma chi erano gli inglesi?”

“I nostri parenti, emigranti che poi erano i padroni di casa, italiani che vivevano in Inghilterra, a Carlisle.”

“Ho capito. Tua nonna che tipo era?”

“Guglielmina era molto più seria di nonno, di solito si arrabbiava con lui, comunque era lei che comandava, nonno era troppo buono, parlava tanto e con tutti attaccava discorso, invece nonna non era di molte parole a vanvera.”

“E il nonno com’era?”

Immaginati un triangolo in piedi, forse una piramide un po’ più slanciata, la parte del corpo più bassa grossa e quella superiore più fina, la testa magra e allungata. Le gambe e il bacino parevano parte di un corpo più massiccio e imponente, il torace lo era assai meno, pareva non averci niente a che fare, le braccia però erano muscolose.

Quando arrivava un ospite andava giù in cantina a prendere il vino buono, nessuno poteva riuscire a trattenerlo. Il vino non era buono per niente e mio padre, che in qualità di ospite ogni volta veniva privilegiato da questa attenzione, non si dimenticava mai di ricordarglielo. La sua ironia prefabbricata, che ripeteva immancabilmente, di quel buono davero quel vino lì, che poteva avere perfino sei gradi e mezzo forse addirittura sette. Anche lui non poteva essere fermato da nessuno al mondo, doveva dirglielo tutte le volte.

Anni dopo, avevo già la patente di guida e andai a trovare i nonni con una fidanzata e un’altra coppia di amici, nonno Pita ci accolse con calore, andò a prendere il vino buono, giocammo a scopa e a briscola, dopo che ce ne eravamo andati però chiese a zia Alba chi diavolo fossimo.

Il Giuntini ride, cosa rara, forse perché gli mancano dei denti davanti...

Sbaglio o hai detto Pita? Si chiamava così?

Si chiamava Pietro, ma in Inghilterra lo chiamavano Peter, che pronunciavano Pita.

E doveva essere un simpaticone.

Infatti. Una domanda che il nonno mi faceva sempre, fino a quando morì, era se avevo finito o no il servizio militare. Quando la nonna ci lasciò, lui campò solo pochi giorni in più, dopo tutti quegli anni non ce la fece ad adattarsi senza di lei.

Il nonno comprava quelle mattonelle da attaccare alle pareti con le bischerate scritte tipo Saranno grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui si siedono son tutti come me.  Il marito di sua figlia naturalmente lo prendeva in giro ad ogni occasione. Mio padre ripeteva sempre le stesse battute, gli anni passavano, ma quelle non cambiavano mai. Anche il nonno scherzava con frasi fatte e ripetute più volte, che non si sapeva nemmeno cosa significavano, come Trinkes weine, arrivi e partenze, la prima parte evidentemente dal tedesco, bevi il vino, la connessione con la seconda parte, arrivi e partenze, doveva essere qualcosa a che fare con i treni, ma la combinazione tra le due parti sfuggiva a tutti e pure le occasioni in cui usava dirlo erano misteriose e parevano anche quelle difficilmente da potersi includere in una sola categoria. Poi c’era: alla pesca del tonno! Che veniva usata quando qualcuno pescava, sottintendendo che non avrebbe preso pesci o poca roba. Quando una mamma picchiava un bambino, lui rideva e diceva: botte all’arbitro! Un'altra frase che pronunciava spesso ridendo a noi bambini era: che bastiano ch’un tu sei!

E che rapporto avevano loro con quella casa?

Era come se fosse la loro casa, ma era degli inglesi, penso di zia Alice, sorella della nonna. Dicevano che lei era ricca e ricco era anche lo zio Dorando, che ogni tanto ci faceva visita e andava a vangare nel suo orto, vicino alla stazione del treno, che stranamente non si chiamava la stazione di Mologno, ma era quella di Barga-Gallicano. Te lo sai meglio di me.

Non so dove avevano abitato prima, ma io li ho conosciuti e li ho sempre visti in quella casa.

La bisnonna, da parte di mio nonno Pietro, era raffigurata in un quadro, dove spazzava con una scopa di saggina la stalla. Mia madre appariva in alcune foto in bianconero, appese e incorniciate nel salotto buono, che non veniva mai usato ed era arredato come succedeva una volta. Era come un museo, pieno di ricami, vetrinette e cose da non toccare praticamente mai, se non per pulirle. In una grande fotografia con la cornice argentata due bambine piccole, molto diverse tra di loro, vestite di pizzo chiaro, una cicciottella e scura, mia madre, l’altra più magra e bionda, zia Alba. In un’altra foto mio nonno appariva giovane e vestito da carabiniere, ma secondo quello che dicono faceva solo parte della vigilanza della grande industria di Fornaci, la metallurgica SMI, che era come una città e c’era anche un grande cinema dove da bambino ho visto uno dei miei primi film, Via col vento.

A voi bambini piaceva andare e restare dei giorni dai nonni, non è vero?

Sì. Per noi era rovesciare la realtà e trovarne unaltra più romantica e quasi mitologica. Per esempio le camere da letto erano tutte particolari, oltre a quella dei nonni, che conoscevamo meno, le tre altre camere di quella casa le ricordo bene, due perché erano tenebrose e una perché ci dormivamo noi due, in un freddo tremendo d’inverno.

La prima, unica al primo piano, che al pianterreno, o seminterrato c’era la cantina. La camera aveva due letti, uno singolo e uno matrimoniale, era l’ideale per starci in tre, Umberto, mia madre ed io. Probabilmente i mobili venivano dall’Inghilterra, perché non ne ho mai visti di simili, erano bombati e riproducevano i disegni dei nodi di legno, ma non erano massicci ed erano sicuramente fatti di pannelli poco spessi, scuri e curvi. La luce era scarsa che per leggere un giornalino ci perdevi gli occhi. Le lampade anche riproducevano un improbabile marmo trasparente con le sue venature, ma le lampadine dovevano essere le più fioche disponibili, ci veniva subito sonno. Sui letti degli imbottiti caldi, ma non tanto pesanti come quelli che si usavano di solito all’epoca, che erano pieni di lana, questi invece erano riempiti di piume, credo, disegnati a fiori e fogliame ma a colori scuri e smorti, sul marrone verdastro. Questa camera poi noi bambini non la usammo più perché ci trasferimmo al piano superiore, eravamo un po’ più grandi, si dormiva da soli e penso che quella fosse la più fredda della casa, perché era d’angolo, aveva due finestre e prendeva il freddo da due lati, era l’unica che aveva un lato esposto in direzione del fiume e più oltre delle Apuane. C’erano quegli imbottiti pesanti e in più coperte supplementari, mio padre diceva che con quel peso addosso, quando uno si svegliava la mattina, era più stanco di quando era andato a letto e poi doveva recuperare dormendo.

In quella camera freddissima c'è un ricordo pauroso di un grosso coniglio, che avevamo visto in un film, chiamato Harvey e la notte ci sembrava di vederlo, a me e mio fratello, in piedi vicino all'armadio e alla finestra. Aveva come un corpo umano, di un uomo assai alto e la testa di coniglio. Nel film non si vedeva mai, ma ne parlavano sempre, quindi lasciava spazio alla nostra immaginazione, che non era poca. Dormivamo con la testa sotto le coperte e durante la notte andare in bagno era peggio di una spedizione in pigiama al polo nord. Quella era la stanza più fredda in assoluto, non mi ricordo di aver mai fatto un bagno completo là, forse i nonni lo facevano d’estate, mentre noi aspettavamo di tornare a casa.

La terza camera la usavamo solo in caso di necessità, forse quando c’erano ospiti. La rete del letto matrimoniale era incurvata e concava, la testa rimaneva più alta del normale, il corpo scendeva al suo massimo all’altezza del sedere e le gambe rimanevano rialzate anche loro, ma meno della testa e da sdraiati si vedeva bene la strada e il passaggio a livello del treno. Era una camera piccola e scura, sia per le pareti, mi pare verdi scuro, che per i mobili marroni, ma quasi neri. Quando si accendeva la luce, anche lì, sembrava quasi più buio e non si poteva proprio leggere.

Interessante.

Di fronte al terrazzetto allingresso, che poi era sotto questa camera, cera la capanna, in una parte aperta in basso, cera un vecchio barroccio polveroso, per tutto il tempo, e ti parlo di decenni, non è stato mai mosso di lì e anche un passeggino basso, aerodinamico, che somigliava a un piccolo carro armato, forse rosa, doveva essere all’ultima moda ai suoi tempi, forse negli anni sessanta, poi arrugginito tanto da non distinguersi più il colore. Non so se sono ancora lì, ma io non li ho mai visti muovere da nessuno, mai.”

Beh…”

 Mi garbano le cose strane, lo so, e quelle vecchie, come quella stanza dove facevano il pane… se stanza si può chiamare perché più che altro era un corridoio scuro con due madie una di fronte all’altra, in fondo una finestrella che dava verso Gallicano e il monte Forato. E c’era un odore di farina e muffa che non ho più sentito da un'altra parte, ma lì c’era della bella storia e della geografia non indifferente…”

In un certo senso…”

Nooo, in tutti i sensi!

Come era disposta la casa dei nonni?

La casa aveva un seminterrato e due piani, fatta come una specie di U e nel mezzo, c'era una parte dove non batteva mai il sole, che veniva praticamente frequentata solamente dalle galline, dove c'erano pietre di fiume arrotondate lasciate alla rinfusa, dove non cresceva vegetazione e andavano a beccarci ciottoli e cose del genere. C'erano anche suppellettili come catinelle e vasi da notte metallici e bucati, insomma cose buttate e lasciate lì, quelle che con il tempo non erano marcite. Quindi era una specie di terra di nessuno dove la gente non camminava mai e che avevo visto anche dietro altre case in Garfagnana, che avevano in comune il fatto di essere frequentate solo dalle galline, che non ci batteva il sole e spesso c'erano anche dei rifiuti solidi di vario tipo e tenore.

Allora cera un pollaio attaccato alla casa?

“Sì, una parte almeno era prolungamento della casa. Dove le galline dormivano e deponevano le uova. Poi c’era un piccolo edificio staccato, nella prima stanzetta in muratura c’erano le gabbie dei conigli, ce ne erano diverse anche fuori, coperte dalla lamiera, non so con quale criterio erano divise. Mi piaceva dargli da mangiare, anche se dovevo stare attento a cosa gli proponevo, oltre che alle quantità, sennò gli faceva male. Nella seconda stanzetta c'era una specie di grande contenitore fatto di terracotta che serviva per ottenere la lisciva, attraverso l'ebollizione di cenere e acqua. Da un rubinetto in basso usciva questo liquido denso giallastro, la lisciva, che poi era un detersivo per fare il bucato.”

“La facevano anche a casa di mia nonna.”

“Infatti, una volta funzionava così.

Sopra una specie di capanna di legno, abbastanza aperta dai vari lati, piena di fascine legate, per accendere il fuoco. La legna a pezzi era invece nella rimessa, che era dall’altra parte della casa.

La pompa era in mezzo al pollaio, che era uno spiazzo recintato dove le galline becchettavano i ciottoli, comunicante con una stanzina in muratura, dove erano incoraggiate a deporre uova con bianchi sassi di fiume dalla forma somigliante, ma venivano lasciate libere di uscire fuori per tutto il giorno. Erano libere di vagare quanto volevano, non si allontanavano mai troppo. Poi la sera la nonna o chi altri le chiamavano e loro accorrevano velocissime, perché dentro gli tiravano del granturco sgranato, per premiarle o per stimolarle a tornare.

Oltre l’aia, che era uno spiazzo di cemento dove una volta si facevano seccare il granturco sgranato e i fagioli ancora da sgranare, i nonni avevano anche un piccolo giardino accuratamente recintato, per colpa delle galline, che era sempre perfettamente in ordine, ma non ci andava mai nessuno.

Per prendere l'acqua dal pozzo bisognava tirarne prima un secchio dentro la pompa, quindi era un didattico rapporto di dare prima di avere. Per tirare su acqua in quantità bisognava lasciare un secchio pieno lì vicino, per la volta seguente, sennò niente.”

“Intorno alla casa come era il terreno? Era coltivato o no? Ora lo vedi che non piantano più niente, da nessuna parte.”

“Diamine. Cera un orto recintato con la rete fina, per via delle galline, ci si andava a rubare le fragole, quando era l’epoca. I campi erano coltivati a erba medica, o a granturco, cercando di alternare, mi ricordo anche piante di patata, ma per quelle le galline erano un problema e le rovinavano. Erano tutti campi delimitati dai filari di uva, le strade anche e l’erba cresceva ai lati e nel mezzo, dove passavano le ruote prima dei barrocci e poi delle automobili e dei trattori, la terra rimaneva battuta e nuda, ma non fangosa quando pioveva, perché c’era mischiata parecchia ghiaia di fiume. Pietre grosse e veri e propri massi affioravano in certi punti, come in mezzo tra la casa e la capanna, lì c’erano delle pietre piatte enormi per lastricare la leggera salita, dai muri spessi della casa anche affioravano degli scogli non indifferenti, che erano già nel terreno o forse li avevano messi per renderla più forte alla base.” Il Giuntini mi versa un bicchierotto di rosso, senza chiedermi niente e uno per sé.

“Cerano alberi da frutto?”

“Dietro la capanna c’erano dei noccioli che all’epoca della maturazione venivano saccheggiati da noi bambini, davanti al pollaio un ciliegio enorme, il nonno ci andava con la scala e riempiva dei cesti, una volta ricordo che esagerò negli assaggi e si sentì male. Due bellissimi susini, la chioma a forma di cuore come i frutti, di colore vino come le foglie, erano però sul terreno dei contadini, all’ombra della casa, ma anche quelli non erano al riparo delle nostre incursioni.

Salendo in mezzo a queste costruzioni di pietra di fiume si andava verso una fattoria grande e alta, fatta a elle, dalla quale c’era una stupenda vista, sotto si vedeva la scogliera e il fiume, Gallicano sull’altro lato.

La strada in mezzo ai campi faceva un quadrilatero incontrando un altro gruppo di case, per tornare vicino al passaggio a livello, alla casa di quello che veniva chiamato L’Antico, perché viveva come ai vecchi tempi e non si adeguava ai nuovi.

Arrivando dal passaggio a livello, che ora non c’è più, in fondo a quella strada dritta a sinistra della casa, c’era una curva, e lì un canneto che veniva fuori da un mucchio di sassi di fiume arrotondati, di varia grandezza, probabilmente quelli tirati fuori dai campi, per poterli coltivare. Continuando da quella parte si trovava la casa del Piruletti, così denominato perché si girava spesso su sé stesso, mentre parlava con gli altri, forse era nervoso, faceva delle piroette. Di lì l’unica via d’accesso attuale, che porta sulla strada principale, vicino al ponte di Gallicano, paese più grande, che è dall’altra parte del fiume.”

“La casa allora era quasi sul letto del fiume?”

“Cerano tre livelli, almeno quando il fiume non era in piena: il nostro, la piana di sotto protetta dalla scogliera e il letto vero e proprio del fiume. Sul più alto, la capanna, la rimessa e la stalla, in un unico blocco di muri di pietra, sono rimaste uguali e completamente abbandonate. Lì di fronte la casa era ed è ancora su una specie di pianoro di terra più alta, che teoricamente dovevano essere al riparo dalle piene del fiume, ma è successo che la corrente vorticosa una volta era arrivata anche sopra e tutti cercavano mio nonno, già senile, che vagava come un pazzo per quelle stradelle invase dall’acqua minacciosa.

Più in basso c’era un lavatoio incassato in un poggio dove passava una gora di acqua chiara ma vorticosa, che doveva servire per irrigare i campi delle case più in là. Mio cugino Saverio e suoi amici ci avevano messo dei bei pesciotti pescati nel fiume lì vicino, ogni tanto se ne vedeva uno, specialmente nello sportello a sinistra del lavatoio, che non so a cosa servisse ma lì era pieno di pietre e di acqua pulita. Nel lavatoio ci giocavamo con delle zucche lunghe e verdi come poi non ne ho più viste, avevano passato il film di Moby Dick alla televisione, in quei giorni, con Gregory Peck che faceva il capitano Achab, e quindi le zucche diventarono balene enormi nel nostro gioco.

Al di sotto di quella specie di pianura, dove c’erano le case, c’era la scogliera, che consisteva in un enorme argine di cemento e pietra che veniva regolarmente distrutta dalla piena del fiume. Sarebbe utile ricordare a cosa avrebbe dovuto servire questa scogliera, cioè per proteggere dalla piena del fiume i raccolti dei campi che c’erano dietro. Nonostante il fatto che venisse sempre fatta a pezzi da questa vorticosa acqua in piena, la ricostruivano sempre alla stessa maniera. Il bello era che dentro queste spaccature della scogliera c'erano tante lucertole, naturalmente era anche un nido ideale per le serpi. Arrivando sulla scogliera d’estate, senza fare tanto rumore, si potevano vedere le bisce che stavano stese al sole.

Penso che i fossi che ho detto prima, essendo in posizione assai più alta del fiume, fossero incanalati a partire dalla Corsonna, che è un torrente che si butta nel Serchio vicino a Mologno ed è proprio lì dove sta per arrivare nel fiume, c'è uno slargo di cento metri per cinquanta, tutto di rocce arrotondate più o meno alla stessa altezza, che sembra fatto per un qualche motivo, forse per rallentare la forza delle piene, il nonno mi ci ha portato, qualche volta poi ci siamo andati da soli.

Ci sono stato anchio a Mologno, lo conosco a menadito…”

Anche i tuoi erano di quelle parti?

No, mio nonno era di Limano, e non c’è bisogno che mi dici la filastrocca.

Che filastrocca?

Lucchio, Limano e Vico sono tre paesi che non valgono un fico.

E loro invece che rispondevano? Chiedo io.

Ah, sai pure quella? Risponde domandando il Giuntini senza ridere, già sapendo la risposta.

Io sì, sei te che non la sai!

Figurati, l’ho quasi inventata io!

Bugiardo. Allora dilla!

Come sei scemo! Vico, Lucchio e Limano; togli il cappello e tienilo in mano.”

“Bravo Giuntini. E la tua nonna?”

La nonna era di Vagli.

Di sotto o di sopra?

Di sopra, di sopra.

Ma a me mi avevano detto che era di sotto...

Imbecille, ma se ti dico che era di sopra ma te un ce n’hai più di ricordi che ti vengano in mente?

Hai voglia te mio cugino Saverio poi se n'è andato in Venezuela, ma da piccolo ho diversi ricordi con lui, tra cui quando il nonno aveva un motorino che lo teneva nella rimessa sempre lucido e pulitissimo, lui glielo fregava e andava a fare il cross sul fiume e prendeva sempre in giro il nonno perché lo chiamava la motogigletta.

Poi, in un giorno freddissimo di febbraio io e Saverio siamo andati sopra il garage dei contadini, dove macellavano il maiale e là sopra c'era una specie di altana con il granturco sgranato a seccare, di quel mucchio avevamo fatto un cratere, come se fosse un vulcano ed era diventato la nostra trincea, si sparava ai nemici protetti da argini di granturco.

Bello e poi?

Io non lho mai visto, ma una figura mitologica era il Veloge che prima degli anni sessanta veniva a piedi con qualche scarsa pentola da vendere, e diceva:

- La volede questa bella pentorina?

Le donne, più per divertirsi che altro, si mettevano a farci le trattative sui prezzi, fingendo di considerarli esosi, ma alla fine poi non gliele compravano quasi mai, povero vecchietto.

Suo erede naturale, ma con una struttura assai più ricca e complessa era il Bocione, che urlava quando arrivava con la sua Apecar carica di utensili per la cucina, perlopiù di plastica, dopo l’avvento del Moplen, che attaccati a una struttura metallica aperta sventolavano e si dimenavano quando era in movimento. Era un tipo grassoccio e rosso in faccia, che probabilmente amava il vino e la cucina rustica della Garfagnana, aveva un vocione che non aveva bisogno del megafono, ma in un secondo momento anche quello apparve trai suoi richiami per il pubblico, tutto femminile e casalingo, che si divertivano anche con lui a trattare sui prezzi e a parlarci senza aver troppe intenzioni di comprare, faceva parte del gioco.

Altri giochi? Versa ancora due bicchierotti. Brinda.

Salute. Tra le prime volte che ho giocato a pallone c’è stata quella sul letto del fiume Serchio, un campetto improvvisato pieno di sassi e senza erba, insieme al mio cugino Saverio ed è stata una partita tra una decina di bambini di varie età. Le due squadre erano denominate Seghini e Segoni, vincemmo noi Segoni cinque a quattro.

Eh sì, i Segoni erano forti assai. Ci ritorni volentieri a vedere la casa dei nonni?

Sì. Ci sono tornato tante volte e ora fa proprio pena vederla, cambiata in peggio, alcune sue parti abbandonate, con le finestre rotte e vedere che lì attorno il degrado è ormai routine dichiarata e affermata.

Ci sono tornato varie volte a Mologno, una volta anche con mamma e un suo vecchio amico, che le telefonava sempre, dopo la morte di mio padre. Anche se tutto è cambiato e abbandonato, ci vado sempre volentieri. Quello era il mondo dove è cresciuta mia madre, ho cercato spesso di immaginarla da bambina giocare, in quell’ambiente, andare a scuola a piedi a Barga e poi quando ha conosciuto mio padre, in una festa da ballo all’aperto, come a quei tempi organizzavano d’estate.”

 

 

IMMAGINAZIONE

 

Ricordo il film Kapò, sui campi di concentramento tedeschi, che passai quasi tutto dietro la poltrona, ma perché non me ne andavo proprio? Qualcosa m’incuriosiva e mi attirava, ma mi faceva troppa paura. Oltretutto da là dietro sentivo l’audio e mi figuravo cose ancora più turpi con la mia immaginazione galoppante.

Non credo che i genitori moderni avrebbero fatto vedere a un bambino di circa cinque anni un film del genere, ma visto che noi vivevamo nel Manicomio di Miggiano, forse una cosa implicava e complementava l’altra.

Penso che sia stata in quell’epoca che mi insegnarono ad andare in bicicletta senza le ruotine laterali, sul prato rasato del giardino, per via dei voli in terra e poi togliendole una alla volta.

Papà prendeva in giro il tenente Sheridan, diceva che era troppo implacabile e\o inesorabile. La Freccia Nera piaceva un po’ a tutti e ce la guardavamo sempre. Maigret gli garbava e penso che se lo sia visto tutto, dopo cena, nell’epoca del bianco e nero. Lo stesso con i Racconti del Maresciallo di Mario Soldati con Turi Ferro. Poi c’è stato FBI (Francesco Bertolazzi Investigatore) piuttosto buffo, con una musichina tipica da suspense, sei puntate stile commedia poliziottesca, di e con Ugo Tognazzi, ma era già a colori.

Quando guardiamo un film ci commuoviamo quando riusciamo ad immaginare noi stessi in quella situazione o in quell’altra.

 Sì, magari ci vuole della fantasia, anche solo per scorgere qualcosa di più romantico, oltre la ripetizione di situazioni e di pensieri.

La fantasia è importante, non è mica una mercanzia come le altre.

Non me lo dire a me che di fantasia io ce ne ho sempre avuta da vendere, eppure non l’ho mai venduta, a eccezione di questi libri, forse, la fantasia non la vuole nessuno, anche i miei libri poi non li compra nessuno, non perché non siano belli, ma perché la gente oggi va dietro ad altre cose e questi poi non ha nemmeno occasione di venire a sapere che esistono, o che leggerli sarebbe una maniera piacevole di passare il tempo e che nel mezzo non c’è nemmeno un po’ di martellante pubblicità, ormai non ci si fa più caso. In più leggendo non si dà noia a nessuno e questa purtroppo è un’altra cosa che non interessa ai più, la gente è diventata dinamica nel senso più negativo, rumorosa nel senso meno positivo.

In che senso?

Nel senso che si muove troppo senza ottenere niente, che vuol cambiare sempre e comunque, specialmente le cose che vanno bene e si potrebbero lasciare così, che dà meno importanza alla storia, oggi che il movimento fine a sé stesso è diventato il sistema di vita di una civiltà che fa il verso a sé stessa e non capisce più dove sta il bene e dove il male.

Fermati qui, so che potresti continuare, ma non ce n’è bisogno. Anche te non compreresti libri di qualcuno che non conosci, quando compri un libro vai a colpo sicuro, no?

Infatti, ma il problema non sono tanto i lettori, quanto il sistema che li invoglia verso cose molto più altisonanti, la pubblicità... cioè il mercato, quelli decidono cosa è bello e non viceversa come dovrebbe essere. Oggigiorno la novità anche vuota e ripetuta ma mascherata da nuovo è l’unica possibile, perché se dovessero tornare ad apprezzare veramente le cose belle, riabituare il pubblico a riconoscerle, ci vorrebbe più tempo e allora i costi salirebbero. Chi se ne frega se l’arte è diventata una banana attaccata con il nastro adesivo al muro? Se il nostro carburante sono questo tipo di novità, la frustrazione sarà il nostro precoce destino, ma alla fine non importa a nessuno. La creatività e il senso dell’humor piuttosto sarebbero il sale e il pepe dell’esistenza, anche dentro un libro, se riuscissimo a divertirci tutti i giorni, invece di fingere, anche nelle situazioni noiose o inevitabilmente più volte ripetute, tutto sembrerebbe avere una migliore e bastevole ragione di esistere.

Ma secondo te, la gente ha bisogno di pensare a tutte queste cose?

Forse no, purtroppo, a tanta o troppa gente la ripetizione, così com’è, va anche bene. Gli basta di avere quelle cose garantite che andrà avanti all’infinito con la stessa routine.

Fammi un esempio allora, pratico e indicativo.

Per esempio, se vedo i comici di un tempo mi fanno ancora ridere, quelli di oggi pare che non sappiano più cosa fare, ma la gente mi pare che non lo noti, ride lo stesso, di cose ripetute e stereotipate.

Effettivamente…”

Che la vita sia piuttosto ripetitiva forse se ne accorgono in pochi, e forse solo costoro scoprono che va saputa allargare a partire dalle sue innumerevoli pieghe, le piccole cose di tutti i giorni, per esempio i ricordi bisogna saperli ripescare, anche e soprattutto quelli vecchi che si possono anche rivivere, che ci possono anche insegnare cose divertenti e utili nell’attualità.

Tipo cosa?

 

 

 

 

DINO E GIANNI

 

 

Dino quando era piccolo c’aveva dei biscotti tondi e quadrati con dei minuscoli buchi, le Marie. Magali allora diceva:

“Lo vuoi tondo o quadrato?”

“Tondo.” Lei glielo dava tondo, e lui piangeva forte:

 “Nooo!! Lo voglio quadrato!!!”

Quando si rompevano poi lui non li voleva più e allora lei glieli cuciva.

Da bambino mi avevano portato in città, a Lucca, per qualche giorno per via dell’allergia al polline. Mi tennero a casa di zia Ada, a quei tempi un appartamento enorme, agli ultimi piani, di cui ricordo principalmente la notte, quando passava una macchina per la strada sottostante, la luce dei fari formava schermate di luce attraverso le persiane, che si allungavano e camminavano lungo la grande sala e la percorrevano tutta, fino alla curva a gomito, poi sparivano con il rumore del motore dell’automobile. Il loro figlio, mio cugino Dino, probabilmente aveva pescato tre pesciolini che dormivano nella vasca da bagno, ma se accendevi la luce saettavano, per fuggire, non so dove e non lo sapevano nemmeno loro. Due gobbi e una rovella timidi che tentavano di abituarsi al buio.

Con suo padre, Gianni, andammo una domenica a vedere la Lucchese a Carrara, che vinse su sfortunato autogol, ma per loro fu fortunato, solo che Dino non lo fecero giocare. Eravamo in tre, c’era anche zia Magali, che purtroppo una partita di calcio, con il suo difetto di vista, non la poteva vedere, ma ci fece compagnia. Non mi ricordo se fu all’andata o al ritorno che ci fermammo sull’Aurelia per un caffè, un panino, quello che c’era. Io ero abituato con la mia famiglia, che quando non mi piaceva qualcosa me la dovevo mangiare lo stesso, quindi quando arrivò il panino dissi che era troppo alto, non che mi aspettassi che me lo mandassero a rifare, ma zio Gianni era molto premuroso sebbene non ridesse mai, e chiese gentilmente se me lo potevano tagliare un po’ più basso. Quando tornò mi accorsi che era più basso sì, ma anche che dentro c’era la pancetta, che non mi piaceva. Zio Gianni di nuovo mandò a farlo con il formaggio. Al terzo giro non dissi niente e me lo mangiai, il pecorino era secco e duro, il pane anche. Se mi pigliavo quello che era arrivato per primo era certo più buono, il pane era alto sì, ma era fresco, era difficile tagliarlo fine. La pancetta a dire il vero non l’avevo mai assaggiata, quando successe ero già maggiorenne e mi piacque.

 

 

RODOLFO

Nel grande recinto, in una casa vecchia e grande, ci vivevano insieme: Mauro, suo padre Rodolfo, sua madre Nadia, il fratello Umberto, nato là dentro. Ci rimasero dal 1961 al ‘67, epoca determinante nella formazione del loro giovane carattere. Rodolfo Bartelloni lavorava là dentro, nell’Ospedale Psichiatrico.

Era uno che si portava il lavoro a casa, visto che, oltretutto, la casa era dentro al Manicomio. Senza volerlo, indagava nelle loro piccole esistenze in formazione, il suo cervello voleva sempre entrare nel loro, per questo formarono, inevitabilmente, le loro corazze, le loro difese.

Per questo un navigato figlio di psichiatra, dovrebbe assolvere bene il suo compito di essere umano, nella confusione della vita, in mezzo a tanta gente. A patto che non gli venga chiesto niente, però, non gli piace di essere forzato.

Il figlio di psichiatra è uno che, suo malgrado e indirettamente, da sempre è stato coinvolto nel meccanismo, ne conosce più la pratica e meno la teoria. Ecco che il figlio di psichiatra trova il suo più confortevole baricentro nel necessario cammino del tempo.

E le soluzioni ai quesiti lasciati in sospeso dal genitore illustre, uomo molto più teorico che pratico, insieme alle alternative necessarie per ovviarne i punti dolenti. In più, evita sistematicamente di porsi troppe domande, alle quali poi non saprebbe rispondere.

Un figlio di psichiatra, anche se ha dei dubbi su come gestire la propria vita, su quella degli altri si pronuncia con scioltezza, disinteresse e, a volte, perfino con precisione e capacità.

“Non riuscivo a capire come facesse immancabilmente ad accorgersi di quando stavo mentendo e, più avanti, a sbaragliare con facilità i miei primi prototipi di tattiche, dandomi una perenne sensazione di impotenza, un po’ come quel dannato occhio di Dio che ti vede e ti giudica sempre e dovunque.

Una volta disegnai dei dinosauri e poi gli feci vedere le mie opere, gli piacquero, ma trovò subito quello falso, inventato da me, solo perché era giallo limone e con sei zampe.

A proposito di film, mio padre aveva una teoria, piuttosto difficile da dimostrare, secondo lui, in un buon film di cowboy, ci doveva essere per forza un biascino, cioè un vecchietto che di solito guidava la corriera, col cappello mezzo sgualembrato calato fin sugli occhi, la barbaccia incolta, masticava tabacco con la bocca sdentata e sputacchiava qua e là.

Il biascino, di solito moriva in un assalto degli indiani, in una scena commovente, perché tutti gli volevano bene, era un vecchietto sempre di buonumore, coraggioso e generoso per natura.

Gli indiani naturalmente erano sempre cattivi e nei film non si diceva mai perché, figurarsi che non avevano rispetto nemmeno per i biascini.

Una volta, mio padre disse anche che i fucili Winchester, ai tempi epici della conquista del West, si ricaricavano una volta alla settimana. Per scherzo, visto che non smettevano mai di sparare, ma io ci credetti.

Giocando a cowboy con i miei compagni, difesi alla lettera questa tesi, pur se loro se ne dimostrarono più volte scettici, ma alla fine l’accettarono.

 

 

 

PRETI

 

Mio padre diceva anche che nei film di Fellini c’erano spesso dei preti, gruppi di suore e di frati, file lunghissime di giovani del seminario, magari su una deserta spiaggia d’inverno. Facevano parte del movimento della scena, del paesaggio insomma, non erano personaggi principali, piuttosto delle comparse. Attraversavano la scena, si guardavano intorno. Erano anche delle persone, in un certo senso, ma direi che erano piuttosto dei simboli.

Mi pare un bell’effetto comico, dentro una cosa altrimenti seria e che rappresenta bene assai quest’involucro generale della religione, tipicamente italiano.

Forse perché anche tra gli amici di mio padre c’erano due preti, ed essere amico di mio padre non era facile. Questo suo rapporto coi preti la dice lunga su di lui, che normalmente era ipercritico con gli altri e magnanimo con sé stesso, dentro di lui però sono convinto che era approssimativamente il contrario. Per papà quei due rappresentavano le uniche persone veramente corrette, in un mondo d’imbroglioni, di tanta o troppa gente senza dignità.

Qualche volta facemmo anche le vacanze insieme, ma uno alla volta, e notai che tutti e due, in maniera assai differente, erano persone veramente affabili e simpatiche, gente di buona e grande compagnia.

Il primo era Don Mario, il parroco di S.Pietro in Campo che aveva sposato mio padre, nel senso che aveva celebrato la cerimonia in chiesa.

Dovevo aver sei o sette anni quando ce ne andammo per una settimana in montagna, al Lago Santo e alloggiammo tutti e tre nella stessa camera del rifugio Marchetti. La sera, la lotta sul letto con Don Mario era una tappa obbligata, prima di dormire, era lui che mi saltava addosso quando meno me lo aspettavo.

Con Don Mario celebrammo anche una messa all’aperto, davanti alla cappella del lago, io ero il chierichetto e tutti e due vestiti sobriamente, ma senza alcuna uniforme sacra. Era una bellissima mattinata di agosto e la gente si commosse delle sue parole di gratitudine all’ipotetico creatore, del suggerimento che dava alla gente di pensare più a quello che aveva e meno a quello che gli mancava.

Mi commossi anch’io e persino mio padre.

Noi due non abbiamo mai praticato la religione, né veramente creduto in un eventuale Dio qualsiasi. L’abbiamo sempre vista come una cosa falsa, prefabbricata, con le debite eccezioni che sono quelle che sto raccontando. Mia madre no, lei andava alla messa ogni domenica, quando ha smesso di andarci diceva che nessuno ce la portava, ma quando mio fratello era disponibile inventava qualche scusa.

Don Mario, durante i giorni feriali, al Lago Santo, andava in giro addirittura con dei pantaloni corti blu e una maglietta polo nera, aveva due gambette bianche e pelose che non dovevano avere visto il sole fin da quando era bambino. Ci parve che contrastassero assai con la faccia scura che c’era sopra, tanto che a S. Pietro in Campo lo chiamavano il Grillo Moro. L’ometto in questione fumava anche e parecchio, aveva le due dita che abitualmente giostravano la sigaretta, completamente ingiallite. Mio nonno diceva che alla messa leggeva i nomi di chi faceva le offerte in denaro alla parrocchia, specificando le cifre, per far vergognare chi aveva dato poco e inorgoglire chi aveva donato assai. Don Mario era una persona acuta, leggermente incazzereccio, ma si sapeva dominare.

L’altro prete, invece, dirigeva un centro di recupero per giovani nella campagna pisana, a Montalto. Un bell’uomo alto, coi capelli bianchissimi, aveva delle maniere impeccabili e assai signorili, ma allo stesso tempo naturali, poi anche un sorriso vero, di una grande bontà d’animo e quello era sicuramente un sant’uomo. Persino mio padre, che era uno specialista, non è mai riuscito a trovargli un unico difetto.

Don Aladino Cheti è un nome piuttosto onomatopeico, suggeriva che in silenzio facesse dei miracoli, uno era già avere l’approvazione completa di mio padre. Andammo in vacanza a Londra, piovve sempre. Mi ricordo che papà, per tutta la settimana, scherzò spesso storpiandogli il nome all’inglese, chiamandolo Aladaino e lui rideva giovialmente.

Ce n’era un altro buffo, Don Andreatta, il parroco del Quercione, dove viveva la mia famiglia a quei tempi, che veniva spesso a trovarci, la sera, all’ora di cena, ma non era per mangiare a sbafo, perché mia madre lo invitava sempre e lui non ha mai accettato.

Lo chiamavamo il Prete Toppeggiato, perché aveva i capelli neri macchiati di bianco. Arrivava a razzo con la sua cinquecento bianca, frenava e sbatteva lo sportello a tutta forza, nell’arco di pochi secondi suonava il campanello e noi ci guardavamo con aria sconsolata. Aveva sempre un mazzo di chiavi enorme in mano, che faceva rumoreggiare di continuo, una tortura per tutti, anche il cane lo guardava storto.

Mi ricordo che poi, finalmente, quando diceva la sua solita frase, intendendo che era tardi e doveva proprio andarsene, ripetendo più volte il solito “Via! Scappo”, mio padre accennava, come per caso, al fatto che conosceva uno che diceva sempre che andava via e poi invece continuava a rimanere... E lui non so se capiva o no, ma via non ci andava e si bloccava sulla porta a mezzorate, gli venivano in mente tante e nuove e inutili cose da dire, insomma uno stress per tutti noi, che eravamo stanchi e affamati.

 

 

LA MAMMA: NADIA BUTI

“Una volta avevo preso sui muri del manicomio dei pezzettini di muschio per farci il presepio, mia madre però non li volle usare perché erano piccoli e rotti, ce ne erano di molto più belli e grossi, quelli di bosco. Allora io mi misi a piangere, dissi che mi ero rovinato le dita per prenderli e feci un po’ la vittima. Cosicché lei si commosse e li mise in qualche parte vicino alle case, dove non ci poteva essere l’erba alta, in mezzo alle pietre di vario tipo, tra i pezzi di ghiaia e i sassetti di fiume.”

“Bello.”

“Non è vero che di mamme ce n’è una sola, per me ce ne sono tante dentro, invece, divise un po’ per epoca e sono così tante che non me le ricordo nemmeno tutte bene.

Però ognuna fa capo, attualmente, a quella signora che lotta continuamente contro la sua memoria in dissolvenza, ma che passati gli ottanta ancora ha una gran voglia di ridere e scherzare.

Le sue facce e le relative personalità sono state varie e molteplici, a seconda delle sue varie fasi, brutte o belle, le parti della sua vita.

Dopo la morte di mio padre ha assorbito una parte del suo carattere, per esempio, come per compensare la sua mancanza.

È la persona che conosco da più tempo, cioè approssimativamente da sempre.

D’accordo, non è sempre positiva ed è testarda come una mula, o come ogni italiana, ulteriormente peggiorata dalla condizione di essere una Buti in Bartelloni

Però è la persona in assoluto che ride di più alle mie battute, anche quando sono idiote e ripetute.”

“Ecco.”

 

 

IL PROFILARSI DI UN DETERMINATO PROFILO

A dieci anni avevo scritto la mia prima opera, un petulante manualetto di pesca, in cui scopiazzavo a destra e a manca, mi piaceva pescare ed avevo preso di qua e di là notizie, aggiunte alla mia personale esperienza, ritagliato foto e disegnato scene di pesca in acqua dolce.

Successivamente, inoltre, sempre disegnando i gol e le azioni degne di nota, prendendo dai giornali sportivi, ritagliandone le foto, avevo fatto un libro sui mondiali di calcio del 1974.

Poi altri libretti sul calcio, coi disegni dei goals, mentre a scuola, i miei pensierini si stavano già raccogliendo nei primi temi.

 

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