Proveniamo un po’ tutti dalla campagna e se i nostri genitori fossero stati abitanti di una città, forse i nostri ricordi non sarebbero così ruspanti e casalinghi. Per esempio mio padre aveva conosciuto mia madre in una di quelle feste da ballo della Garfagnana, forse a Barga o a Gallicano. Ero nato di conseguenza, come a volte succede in questi casi, la mia famiglia viveva a Marilia, nella casa paterna a tre piani che ora è occupata dalla famiglia di Giorgio, che è figlio di Lorenzo, fratello di mio padre, il quale è stato il primo a morire dei quattro. Poi credo che sia stata Ada, mio padre e per ultima Magali.
A Marilia ci sono rimasto
poco tempo, due o tre anni, perché poi ci siamo trasferiti nella casa del
manicomio di Miggiano e lì ci siamo rimasti fino al 1967. Prima di venire al
Quercione eravamo andati a vedere una casa a Pigna, abbastanza vicino al
recinto dell’ospedale psichiatrico. Era una casa vecchia, che doveva essere
rimessa un po' a posto, sicuramente una casa abbastanza affascinante, direi
ora, ma quel tempo non mi piacque, c’eravamo andati in un giorno di pioggia e
mi era sembrata scura, minacciosa. Ero un bambino di circa sette anni.
I ricordi mi vengono giù
a rate, senza ordine, per cui vedi che le cose, per come mi arrivano sparse,
cerco di seguire una cronologia lineare, ma non mi riesce.
Della casa paterna i ricordi più concreti me li sono fatti dopo,
quando visitavo gli zii suddetti, a volte posteggiato là per alcuni giorni, al
piano terra, da zia Magali. Il paradiso era però il secondo piano, non perché
vi avevo abitato, agli albori della mia carriera di bambino, ma piuttosto
perché allora non ci stava nessuno. Era diventata piuttosto una giungla di
armadi e casse e qualsiasi tipo di involucri, insomma, che potevano contenere
tesori e misteri. Scaffali alti e impolverati, oggetti sconosciuti e scatoloni
pieni che non si svuotavano mai. Reti finissime ereditate da ragni che non le
avevano costruite personalmente, ma ricevute dai figli di figli di pazienti
pescatori d’insetti, nell’oscurità dimenticata, nell'insieme di rumori ovattati
di una vita remota che, fuori di là, aveva un altro ritmo e un’altra intensità
di luce.
Giocavo sul lastrico di mattoni rossi con i rocchetti di legno di
cui anche la cantina era piena, poiché un tempo si erano fabbricati
nell’adiacente segheria Milesi.
Li mettevo uno sopra l’altro, facendone costruzioni di stili diversi, per me
casuali, perché ancora sconosciute.
Palazzi pieni di colonne che s'allungavano presuntuosamente verso il cielo,
come gotiche torri di Babele, a volte si stendevano piuttosto sul terreno come
arzigogolate e barocche muraglie cinesi.
Per fortuna o per sfortuna, per quanto riguarda la memoria, quando
sono nato la mia famiglia viveva in un manicomio, quello di Miggiano, le prime cose
che rivedo, sul telone dietro ai miei occhi, sono di là.
La vita era molto più lenta di adesso, molto più a dimensione umana, c’erano
poche automobili e i computer erano chiamati ancora cervelli elettronici, erano
enormi e a disposizione di pochi, che però lavoravano per la comunità.
PER COMINCIARE UN’INFANZIA
I mondiali di calcio, oggi come oggi mi servono per ricordarmi
cosa facevo in quell’epoca, come era la mia vita, insomma di che cosa mi
occupavo. Quei pratici intervalli di quattro anni evidenziano tendenze e
confermano (o smentiscono) alcune proiezioni della mia mente o del film di una
vita passata.
Nel 1958 il Brasile stravince in Svezia, piuttosto interessante
direi, io però non ero ancora nato. Nel 1962 ancora il Brasile in Cile, ma a
tre anni non mi rendevo bene conto di che o come, di chi né quando. Finalmente
nel 1966 sul Corriere dei Piccoli c’erano le figurine dei calciatori sagomate
da ritagliare, ma a quei tempi c’avevo la biciclettina con il manubrio da corsa
e mi garbava di più il ciclismo e poi le partite in TV, che era in bianco e
nero, non c’erano ancora.
Li avevo già sfogliati curiosamente, prima di saper
leggere, anche i fumetti, e sono stati un passaggio essenziale, senza contare
che mi piacciono ancora. Forse il mio primo libro è stato la Bibbia dei Piccoli con tante figure a
colori, poi Pinocchio, Gian Burrasca
anche quelli con le figure. I ragazzi di
via Pal, Pecos Bill, Sfida all'OK Corral, Alice nel paese delle meraviglie e
Tre uomini in barca forse sono stati
i primi senza le figure. La mia fantasia, forse non mi sorpresi nemmeno di
constatare, non ne aveva bisogno.
Oltre dieci anni poi ci sono stati progressivamente Moby
Dick, Dottor Jekyll e Mister Hyde, Padre Brown, Dracula e Frankenstein.
Al cinema i primi film che ricordo sono
stati diversi cartoni animati di Walt Disney tra cui Bambi, La Bibbia di John
Houston, Corri uomo corri con Tomas
Milian visti a Viareggio al cinema davanti alla Stazione Ferroviaria, Via col Vento a Fornaci alla SMI.
I programmi televisivi possono anche
situarti con una certa precisione in una determinata epoca, il peggio erano i
commenti di mio padre, specialmente la sera a cena, era l’unico che parlava e
di solito quello che diceva non interessava a nessuno.
Il mondo fluttua nell’universo, che dicono addirittura sia
infinito, ma non ce n’era bisogno, a riguardo eravamo già abbastanza confusi.
Insomma se tutto è in movimento, una specie di fottuta rotazione, ci vogliono
dei punti fermi, anche se sono solo ideali, sennò ci si perde nello spazio
siderale, ci si può anche bruciare contro uno dei tanti soli, o stelle che
siano, ma l’effimera fiammata sulla terra la vedrebbero solo parecchi anni luce
dopo.
Quando le coincidenze coincidono troppo allora cambiano nome,
confesso che non so come si chiamerebbero, ma avendo tempo e voglia ci
farebbero anche riflettere.
Un giorno gli storici magari non capiranno quando scopriranno che
da piccolo abitante di Miggiano andavo a scuola a S.Marta in Collina e dopo
aver traslocato al Quercione invece andavo a scuola a Miggiano.
La legge Basaglia, senza rendersi conto, mi ha lasciato uscire dal
Manicomio e andare in giro tranquillamente fino a oggi, addirittura dopo aver
vissuto due anni in Germania e quasi trenta in Brasile.
Là c'era il Puccineli con una elle sola, spiegava che durante la
guerra gli avevano impiccato l'altra, magari i tedeschi.
Pino viveva al nostro lato, era
portiere e amico di famiglia, ci ha fatto anche dei lavori di muratura in casa
poi al Quercione. Suo figlio primogenito è stato compagno di giochi di mio
fratello e io me lo ricordo gattonare in quella cucina grande con il blocco dei
fornelli in muratura nel mezzo della stanza. Le mattonelle per terra, sui muri
e attorno ai fornelli erano di un marroncino tipo cannella. Era giorno ma la
luce era fioca, il soffitto era basso, c’era solo una finestra piccola in alto.
Franco faceva la pipì e la popò per terra e lì ci buttavano la segatura, poi la
spazzavano.
Abitavamo dentro al Manicomio, là ho conosciuto Mauro, abbiamo
giocato insieme a pallone in giardino prima ancora di andare a scuola. Abbiamo
fatto buona parte delle elementari assieme, poi le medie e un anno di liceo
scientifico.
Suo padre era assai simpatico e calmo, amico di mio padre, hanno
studiato insieme all’università, vivevano nella stessa stanza in affitto, però
papà si lamentava per le sue eccessive scorregge. Ciò nonostante suo padre ha
frequentato il mio fin quando è morto, tutti e due sono ormai defunti, ma prima
il mio se la memoria non m’inganna.
Alla fine della giornata io facevo sempre la pipì a letto e questo
mi faceva sentire ancora più piccolo e indifeso tanto che mio fratello Umberto,
più giovane di me, non aveva paura di dormire da solo e cercava di rincuorarmi
dicendo che i fantasmi non esistevano e io al solo sentire quella parola mi
sentivo peggio ancora.
Le macchine avute in famiglia possono darmi un’idea
del tempo e delle situazioni, ricordo che una Seicento verdolina cercai di
farla sbatacchiare contro il padiglione delle donne, al Manicomio, togliendo il
freno a mano in discesa, ma mio padre saltò dentro e riuscì a evitare il
peggio. Dovevo avere quattro o cinque anni.
La Simca 1100 la collego alle serate alla baracca a
Massaciuccoli, aveva un portabagagli capiente per i vari recipienti, per
portare i pesci vivi a casa, quindi in un’epoca confinante avevo già anche il
vivaio in muratura.
Marzio sarebbe diventato un amico di Mauro, ma non si erano ancora
conosciuti. Avevamo fatto la seconda elementare insieme poi in quarta liceo
scientifico ci siamo ritrovati. Quando andavamo all’asilo dalle suore di
S.Marta, lui aveva anche la parte del budino, nel senso che io non ne avevo
diritto, forse i miei pagavano un po’ meno e io avevo accesso alla pasta al
pomodoro, per esempio, ma al budino no, la pasta era schifosa ma il budino al
limone invece era buono assai e io avrei invertire quella tendenza, ma non si
poteva.
Avrei rinunciato volentieri anche agli schiaffi di suor Loretta,
ma anche a quelli non si poteva dire di no. A volte si metteva all’entrata del
cancellino e tutti quelli che arrivavano prendevano la loro dose.
Dalla scuola all’asilo ci saranno ancora quei duecento, trecento
metri al massimo, quando si usciva c’era una gara a chi arrivava primo
all’asilo, che vinceva sempre Marzio e io secondo, ma a volte lui doveva andare
dalla zia, che aveva una cartoleria lì accanto e allora mi mandava a prendere
il suo posto di primo arrivato.
Nel 1970, con l’entusiasmo attorno per l’Italia in finale, mi sono
fatto contagiare e probabilmente visto che vivevamo al Quercione, avevo
cominciato anche a giocare a pallone nel campo sotto la chiesa.
Sicuramente nel 72 ero già un appassionato di calcio, seguii le
partite degli Europei vinti dalla Germania, uno squadrone! Facevo l’album delle
figurine, che riuscii anche a completare, mi ricordo i pittoreschi scambi in
via Fillungo, sotto la scuola media Carlo Del Prete: Ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho,
ce l’ho, doppione tre volte… mi manca!
Per un periodo abbastanza lungo il sabato si andava a giocare a
pallone dietro casa sua, a S.Mario, anche con Roberto. Mauro c’aveva un
campetto dove si sono fatte delle sfide notevoli. Sono stato più costante, ma
all’inizio io ero il peggio dei tre, sono diventato il meglio, anche perché poi
loro hanno smesso.
Roberto era nato in una casa tra i campi, dove vive ancora, che è
stata una delle poche vendute dai frati, di solito preferiscono affittare. La
Certosa è a duecento metri e lì c'è il famoso viale cipressato che apparirebbe
certamente tra le cartoline del Quercione se mai esistessero.
Roberto è un curioso per natura e non c'è nessuno al Quercione che
non lo conosca. Cacciatore e pescatore appassionato, da bambino sparava già con
il fucile di suo padre e qualche volta siamo andati a caccia vicino a casa sua
in mezzo ai campi di granturco.
Beveva il vino che si portava anche a scuola in una bottiglietta
per la merenda. Suo zio Ugo aveva un motorino Garelli, di quelli con il
serbatoio in discesa e lui apriva il tappo della benzina e ci si metteva sopra
sdraiato ad aspirare con il naso.
Mangiava i girini per fare il bravo e si metteva anche i pesci in
bocca per assaporarne la fragranza, ma poi non li mordeva. Tra tutti era il
più quercionesco, campagnolo e
ruspante. Una volta si tuffò di testa nel laghetto sotto casa mia e si piantò
nel fango.
Ho fatto dalla terza alla quinta con lui a scuola a Miggiano e
c'era anche Mauro. Insieme poi noi tre abbiamo cominciato a giocare nel Nave,
categoria giovanissimi. Il più dotato era proprio Roberto, all’occorrenza era
anche un bravo portiere, nella prima partita fece subito due gol, ma smisero
tutti e due quasi subito, Mauro e Roberto. Invece io fin da adulto ho
insistito, fino a spaccarmi la faccia, nel 1990 in uno scontro aereo, lì ho
capito che era il momento giusto per appendere le scarpette al cosiddetto
chiodo.
Rinaldo era arrivato dopo, là oltre il laghetto, la prima volta
che l’ho visto ha messo in fuga i presenti. Già a quei tempi non stava zitto un
secondo, con il tempo ha aumentato il ritmo, il volume e tagliato le già scarse
pause.
Non lo conoscevo ancora e già mi aveva impressionato, con il suo
ritmo e la sua parlantina.
Quei ragazzetti si erano nascosti, ma come potevano salvarsi?
Andavano lì tutti i giorni, lui lo sapeva che erano lì. Li aveva visti da
lontano, si era messo seduto tranquillamente su un tronco, nel senso che non
aveva fretta di andarsene, ma la tranquillità quella, purtroppo…
Ero ancora alle elementari, ma lui pur essendo del 1959 come me,
andava alla scuola di S.Mario, perché viveva là e io invece a Miggiano, perché
ero del Quercione, tre paesi comunque vicini e confinanti.
Ho conosciuto gente, specialmente in Italia ma non solo, per cui
parlare è un po' come respirare. Se dovessero stare zitti morirebbero per
mancanza di ossigeno, non c'è niente da fare. Rinaldo era un ribaldo perché
urlava e parlava tanto che ti annichiliva, da adulto poi ha mantenuto le
aspettative.
Quando la sua casa era in costruzione io ci andavo a giocare
dentro e sono stato accusato anche di aver rubato un trapano, da un muratore
napoletano, ma non ero stato io.
Tra le tante bischerate che diceva alcune erano simpatiche, il suo
teatro contemporaneo aveva successo con femmine e maschi, faceva divertire
assai i bambini più grandi di noi e inscenava piccole commedie improvvisate
anche al freddo invernale della fermata dell’autobus alle 8 la mattina.
Siamo stati inseparabili per anni, io parlavo poco e quindi
eravamo una coppia perfetta.
AMICIZIA
La nostra amicizia funzionava perché aveva interessi comuni:
pescare nel laghetto, giocare a pallone, esplorare boschi e insomma tutte le
cose che fanno i bambini quando sono abbastanza liberi, ma con un raggio di
azione che ora se lo sognano.
Prima di tutto oltre che a piedi ci muovevamo in bicicletta, senza
limiti né proibizioni, poi con il Ciao, lui ce ne aveva uno arancione, nel mio
caso era un Bravo marrone e beige.
Mio padre, dopo insistiti lamenti, ci aveva comprato un motorino
usato con le marce, dai Briganti di Vignavecchia, che erano i nostri benzinai e
meccanici di fiducia, si fa per dire, perché erano un po’ grossolani e se
c’erano dei guasti al motore cambiavano subito in blocco i pezzi, senza perdere
tempo a capire se era lì il problema, o meno ancora ad aggiustarli.
Più volte ho rischiato per la loro incompetenza, inutile negare
che anche noi eravamo ignoranti nel giudicarli, sennò avremmo cambiato
meccanici.
Insomma con questo motorino avevamo difficoltà a cambiare le marce
e facevano delle sfollate formidabili, che si sentivano da chilometri di
distanza e facevano sobbalzare la gente per lo spavento. Ricordo le faccette
che faceva mio fratello quando si guardava intorno per vedere se c’era qualcuno
che lo aveva notato.
Roberto disapprovò aspramente la nostra decisione di cambiarlo con
un motorino senza marce, che poi fu una scelta azzeccatissima, alla luce di
anni di fedele locomozione economica e senza problemi, ma quando la gente dice
di non fare una cosa di solito è quella la scelta giusta, questo poi è
diventato un po’ il motto ispiratore della mia vita.
Quando al Quercione è arrivato Rinaldo Biancucci avevamo circa
undici anni, avevamo terminato le scuole elementari e ci apprestavamo a
cominciare le medie. Il gruppo di ragazzetti di cui ero, senza volerlo, il
capo, era basato sul sodalizio con Roberto Ambrosini che era una specie di mio
vice, nel senso che era più sveglio di me, ma io ero più grosso e poi lui non
aveva i fondamenti necessari per essere un leader. Per esempio se si giocava a
soldati romani improvvisamente tirava fuori un mitragliatore e ci faceva la
figura dell'ignorante, anche se poi non tutti gli altri se ne accorgevano. Con
l'avvento di Rinaldo che era più sveglio, loquace e prepotente anche di lui,
insieme a me che ero fisicamente più forte, più pieno di interessi e di quella
cultura minima necessaria, Roberto fu scalzato.
Vicino a noi abitava un signore che lavorava alla Perugina e
bruciava le cioccolate scadute sotto casa, anche delle scatole di Baci o di
cose ancora confezionate. Ogni volta a bruciarle ci provava, ma appena se ne
andava, noi intervenivamo tempestivamente. Dicevano che facevano male a
mangiarsele, le cioccolate scadute, ma a noi non ce ne hanno mai fatto.
La frutta era disposta sul territorio, oltre che sugli alberi, in
una certa maniera strategica e in determinate stagioni, che ormai noi avevamo
assimilato, catalogato e mappato, in maniera che difficilmente potevamo
dimenticarci di qualcosa nell'epoca giusta e nel posto opportuno.
Le susine ce le avevamo vicino a casa e bastava scendere lungo e
verso il fondo del laghetto, le mangiavamo acerbe e mature, senza tralasciare
le intermedie. Le pesche erano là dai frati e ce n'erano anche di quelle
grosse, dure e bianche dentro. Le ciliegie, dal sarto e dal Caproni, che ci
elargiva anche le mele e le pere, di uva ce n’era tanta e a portata di mano, ma
l’uva fragola era più rara e buona, bisognava starci un po’ più attenti.
Insomma non ci mancava niente, bastava andare al momento giusto
nel posto giusto e tutto era a disposizione, se avevamo un vuoto di memoria la
nostra continua perlustrazione ci ricordava cosa e come, dove e perché.
I padroni non sempre erano comprensivi, ma non ci hanno mai preso
a fucilate, anche perché, per via di ogni dubbio possibile, eravamo felpati nei
passi e rapidi nell’azione.
Di capannelli ne abbiamo avuti diversi: al manicomio c'erano dei
finestroni abbandonati ma in perfetto stato, mettendoli insieme erano un bel
rifugio, ma si vedeva tutto dentro e questo andava contro i taciti fondamenti
di un buon capannello.
Al Quercione un capanno sulla strada sterrata che portava al
laghetto rimase il nostro rifugio per un po' di tempo e ci si teneva sempre un
barattolo grande di Nutella.
Il salottino sull'albero era a picco sul laghetto e si andava su
con dei gradini di tavolette inchiodate direttamente sul fusto di un alto
pioppo, i cui rami erano messi così bene che inchiodato un vecchio tavolino di
finta fòrmica su due di loro, messi quasi pari, sui lati altri due grossi
paralleli rami facevano da panche.
Se si cadeva sotto c'era l'acqua bassa, sotto ancora parecchio
fango, ma non credo che i genitori moderni permetterebbero ai figli di andare
su a cinque o sei metri di altezza.
Per giocare a pallone c'erano innumerevoli luoghi, sotto casa la
struttura del terrazzo era una porta perfetta, prima ancora la porta del
garage, ma si faceva troppo rumore e quando c’era mio padre non si poteva.
Stessa cosa nello spazio tra la casa e il muro alla sua sinistra,
lì si usava un pallone più piccolo, ma le botte contro la canala erano
considerevoli.
Sulla strada c'era il problema delle automobili, non si capiva
perché dovevano passare continuamente proprio di lì. Poi Rinaldo, che faceva i
cross per i miei colpi di testa, forava spesso e volentieri il nostro bel
pallone Yashin, di solito marrone, appena comprato alla cartoleria da Lola,
sulle punte della cancellata del Pelliccia.
In precedenza anche il piazzale cosparso di ghiaino della chiesa è
stato usato per un bel po'. Andavamo alla dottrina e lì ci si poteva giocare,
usando come porte i due tigli dalla parte più in basso e di sopra lo spazio tra
la statua ai caduti e la scalinata della chiesa. Non veniva considerato che la
squadra che aveva la fortuna di giocare in discesa e con la porta più visibile,
tra i due grandi alberi, vinceva sempre.
Nel campo sotto la chiesa agli stessi due problemi si aggiungeva
quello della strettezza progressiva verso la porta in salita, molto in salita e
l'erba anche era troppo alta, frenava gli attacchi e favoriva assai la difesa
da quella parte.
In più poi quella porta non aveva la traversa e per chi difendeva
ogni tiro non rasoterra era purtroppo da considerarsi alto e lì ho capito che
le interpretazioni sono sempre molteplici, anche quando la verità è univoca ed
evidente, non solo per incompetenza, ma anche per una apparentemente
confortevole disonestà.
La musica anche potrebbe essere uno scheletro del passato, per
esempio: quando esattamente ho cominciato a registrare le canzoni alla radio
con il microfono e il registratore a cassette? Penso che fosse intorno al 1974,
forse anche nel ‘73.
Un giorno stavo ascoltando alla radio una canzone che io credevo
fosse dei Beatles, ma quando arrivò Mauro mi disse che invece erano i Bee
Gees, My World, ho scoperto in seguito.
Quando comprai i primi dischi, due doppi antologici dei Beatles,
Rinaldo disse che ero scemo, ma poi anche lui fece la stessa cosa, cominciò a
spendere i pochi soldi che aveva nei dischi di vinile, che a quei tempi
i Ciddì non esistevano ancora.
Quando io mi feci comprare un modesto stereo di un catalogo per
corrispondenza, pure disse che ero stupido, passò qualche tempo, ma lui poi se
ne fece regalare uno super mega.
I Pink Floyd, i Jethro Tull, i Crosby Stills Nash & Young e
Cat Stevens per la prima volta in alta fedeltà, li ho sentiti a casa di Mauro,
erano dischi di suo fratello maggiore, ma piacevano anche a lui.
Questo mi fa ricordare che studiavamo insieme a Marzio, era il
1976 ed eravamo in quarta al liceo scientifico, giocavamo anche a pallone nel
campetto dietro casa di Mauro, ma io avevo già anni di calcio nelle squadre di
Nave e Aquila Sant’Anna, dove avevamo vinto il campionato provinciale allievi e
io ero stato uno dei migliori nella trionfale fase finale, facendo tre reti
importanti.
Nel 1974, prima del mondiale, avevo cominciato anche a fare
l’album relativo. Sento ancora l’odore delle figurine autoadesive la sera al
tavolo mentre i miei genitori guardavano il Rischiatutto e la canzone Non
gioco più, era la sigla finale, di Mina.
Roberto e Rinaldo non sono mai andati d'accordo, ancora oggi
vivono a poche centinaia di metri di distanza, ma si ignorano completamente.
È vero che c’è stata un’epoca in cui salavano insieme, a scuola,
d’accordo, ma non è durata molto tempo.
Roberto era una peste da bambino, magari più degli altri, lo
chiamavano anche Fistio per via del suo forte e improvviso lacerante sibilo da
pastore, lanciato trai denti davanti.
Assieme a mio fratello Umberto andarono avanti e indietro, da casa
a Marina di Massa alla roulotte di Giuliana, moglie di Vicente il Pelliccia,
uomo assai simpatico morto giovane di cancro. Quando erano là non vedevano
l’ora di tornare a casa e viceversa.
Un capitolo a parte merita Rosanna, la figlia di Vicente e
Giuliana, di cui mi ero innamorato all’inizio, ma lei non mi volle e aveva
anche ragione, ero un biscarotto, rozzo e infantile. La sua era una bellezza un
po’ differente dal solito, sembrava una principessa berbera, ma era anche furba
e simpatica in maniera naturale, come suo padre.
Nel frattempo altri bambini erano venuti ad abitare al Quercione.
Patrizio era un precursore in fatto di bullismo, una parola che non
esisteva ancora, almeno da noi. All'inizio ci dicemmo che lo dovevamo
difendere, poiché era manifestamente più debole. Successivamente picchiarlo
diventò un passatempo, quando non c'era niente da fare, io ne ridevo ma non
partecipavo. Più che altro era Giacomo, altro nuovo al Quercione, ma un po'
precedente, oltre a mio fratello Umberto. Questi due formarono un sodalizio
piuttosto negativo, tanto che Giacomo, proveniente da Massa Carrara, finì più
volte in galera e una volta adulto sua madre ce lo portò, un giorno, a vedere
se con noi parlava. Era diventato grande e gonfio, ma non aprì mai la bocca e
giammai cambiò espressione.
La madre era una bravissima persona, ma il padre e i fratelli
avevano precedenti penali e un aspetto losco e perennemente incazzato. Elisona
lavorò da noi come donna di servizio per qualche anno, era simpatica e più che
sovrappeso e quando mio nonno le disse che era una bella donna, lei diventò
rossa e tutti si misero a ridere. Negli ultimi tempi al Quercione Giacomo ci
rubò tutte le macchinine di ferro, quando noi eravamo al mare, non ne abbiamo
mai avuto conferma, ma sicuramente era stato lui, perché aveva libero accesso
alla nostra casa per via della madre. Poi crescendo, anche fisicamente, diventò
prepotente finché una volta i bambini di Miggiano e del Quercione si riunirono
e lo pestarono per bene.
Visto che la nostra attività maggiore per un certo periodo fu
pescare nel laghetto del Caproni, sotto casa nostra, conoscemmo e frequentammo
diversi bambini e adolescenti che venivano lì per quello. Tra i quali c'era il
Salvani, ora già morto per complicazioni da alcolici o cose del genere. A quei
tempi aveva un motorino Garelli come quello di Zio Ugo, e gli aveva foderato il
sedile con una pelliccia bianca di pecora, c’aveva messo degli specchietti più
lucidi e il risultato era una solenne pacchianata, che comunque a noi - che
andavamo in bicicletta - ci piaceva e glielo invidiavamo addirittura.
Enzo era prepotente a volte, ma simpatico e abbastanza umile per
mischiarsi a noi, assai più piccoli di lui e passavamo le giornate a pescare.
Lui andava anche a pescare in fiume, cosa che noi invece noi non facevamo.
Accadde più volte che irritato dal comportamento palloso di Rinaldo e di
Roberto, Enzo ebbe a buttarli dentro il lago. Una volta addirittura la canna
telescopica con il mulinello di Roberto, fu lanciata ai pesci. Il bambino si
mise a piangere, ma era stato più volte avvertito.
A seguito di Enzo tanti altri ragazzotti di Miggiano, suoi amici,
arrivarono e frequentarono il laghetto per anni tra cui uno era Mazzino che era
un rompiscatole, nel senso buono, bravo ragazzo, ma ingarbugliatore di lenze
sue e altrui, manualmente piuttosto imbranato, tanto che Enzo creò il modo di
dire: se vuoi fare casino chiama Mazzino 3 1 3 1.
I gobbi o persici sole sono state le nostre prime prede, erano
facili da pescare, si potevano prendere anche con un secchio, specialmente
nella stagione del frego, a primavera. I maschi avevano le pinne fosforescenti
e all'ombra si vedevano solo quelle muoversi ipnoticamente. Facevano una specie
di conca nella ghiaia fina, vicino alla riva, lì dovevano poi portarci le
femmine a metterci le uova. Anche al lago di Massaciuccoli c'erano questi pesci
assai colorati di origine americana che al massimo arrivavano a un palmo e non
avevano valore alimentare perché erano pieni di lische.
In precedenza il negozio di giocattoli era stato il nostro
favorito. Una volta al 48 a Viareggio zio Albo d'Inghilterra mi portò a
scegliere un regalo. Io non avevo ancora capito bene come funzionava quella
cosa strana di fare i complimenti. Nessuno mi aveva spiegato che bisognava solo
fingere di rifiutare, ma poi accettare. Le offerte là dentro erano veramente
tante, costose e belle, ma non presi niente, tra lo stupore generale. In un
primo momento mi sentii un eroe e poi, in maniera definitiva, un fesso.
Con il tempo e il cambiare degli interessi il negozio di caccia e
pesca diventò il mio preferito, ma solo la parte delle canne e relative
attrezzature venatorie, senza interessarmi ai fucili e alle cartucce, anche
perché i pesci io li ammiravo nei vari vivai che di volta in volta mi costruivo
con grossi pezzi di nylon, per imparare che bisognava cambiargli l'acqua ogni
tanto, che troppo al sole i pesci morivano, che granchi, gamberi e pesci di
mare anche.
Mi accorgo che con la musica ho un'infinità di ricordi,
mio cugino Saverio mi fece curiosità parlando di PFM, Genesis Emerson Lake and
Palmer, quando non li conoscevo ancora. Penso che fosse in vacanza a Mologno,
viveva già in Venezuela.
Le prime canzoni dei Beatles, David Bowie, Dylan e Bee
Gees le ho registrate alla radiolina con le cassette.
Frin frin di Tony
Renis e Un giorno dopo l'altro di
Tenco erano sigle della serie televisiva di Maigret.
La canzone di Dalla, 4 marzo 1943 l'avevo ascoltata fuori dalle medie in via Fillungo,
alla scuola Carlo Del Prete.
Lo zio Rolando è stato un cantante famoso in Venezuela, prima ho
sentito i suoi dischi e le sue canzoni romantiche, poi l'ho conosciuto di
persona e mi è garbato anche lui. Pare che sia stato ammazzato a colpi di
machete e che fosse omosessuale, ma sono voci che non so se corrispondono a
verità.
Un suo LP in particolare lo sentivamo tutte le sere a letto con un
giradischi portatile rosso. C’era anche una di quelle borse a fisarmonica con
45 giri di Morandi, Rita Pavone, Claudio Villa, Johnny Dorelli e altri che
forse era stata di mia madre. Avevamo anche un mangiadischi, pure quello rosso,
ma gli Ellepì non c'entravano.
Mio padre dalla Francia mi aveva portato un 45 giri che cantava
canzonette francesi, penso ricavate da filastrocche tradizionali, sulla
copertina colorata e plastificata c’erano disegni e i testi. Io non ci capivo
granché, ma mi piacevano, ci immaginavo situazioni e scene transalpine.
Da bambino e poi da adolescente sono stato in Inghilterra, la
prima volta solo a Londra, la seconda fino in Scozia e al Loch Ness. Avevamo
parenti a Carlisle, proprio vicino al confine a nord, alcuni di loro veramente
simpatici.
Quando venivano in Italia per le ferie, le donne come gli uomini,
bevevano come dannati mischiando tutto. Anche i nonni avevano vissuto là da
giovani, insieme ad altri parenti e alcuni di loro ci si erano arricchiti, per
tornare a Mologno o a Barga. I nonni per fortuna invece non avevano fatto i
soldi, erano tornati prima e non erano diventati antipatici.
Mio padre normalmente era ostacolato da mia madre nei suoi
progetti di viaggi futuri, ai quali si era abituato forse per i congressi dei
medici, in giro per l’Europa, a volte anche fuori, nei quali era sovvenzionato
dall’associazione.
Ogni anno voleva andare da qualche parte, meglio se all’estero.
Mamma non era così appassionata di cose per le quali si spendevano soldi e
doveva convincerla con un lavorare di lima e stucco, per mesi e mesi.
Praticamente un anno prima cominciava a scassare i cosiddetti e
intanto preparava il viaggio sulle cartine, su guide come il Touring Club e poi
se le studiava durante e dopo, diceva che così viaggiava tre volte.
Io non ci volevo andare, ma poi mi garbava, anche se non lo
confessavo si vedeva. Il rapporto con mio padre non è mai stato facile, non
sempre per colpa sua.
Una volta a Londra non volevo uscire dall'albergo perché c'era una
partita di seconda divisione alla TV, Millwall-Qpr 0 a 0 !
Alla fine era un burbero benefico, la passione per i viaggi ce
l’ha tramandata un po’ a tutti e tre i figli, ma la parte buona l’ho scoperta
troppo tardi, forse perché voleva fare il prepotente e i tempi stavano
cambiando, i padri padroni erano già in disuso.
In Inghilterra la birra gli piaceva ma non troppo, quando trovava
dei negozi di prodotti italiani ne approfittava e faceva dei piccoli stock di
bottiglie di vino, sia in Inghilterra che in Scozia. A Glasgow trovò un negozio
la mattina e per tutto il giorno ci caricò un po’ troppo. Mio fratello Umberto
si lamentò con lui dicendo la frase che poi rimase negli annali:
“Compra sempre le vernacce e poi ci tocca portarle a
noi.”
Effettivamente le bottiglie erano diverse e pesanti, portarle
tutto il giorno, su e giù nelle nostre lunghe camminate da turisti era una
tortura.
GASTRONOMIA
Un cenno sulle mie abitudini alimentari può giovare forse a capire
un'indole pigra, ma piena di attività mentale, che poi sfociava in un
conseguente movimento, che è sempre stato cercato e ottenuto in funzione del
piacere, che ho più o meno sempre provato per l'attività, non frenetica ma
abbastanza continua. Lo sport per esempio mi stimolava degli appetiti
considerevoli, specialmente il calcio, ma poi il tennis e la corsa, camminate
in seguito, da anzianotto.
Da bambini, la sera caffelatte e Biscotti Della Nonna o Bucaneve
per anni, per un certo periodo cracker imburrati, ne ricordo anche l'uso
mattiniero a Valbona
Ho sempre mangiato tanto e un po' di tutto, il pesce l'ho iniziato
ad apprezzare a Berlino, forse perché prima veniva cucinato male e lì invece
no, al ristorante La Marmora. Anche a periodi, ma ho mangiato di tutto e
piuttosto alla svelta e quindi ora in vecchiaia ho problemi di digestione. Non
mi sono mai piaciuti: la cacciagione, il fegato, la trippa e i cetrioli.
Mio fratello Umberto da piccolo ha passato periodi lunghissimi
mangiando solo una cosa, sempre quella. C'è stato il periodo delle patate
fritte, quello degli spaghetti alla pomarola e per ultimo quello dell'uovo al
tegamino.
Mio padre spesso diceva che mia madre passava poco tempo
cucinando. La povera donna, oltre a fare il suo lavoro di maestra elementare,
ci faceva da mangiare a tutti e a volte avevamo cinque pietanze differenti. In
vecchiaia il cibo per noi era rimasta la sua ossessione, anche molto tempo dopo
aver smesso di cucinare. L’alzheimer le aveva oscurato tanti ricordi e pensieri,
ma le sembrava che fosse sempre domenica e doveva per forza prepararci qualcosa
di speciale.
La cena di natale da noi più che altro era un pranzo, che si
faceva il 25, il 24 significava la Messa del Gallo alla quale a volte andava
anche mio padre, per motivi romantici. Dalla nonna, a Mologno, preparavano
montagne di roba, a noi bambini non ci piacevano molto, eravamo abituati a una
cucina molto più raffinata. Per esempio il pomodoro del sugo di carne doveva
essere rigorosamente senza pelle.
Mio padre non mangiava il pollame, la cacciagione e il pesce. La
domenica e per le feste comandate mia madre doveva preparare qualcosa che
andasse bene per tutti, ma non era affatto una faccenda semplice. Di solito
erano i tordelli, gli gnocchi, le lasagne, tutti fatti in casa da lei, con il
famoso sugo di carne, che gli eventuali ma rari ospiti apprezzavano anche
parecchio. Di secondo l’arrosto di manzo o il polpettone, patate arrosto.
Talvolta i quadri di mio fratello servivano da ripiano per fare la pasta
casalinga, per le lasagne e i tordelli. E poi anche gli gnocchi di patate, che
non sono più riuscito a trovarne di paragonabili da nessuna parte. Insomma mia
madre cucinava bene assai e faceva tutto a occhio, quasi mai seguendo le
ricette nelle quantità.
Nelle
vacanze a Lido di Camaiore mi ricordo il ristorante Da Beppino, il quale
dicevano che era omosessuale e che aveva lavorato in altri ristoranti famosi,
ma che poi aveva aperto questo abbastanza inusuale, perché si apparecchiava in
mezzo a un campo a mezzogiorno, con degli alberi alti intorno che facevano
ombra perché era agosto, era un caldo bestiale e lui portava da mangiare alla
numerosa gente seduta a questi grandi tavoli in mezzo a un campo.
Vedo
ancora lui magro abbronzato con pantaloni neri e camicia bianca, mi pare che
fosse l’unico a servire e doveva galoppare assai, ma era bravissimo. L’idea era
buona, e soprattutto si mangiava bene, abbastanza rustico e campagnolo. Della
pastasciutta al sugo di carne, striscine con patate o insalata, mai niente di
molto complicato, però era tutta roba sana e si stava bene, via, era un tipo di
atmosfera differente da tutti gli altri. Chissà come è andata a finire, ho
domandato in giro ma nessuno si ricorda.
La mattina presto al bagno Ninetta era fatta di mare liscio e di
rumori caratteristici come quello dei pescherecci di ritorno a volte. Egisto
era il bagnino, aiutato da ogni tipo di volenterosi passava la sciabica per
pescare pochi pescetti e noi bambini anche tiravamo dai due lati la grande
rete. Una volta gli dissi che mia madre aveva detto se ci poteva dare delle
triglie e lui bestemmiò trai denti, perché ce ne saranno state due o tre,
piccolissime, erano biancastre ma si riconoscevano per le pinne rosse e per i
barbigli.
Una notte mio cugino Saverio ospitato da
noi per qualche giorno, mi chiese, mentre dormivo, perché non mi comprassi un
carro armato. Io continuando a dormire - e questo me lo ha raccontato lui,
perché io non ne avevo nessuna memoria - gli ho risposto di no, che in effetti
non mi serviva.
ZIA MAGALI
Erano i tempi di guerra e subito dopo, c’era tanta miseria,
secondo mio padre, a casa Bartelloni si preferivano le mele marce alle buone,
tanto per non buttarle via. Mentre mangiavano quelle, marcivano anche le altre.
Questo un dialogo spesso ripetuto tra nonna Gianna e sua figlia:
- Com’è cattiva questa mela, la vuoi Magali?
- Se è cattiva, la devo mangiare io?
- Ma non è proprio cattiva, insomma... magari è perché non ho più fame, allora,
la vuoi o no?
E lei la prendeva e la mordeva, più che altro per bontà, più che
altro per vocazione, per religiosità.
La mangiava, anche se non aveva fame, perché, se non lo faceva, si doveva
buttare via... ed era peccato mortale.
È sempre stata molto cattolica, Magali, ma non per mostrarsi
fedele alle leggi di Dio, lo era nel profondo, alla lettera.
Puritano il suo modo di vedere le cose, non ha mai avuto un uomo,
non ha conosciuto il sesso, o l’amore per una persona che non fosse quello per
qualcuno della famiglia, o per qualche amica.
Sua sorella Ada era una bella ragazza ed era considerata di più,
magari lo meritava meno di lei.
Le sue amiche erano due sorelle zitellone, che da giovani e poi da adulte
possedevano e gestivano un deposito di dolcetti, di generi alimentari e per la
casa, per cui erano soprannominate le Deposite.
Erano famose per la loro ignoranza, oltre che per i ramificati
pettegolezzi e morirono vergini anche loro.
Una volta venne fuori una voce
che mio padre aveva un’amante. Mia zia telefonò a mia madre, perché la colpa
era sua, secondo Magali, che lo trascurava, che lo aveva obbligato a fare una
cosa del genere.
Mia madre non riuscì nemmeno a
dire una frase, fu investita da un treno di parole che finì solo quando mia zia
riattaccò il ricevitore.
Zia Magali veniva in visita da
noi e ci rimaneva a volte per giorni, oppure noi bambini venivamo lasciati un
po' da lei, a Marilia.
Quando mio padre si ammalò lei
rimase per quasi un anno a casa nostra al Manicomio, col mio fratellino
Umberto, mentre io e mia madre stavamo a Valbona cinque giorni su sette.
Io le dicevo sempre che quando
sarei diventato ricco l’avrei mandata a prendere con la mia limousine, per
venire a stare a casa mia.
Poi ricco non sono mai
diventato ed è stata lei, invece, che ha lasciato a tutti noi nipoti qualche
bel milioncino di vecchie lire, quando è morta.
Parlava sempre della gente del
paese di Marilia, che però noi tutti non conoscevamo. Pure mio padre, spesso,
non si ricordava e si arrabbiava come una bestia, quando lei insisteva nel
volergli spiegare chi era quel tale all’ospedale o quell’altro, appena morto,
stanco della giornata di lavoro, voleva solo stare in silenzio a guardare la
televisione.
Andavamo in giro con la mente,
quando lei partiva per tutta quella serie di ragionamenti, che anche quando
c’impegnavamo a farlo, avevamo difficoltà a seguire.
Quella sfilza di gente che noi
non avevamo mai conosciuto, era troppo lontana dal nostro mondo, anche se il
paese dove lei e mio padre erano nati e cresciuti non era a più di quindici
chilometri di distanza.
Uno dei protagonisti principali
dei racconti era il prete di Marilia, il Piovano, che siccome stava nella
Pieve, lei chiamava Pievano. Storpiava alcune determinate parole, diceva telefanare invece di telefonare e polistirolo invece di colesterolo.
Quando per la prima volta vidi
i dinosauri nell’enciclopedia Conoscere, ne rimasi impressionato e chiesi a mio
padre com’erano, cosa ci facevano sul nostro stesso pianeta, la gente come
poteva convivere con quei mostri?
Mio padre rise di gusto e disse
che lui non era ancora nato, purtroppo, ma avrei potuto chiedere a zia Magali.
Così andai da lei ansioso di
avere una risposta.
Magali sorrise e disse che non
era poi così vecchia. Non c’era rimasta male, mi resi conto molto dopo che non
c’era niente in lei di vanitoso.
Quando mia zia nacque, la
famiglia era alla sua terza esperienza, avevano già un bambino e una bambina,
era appena finita una guerra, alla prossima mancavano ancora venti anni, ma
loro non ci pensavano, non potevano saperlo. Le attenzioni si allontanarono
subito da lei, non ci sarebbe nemmeno stato bisogno che nascesse un quarto e
ultimo figlio, mio padre, perché ci se ne dimenticasse.
Sia fisicamente che moralmente
dovette battersi per conquistare il suo posto, anche se non era un granché,
lottò ancora di più per abituarcisi. Sviluppò le sue qualità internamente, non
erano virtù brillanti, ma piuttosto una certa resistenza alla sorte avversa. La
sua vita è stata più continua e coerente di tante altre, non tanto per scelta,
ma quasi per condanna.
Attraverso la testardaggine,
tipicamente italiana e peculiare talento di famiglia, la sua missione sulla
terra è stata chiara fin dall’inizio: viveva per il bene degli altri, dando
poca importanza a sé stessa.
Zia Magali era grassoccia,
almeno da adulta, camminava con passi incerti, usava il bastone bianco dei
ciechi, negli ultimi tempi. A volte cerco d’immaginare come era il mondo visto
da lei; secondo le sue parole era un carosello di ombre grigie. Non conosceva i
colori, i rammendi che faceva ai calzini provocavano la rabbia di nonna Gianna.
Gli occhi di zia Magali erano
belli e celesti, grandi e luminosi, ma si vedeva che non vedevano, almeno non
nella maniera comunemente intesa. Ho visto le sue foto, quando era piccola,
aveva un viso grassoccio, il naso largo, gli occhi ingigantiti da lenti spesse.
La vista da bambina era poca, ma è andata peggiorando col tempo, se prima poteva
leggere accostando le parole agli occhi, se poteva uscire e camminare, con una
certa prudenza e cadendo, a volte malamente, col passare degli anni, tutto è
progressivamente degenerato, finché in vecchiaia non leggeva più nulla e
camminava sempre meno. Usava la televisione come se fosse una radio, non poteva
più uscire di casa da sola senza troncarsi una gamba o fratturarsi un braccio.
Andava avanti senza dare troppa
importanza a quello che non avrebbe mai avuto, non ha mai saputo nemmeno come
erano fatte certe cose. Non conosceva piaceri vani, scarsamente durevoli, che
facevano diventare le persone altezzose, vanitose. La fortuna di Magali è stata
il non sapere nemmeno da che cosa sono costituite le situazioni vuote di cui
molte persone riempiono la loro vita.
Se da una parte le sono mancate
la vista e la bellezza, dall’altra le sono cresciuti altri attributi. Le ho
voluto un gran bene, non perché fosse mia zia, ma forse perché era diversa da
tutti gli altri, ho sempre sentito un contatto buono con lei, qualcosa di
confortante.
È morta già da qualche anno, ma
per me è ancora viva, perché noi abbiamo sempre comunicato fuori e oltre le
parole, forse perché ci vedeva sempre peggio, la sua idea di me era una cosa
che non aveva bisogno di apparenze.
I suoi modi non erano gentili,
ma nemmeno scortesi, diciamo che non faceva troppe cerimonie.
Mi ricordo zia Magali tutta
rugosa e con quel naso largo, i suoi labbroni, i suoi occhiali dalle lenti
spesse le ingrandivano quegli occhioni che pareva che non vedessero, ma che
alla loro maniera vedevano più degli altri.”
PRIMA DEL 1966
La storia della mia vita cominciò al manicomio e questo basterebbe
già per capire tutto. In realtà sono nato alle Barbantine, cioè in città, però
in quell'epoca la mia famiglia viveva a Marilia, nella casa paterna.
Di quei primi due anni naturalmente non ricordo niente, però
alcune cose sono venute fuori dopo, frequentando quella stessa casa in visita
alla famiglia di mio zio Lorenzo, che abitava al primo piano e al piano terreno
c'era invece zia Magali, dalla quale venivo lasciato spesso in alternativa ai
nonni materni, in Garfagnana o quasi, tutte le volte che i miei dovevano
assentarsi per qualche giorno, per una qualche vacanza, anche viaggi
all'estero, per dei Congressi dei Medici in tutta Europa una volta mio padre
andò anche in Tunisia.
La casa di Marilia e la casa di Mologno erano diventate parte
della mia storia, anche perché in quei due posti scoprivo cose nuove e la mia
vita era differente da quella che poteva essere quella del manicomio, che era
comunque abbastanza interessante perché avevamo un grande spazio a disposizione
e potevo liberamente circolare in bicicletta o a piedi per una regione
abbastanza vasta.
Cose che i bambini di oggi nella stessa zona della Toscana non
sono assolutamente liberi di fare e poi non mi si venga a parlare della qualità
di vita, che invece di migliorare è peggiorata.
Il manicomio di Miggiano
sembrerebbe piuttosto far parte di S.Marta in Collina. Se la geografia politica
gli dà questo nome, è perché il suo territorio si allunga di sbieco sulla
collina, oltre una fitta macchia di alberi, dal sottobosco umido e
impenetrabile. Ultimamente lo hanno chiamato Fondazione Marco Torino e c'ha
pure il suo bravo valore storico da preservare perché è nato, come monastero,
addirittura nel 560 dopo Cristo.
È noto che abbia respirato gli
odori di una bella fetta di storia, molto tempo prima che l'Italia avesse
questo nome, quello strano luogo in cui arrivai, da bambino che appena
camminava.
Sono cresciuto nel grande
recinto di un manicomio, non perché eravamo matti - e non che non lo fossimo -
ma mio padre ci lavorava come neuropsichiatra. La nostra seconda casa non fu
nostra, nemmeno la prima, però non pagavamo l'affitto. Mio padre era all’inizio
della sua carriera e non aveva soldi per comprarne una.
Assai grande e dai soffitti
alti, con un vasto giardino che era campo di battaglia e di calcio, superficie
lunare, foresta, mare e tutto quello che potevamo inventare io e Umberto, mio
fratello nato in una notte in cui mio padre era a pescare con gli amici.
Oltre al grande giardino c’era
anche un orto di equivalente superficie, dove facevamo laghetti di fango e
giocavamo con il proposito di diventare marroni. C’erano una decina di peri in
fila a dividere per il loro diverso uso, i due appezzamenti di terra, anche se
per noi la funzione era la stessa.
C’era un magazzino degli
attrezzi e dei giocattoli e di moltissime altre cose come giornali vecchi e
oggetti che non conoscevo, ma che usavo con mio fratello per i vari giochi che
inscenavamo nel vastissimo spazio a nostra disposizione, che pochi bambini ne
hanno avuto uno paragonabile.
Lo dovevamo dividere, oltre che
con il personale medico e paramedico, con i vari inservienti e con i cosiddetti
malati, come li chiamava mio padre.
I quali, poveracci, stavano lì
perché non potevano andare altrove e a casa non li volevano, parevano bambinoni
ingabbiati e dagli occhi arrossati, colla barba lunga, i capelli ritti e gli
sguardi perduti. I loro recinti, divisi per tipo e gravità di malattia, erano
dentro quello grande, tutto a nostra disposizione.
Era come una città, piena di
verde, grandi alberi, vasche di pesci rossi, edifici antichi, strade e
sentieri... ma non c’erano altri bambini.
Vivere i primi anni della
nostra vita in un manicomio, certamente ci porta a pensare in una maniera
differente dagli altri.
Dopo aver ricevuto qualche
schiaffone, per un qualsiasi motivo, da mio padre o da mia madre, sentendo di
aver subito un'ingiustizia, scappavo di casa e resistevo, solo contro tutti,
anche contro il tempo. A volte anche un'ora. Stringendo i denti, perfino due.
Dopodiché non mi pareva più una
cosa pratica, il melodramma era affascinante, d’accordo, ma svaniva
inevitabilmente nel primo bussare dell’appetito. Era opportuno rimanere nei
pressi per spiare le reazioni, che però tardavano in maniera insopportabile a
manifestarsi e tutta la drammaticità della
situazione ne soffriva irrimediabilmente. Allora rientravo senza che nessuno se
ne fosse accorto. Forse però stavano solo fingendo.
Il melodramma, la commedia, il
teatro, il conseguente e più moderno cinema, sono stati inconsciamente
sviluppati nel quotidiano, dal tipo di famiglia in cui sono nato e vissuto,
dove si litigava spesso e si gridava sempre.
La polemica era il più frequente
motivo di dialogo, spesso pareva un’arringa di un avvocato, oppure di un attore
che impersonava un avvocato o una avvocatessa, nel caso di mia madre, unica e
formidabile femmina in mezzo a quattro tremendi maschi, già che un mio secondo
fratello nacque, poi, dopo il trasloco in una terza casa.
La mia potrebbe anche essere
stata una di quelle che si dicono infanzie felici. Però ha avuto qualcosa di
più e di meno, nel senso che crescere in un manicomio, per un bambino è certo
un’esperienza che rimane indelebile per tutta la vita.
Mio padre era un uomo chiuso,
colto e intelligente, a suo modo anche simpatico, ma spesso poco positivo,
incapace di controllarsi in alcune situazioni.
Tutto questo certo ha segnato
l'inizio e lo sviluppo della mia famigerata sensibilità.
Quella era la mia realtà, un
rapporto vissuto con giornalieri contrasti psicologici, nel bene e nel male, in
una battaglia dove il cuore batteva forte, dove i sentimenti non solo
esistevano ed erano pure assai vivaci, ma erano mascherati da una drammaticità
che andava sempre, sistematicamente, oltre la realtà.
Avrei potuto diventare un
attore, un regista o un pazzo, invece iniziai a scrivere. Ho pensato che le altre cose le avrei fatte dopo con calma, ma non
mi si è presentata ancora l'occasione.
Un giocattolo vivo fu il
gattino Patisci, tra i più magri e bruttarelli che ci potessero essere e con
tutti quelli che circolavano per il recinto del manicomio potremmo dire che la
scelta fu più sua che mia, ma poi mi ci affezionai tantissimo.
Il nome glielo dette mio padre
per causa della sua malattia: aveva la rogna.
Il manicomio era pieno di
gatti, il cibo che avanzava dei malati era il loro sostentamento e vivevano
all'aperto, specialmente vicino ai padiglioni occupati, per sfruttare le
rimanenze di cibo.
Dietro il padiglione più vicino
alla mia casa c'era l'accampamento più grande dove abitavano in tane ricavate
in un boschetto decine di gatti che erano diventati quasi selvatici.
D'agosto i calabroni invadevano
lo spazio per fare festa: un dentro e fuori le pere marce cadute a terra. Noi
due, piccole pesti ignare del pericolo, affascinate da quegli insettoni
ronzanti, giocavamo a dargli delle bastonate, con tutta la forza che avevamo, a
loro e alle pere. Il nostro movimento mulinava, liquidi misti schizzavano di
qua e di là e noi fuggivamo e tornavamo per dargli altre bastonate, ridendo e
correndo, senza che ci capitasse niente di male. I calabroni si spiaccicavano,
è vero, ma poi ne venivano altri e il gioco continuava.
Finché una mattina, mio padre
si rese conto di quello che stava succedendo e intervenne. Si guadagnò una
provvisoria zampa d’elefante al posto della mano e noi fummo salvi.
Ero un bambino vivace, si può
capire dalle espressioni della faccia, nelle foto, ma anche dalle affermazioni
entusiastiche di parenti ed amici di famiglia. Non ero affatto timido, durante
i miei primi passi sul pianeta, al contrario, ma attualmente cerco di
dissimulare. Sul viale a mare, a Viareggio, appena avevo imparato a parlare,
ecco che ne approfittavo subito per chiedere cinque lire ai villeggianti a
passeggio.
Volevo comprare quelle sfere di
plastica trasparente delle macchinette automatiche, che contenevano
automobiline, soldatini o cose del genere.
Mio fratello Umberto, come
tutti i grandi geni, viveva con la testa in mezzo alle nuvole. Approfittavo
sempre della sua lentezza dando prontamente la colpa a lui, quando mi si
accusava di qualche misfatto. Se veramente era lui che aveva fatto il danno,
allora facevo la spia.
I nostri genitori avevano un
ruvido metodo per formare una scorza dura per noi figli: se ci capitava
qualcosa di male, la colpa era sempre nostra, qualunque fosse la situazione, o
l'eventuale antagonista. Se esisteva una qualsiasi discordia, la ragione era
sempre degli altri, non c’era nemmeno bisogno di discutere.
Ora da adulto, qualsiasi cosa
che accade, io faccio un rapido mea culpa di routine, scoprendo che una parte
di torto ce l'ho sempre anch'io. Con il tempo ho cambiato leggermente il
sistema, cercando di capire veramente i due lati, senza attribuire a me stesso
troppo facilmente ragione o torto.
Il trucco è che se si dà la
colpa agli altri, come tanti fanno, poi ci si sente impotenti, ma se la
responsabilità è nostra, anche solo in parte, ci si può lavorare sopra. Nelle
giuste proporzioni, se amministrato con saggezza, il sistema funziona e la
nostra pellaccia è veramente dura come volevasi forgiare.
Durante alcun tempo fuggivo
correndo regolarmente dal mio letto per rifugiarmi nel loro, specie la mattina
presto, quando mi svegliavo e mi trovavo solo e bisognoso d'affetto. Una
mattina entrai timidamente dalla porta mentre mio padre stava russando, come
era sua abitudine, in maniera abbastanza irregolare, sia per volume, che per
intensità e durata. Mentre stavo passando il confine della soglia, per estrema
sfortuna e coincidenza, il genitore sparò un grugnito assai più sonoro, tanto
che mi spaventò e fuggii di nuovo nel mio letto.
Da quel giorno smisi di andarci
e nacque una nuova era. A quei tempi una vecchia biciclettina con il
manubrio da ciclista fu il più straordinario giocattolo che abbia mai avuto.
Facevo il Giro d’Italia, nel
circuito che saliva girando attorno alla parte vecchia del manicomio, per poi
scendere dall’altra parte.
Il Giro di Francia era invece
attorno al padiglione delle donne, cominciava in discesa, poi dopo aver girato
intorno al grande edificio, in mezzo a platani altissimi, si risaliva in
direzione di casa mia e l'arrivo era in salita.
Un giorno tornati dalla Spagna
i miei genitori mi portarono dei piccoli corridori ciclisti di plastica.
Iniziai allora, in loro
omaggio, anche il giro di Spagna.
Poi integrai i giri in
bicicletta con quelli dei piccoli ciclisti di plastica, come due
rappresentazioni complementari di uno stesso gioco, visto da lontano e
dall'alto o in primo piano.
Mio padre diceva che mi piaceva
giocare coi soldatini, le palline, le cose piccole. Notava anche la mia voglia
di uscire sempre dalla realtà, come per esempio se ero in macchina facevo finta
di essere su un’astronave; su una barca, di essere su un aereo, se veramente
ero su un aereo allora immaginavo di essere in un sommergibile e così via.
Molti anni dopo ho compreso che
quando gioca, il bambino entra in una dimensione libera, in un presente
assoluto, spazza via i doveri, le paure… ed è felice.
Se non permettiamo al mondo di
atrofizzare questa parte della nostra personalità, efficacemente capace di
astrarsi, avremo sempre una marcia in più, una possibilità supplementare di
evadere dalla realtà, che a volte ci appare troppo stretta.
Tornando al manicomio in
questione, la vita che abbiamo avuto là è stata interessante e piacevole,
io avevo uno spazio enorme a mia disposizione, la mia
fantasia penso che si sia sviluppata in una maniera differente dagli altri
bambini proprio per la mia infanzia al manicomio, non c'erano altri bambini e
gli adulti erano tutti abbastanza ben disposti verso di me, che giravo con una
biciclettina con un manubrio da corsa e che giocavo poi anche insieme a mio
fratello Umberto.
All’inizio andavo all'asilo, poi a scuola,
ma le visite di altri bambini a casa nostra erano abbastanza rare, tra cui c'è
stata sicuramente più spesso quella di Raffaello Paloschi e qualche volta di
Mauro Del Grande.
La demenza senile sta
arrivando e mi sono messo fretta per terminare la mia seconda autobiografia. Ho
romanzato un po’, certi dialoghi sono inventati, ma senza cambiare la sostanza
nel raccontare, sempre se la memoria non m’inganna.
La storia della geografia ovviamente coincide abbastanza con la
geografia della storia. Della geografia pura all’inizio se ne fece meno uso, ma
con l’andar del tempo gli spostamenti aumentarono e certo anche gli eventi,
insomma tutto si è intensificato, quando ho scoperto che le mappe corrispondono
veramente a laghi, fiumi, colline, montagne e mare, paesi e città fatti di
case, palazzi e ponti e così via.
Quella casa antica era sede anche della posta di Marilia, dove
tutta la famiglia aveva lavorato. Di quel mondo polveroso e antico faceva parte
anche zia Magali, sorella di mio padre. A Marilia, in quei miei primi due anni
passai una bella porzione di tempo con lei. Dopo, ogni volta che mi vedeva, mi
raccontava che gli avevo fatto la pipì in tasca tante volte, da neonato, quando
i pannolini non esistevano e le fasciature che si adoperavano erano tutt’altro che
ermetiche. Per fortuna lei era dotata di una grande pazienza e di una vestaglia
impermeabile.
Anche mio zio Lorenzo, come mio padre, aveva sposato una donna
della Garfagnana, che da Marilia sono quaranta chilometri e a quel tempo ci
voleva un bel po’ ad arrivarci.
Era un uomo consumato dal cancro, l’ho sempre visto a letto,
scheletrico e in mutande e canottiera, sempre allegro e con la sigaretta in
bocca, alla luce artificiale giallastra di camera sua.
VALBONA
“Da casa nostra a Valbona c’erano vari chilometri e
raramente in pianura o in discesa, corrispondenti a più di un’ora di treno,
mezz’ora di automobile e un’ora a piedi. Salivamo verso la montagna ancora in
quei vagoni dai sedili di legno, trascinati dalle ultime locomotive a
vapore.
L’uomo che ci scarrozzava con
la lucida Millecento grigia era Righetto, un baffino piuttosto sull’ambiguo.
Ricordo l’odore di plastica dei sedili e il fumo della sigaretta sempre accesa.
Non stava un secondo zitto, ma non diceva mai niente d’interessante. Da Castelnuovo
ci portava fino a Isola dove la strada terminava. A volte c’era anche l’altra
maestra, la signorina Laura, che abitava non lontano da noi.
Al bivio, dalla provinciale, la
strada sterrata si buttava giù a picco come nelle Montagne Russe. A Isola
continuavamo a piedi caricati delle nostre valigie.
Una volta che aveva piovuto
assai, camminammo per un bel po’ affondati mezzo metro nel fango. Per me fu
divertente, un’esperienza nuova, era come passeggiare dentro la Nutella, ma
senza profumo di nocciola. Mia madre, però, imprecava a denti stretti.
Il sentiero, qualche curva
prima dell’arrivo, passava di fronte ad una casa abbandonata che si chiamava
Taccona. Nei mesi più caldi lì intorno era pieno di serpi, sento ancora
l’odore dolciastro di una grossa biscia morta, sulla strada polverosa.
La scuola era stata costruita
quasi sul greto del ruscello, solo un po’ più in alto per via delle piene ed
era la prima cosa che si vedeva del paese, passato l’ultimo costone di pietra.
A volte, nell’intervallo delle
dieci e mezza, andavamo a giocare a nascondino nella legnaia. C’era una
montagna di mezzi tronchetti, della misura giusta per la stufa, dall’intenso
odore un po’ muschioso, che ogni volta che sento mi viene in mente
quell’immagine. Quando in mezzo alla legna trovarono una vipera e una nidiata
di viperine, non ci potemmo più andare a giocare; da allora, la porta poi
rimase sempre chiusa.
Salendo verso il paese, a
destra c’era un forno dove i genitori di Nico, Sabina e Giuli, che erano
pastori, facevano dei pani enormi, che poi tutto il paese mangiava per una
settimana. La prima volta che vidi sfornare quelle pagnottone era maggio. Sotto
il lampione, dalla luce bluastra, c’era un vortice di maggiolini, alcuni di
loro storditi dalla luminosità e dal calore cadevano a terra ai nostri piedi.
Sulla salita, prima di arrivare
nella piazzetta, viveva la Florinda, che era una vecchietta che aveva la porta
di casa divisa in due, per poter aprire solo la parte di sopra quando c’era la
neve alta. Era famosa perché mangiava pezzi di formaggio pecorino stagionato
dentro il caffèlatte.
Una volta mio padre, che era
medico, la visitò e siccome non voleva essere pagato, lei gli regalò un
salamino nerissimo e rinsecchito, forse originariamente una salsiccia, che
comunque doveva aver custodito gelosamente chissà quanto, in attesa di una
degna occasione per sacrificarlo.
A Valbona rimanevamo cinque
giorni e tornavamo a casa solo per il fine settimana. Mio padre era malato,
costretto a letto. Al Manicomio, con lui, stavano mia zia e mio fratello più
piccolo, che aveva tre anni. Eravamo nel 1964.
A mezzogiorno, dopo la scuola,
mangiavamo tutti insieme in una stanza con un lungo tavolo e un’unica finestra.
Indiretta ma intensa luce che veniva da fuori, trasformava tutto in un film in
bianconero, con pochissimo grigio, i contrasti esaltati.
La sera la luce delle lampadine
era fioca, ma ci si vedeva a sufficienza, anche se, qualche volta, si rimaneva
a luce di candela. A Valbona l'elettricità era un lusso e spesso mancava, di
solito quando c'era la partita alla televisione, ma non solo. La stanza allora
era gremita di tutti i suoi abitanti, che non erano pochi, più alcuni sportivi
del paese. Se mancava la luce, aspettando - a volte invano - che tornasse, si
giocava a carte, con varie candele accese ed era senz’altro più divertente.
I Lunardi erano gente ospitale
che aveva l'unico negozio del paese che era posta, telefono pubblico, bar,
alimentari e vendeva anche articoli per la casa e ferramenta da lavoro.
Insomma: tutto quello che si poteva comprare o ricevere, dal mondo circostante
era lì, o non c’era. Tutto quello che esisteva era stato trasportato sulla
schiena di un mulo, certo la cabina telefonica era smontabile.
Il padre dei miei due migliori
compagni di gioco, Patrizia e Arnaldo, faceva il postino e durante il giorno
non c’era quasi mai. Invece c’erano sempre: la madre, la nonna da parte del
padre e la nonna da parte della madre. Le tre donne di casa adulte litigavano
ogni sera per chi dovesse lavare i piatti, contrariamente a quanto si potrebbe
pensare, tutte e tre ambivano a lavarli.
Insieme a noi alloggiava anche
l’altra maestra, che veniva dal Quercione, la signorina Laura.
La valle era scura e umida, non
ci batteva mai il sole. Tutte le case del paese erano fatte di grosse pietre
dagli angoli smussati dal ruscello, la via lastricata di piccole pietre
arrotondate, disposte a scalini nei punti più ripidi. Le numerose pecore e
capre provvedevano a foderare gli interstizi di olivette nere dall’odore
fragrante.
Sull’altra riva non c’erano
costruzioni, eppure là c’era più luce e calore solare. Magari agli inizi non
c’era il ponte e tutto fu costruito dal lato della strada provinciale, anello
di congiunzione con il resto del mondo.
I paesaggi erano belli e
selvaggi e a primavera tutto si riempiva di fiori di tutti i colori. Allora
facevamo gite sulle montagne circostanti, visitando le case più isolate dei
miei compagni. Alcuni di loro dovevano camminare per un’ora e più, ogni
mattina, per arrivare a scuola e poi per tornare. Mentre camminavamo, gli adulti
raccontavano storie di guerra e di scheletri ritrovati di soldati tedeschi o di
partigiani.
La sera, prima dell’imbrunire,
spesso si andava agli orti, che erano subito fuori il paese, per raccogliere
verdure coltivate e erbe selvatiche per fare l’insalata. Gli abitanti di
Valbona in tutto non erano più di una ventina. I bambini erano cinque e tutti
miei compagni di giochi. Le poche case, arrampicate sulla montagna e appena
sopra il ruscello impetuoso e dalle acque gelate, erano sovrastate da grandi abeti
che lasciavano cadere delle pigne allungate che di volta in volta, diventavano
uccelli, pesci, pistole, bombe a mano e un’infinità di altri oggetti o animali,
nei nostri giochi. Quando c’era la neve il paese rimaneva isolato, ma per i
bambini era sempre una festa, arrivavamo a sera bagnati e paonazzi.
Nei primi tempi, avevamo
alloggiato nella stessa piazzetta, in una delle poche case che si aprivano su
quell’unica area pavimentata, insieme alla chiesa. Dietro c’era un precipizio,
dove buttavano la spazzatura del bar. Tra i fondi di caffè e altri rifiuti,
riuscivamo a trovare i preziosi tappini della birra Peroni, che poi usavamo
come monete tra di noi. Da lì, se uno cadeva andava a tuffo dritto dentro il
ruscello.
C’era un piccolo parco pubblico con immagini sacre, statuette di
divinità cattoliche, aiuole piante e fiori, tutto abbastanza modesto e dimesso,
credo che fosse la chiesa che era davanti, a pochi metri che se ne occupasse,
almeno a livello amministrativo.
Una chiesa che aveva un sacerdote stabile che abitava lì, in quel
paese di poche anime, isolato dal mondo.
Nelle mattinate d’inverno, per
lavarsi, a volte si doveva rompere il ghiaccio della brocca smaltata e versare
l’acqua nella catinella, poi con zampate leggere da gatto ci si doveva bagnare il
meno possibile. Spesso i panni stesi ad asciugare congelavano e diventavano
duri come baccalà.
Ogni tanto mia madre sentiva
pena di svegliarmi, la mattina, quando era troppo freddo, allora mi lasciava la
colazione con un messaggio scritto sul cartone dei biscotti, quando mi
svegliavo la raggiungevo a scuola.
Una notte un topo enorme ci
stette a guardare incuriosito, per un bel po’, da sopra all’armadio, mentre
cercavamo di renderci conto se quella era proprio la realtà o se stavamo
sognando.
Nella
seconda casa dove siamo stati ospitati, dai Lunardi, nella camera dove
dormivamo noi, io e mia madre, c’era tutto l'intonaco nel soffitto scrostato.
Va detto che anche era molto freddo e umido, le macchie del soffitto avevano
delle forme che ogni giorno mi davano delle impressioni differenti. Per esempio
un giorno mi sembrava una certa forma di Lombardia, il giorno dopo magari
diventava il Piemonte, quella che era una Toscana poteva facilmente qualche
giorno dopo diventare una Corsica, forse dipendeva ance dalla stanchezza o
dall’inclinazione della mia testa sul lettone.
Facevo la prima elementare, ma
avevo solo cinque anni, con mia madre come maestra e in una classe con prima,
seconda e terza insieme, perché di ognuna c’erano solo uno, due o tre bambini.
Quando mia madre interrogava gli altri, le risposte erano troppo facili e se ne
uscivano da sole dalla mia bocca. Ne ricevevo subito il meritato premio a
manate.
I bambini di pianura, per non
parlare di quelli di città, sono sempre stati più rompiscatole di quelli di
montagna, chissà perché.”
MASSACIUCCOLI
“Con mio padre e altri suoi
amici andavamo quasi tutti i fine settimana alla baracca sul lago di
Massaciuccoli.
Era una palafitta di legno di
cui vari soci approfittavano, con la scusa di pescare, per prendersi delle
epiche e nobili sbronze. Erano tutti infermieri, medici e portieri del
manicomio. Non potrei affermare, se qualcuno me lo chiedesse, che la pesca non
gli interessasse, perché ci si dedicavano con passione. Anzi, quando non
pescavano niente, si avvilivano e bevevano anche di più.
Questi amici della buona
compagnia e del fiasco di vino, erano anche delle figure mitologiche, almeno
per me, come gli dei greci, con le loro debolezze e fissazioni, ma anche con
capacità soprannaturali.
Partivamo il sabato pomeriggio,
se il tempo era buono. Con la pioggia si rinunciava, a meno che non fosse
settembre, epoca di partenza delle anguille per il Mar dei Sargassi. Dopo
pranzo cominciava la preparazione, con un’atmosfera di allegria e mutua
collaborazione.
Si riempiva una vecchia sporta
di plastica forellata turchese con formaggio, pane, salumi e altre cose da
mangiare, perché là, dove tutto pareva lontano, ci veniva più fame. Poi una o
più torce a pila, fiammiferi, spago, detersivo e altre cose utili. Per bilanciarne
meglio i due lati, papà ci metteva sempre due fiaschi di vino, rosso se era
autunno o inverno, bianco se era primavera o estate, perché in quelle
condizioni di isolamento la sete diventava più forte. Facevamo una lista di
altre cose da comprare, riempivamo una damigiana piccola di acqua potabile,
raccoglievamo anche gli arnesi per eventuali riparazioni e prendevamo anche gli
zampironi per le zanzare, che là era il loro regno e al tramonto arrivavano a
nuvole.
Insomma: messo insieme tutto
ciò che ci sarebbe stato indispensabile, una volta che le acque ci avessero
separato dal resto del mondo, c’infilavamo in macchina e partivamo.
Eravamo trasportati prima da
una Simca 1000 rossa, dopo da una metallizzata, poi da una 1100 della stessa
marca ma di colore bianco, nell’ordine cronologico, le tre macchine che mio
padre aveva in quegli anni.
Si saliva il Monte Quiesa, che
poi era un passo tra una catena di colline, oltre le quali c’era la pianura
della Versilia, poi il mare. Lo stesso lago di Massaciuccoli al tempo dei
Romani era stato parte del mare, tutta quella fetta di terra oltre il Monte
Quiesa era sott’acqua. Quiesa era anche il nome del paese che attraversavamo
prima di arrivare alla Piaggetta, cioè dov’era la casa della barca, la prima e
unica mai vista col pavimento fatto d’acqua.
No. Prima dovevamo andare a
prendere il Lipparelli, di nome Ilio, che era una specie di guardiano della
Baracca, cioè della palafitta di legno dove andavamo a pescare. Trattavasi di
sessantenne nei pressi dei settanta, che viveva di opre, cioè di lavoretti come vangare, piantare e seminare.
Aveva una faccia scolpita nel
legno scuro, tipo indiano Apache, occhi incredibilmente incavati e piccole
pupille lontane in due cavernette buie. Era simpatico, ma senza nessun
proposito di esserlo, non rideva quasi mai e parlava molto poco. Pareva dotato
di una specie di saggezza lacustre che se ne usciva libera e leggera dalle sue
espressioni verbali in gergo, rare ma sincere, dai suoi sorrisi appena
accennati, ma soprattutto dai suoi lunghi silenzi. Parlava un dialetto tipico
del padule, forse anagramma di
palude, come loro chiamano insomma quel grande stagno, della cui pesca e della
terra nera e fertile lì attorno, piena di
torba, viveva la gente come lui.
Quando mio fratello era troppo
piccolo, ci andavo da solo con mio padre, poi anche Umberto si unì al gruppo. A
pensarci bene, lui era nato proprio in una notte di settembre di qualche anno
prima, di temporale e di pesca alle anguille che partivano con destinazione Mar
dei Sargassi. Mio padre era tornato tardi, era più mattina che notte e con mia
madre non erano nemmeno riusciti ad arrivare all’ospedale, avevano appena fatto
a tempo a chiamare un ostetrico dell’ospedale psichiatrico, nel recinto del
quale vivevamo e Umberto se n’era uscito fuori da mia madre come un tappo dalla
bottiglia di spumante, diciamo.
Il Lipparelli non aveva
telefono, perciò arrivavamo sempre a casa sua senza preavviso, a volte non
c’era e lo andavamo a cercare. Raramente andavamo a pescare senza di lui. Poi
andavamo all’alimentari, per comprare quello che mancava ancora, scritto su una
lista di foglio di quaderno o di carta gialla per alimenti, prima di
avventurarci in mezzo ai canali.
Era d’obbligo anche la capatina
breve, ma senza alcuna fretta, nel bar Abetone, dove mio padre offriva da bere
qualcosa a Ilio e gli comprava due pacchetti delle lunghissime sigarette
President, che lui adorava e che rappresentavano il simbolico pagamento per la
sua opera di manutenzione e controllo generale della baracca. Naturalmente, da
quel momento, fino al giorno dopo, Ilio Lipparelli era mantenuto da mio padre,
ma là non c’era da spendere più niente, solo mangiare e bere, soprattutto bere.
Poi arrivavamo alla Piaggetta,
lì c’era la casa della barca, che essendo di legno, aveva anche bisogno della
sua protezione dalle intemperie e da eventuali furti.
Lasciata la macchina a riposare
fino al giorno dopo, dalla casa della barca alla baracca c’erano forse duecento
metri, fino alla bocca del lago, dove entrava il nostro e un altro canale più
largo che poi andava verso il mare.
Ci volevano forse dieci minuti,
con la massima calma. Il remo del Lipparelli, che funzionava da propulsore e da
timone allo stesso tempo, faceva un leggerissimo sciacquio. Se remava mio padre
il silenzio già cambiava suono e nome.
Quel tipo di divertimento del
fine settimana era definito anche andare
al retone, che poi era la grande rete quadrata che aveva la stessa
larghezza del canale, cioè una decina di metri di lato. Si alzava dai quattro
angoli con un sistema di carrucole collegate a un paranco azionato a manovella,
mettendo - nel giro di pochi secondi - a secco tutti i pesci che stavano
transitando in quel momento, poi si ritiravano da là dentro con un guadino con
un lunghissimo manico, chiamato presacchio.
I pesci una volta portati sulla
piattaforma della baracca, per conservarli meglio, visto che ci si rimaneva
delle ore, venivano introdotti in una gabbia di rete metallica, detta burchio e poi nell’acqua stessa del
canale.
Mi ricordo che una volta chiesi
a mio padre se quelli poi non avrebbero comunicato coi pesci liberi e fatto la
spia, ma risero tutti e non mi risposero.
A meno che piovesse forte o ci
fossero condizioni atmosferiche troppo sgradevoli, il nostro arrivo era
previsto sempre prima del tramonto e il ritorno dopo l’alba, ma non per caso.
Il suggestivo affogare del sole in mezzo al lago e il suo risorgere dalla parte
opposta, dietro le colline, in direzione di Lucca, coincidono con gli orari dei
pasti principali dei pesci, quando escono dai loro nascondigli di canne e di
alghe in cerca di cibo e si rendono più vulnerabili alla cattura da parte dei
pescatori.
La gente, per natura amante del
pettegolezzo, era convinta che mio padre e i suoi compari andassero là solo per
ubriacarsi. Invece no, mangiavano anche assai e la pesca aveva la sua
importanza, pur se i pesci, poi, non li voleva nessuno.
Mio padre non mangiava pesce,
né pollo, né cacciagione, né nessun tipo di volatile, mia madre invece
apprezzava tutte queste cose, ma se doveva essere pesce, preferiva che fosse di
mare.
La fauna ittica del lago di
Massaciuccoli, come di ogni lago o fosso stagnante, ha sapore di fango ed è
difficile cucinarla in maniera che possa diventare appetibile.
Nei primi tempi della baracca,
quando non prendevo parte ancora a quelle escursioni del fine settimana, mio
padre portava a casa sacchetti pieni di prede ancora vive. Nell’epoca seguente,
la mia, gli era già stata proibita qualsiasi azione del genere, mia madre non
voleva più svegliarsi la mattina di domenica e trovare l’acquaio della cucina
pieno di tinche boccheggianti, anguille serpeggianti, lucci mordenti o carpe
saltellanti.
Però i minuscoli, trasparenti e
argentati crognoli, proprio per la loro semplicità, non richiedevano lavoro per
essere puliti e potevano essere fritti interi, in più erano pesci marini, anche
se in villeggiatura, nelle più miti acque dolci. Per questo erano ancora
accettati e lo rimasero almeno fino a che la baracca rimase tale.
Dopo l’incendio, che determinò
la sua fine, si passò in un altro luogo, dove non si pescavano crognoli e si
prendeva poco pesce in generale, ma questa è già un’altra storia, o magari, il
finale di questa qui.
Era Ilio Lipparelli, comunque,
che riceveva quasi sempre il sacchetto maleodorante, sua moglie era di là ed
era abituata a certe cose. Da mia madre, invece, come dalla maggioranza delle
mogli dei pescatori del fine settimana, era considerata un’aggressione morale e
forse anche un poco fisica.
Per un certo periodo di tempo,
ricordo che anche le anguille erano state permesse dalla legge della casa. Poi
successe che un sacchetto ermeticamente chiuso dentro un altro, con una decina
di esemplari di anguille di media e piccola grandezza, rimase dimenticato
dentro al frigo, insieme a tanti altri sacchetti contenenti le vivande più
varie, ma che dall’esterno erano irriconoscibili. Quando mia madre, un mese
dopo, vide che era doppio, ne capì, per esperienza, il perché. Allora lo prese
con la punta delle dita e me lo consegnò con la missione di sotterrarlo da
qualche parte, purché lontano da casa.
Io invece, che all’epoca
apprezzavo perfino lo studio anatomico di un bel
pesce marcio, aprii il doppio
involucro, già pronto a tapparmi il naso e rimasi di sasso: le poverette, un
po’ più magre, certo un po’ meno vivaci, erano ancora vive.
Mio padre non ha nemmeno mai
saputo di quella storia, era talmente schizzinoso che gliel’abbiamo sempre
tenuta nascosta. Anzi, una sera, alla baracca, Renzo - detto Porco il Lupo -
cucinò delle scaloppine di vitella che piacquero a tutti, specie a mio padre,
che se ne servì più volte e lodò ripetutamente sia la bontà della carne, che
l’abilità del cuoco. Quando una persona beve troppo, parla anche di più e Porco
il Lupo rivelò che quella formidabile vitella, tanto complimentata da tutti,
invece era tacchino. Ci rimase male mio padre, per via di quella vitella
tacchinata, evidentemente non ci si poteva più fidare di nessuno.
Si disse anche più volte che
l’aria del lago faceva venire più fame e che anche la sete se ne giovava, pur
non essendocene effettivo bisogno. Specialmente la sete di alcolici aumentava,
là alla baracca e un’altra volta, durante la notte, bevuta buona parte di
quello che c’era da bere, era finita l’acqua e tutti erano già ubriachi, quando
inventarono di fare il caffè con il vino e poi di correggerlo con il rum e la
grappa.
Una volta l’invitato fu un
compaesano che aveva vissuto in Argentina e raccontava storie della pampa e
bevevano tutti e ridevano, friggendo e pescando. A dir la verità pescavano e
friggevano pezzi di canne, alghe di vario tipo, pescetti piccoli e buoni, con
altri troppo spinosi e ditischi o scarabei acquatici. Il signor Gaudenzio
sgranocchiò uno di questi ultimi, una specie di blatta alla milanese, mentre
era impegnatissimo a parlare. Non tutti se ne accorsero e nessuno disse niente,
perché il signor Gaudenzio era un tipo assai irascibile. Lo scarafaggio
acquatico era un po’ più croccante dei pesci, ma il sapore non doveva essere
cattivo, perché se lo mangiò tutto.
Come linea generale di
comportamento, tentavano spesso di ubriacare il Lipparelli, con tale impegno
che poi loro non riuscivano più a parlare e a camminare, mentre Ilio rideva
forse un poco di più, ma neanche tanto. Mio padre diceva che era perché era
troppo abituato a bere superalcolici tutti i giorni. Al bar si sparava in gola
dei bicchierotti di whisky a buon mercato e cognac di terza categoria, amari e
vermut in dosi cavalline, come se fosse acqua, l’avevo visto anch’io e il suo
adiacente comportamento non sortiva variazioni di rilievo.
A mio padre piaceva la
compagnia del Lipparelli, perché era spontaneo e tranquillo come la superficie
increspata del lago e lo stormire delle canne alla brezza, si combinava con
l’ambiente naturale dove aveva sempre vissuto. Era un uomo semplice e aveva
l’anima leggera, quando lo prendevano in giro rideva bonariamente, allora
quelli ci perdevano il gusto, ma non ci rinunciavano mai definitivamente,
faceva parte della loro indole curiosa e polemica tipicamente toscana.
Altri eventuali partecipanti
alla battuta di pesca, come Renzo e altri meno frequenti come lo scrittore e
collega di mio padre Marco Torino, arrivavano in tempi differenti e con i loro
mezzi di locomozione, se vedevano che la barca non c’era, allora ci chiamavano
gridando di là e noi andavamo a recuperarli.
Renzo di Marilia, forse era
l'unico membro della congrega esterno al manicomio, ma non per questo meno
eccentrico, era soprannominato Porco il Lupo, per la sua esclamazione
peculiare.
Era capace di cantare pezzi
d’opera al chiaro di luna, interpretandoli con grande trasporto emotivo e
alzando le braccia verso il lago, in posa canora evocativa.
Noi bambini ci ammazzavamo
dalle risate a un metro di distanza, ma lui continuava serissimo e in fondo
tutti applaudivano e gli davano un ulteriore bicchierotto traboccante di vino.
Una volta il famoso Marco
Torino, scrittore e scapolone, uomo simpatico e stravagante, dopo vari fiaschi
di vino bevuti insieme a mio padre e altri pescatori del fine settimana,
facendo rapida marcia indietro, sfasciò la macchina nuova contro un massiccio
palo della luce di cemento apparso dal niente.
Dopo essere sceso e aver visto
l’entità del danno, gridò al silenzio della notte che avrebbe fatto causa
all’impresa di elettricità, che lo aveva piantato là, dove prima non c’era e
oltretutto senza avvertirlo.
Il dottor Torino era stato il
vincitore del premio Strega con uno dei suoi romanzi che parlava proprio del
nostro manicomio, due dei suoi romanzi poi sono anche diventati film. Quando
salì sul palco per ricevere il premio in questione, avendo alzato il gomito
come di consueto, prese il microfono e ringraziò i critici letterari, che
riuscivano a trovare nei suoi romanzi assai di più di quello che lui aveva
immaginato scrivendoli.
Torino amava la vita da
scapolo, era un mezzo dongiovanni, non si sposò mai e abitò per tanti anni al
manicomio, dove oggi si può visitare la sua stanza. Solo negli ultimi anni, da
pensionato, si trasferì in un appartamento di Sant'Anna da solo.
Più di venti anni dopo, lo
incontrai appena fuori città, che stava passeggiando col suo inseparabile
bastone. Iniziai a parlargli della mia nuova passione, la scrittura, nella
speranza che potesse aiutarmi a pubblicare i miei manoscritti. Fu, come al
solito, simpatico, affabile e tutto il resto.
Però quando ci salutammo
scoprii che non mi aveva riconosciuto. Non molto tempo dopo, seppi che era
morto, ma in me vive ancora, così come papà.
Per mio padre, il punto più
critico del ritorno a casa era la prima curva in discesa, sul Monte Quiesa. Se
era in buona forma alcolica, e spesso lo era, fermava quasi la Simca di turno,
per riuscire a farla senza sbandare e noi bambini morivamo dal ridere.
Papà, a volte, incrociava le
parole che non si capiva più niente. Quando giungeva a livelli alcolici più
alti, cantava la canzone natalizia Astro
del ciel in tedesco, cioè Stille
nacht.
Fui io a dargliela la tragica
fine a quella prima baracca, insieme al mio amico Roberto detto Fistio, ma mio
padre non l’ha mai saputo, sennò sarebbe stata anche la mia. Era giorno di
scuola, ma noi in motorino andammo alla baracca. Una volta là, Fistio notò che
da un buco del soffitto venivano fuori pagliuzze di canneto, portate là dentro
dai topi, che vivevano nell’intercapedine del tetto e pensò bene di dargli
fuoco. Subito dopo ci venne in mente che poteva essere pericoloso e le
spegnemmo.
Poco dopo tornammo a casa, per
pranzo, come al solito, simulando l’orario di uscita da scuola. Però,
evidentemente, c’era rimasta qualche pagliuzza accesa. La sera stessa ricevemmo
la notizia telefonica dal Lipparelli che la baracca era bruciata, c’erano
rimasti solo i mozziconi dei pali anneriti appena fuori dall’acqua.
La seconda baracca fu meno
epica e romantica della prima. Anche se era più grande e bella, in un altro
canale, ci si pescava poco, ma anche lì ci si beveva abbastanza.
L’avevano costruita assieme,
mio padre e alcuni amici di famiglia, vicini di casa, che negli ultimi tempi
erano diventati anche loro pescatori del sabato sera. Ai lavori partecipammo un
poco anche io e Umberto, sebbene il capomastro, di nome Paolino, falegname di
professione e rompiscatole nel tempo libero, ci disse che non sapevamo piantare
nemmeno un chiodo. Però, per fare la piattaforma, ne avevamo piantati
centinaia, magari mezzi storti e battendoci anche qualche volta sulle dita.
Il silenzio incredibile del
lago era una cosa che mi affascinava e mi spaventava allo stesso tempo, ma
iniziai a vederlo dal punto di vista romantico quando ci andai con una ragazza
di cui ero innamorato, anni dopo e si trattava già della nuova baracca.
Mio padre ci aveva mostrato,
con quelle uscite del fine settimana, che un mondo parallelo esisteva a pochi
chilometri da casa. Una vita e una maniera di comportarsi avevano molte
sfaccettature possibili, bastava cercarle e per farlo bisognava prima credere
che esistessero, da qualche parte.
Credo che sia stata la più
grande lezione che avrebbe potuto darci, perché è ampliando il nostro orizzonte
che capiamo che c’è sempre speranza, anche quando le cose vanno male.
Quando le cose vanno bene
invece, sappiamo che può durare, magari con qualche pausa, dopo qualche bella
ricaduta inevitabile e necessaria per accorgersi della differenza. Prima della
sua morte, non mi sono mai reso conto del valore pratico di quello che
succedeva tra di noi, quasi ogni sabato, al lago di Massaciuccoli.
Insieme a Rinaldo ci passammo
anche un ultimo dell’anno con delle ragazze e un amico suo che lui ebbe a
definire comatoso grosso. Era freddo e ci si scaldò accendendo la stufa
economica e bevendo quello che c’era di forte.
Anche la seconda baracca finì
in un rogo, purtroppo, ma stavolta noi eravamo innocenti.
Altre fughe dalla routine del manicomio di Miggiano venivano
rappresentate da quelle a Viareggio per le vacanze e all'Abetone. Piano-piano
sì cominciava anche ad andare all'estero, per prima quella Svizzera di cui mi
ricordo poco a parte uno spaghetto al burro sul treno passando le Alpi, ci
avevamo caricato la macchina che credo che fosse la Simca 1000 rossa e poi a
Lugano il panorama dalla finestra… anzi dal terrazzo dell'albergo, e ricordo che
giocavo con una Mercedes decappottabile Pagoda bianca, modellino che mi era
stato comprato da mio padre appena arrivati dall'Italia. Ricordo Andermatt
bellissimo paese alpino e poche altre cose, perché penso che non avessi ancora
sei anni, dovevo averne quattro o giù di lì.
In seguito si visitò anche S.Marino, che è all’estero per modo di
dire e so di sicuro che successe dopo, perché c’era anche mio fratello Umberto.
La casa del Quercione era
abbastanza di recente costruzione, prima ci abitava il proprietario, che mi
pare che si chiamasse Avancini. All'inizio non c’è stato bisogno quasi di
nessun cambiamento strutturale, dopo qualche anno il garage diventò la sala e
lo studio di mio padre diventò un'altra sala. Quella meno frequentata era la
parte di basso della casa, il seminterrato. Era quasi senza porte, almeno dalla
parte d'entrata di sotto e quindi di inverno era molto difficilmente
riscaldata.
DAL 1967
Un bambino in un ambiente come il Quercione degli anni
sessanta era in una specie di paradiso, le opzioni di gioco erano varie e
interessanti, gli adulti attorno amichevoli, le macchine erano poche e non
correvano come oggi, i mulini avevano ancora le ruote di legno e il semaforo
sulla Bazzanese era una realtà che nessuno a quei tempi poteva prevedere.
Figurarsi che noi si andava ai primi
allenamenti a Nave in bicicletta, ma qui eravamo già negli anni Settanta.
Pasquale gestiva l'alimentari dove si segnava
sul libretto, si vendevano anche frutta e verdura, anche se tutti sapevano che
era un furbone, notavano anche la sua cordialità e simpatia. Al Bar della
Salute Beppina si alternava al figlio Roberto che invece non aveva voglia di
stare lì e sembrava sempre incazzato. Suo fratello Edoardo invece studiava ed
era un tipo assai più affabile. Il giorno che si laureò in medicina chiese a
tutti quelli che entravano, al bar della Salute, se magari non avevano pensato
possibile che uno con la faccia a biscaro come la sua avrebbe potuto laurearsi,
ma invece era successo e lui era diventato medico.
Anni dopo faceva medicina sportiva a Ponte
San Pierino e io che avevo spesso infortuni giocando nel San Mario, mi curavo
da lui, nella palazzina sulla curva davanti al distributore di benzina che da
anni non esiste più. Da bambino mi ci portavano, quando ero malato, dal dottor Dantini.
Edoardo mentre mi faceva la cura degli
ultrasuoni mi guardava, scuoteva la testa e diceva: “Un ci ‘apisco nulla!”
Alla Cooperativa c'era Tista Panconi, un
vecchietto magro e ridanciano, un ghiacciolo costava 20 lire e a quei tempi
c'erano ancora pensionati che giocavano a carte.
Dopo ci fecero la pizzeria La Pineta con
il forno a legna e la pizza era buona. Ci lavorava tutta una famiglia di cui
figlie e madre sovrappeso. Mio fratello ci ha fatto il cameriere e siccome non
gli davano da mangiare, ogni tanto spariva un cameriere o una cameriera, in uno
sgabuzzino a sbafarsi una pizza alla svelta, frutto di un’ordinazione falsa.
Mi ricordo di aver visto lì alla
televisione, a 10 anni di età, il primo sbarco sulla Luna. Mia madre era
incinta di Leonardo, era giugno, lui nacque poi alle Zitine il giorno di
Ferragosto.
CANI
Da bambino non ho avuto tanti cani perché mio padre non voleva. Il
primo fu Dick, sporco e simpatico, trovato per strada. Un bastardino, come si
diceva a quei tempi, in cui non bisognava arrufianarsi con le parole.
Probabilmente era stato sperso e la mia famiglia fece lo stesso, dopo pochi
giorni, l’ho saputo da poco, già da vecchietto. Dicevano che puzzava, ma non
sarebbe bastato fargli un bagno? Dopo diversi anni in cui siamo rimasti senza,
fu adottato il primo cane stabile della famiglia, Blacky, donato a mio padre da
qualcuno, dove lavorava. Era nero e non di razza pura, poi quasi completamente
oscurato nella nostra memoria dalla maggior personalità e simpatia del secondo
Blacky, molto simile al primo, almeno fisicamente, preso al canile da mio padre
a dispetto delle sue convinzioni precedenti. Per anni aveva detto e ridetto che
se prendevamo un cane se ne andava via lui e sebbene non ci paresse proprio una
cattiva idea, forse per motivi di praticità, non si passò mai alla pratica.
Successivamente lui cambiò opinione, perché noi figli non gli stavamo fornendo
quei nipoti di cui avrebbe avuto bisogno per fare il nonno.
FINE ANNI 70
Allontanarsi da Marzio è stato automatico
e fisiologico, mentre lui andava dietro ai soldi e al potere, io ne scappavo da
sempre, ma ogni giorno di più in maniera cosciente. La mia vita era stata
differente, quando c’erano state delle necessarie scelte erano state divergenti
e le nostre esistenze in fondo si erano incrociate per poco tempo.
Un giorno mi aveva raccontato una cosa che
me ne aveva fatto capire altre. Aveva fatto il bagno con il mare mosso e dopo
non riusciva a tornare a riva, mulinelli e risucchio della corrente lo avevano
messo in tale difficoltà, da temere di affogare, ma mi confessò che giammai
avrebbe chiesto aiuto, pur di non fare una figura a biscaro avrebbe preferito
morire. Capii che per lui mostrare di essere grande e forte era più importante
di esserlo. Lateralmente pensai che era così ossessionato dalla paura di essere
ingannato, che per me invece era meglio esserlo qualche volta, nel frattempo si
poteva stare un po' più tranquilli.
Quello che ho sentito attorno a me,
specialmente tra le persone che mi sono state relativamente più vicine, è stata
la totale mancanza di ambizione che ho trovato in Raffaello, Aldo, Roberto,
Mauro, Martino e in altri, che poi si è associata anche alla non competitività
appresa in seguito.
Marzio diceva spesso, quando eravamo
appena maggiorenni, che noi non avevamo ancora combinato niente, non avevamo
fatto un cazzo, ma non sapeva spiegarmi cosa avremmo dovuto fare, per
realizzare qualcosa di vero e importante. L'ho capito solo dopo, era tutto in
relazione ai soldi, forse al potere, insomma a quel mondo che io inconsciamente
avevo già rifiutato. Certo i soldi erano necessari, ma quel tanto che ti basta
per vivere e alimentare le tue passioni, i tuoi passatempi, i tuoi valori,
insomma l'evasione regolare e manovrata dal mondo così come era. Quella stessa
vita che loro criticavano ma che alimentavano giorno per giorno senza
accorgersi, con la loro maniera di essere.
RICORDI?
“ Un settembre non molto
piovoso, oggi è il venti e l’estate non è ancora finita, ma pare finalmente
agli sgoccioli. Giro in bici tra S.Marta in Collina e Nezzano, lungo il fiume e
tra le viuzze sotto il castello, sento i profumi della gente a cena, non c’è
quasi nessuno in giro, passano rare macchine. Dopo il Paloschi faccio la salita
e non resisto, entro nel manicomio di Miggiano.”
“Bello, lo sai che ora ci fanno le visite guidate?”
“Figurati, una volta ci sono stato e hanno registrato anche la mia
testimonianza per fare un libro, che finalmente è uscito, dopo una decina d’anni.”
“Allora nel libro c’è anche la tua testimonianza?”
“No, non ce l’hanno
messa. Forse non gli è piaciuta.”
“Ah…
Ma te quanto tempo ci hai vissuto?”
“Credo sei anni, o forse
meno, ma sono stati i miei primi, con la memoria nuova e lucida, insomma appena
staccata dalla fabbrica, i primi effettivi due a Marilia, mi garberebbe, ma non
me li posso ricordare.”
“Beh, a quei tempi qui c’era un sacco di gente e di movimento, no?”
“A quei tempi il
manicomio era sicuramente anche un investimento interessante, ci lavorava tanta
gente che abitava nei dintorni, alcuni li ho conosciuti dopo, oltre ai pazienti
che erano parecchi e molti tra di loro davano un personale contributo di mano
d’opera al manicomio: postini, giardinieri eccetera-eccetera.”
“Ma dove abitavate voi?”
“La nostra casa ormai non
esiste più, ci hanno fatto un moderno centro di raccolta per analisi
mediche, credo, in una certa epoca precedente c’è stata anche l’anagrafe.
Non c’è più il cancellino
di ferro dipinto di verde, la rete metallica nascosta dalla siepe che era anche
più alta e spinosa, macchiato dalle numerose palline rosse dal sapore agro che
noi bambini mangiavamo, a volte, ma senza troppo entusiasmo, giacché
allappavano la bocca.
Sotto il cemento è
sparita la panchina verde scuro di legno come quella dei parchi, a lato del
tavolino di ferro sotto l’albero, col ripiano di marmo bianco. Proprio lì dove
il nonno Pitta disse, per me la prima volta, la famosa frase del cocomero, che
faceva arrabbiare nonna Nina perché lui la doveva dire sempre, non poteva
resistere, era troppo più forte di lui, tutte le volte che vedeva un cocomero e
delle bocche che lo mangiavano, bevevano e si lavavano la faccia.”
“Ah… bell’assai. Piuttosto dimmi come ci si stava in mezzo ai matti e agli
infermieri?”
“Non lo so, per quel
che mi ricordo mi pare bene. I matti di dentro non erano peggiori di quelli di
fuori, forse erano anche meglio. Quella era una specie di città, anomala e
tutto, d’accordo. Al Manicomio si stava bene, secondo mia madre, diceva che sono
stati gli anni più felici della sua vita, eppure eravamo una unica famiglia
dentro un ospedale psichiatrico, grande e pieno di cosiddetti malati, che non
circolavano ancora liberi, eravamo ai tempi in cui non era ancora uscita la
legge Basaglia. Non saprei dire se la suddetta legge è stata giusta o
sbagliata, mio padre era contrario, in precedenza ci aveva portati a vivere
all’interno del manicomio e noi ci sentivamo proprio a nostro agio, per strano
che possa sembrare.
Difficile capire cosa sia successo al mondo occidentale, ma se
andiamo a oriente, o anche a sud, diventa tutto ancor più intelleggibile, per
noi sembrano altri pianeti.
La televisione ha fatto del suo meglio per farci perdere l’idea
del contatto reale con la natura, con i sentimenti autentici e meno con i
sentimentalismi indotti e fini a sé stessi, ma poi ci sono state anche tante
altre cose, tra cui il computer e l’internet.
Mi ricordo bene assai che dopo aver visto un film sui pellerossa
americani, noi due bambini piccoli, si andava a giro a petto nudo colla maggior
naturalezza, solo che era febbraio e la mamma quando ci vide si disperò e ci
fece rivestire prima che si prendesse un malanno, che fortunatamente non ci
prese, ma prima che lei se ne fosse accorta avevamo passato una mezz’ora buona
correndo e saltando proprio come fanno gli indiani alla televisione.
Prima che nascessi e poi da neonato, i miei genitori e gli amici
di famiglia mi chiamavano scherzosamente il Sarchiapone, ispirati da una
scenetta comica televisiva in cui c’era un essere misterioso e forse anche
pericoloso, secondo il proprietario che lo teneva in una valigia bucherellata,
in uno scompartimento del treno. Gli altri viaggiatori non lo avevano mai
visto, non avevano proprio mai sentito quella parola, ma si vergognavano ad
ammetterlo.
L’affetto anche degli amici, per qualcuno che ancora non
conoscevano, la loro maniera di scherzare di quei tempi mi pare sana e
positiva. Niente a che fare con tutta quell’ansia malata di oggi, questa
protezione esagerata anche a costo di far diventare un imbecille il neovivente.
Mi ricordo tanti altri fatti che sono seguiti, frasi, parole o
semplici omissioni, dai quali ho compreso che eravamo assai più liberi e
spensierati, a quei tempi, ma non è certo una novità, lo sanno tutti, ma non ci
si può fare più niente ormai.
In seguito mi chiamarono Momo, perché così dicevo il mio nome, da
piccolo. Alle scuole medie Minatore, perché vagavo gattoni sotto i banchi alla
ricerca di non so cosa.”
“E il tempo, ti pare che passasse in modo diverso là al manicomio?”
“Sì. Ci penso spesso
al tempo, almeno attualmente, a quei tempi però non ci pensavo mai. Quando abitavamo al Manicomio di Miggiano
la nostra giornata era fatta di piacevole realtà ed era per di più
moltiplicata, o forse solo sommata alle precedenti, come dovrebbe sempre
essere, ma chissà perché spesso non lo è.”
“Ma questo che vorrebbe
dire in pratica?”
“Non lo so, forse che
si stava bene, solo perché ero un bambino, mio fratello minore anche e magari di più, ma i miei genitori stessi erano più giovani e vivaci,
bambini anche loro, in un certo senso, nella maniera di essere adulti certo più
sinceri e anche ingenui di quello che sarebbero oggigiorno.”
“Beh, anche tutto
attorno allora era diverso.”
“Magari il mondo
attorno era molto più spontaneo di adesso e ci si poteva godere meglio la vita, unico senso
che esista o che sia mai esistito, almeno qui sulla terra, l’unico senso
valido, voglio dire, tutti gli altri sono indotti dalla società e quindi sono
distorsioni.”
“Ma anche la società di allora era migliore di quella di adesso?”
“Ecco, direi di sì, perfino senza volerlo.”
“Perché?”
“Era, senza ombra di
dubbio, più entusiasta e meno decadente. Forse più rigida, più ingenua, ma
anche meno ipocrita.”
“E come mai?”
“Forse perché la sopravvivenza in generale è necessaria, ma quando
uno pensa che ce l’ha più o meno assicurata… ecco che la povera mente umana non sa più che pesci pigliare,
perché quelli, i pesci, perdono consistenza e si dovrebbe avere una filosofia
che li sostiene a mezz’acqua, sennò spariscono in mezzo alle alghe che ci sono
sul fondo.”
“Forse ci vuole anche
qualcosa di più della vita ripetuta tutti i giorni. Bisogna sognare, credere a
qualcosa da raggiungere.”
“Ecco.”
LAMPI ALL’INDIETRO
Nel 1959, mio anno di nascita,
il numero dei passeggeri degli aerei aveva superato il numero dei passeggeri
delle navi, per la prima volta. Insomma la modernità aveva piantato le basi per
quello che sarebbe stato il futuro.
Però abbiamo ragione di credere che il mondo fosse molto più umano
e a misura di essere vivente, indirettamente anche quel paesone e la mia
famiglia, come quelle vicine, ne risentivano, secondo me in maniera più scarna
eppure più sincera, di quello che potrebbe essere oggi, la realtà è più
complicata e quindi anche più falsa, purtroppo globalizzata.
Ho passato la mia infanzia, o perlomeno buona parte, in un
manicomio, non è stata una mia scelta, ma è stata un’esperienza positiva.
Almeno i matti non si sono mai lamentati di noi, e nemmeno noi di loro.
Prima del manicomio c’era stata la casa paterna e marliese che
offriva varie stanze su tre piani, diverse persone di due famiglie, più zia
Magali che era a sé e c’è rimasta tutta la vita.
Di quei primi due anni non me ne ricordo, quello che poi ho avuto
come rimembranza di quelle persone e di quegli spazi, non solo della casa, ma
anche lì attorno e in giro per Marilia, pur avendoli dentro anche prima, in
teoria li ho conosciuti dopo, quando abitavamo già al manicomio e andavamo a
visitare i parenti rimasti in loco.
Certo è che da bambino ho passato molto tempo da solo. I primi due
anni a Marilia, anche se lì la memoria non funzionava ancora, questo non
significa che il piccino in questione fosse insensibile, anzi come una
spugnetta rosa assorbiva tutto ciò che succedeva intorno, e anche quello che
non succedeva. Ne parlo alla terza persona singolare, come se non fossi stato
io e me ne sorprendo sempre, ma il fatto è che sono piuttosto plurale anche
oggi, in questo momento non mi sento affatto di essere uno solo, forse per
questo non soffro la solitudine come gli altri.
Là nel manicomio di Miggiano, la mia verde vita di due anni
appena, proseguì in maniera poco comune, dopo il trasloco dalla casa paterna di
Marilia. Mentre mio padre lavorava là dentro, nell’Ospedale Psichiatrico, nel
grande recinto, in una casa apposita, ci vivevamo insieme: lui, io e mia madre,
di cui quest’ultimi due abbastanza estratti da tutto ciò che ci circondava.
Insieme a mio fratello Umberto, nato là dentro, due anni dopo di
me, ci rimanemmo dal 1961 al 67, epoca determinante nella formazione del nostro
carattere.
Nostro padre naturalmente era uno che si portava il lavoro a casa,
visto che, oltretutto, la casa era dentro al manicomio. Forse senza volerlo,
però divertendosi, di nascosto anche a sé stesso, indagava nelle nostre piccole
esistenze in formazione, in maniera involontariamente professionale e il suo
cervello voleva sempre entrare nel nostro, per questo formammo, come potemmo,
le nostre corazze, le nostre giovani ma sempre più strenue difese.
Non riuscivo a capire come facesse ad accorgersi sempre di quando
stavo mentendo e più avanti a sbaragliare con facilità i miei primi prototipi
di tattiche, dandomi una perenne sensazione di impotenza, un po’ come quel
dannato occhio di Dio che ti vede e ti giudica sempre e dovunque.
Ce la siamo anche spassata, là, nel manicomio, abbiamo dei bei
ricordi e la nostra vita, anche dopo, è sempre stata piena di alti e bassi,
quindi interessante.
Certo che la nostra visione del mondo è ancora filtrata, almeno in
parte, dalla testa di mio padre, morto da anni e da quell’ambiente dove siamo
cresciuti, la nostra profondità è più o meno insondabile, anche per noi stessi.
La nostra affannosa ricerca delle cose, tutto il nostro rapporto
esistenziale con i vari ambienti attraversati, passavano sempre e
necessariamente dentro un purgatorio di studio, involontario e sempre meno
ignorante, dei caratteri umani.
La mia mente è diventata inafferrabile, una bella cosa, nel senso
che gli altri ci provano e non ci riescono, anche se a volte pure io la vorrei
tanto acchiappare e non ce la faccio.
Ammetto che è stata una faticata, ma ora capisco almeno che nello
scrivere è necessario esprimersi in maniera semplice, affinché tutti possano
capire, ma proprio tutti.
Spesso le persone gentili sono considerate deboli, o chi scrive in
maniera semplice è considerato incapace, ma per me è il contrario.
Io non ho un mio pubblico, ma se ce lo avessi, vorrei che capisse
tutto quello che voglio dire, non che fosse d’accordo con me, anche perché
quello che scrivo non sono necessariamente le mie idee, ma quello che sento
dire, quello che mi pare utile riportare o perfino denunciare, senza sempre
necessariamente esprimere la mia opinione.
La conoscenza che ho del carattere delle persone è il risultato di
un’osservazione attenta e continua, almeno da quando esisto, eppure
incredibilmente cominciata prima della mia nascita, dentro il cervello di mio
padre.
Anche mio fratello Umberto sarebbe un osservatore fenomenale, ma è
più pigro e incline a considerare che non ne valga troppo la pena, eppure
conoscere gli altri è la migliore maniera per arrivare a sé stessi e viceversa.
Personalmente non ho ho ancora capito se poi ne vale veramente,
quella pena lì, ma per alcune cose ha la sua brava utilità: conoscere la gente
ci può favorire, basta non essere né troppo ottimisti, né troppo pessimisti, ma
il più possibile realisti.
Un abbastanza esatto senso della realtà, è forse quello che
rappresenta il lato positivo di questo studio continuato degli esseri umani,
visto che in mezzo a loro dobbiamo sempre viverci, volenti o nolenti.
Certo è che, a volte, quando le cose vanno male, le facce
diventano mostruose, le preoccupazioni semplici ingigantiscono, tutto
impazzisce nel meccanismo esagerato del nostro cervello.
Allora bisogna essere estremamente razionali, qui si deve imparare
a fare da soli, per questo io dico che a volte, per fare delle necessarie
pause, forse è meglio concentrarsi su altri soggetti, come i bachi da seta o il
tiro con l’arco. La natura ci aiuta e anche parecchio, basta saperla assorbire,
interpretare e viverci più possibile in mezzo, agli alberi e al verde
incontaminato, può essere un vero e proprio antidoto.
Quando ero piccolo non ero molto diverso da oggi, la vita che ho
fatto però è stata un po' differente da quello che è la vita di un essere umano
normale. Forse perché ho sempre sentito di dover rifiutare tante cose tipiche
degli adulti, e a volte ci sono anche riuscito a evitarle per un bel po’ di
tempo, perfino quando ero diventato a mia volta adulto e forse non avrei
voluto.
Magari per questo sono rimasto un caratteraccio ribelle e rude,
come ero da bambino. Passo molto tempo da solo, scrivo proprio perché ho una
normale necessità di essere ascoltato, almeno da me stesso, che già lì dentro
non è facile, figuriamoci fuori.
Al manicomio c’era un qualcosa di differente dalle normali realtà
alle quali i bambini sono abituati, crescono probabilmente indotti da un
ambiente che c'è intorno, a cominciare dalla famiglia, che anche quella, nel
mio caso, era piuttosto complicata.
L'ambiente di un manicomio, anche se è uno di quelli con i matti
chiusi nei vari padiglioni con relativo recinto, con in più intorno un sacco di
natura libera a disposizione, è un ambiente diverso dal solito e quindi la
persona cresce in una maniera anomala, nel bene e nel male.
Voglio dire che la pazzia comunque è una grossa fetta della nostra
vita futura, anche se spesso mezzo nascosta e così là dentro, senza volerlo, mi
sono messo avanti con il lavoro.
La tragedia e la commedia fanno parte della routine, ma ci devono
essere tutt’e due. O perlomeno io c’ho dentro il computer del mio cervello,
sempre e comunque collegato al cuore, queste due componenti base, da cui
partono tutte le altre ramificazioni.
“Il mondo è una
delle cose più romantiche che conosciamo, qualsiasi altro pianeta ci ispira una
certa diffidenza, forse perché non ci porta ricordi con i quali possiamo
immedesimarci.”
“Veramente ci sarebbe la luna, ci fu qualcuno che ci
andò a ritrovare il senno perduto. Forse porta alla mente la pazzia, essere
lunatici o avere la luna di traverso sono cose poco positive.”
“E poi non è neanche un pianeta e comunque noi la
guardiamo di sbieco.”
“Effettivamente.”
“Insomma siamo tutti terrestri, volenti o
nolenti, la nostra personalità si costituisce sui ricordi, anche quelli dimenticati.
Per questo non voglio scordarmi di ricordare di quando
ero bambino, sulla spiaggia a Viareggio, c’era un venditore di bibite e gelati
che passava sudando, cento volte al giorno, mandava il suo grido di
riconoscimento e, non si sa se per causa o per effetto, si chiamava Arieccolo. Quando anche il figlio iniziò
ad aiutarlo, logicamente fu chiamato Arieccolino.
Quanto a sudare Arieccolo non sudava
già più, le prime centinaia di passate lo avevano prosciugato.
Ce n’era un altro con il tipico cappello
con la N grande di Napoleone, anche se il vero Napoleone probabilmente non ce
l’aveva così. Vendeva le schiacciatine da un enorme cesto, e gridava: Volete Napoleone o viceversa?
Io ingenuo bambino, cresciuto in un
manicomio con la conseguente fantasia esagerata dall’ambiente e dalle
situazioni contingenti, ho sempre pensato che Viceversa fosse la moglie di Napoleone, che vendeva magari
qualcos’altro, oppure le stesse cose, sulle spiagge limitrofe, o su quella
stessa spiaggia, ma che non era ancora arrivata e magari bisognava dichiarare e
specificare di volere lei, e non Napoleone.
Sempre sulla spiaggia ricordo un giorno che
aveva piovuto, era ancora un po’ freddino e la sabbia era bagnata, a quei tempi
per asciugarle meglio disponevano le sdraio a schiera, girate dalla parte
giusta, come se fosse un cinema con il telone davanti, che poi era il resto del
mondo. Rimanevano delle parti più grandi di distese di sabbia senza niente e
per noi era anche meglio. Io e mio fratello ci mettemmo a giocare a pallone, io
avevo il costume da bagno con i colori dell’Inter e lui del Milan, mio padre
leggeva il giornale cercando di addomesticarlo al vento, su una seconda fila di
sdraio ancora umide. Ricordo bene che avevo un foruncolo all’angolo della bocca
che mi dava noia, c’abbiamo delle foto a colori di quel giorno, forse tra le
prime non in bianconero, mi sa che ce le aveva fatte uno di quei fotografi a
pagamento che passano sulla spiaggia.”
“Allora i soldi, quando noi siamo bambini, sono o non sono meno
importanti?”
“Sì e no, di sicuro per capire l’importanza del denaro non solo ho
dovuto iniziare a lavorare, ma anche andarmene da casa dove ero protetto anche
se adulto, da ogni tipo di attacco anti-economico alla mia sopravvivenza. Se
vivevo a Lucca o lì vicino questo aiuto potenziale era nascosto ma sempre a
disposizione.
Insomma quando sono andato a Berlino,
forse, dopo qualche mese, dopo aver perso il lavoro, ho cominciato a capire il
cappio che abbiamo sempre al collo e che ci obbliga sempre a mantenere la testa
bassa e a lavorare, ad andare sempre a letto esausti e la mattina dopo
ricomincia inesorabilmente tutto di nuovo. Nel fine settimana poi non hai
voglia di far niente, devi recuperare le forze, se ce la fai, figurati poi se
hai dei figli, una famiglia, diventi un prigioniero.”
“Non si può stare a pensarci troppo, sennò tutto perde senso.”
“No, forse no, ma è così. La società ci obbliga a vedere il denaro come
libertà, ma più facilmente quello ce la toglie e ci soffoca.”
“Vabbè.
Ora parliamo di cose più romantiche, magari.”
“Se riusciamo a farci caso, quelle non mancano mai.
Là al manicomio c’era spesso una civetta che cantava: tutto mio! tutto mio! Anche di giorno.
Forse una civetta matta.
Più volte lanciava il suo lugubre richiamo
dal tetto del padiglione delle donne, che sotto riecheggiava in direzione della
nostra casa, e siccome lassù c’era una specie di camino che aveva una forma
strana, con dei grandi occhi che erano degli oblò, io pensavo che la civetta
fosse quella, troppo gigantesca per essere vera. Infatti mi chiedevo perché non
si muoveva.
Forse perché era fatta di mattoni e
cemento, più qualche tegola rossa.”
“I ricordi di queste cose a volte ci fanno chiedere se era
veramente così o se ce lo siamo solo immaginato noi.”
“Infatti. Magari sarebbero belli anche se fossero falsi. In passato
la mia stessa fantasia galoppante mi ha portato a visioni di ricordi
sovrapposti di un luogo, in maniera di vederlo come se fosse un altro e qui è
anche difficile spiegarlo. È successo solo con posti che ho vissuto nell’infanzia
e poi ho continuato a frequentare anche dopo. Come la casa del manicomio di
Miggiano, da determinati punti di vista la ricordo in due maniere, quella più
antica e quella più recente. La casa dei nonni, per esempio, come la vidi da
bambino piccolo e dopo con gli anni il ricordo si modificava crescendo, io, non
la casa e il luogo attorno... o comunque cambiando un po’ tutti e tre.”
“Scherzi della memoria.”
“Sì, la memoria è burlona assai, piuttosto leopardata direi,
cioè funziona a chiazze, magari ci si ricordano
cose insignificanti e ci si dimenticano tante altre importanti, insomma non c’è
un criterio: belle o brutte, insignificanti o importanti, piacevoli o
sgradevoli, vicine o lontane nel tempo. Nella stessa epoca, più o meno, andammo
all’Abetone, papà, mamma ed io, mio fratello Umberto doveva essere già nato,
magari era troppo piccolo, forse era dai nonni, o da zia Magali.
Penso che ci rimanemmo poco, forse una
settimana, all’Albergo Tirolo, che esiste ancora e pare quasi uguale. Intorno è
cambiato assai però, sotto c’era una stupenda radura con degli alberi enormi,
dove si poteva passeggiare, ora è tutto pieno di case, villette o villone.
Al Tirolo si mangiava bene, ricordo che il
sugo della pasta veniva servito a parte, dentro dei vasetti di porcellana
bianchi a becco lungo, come si chiamano? Con dentro un cucchiaio, fosse ragù o
pomarola. La pasta anche era di qualità, di solito larghe tagliatelle all’uovo,
sempre in bianco, con un po’ di burro per non diventare un blocco unico come un
nido di rondine.
Nel pomeriggio, dopo un riposino in camera,
che a me non piaceva, ma bisognava farlo, andavamo sui prati lì vicino, quelli
che d’inverno diventavano piste da sci. C’era l’erba alta e al sole era caldo,
ma all’ombra assai fresco e la sera pure ci si doveva mettere una maglia di
lana.
A dire il vero mi annoiavo, non conoscevo
altri bambini e quelli che c’erano all’albergo erano antipatici, non mi
volevano far giocare con loro.
Mi comprarono il Corriere dei Piccoli e fra
i tanti insetti che c’erano su quei prati montani, ne seppi riconoscere alcuni
e potei chiamarli con il loro nome, consultando le figurine del giornalino.
Ero un bambino con tanta voglia di
conoscere, come il nome di quell’enciclopedia che ci comprarono e che abbiamo
ancora, la guardavo con grande interesse, curiosità d’imparare, cominciata
forse con gli animali, i dinosauri per arrivare poi a tutto il resto di
geografia e storia…”
“In altre parole spazio e tempo.”
“Sì. In un’epoca precedente e in un altro luogo, per esempio a Marilia, giocavo a pallone
su quel piccolo lastrico di mattoni, il tavolino di ferro e marmo - che deve
esistere ancora da qualche parte - era la porta dove dovevo segnare, ma il
pallone andava spesso a finire fuori rimbalzando oltre il fico e di là c’era il
vivaio delle piante. Ci aveva giocato
mio padre da bambino, mio cugino Guido, figlio del fratello di mio padre,
Vincenzo e ora il suo nipote, che non so come si chiama e lui non l’ha nemmeno
mai conosciuto. C’era anche un cespuglio grande e alto di mortellino, una palma
mezza rinsecchita, su un pezzetto di terra polverosa che è stato lastricato da
un po’ di tempo.
In
camera Guido aveva giornalini differenti dai Corrieri dei Piccoli, Topolini e
Geppi che leggevo io, tra cui Monelli e Intrepidi, erano forse più adatti ad
adolescenti quale lui era. All’inizio guardavo solo le figure, ma alcuni
fumetti mi cominciavano a garbare come Pedrito El Drito, lo sceriffo di una
città di ubriaconi, le cui mogli cercavano sempre di togliergli gli alcolici,
ma loro glieli riprendevano spesso alla fine, sfidando i loro notturni
mattarelli dietro le porte.
Quella
casa ora appartiene solo a Guido che ci vive con la moglie, le due figlie e il
figlio di una di loro.
Quando
mi lasciavano lì da zia Magali per qualche giorno non potevo dimenticarmi di
giocare con i rocchetti di legno, scarti della segheria del Caselli, (lì
accanto, che è diventata un’impresa enorme, e che tratta vari materiali di
costruzione,) in cantina ce ne erano una grande quantità, che poi loro
bruciavano nel caminetto. Ci facevo dei castelli, delle muraglie cinesi e non,
qualsiasi altra cosa che avessi visto alla TV.
Ultimamente
con mio fratello Stefano siamo andati a Marilia, per via di un documento per
l’invalidità di mia madre, eravamo in anticipo e siamo andati a fare un
giretto, volendo vedere la casa paterna. Siamo entrati allora in una corte che
prima non c’era e siamo rimasti stupiti di quanto era cambiata, la casa di mio
padre, ci avevano addirittura fatto la show room per la ditta Caselli, siamo
rimasti esterrefatti e dispiaciuti.
Solo
uscendo ci siamo resi conto che ci eravamo sbagliati noi, quella era la corte
dove abitava Garita madre di Renzo, ma non di Renzo Andreini detto Porco il
Lupo, che anche lui abitava lì, ma era più vecchio assai.
Quando
ero bambino, tra noi e la corte dove abitava Garita, c’era il vivaio delle
piante, poi il fosso e il lavatoio e siccome dall’altro lato, sulla strada,
c’era un meccanico, spesso sull’acqua trasparente e vorticosa vedevo passare
velocemente dei riflessi arcobaleno causati da olio o altri idrocarburi.
In
corte, sul muro esterno di una specie di magazzino degli attrezzi, c’erano
delle mensole, sotto una tettoia, con dei vasi e delle relative piccole piante,
che i bonsai non si sapeva ancora cosa fossero. Seminascosti in mezzo,
soldatini e macchinine, elicotteri e dinosauri, elefanti e insetti di plastica
più o meno tutti della stessa grandezza che Garita trovava nel detersivo Tide e
siccome non aveva bambini, le dispiaceva di buttarli via e li metteva lì a fare
capolino dal fogliame, dietro i vasi, di piante grasse e magre, a far
sviluppare la mia fantasia al galoppo.
Ci
passavo ogni tanto, nelle mie esplorazioni e mi incuriosivano, ma non ne rubai
mai, non perché fosse cosa non appartenente al mio stile. Magari mi pareva di
toglierli dal loro ambiente, di rompere una certa armonia di un’ambientazione
di cui non mi rendevo conto, forse c’era qualcosa del genere anche dentro di
me, qualcosa che faceva intravedere storie e qualche film non ancora girato, ma
solo immaginato.
Un
altro ricordo di Marilia è di un giorno caldo, con mia madre saliamo a trovare
mia zia Malena, moglie di Lorenzo, credo al primo piano della vecchia casa
paterna. Lei fa il caffè e loro lo bevono sedute nella cucina con il tavolo e
le sedie di formica verdolina, che però quel giorno non si vedono, tanto la
cucina è buia con la luce che filtra appena dagli sporti chiusi delle finestre.
La strada polverosa e bianca sotto è silenziosa, ogni tanto passa una macchina,
ora ci sarebbe un traffico infernale, ma a quel tempo il mondo era ancora un
po’ più vivibile, anche a Marilia.
PICNIC
A
casa avevamo un formidabile cestino di vimini per i picnic, dentro c'erano
piatti e bicchieri di plastica e altre cose utili per fare le merende
all'aperto, tra cui anche minuscole scatoline che si aprivano svitandole e che
si potevano anche avvitare tra di loro in fila. Avevano la perfetta forma e
grandezza che ci avrebbero permesso di arrivare a destinazione senza temere le
eventuali scosse delle buche di strade di campagna, che secondo i geniali
ideatori avrebbero altrimenti messo in pericolo i gusci delle uova sode. Penso
che la nostra famiglia lo abbia usato una o due volte, questo cestino, forse
perché era pesante e occupava troppo spazio in macchina, ma anche perché i
supellettili che conteneva non erano del tutto efficaci, i picnic non erano
tanto frequenti, oltretutto il lunedì di Pasqua la pioggia scoraggiava anche i
più audaci.
A proposito ricordo che mio padre mi raccontò
che quando venne fuori questa parola, a Marilia venne subito storpiata e
divenne pitinic. Sicché le cosiddette
Deposite, allora giovani figlie dei
proprietari del deposito, che vendeva cioccolatini, boeri e caramelle varie,
quando un coetaneo le invitò per un pitinic
loro non conoscevano ancora questa parola, pensarono che fosse una cosa
sconcia e lo presero a borsettate.
Ida
e Sunta, poi rimaste zitelle vita natural durante, erano nostre lontane parenti
e grandi amiche di mia zia Magali, anche lei non si sposò mai, ma si fidanzò,
insieme a loro, al fecondo pettegolezzo di paese.
MOLOGNO
“La vita è piena di ingiustizie, tant’è vero
che difficilmente il lunedì di Pasqua il cielo si mantiene sereno, di solito
quando la gente parte per il picnic, illusa da un timido sole mattinale che spunta
tra le nebbie, si aspetta già di dover apparecchiare poi sotto un ponte, o in
qualche affollatissimo capannone abbandonato.
Dipendendo
dalla clemenza del tempo atmosferico la gente di Mologno, nel giorno del
cosiddetto Merendino, giocava a bocce
sul circuito squadrato delle strade sassose, quelle con la fascia di erba nel
mezzo, che come angoli avevano le loro quattro case in mezzo ai campi, oltre il
passaggio a livello del treno, andando verso il fiume Serchio. Mi ricordo di
averne seguito un giorno gli sviluppi, ero bambino e chi non giocava portava il
vino e la roba da mangiare. Era un divertimento, perché si facevano coloriti
commenti accompagnati dalle relative bestemmie e da bicchierotti di rosso, una
cosa alimentava l'altra. Le vecchie tradizioni ora si sono perse e, anche
chiedendo agli abitanti dei luoghi in questione, si ricordano appena di questa
cosa, secondo me invece d'importanza non indifferente.”
“Vero.
E tua madre?”
“Te l’ho
già raccontato, una tragedia. Il medico di famiglia si è sorpreso della sua
resistenza, non sapevo se lo aveva detto per scherzo o no, ma secondo lui era
dovuta alle castagne, considerata anche la provenienza Garfagnina, o quasi.
Mi
sono informato e ho scoperto che il medico non scherzava, dal punto di
vista nutrizionale, le castagne, hanno una notevole quantità di
carboidrati complessi, per questo sono in grado di sostituire i più pregiati
cereali, con il vantaggio però di non contenere glutine.
Ricche
di minerali che contribuiscono al buon funzionamento dell’organismo, le
castagne aiutano a rinforzare il sistema immunitario. Stiamo parlando, quindi,
di un prodotto di elevata qualità che grazie all’alto contenuto di amidi,
proteine, sali minerali come il potassio, il fosforo, lo zolfo, il magnesio, il
calcio e il ferro, insieme alle vitamine C, B1, B2 e PP, una bassa percentuale
di grassi, è indicato anche per chi effettua attività sportiva. Inoltre,
sono molto digeribili e consigliate a chi soffre di anemia o inappetenza e
grazie all’abbondante presenza di fibre, sono anche molto utili per la
funzionalità dell’intestino.”
“Io
ne ho mangiate un mucchio, eppure senza saperlo. Ma fammi vedere queste foto.” Chiede il Giuntini e io gliele passo. Poi
dico:
“Guardando
le foto di quando era bambina e poi giovane e bella, penso a lei, a come era
nei vari periodi della sua vita. Prima non assomigliava per niente alla nonna,
mi pareva, ma da vecchia diventava sempre più
simile, in alcune foto poi sembra la Giovannina, una signora nostra parente che
a volte è venuta ad aiutare. È strano ma logico che con la malattia affiorino
le maniere di esprimersi della gioventù, l’accento garfagnino e anche tante
parolacce che forse per dare l’esempio a noi figli, prima non diceva mai. È la
persona che conosco da più tempo, non ricordo bene i particolari, ma sono
uscito fuori da lei.”
“Hai dei
testimoni?”
Scherza sempre e non ride mai, il Giuntini. Un fenomeno vivente di burbero dal
cuore grande.
“Quanti
ne vuoi. Quando siamo andati al cimitero di Barga, che è piuttosto grande, te
lo sai, non sapevamo dove era la tomba dei nonni, non c’ero mai stato, mia
moglie Adriana ha chiesto mentalmente aiuto a loro stessi e l’abbiamo trovata
subito.” Alza
lo sguardo dalle piccole foto in bianconero e mi guarda, un po’ come se avessi
raccontato una barzelletta che non fa ridere.
“Non ci
credo.” Dice.
“Eppure è vero.”
“E che
ti ricordi della vecchia e romantica Garfagnana?” Se una cosa non gli garba, cambia subito
discorso.
“Dicono
che Mologno non ne faccia parte. Per esempio. E neanche Barga.”
“Barga
no, ma Mologno comunque è sul confine, se caschi nel fiume vai a
finire in Garfagnana.”
“Non ce n’è alcun bisogno, ne ho un ricordo nitido e
nebuloso allo stesso tempo. Una volta stavo aspettando in macchina, su un’ampia
curva, in salita di una strada costeggiata da ciliegi e tante altre automobili
erano posteggiate sui due lati. Non ricordo dov’era, ma certo da quelle parti,
Mediavalle o Garfagnana, forse era al di là dei confini, la curva dei ciliegi.
Non so chi stavo aspettando, penso che fosse mio padre e che questo sia
successo più volte, la macchina dovrebbe essere una Simca 1000 rossa, o grigia
metallizzata, ero bambino e rimanevo lì da solo, per un tempo ragionevolmente
lungo. Doveva essere non lontano dalla casa dei nonni, a Mologno”
“Ah. E
di Mologno allora che ti ricordi?” Il
Giuntini è di Sommocolonia, ma dice sempre che è di
Castelvecchio Pascoli, non so perché. Forse gli garbano le poesie.
“Trai
primi ricordi della mia vita c’è quello della casa dei nonni materni, un
edificio imponente e bianco che spunta da una fitta nebbia, in una fredda
giornata d’autunno o d’inverno.
Dovevo
aver certo più di due anni, ma non molti di più.
Forse
non avvenuta quello stesso giorno la macellazione del maiale, da me seguita a
distanza, nel garage dei vicini, con le varie parti sanguinanti poi appese ai
ganci, comunque associata a una somigliante porzione di tempo piovviginosa e
fredda.”
“Com’era questa casa? Era grande?”
“Era grande e ci abitavano altre due famiglie, i contadini. Al
seminterrato c’era la cantina, un’abitazione più piccola sul davanti, dove
abitavano la Meri e il Cavani, gente simpaticissima. Dalla parte opposta, dove
c’era l’ingresso della cantina, sopra c’era una famiglia piegata dal lavoro e
dall’alcool, non parlavano, papà, mamma e nonno, avevano lo sguardo nel vuoto,
i due bambini più o meno della nostra età erano piuttosto sporchi, ma ancora
normali.”
“Una casa vecchia?”
“Sì, con i muri larghi e fatti di sassi di
fiume.”
“Che facevate quando stavate lì?”
“La maggior parte del tempo noi la passavamo in cucina,
specialmente d’inverno, c’era il caminetto e la cucina economica, che si chiama così perché scalda e ci si può anche cucinare sopra.”
“D’inverno doveva essere freddo…”
“Pare
che tu abbia sempre vissuto nel deserto del Sahara, ma te Giuntini l’hai mai
visto il mare?”
“C’ho anche fatto dei tuffi non
indifferenti, a Marina di Massa, o di Carrara, un ci credi?”
“Ci
credo, chissà
panciate.”
“Invece
no, sono mezzo montanaro e va bene, ma perché poi dovrei aver fatto delle
panciate?”
“Perché
come nuotatori e tuffatori i Garfagnini non sono mai stati trai primi del
mondo, per esempio.”
“Ma
io sono di Castelvecchio Pascoli.”
“Mi
risulta che piuttosto tu sia di Sommocolonia, ma anche se fossi di
Castelvecchio sarebbe lo stesso.”
“Diciamo
che sono nato a Sommocolonia, ma ho vissuto quasi tutta l’infanzia a
Castelvecchio, tecnicamente entrambe non sono Garfagnana, diciamocelo; inoltre
sono cristiano cattolico praticante…”
“E
con questo?”
“Te
lo sai o no che noi del comune di Barga apparteniamo alla diocesi di Pisa?”
“Lo
so. E allora?”
“Mai
sentito parlare delle Repubbliche Marinare?”
La
sua logica è così ferrea che mi stende, di solito parla poco, ma quando lo fa è
cassazione. Quando ci siamo ripresi ho continuato.
“Noi
comunque si facevano le mondine nel caminetto e si andava a letto presto. La
sera dopo cena si giocava sul tavolino, di legno foderato di fòrmica rossa sul
piano. I grandi a volte giocavano a carte, noi avevamo un gioco degli animali
con delle figurine abbastanza spesse e rigide, che non so chi aveva lasciato in
un armadietto che c'era nel salotto dei nonni, nel quale noi andavamo sempre a
cercare qualcosa e a volte ci trovavamo delle novità, perché magari gli inglesi
quando erano stati lì in vacanza ci avevano lasciato delle cose vecchie, che
non gli interessavano più. Questo gioco era incompleto, mancavano delle
figurine ma noi le usavamo in un'altra maniera.”
“Ma
chi erano gli inglesi?”
“I
nostri parenti, emigranti che poi erano i padroni di casa, italiani che
vivevano in Inghilterra, a Carlisle.”
“Ho
capito. Tua nonna che tipo era?”
“Guglielmina
era molto più
seria di nonno, di solito si arrabbiava con lui, comunque era lei che
comandava, nonno era troppo buono, parlava tanto e con tutti attaccava
discorso, invece nonna non era di molte parole a vanvera.”
“E
il nonno com’era?”
“Immaginati
un triangolo in piedi, forse una piramide un po’ più slanciata, la parte del
corpo più bassa grossa e quella superiore più fina, la testa magra e allungata.
Le gambe e il bacino parevano parte di un corpo più massiccio e imponente, il
torace lo era assai meno, pareva non averci niente a che fare, le braccia però
erano muscolose.
Quando
arrivava un ospite andava giù in cantina a prendere il vino buono, nessuno
poteva riuscire a trattenerlo. Il vino non era buono per niente e mio padre,
che in qualità di ospite ogni volta veniva privilegiato da questa attenzione,
non si dimenticava mai di ricordarglielo. La sua ironia prefabbricata, che
ripeteva immancabilmente, di quel buono
davero quel vino lì, che poteva avere
perfino sei gradi e mezzo forse addirittura sette. Anche lui non poteva essere
fermato da nessuno al mondo, doveva dirglielo tutte le volte.
Anni
dopo, avevo già la patente di guida e andai a trovare i nonni con una fidanzata
e un’altra coppia di amici, nonno Pita ci accolse con calore, andò a prendere
il vino buono, giocammo a scopa e a briscola, dopo che ce ne eravamo andati
però chiese a zia Alba chi diavolo fossimo.”
Il
Giuntini ride, cosa rara, forse perché gli mancano dei denti davanti...
“Sbaglio
o hai detto Pita? Si chiamava così?”
“Si
chiamava Pietro, ma in Inghilterra lo chiamavano Peter, che pronunciavano Pita.”
“E
doveva essere un simpaticone.”
“Infatti.
Una domanda che il nonno mi faceva sempre, fino a quando morì, era
se avevo finito o no il servizio militare. Quando la nonna ci lasciò, lui
campò solo pochi giorni in più, dopo tutti
quegli anni non ce la fece ad adattarsi senza di lei.
Il
nonno comprava quelle mattonelle da attaccare alle pareti con le bischerate
scritte tipo “Saranno
grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui si siedono son tutti come me.” Il
marito di sua figlia naturalmente lo prendeva in giro ad ogni occasione. Mio padre ripeteva sempre le stesse battute, gli anni passavano,
ma quelle non cambiavano mai. Anche il nonno scherzava con frasi fatte e
ripetute più volte, che non si sapeva nemmeno cosa significavano, come Trinkes weine, arrivi e partenze, la
prima parte evidentemente dal tedesco, bevi
il vino, la connessione con la seconda parte, arrivi e partenze, doveva essere qualcosa a che fare con i treni, ma la combinazione tra le due parti
sfuggiva a tutti e pure le occasioni in cui usava dirlo erano misteriose e
parevano anche quelle difficilmente da potersi includere in una sola categoria.
Poi c’era: alla pesca del tonno! Che
veniva usata quando qualcuno pescava, sottintendendo che non avrebbe preso
pesci o poca roba. Quando una mamma picchiava un bambino, lui rideva e diceva: botte all’arbitro! Un'altra frase che
pronunciava spesso ridendo a noi bambini era: che bastiano ch’un tu sei!”
“E che rapporto avevano loro con quella casa?”
“Era come se fosse la loro casa, ma era degli inglesi, penso di zia
Alice, sorella della nonna. Dicevano che lei era ricca e ricco era anche lo zio
Dorando, che ogni tanto ci faceva visita e andava a vangare nel suo orto,
vicino alla stazione del treno, che stranamente non si chiamava la stazione di
Mologno, ma era quella di Barga-Gallicano. Te lo sai meglio di me.
Non so dove avevano abitato prima, ma io li
ho conosciuti e li ho sempre visti in quella casa.
La bisnonna, da parte di mio nonno Pietro,
era raffigurata in un quadro, dove spazzava con una scopa di saggina la stalla.
Mia madre appariva in alcune foto in bianconero, appese e incorniciate nel
salotto buono, che non veniva mai usato ed era arredato come succedeva una
volta. Era come un museo, pieno di ricami, vetrinette e cose da non toccare
praticamente mai, se non per pulirle. In una grande fotografia con la cornice
argentata due bambine piccole, molto diverse tra di loro, vestite di pizzo
chiaro, una cicciottella e scura, mia madre, l’altra più magra e bionda, zia
Alba. In un’altra foto mio nonno appariva giovane e vestito da carabiniere, ma
secondo quello che dicono faceva solo parte della vigilanza della grande
industria di Fornaci, la metallurgica SMI, che era come una città e c’era anche
un grande cinema dove da bambino ho visto uno dei miei primi film, Via col vento.”
“A voi bambini piaceva andare e restare dei giorni dai nonni, non è vero?”
“Sì. Per noi era rovesciare la realtà e trovarne un’altra più romantica e quasi mitologica. Per esempio le camere da letto
erano tutte particolari, oltre a quella dei nonni, che conoscevamo meno, le tre
altre camere di quella casa le ricordo bene, due perché erano tenebrose e una
perché ci dormivamo noi due, in un freddo tremendo d’inverno.
La prima, unica al primo piano, che al
pianterreno, o seminterrato c’era la cantina. La camera aveva due letti, uno
singolo e uno matrimoniale, era l’ideale per starci in tre, Umberto, mia madre
ed io. Probabilmente i mobili venivano dall’Inghilterra, perché non ne ho mai
visti di simili, erano bombati e riproducevano i disegni dei nodi di legno, ma
non erano massicci ed erano sicuramente fatti di pannelli poco spessi, scuri e
curvi. La luce era scarsa che per leggere un giornalino ci perdevi gli occhi.
Le lampade anche riproducevano un improbabile marmo trasparente con le sue
venature, ma le lampadine dovevano essere le più fioche disponibili, ci veniva
subito sonno. Sui letti degli imbottiti caldi, ma non tanto pesanti come quelli
che si usavano di solito all’epoca, che erano pieni di lana, questi invece
erano riempiti di piume, credo, disegnati a fiori e fogliame ma a colori scuri
e smorti, sul marrone verdastro. Questa camera poi noi bambini non la usammo
più perché ci trasferimmo al piano superiore, eravamo un po’ più grandi, si
dormiva da soli e penso che quella fosse la più fredda della casa, perché era
d’angolo, aveva due finestre e prendeva il freddo da due lati, era l’unica che
aveva un lato esposto in direzione del fiume e più oltre delle Apuane. C’erano
quegli imbottiti pesanti e in più coperte supplementari, mio padre diceva che
con quel peso addosso, quando uno si svegliava la mattina, era più stanco di
quando era andato a letto e poi doveva recuperare dormendo.
In
quella camera freddissima c'è un ricordo pauroso di un grosso coniglio, che
avevamo visto in un film, chiamato Harvey e la notte ci sembrava di vederlo, a
me e mio fratello, in piedi vicino all'armadio e alla finestra. Aveva come un
corpo umano, di un uomo assai alto e la testa di coniglio. Nel film non si
vedeva mai, ma ne parlavano sempre, quindi lasciava spazio alla nostra
immaginazione, che non era poca. Dormivamo con la testa sotto le coperte e
durante la notte andare in bagno era peggio di una spedizione in pigiama al
polo nord. Quella era la stanza più fredda in assoluto, non mi ricordo di aver
mai fatto un bagno completo là, forse i nonni lo facevano d’estate, mentre noi
aspettavamo di tornare a casa.
La terza camera la usavamo solo in caso di
necessità, forse quando c’erano ospiti. La rete del letto matrimoniale era
incurvata e concava, la testa rimaneva più alta del normale, il corpo scendeva
al suo massimo all’altezza del sedere e le gambe rimanevano rialzate anche loro,
ma meno della testa e da sdraiati si vedeva bene la strada e il passaggio a
livello del treno. Era una camera piccola e scura, sia per le pareti, mi pare
verdi scuro, che per i mobili marroni, ma quasi neri. Quando si accendeva la
luce, anche lì, sembrava quasi più buio e non si poteva proprio leggere.”
“Interessante.”
“Di fronte al terrazzetto all’ingresso, che poi era sotto questa camera, c’era la capanna, in una parte aperta in basso, c’era un vecchio barroccio polveroso, per tutto il tempo, e ti parlo
di decenni, non è stato mai mosso di lì e anche un passeggino
basso, aerodinamico, che somigliava a un piccolo carro armato, forse rosa,
doveva essere all’ultima moda ai suoi tempi, forse negli anni sessanta, poi
arrugginito tanto da non distinguersi più il colore. Non so se sono ancora lì,
ma io non li ho mai visti muovere da nessuno, mai.”
“Beh…”
“Mi garbano le cose strane, lo so, e quelle
vecchie, come quella stanza dove facevano il pane… se stanza si può chiamare
perché più che altro era un corridoio scuro con due madie una di fronte
all’altra, in fondo una finestrella che dava verso Gallicano e il monte Forato.
E c’era un odore di farina e muffa che non ho più sentito da un'altra parte, ma
lì c’era della bella storia e della geografia non indifferente…”
“In un certo senso…”
“Nooo, in tutti i sensi!”
“Come era disposta la casa dei nonni?”
“La casa aveva un seminterrato e due piani, fatta come una specie
di U e nel mezzo, c'era una parte dove non batteva mai il sole, che veniva
praticamente frequentata solamente dalle galline, dove c'erano pietre di fiume
arrotondate lasciate alla rinfusa, dove non cresceva vegetazione e andavano a
beccarci ciottoli e cose del genere. C'erano anche suppellettili come catinelle
e vasi da notte metallici e bucati, insomma cose buttate e lasciate lì, quelle
che con il tempo non erano marcite. Quindi era una specie di terra di nessuno
dove la gente non camminava mai e che avevo visto anche dietro altre case in
Garfagnana, che avevano in comune il fatto di essere frequentate solo dalle
galline, che non ci batteva il sole e spesso c'erano anche dei rifiuti solidi
di vario tipo e tenore.”
“Allora c’era un pollaio attaccato alla casa?”
“Sì, una parte almeno era prolungamento
della casa. Dove le galline dormivano e deponevano le uova. Poi c’era un
piccolo edificio staccato, nella prima stanzetta in muratura c’erano le gabbie
dei conigli, ce ne erano diverse anche fuori, coperte dalla lamiera, non so con
quale criterio erano divise. Mi piaceva dargli da mangiare, anche se dovevo
stare attento a cosa gli proponevo, oltre che alle quantità, sennò gli faceva
male. Nella seconda stanzetta c'era una specie di grande contenitore fatto di
terracotta che serviva per ottenere la lisciva, attraverso l'ebollizione di
cenere e acqua. Da un rubinetto in basso usciva questo liquido denso
giallastro, la lisciva, che poi era un detersivo per fare il bucato.”
“La
facevano anche a casa di mia nonna.”
“Infatti,
una volta funzionava così.
Sopra
una specie di capanna di legno, abbastanza aperta dai vari lati, piena di
fascine legate, per accendere il fuoco. La legna a pezzi era invece nella
rimessa, che era dall’altra parte della casa.
La
pompa era in mezzo al pollaio, che era uno spiazzo recintato dove le galline
becchettavano i ciottoli, comunicante con una stanzina in muratura, dove erano
incoraggiate a deporre uova con bianchi sassi di fiume dalla forma somigliante,
ma venivano lasciate libere di uscire fuori per tutto il giorno. Erano libere
di vagare quanto volevano, non si allontanavano mai troppo. Poi la sera la
nonna o chi altri le chiamavano e loro accorrevano velocissime, perché dentro
gli tiravano del granturco sgranato, per premiarle o per stimolarle a tornare.
Oltre
l’aia, che era uno spiazzo di cemento dove una volta si facevano seccare il
granturco sgranato e i fagioli ancora da sgranare, i nonni avevano anche un
piccolo giardino accuratamente recintato, per colpa delle galline, che era
sempre perfettamente in ordine, ma non ci andava mai nessuno.
Per
prendere l'acqua dal pozzo bisognava tirarne prima un secchio dentro la pompa,
quindi era un didattico rapporto di dare prima di avere. Per tirare su acqua in
quantità bisognava lasciare un secchio pieno lì vicino, per la volta seguente,
sennò niente.”
“Intorno
alla casa come era il terreno? Era coltivato o no? Ora lo vedi che non piantano
più
niente, da nessuna parte.”
“Diamine.
C’era
un orto recintato con la rete fina, per via delle galline, ci si andava a
rubare le fragole, quando era l’epoca. I campi erano coltivati a erba medica, o
a granturco, cercando di alternare, mi ricordo anche piante di patata, ma per
quelle le galline erano un problema e le rovinavano. Erano tutti campi
delimitati dai filari di uva, le strade anche e l’erba cresceva ai lati e nel
mezzo, dove passavano le ruote prima dei barrocci e poi delle automobili e dei
trattori, la terra rimaneva battuta e nuda, ma non fangosa quando pioveva,
perché c’era mischiata parecchia ghiaia di fiume. Pietre grosse e veri e propri
massi affioravano in certi punti, come in mezzo tra la casa e la capanna, lì
c’erano delle pietre piatte enormi per lastricare la leggera salita, dai muri
spessi della casa anche affioravano degli scogli non indifferenti, che erano
già nel terreno o forse li avevano messi per renderla più forte alla base.” Il
Giuntini mi versa un bicchierotto di rosso, senza chiedermi niente e uno per sé.
“C’erano alberi da frutto?”
“Dietro
la capanna c’erano dei noccioli che all’epoca della maturazione venivano
saccheggiati da noi bambini, davanti al pollaio un ciliegio enorme, il nonno ci
andava con la scala e riempiva dei cesti, una volta ricordo che esagerò negli
assaggi e si sentì male. Due bellissimi susini, la chioma a forma di cuore come
i frutti, di colore vino come le foglie, erano però sul terreno dei contadini,
all’ombra della casa, ma anche quelli non erano al riparo delle nostre
incursioni.
Salendo
in mezzo a queste costruzioni di pietra di fiume si andava verso una fattoria
grande e alta, fatta a elle, dalla quale c’era una stupenda vista, sotto si
vedeva la scogliera e il fiume, Gallicano sull’altro lato.
La
strada in mezzo ai campi faceva un quadrilatero incontrando un altro gruppo di
case, per tornare vicino al passaggio a livello, alla casa di quello che veniva
chiamato L’Antico, perché viveva come ai vecchi tempi e non si adeguava ai
nuovi.
Arrivando
dal passaggio a livello, che ora non c’è più, in fondo a quella strada dritta a
sinistra della casa, c’era una curva, e lì un canneto che veniva fuori da un
mucchio di sassi di fiume arrotondati, di varia grandezza, probabilmente quelli
tirati fuori dai campi, per poterli coltivare. Continuando da quella parte si
trovava la casa del Piruletti, così denominato perché si girava spesso su sé
stesso, mentre parlava con gli altri, forse era nervoso, faceva delle piroette.
Di lì l’unica via d’accesso attuale, che porta sulla strada principale, vicino
al ponte di Gallicano, paese più grande, che è dall’altra parte del fiume.”
“La
casa allora era quasi sul letto del fiume?”
“C’erano tre livelli, almeno quando il
fiume non era in piena: il nostro, la piana di sotto protetta dalla scogliera e
il letto vero e proprio del fiume. Sul più alto, la capanna, la rimessa e la
stalla, in un unico blocco di muri di pietra, sono rimaste uguali e
completamente abbandonate. Lì di fronte la casa era ed è ancora su una specie
di pianoro di terra più alta, che teoricamente dovevano essere al riparo dalle piene
del fiume, ma è successo che la corrente vorticosa una volta era arrivata anche
sopra e tutti cercavano mio nonno, già senile, che vagava come un pazzo per
quelle stradelle invase dall’acqua minacciosa.
Più in basso c’era un lavatoio incassato in
un poggio dove passava una gora di acqua chiara ma vorticosa, che doveva
servire per irrigare i campi delle case più in là. Mio cugino Saverio e suoi
amici ci avevano messo dei bei pesciotti pescati nel fiume lì vicino, ogni
tanto se ne vedeva uno, specialmente nello sportello a sinistra del lavatoio,
che non so a cosa servisse ma lì era pieno di pietre e di acqua pulita. Nel
lavatoio ci giocavamo con delle zucche lunghe e verdi come poi non ne ho più
viste, avevano passato il film di Moby Dick alla televisione, in quei giorni,
con Gregory Peck che faceva il capitano Achab, e quindi le zucche diventarono
balene enormi nel nostro gioco.
Al di sotto di quella specie di pianura,
dove c’erano le case, c’era la scogliera,
che consisteva in un enorme argine di cemento e pietra che veniva regolarmente
distrutta dalla piena del fiume. Sarebbe utile ricordare a cosa avrebbe dovuto
servire questa scogliera, cioè per proteggere dalla piena del fiume i raccolti
dei campi che c’erano dietro. Nonostante il fatto che venisse sempre fatta a
pezzi da questa vorticosa acqua in piena, la ricostruivano sempre alla stessa
maniera. Il bello era che dentro queste spaccature della scogliera c'erano
tante lucertole, naturalmente era anche un nido ideale per le serpi. Arrivando
sulla scogliera d’estate, senza fare tanto rumore, si potevano vedere le bisce
che stavano stese al sole.
Penso che i fossi che ho detto prima,
essendo in posizione assai più alta del fiume, fossero incanalati a partire
dalla Corsonna, che è un torrente che si butta nel Serchio vicino a Mologno ed
è proprio lì dove sta per arrivare nel fiume, c'è uno slargo di cento metri per
cinquanta, tutto di rocce arrotondate più o meno alla stessa altezza, che
sembra fatto per un qualche motivo, forse per rallentare la forza delle piene,
il nonno mi ci ha portato, qualche volta poi ci siamo andati da soli.”
“Ci sono stato anch’io a Mologno, lo conosco a menadito…”
“Anche i tuoi erano di quelle parti?”
“No, mio nonno era di Limano, e non c’è bisogno che mi dici la filastrocca.”
“Che filastrocca?”
“Lucchio, Limano e Vico sono tre paesi che
non valgono un fico.”
“E loro invece che rispondevano?” Chiedo io.
“Ah, sai pure quella?” Risponde domandando il Giuntini senza ridere, già sapendo la risposta.
“Io sì, sei te che non la sai!”
“Figurati, l’ho quasi inventata io!”
“Bugiardo. Allora dilla!”
“Come sei scemo! Vico, Lucchio e Limano; togli il
cappello e tienilo in mano.”
“Bravo
Giuntini. E la tua nonna?”
“La nonna era di Vagli.”
“Di sotto o di sopra?”
“Di sopra, di sopra.”
“Ma a me mi avevano detto che era di sotto...”
“Imbecille, ma se ti dico che era di sopra… ma te un ce n’hai più di ricordi che ti vengano in mente?”
“Hai voglia te… mio cugino Saverio poi se n'è andato in Venezuela, ma da piccolo ho diversi ricordi con lui,
tra cui quando il nonno aveva un motorino che lo teneva nella rimessa sempre
lucido e pulitissimo, lui glielo fregava e andava a fare il cross sul fiume e
prendeva sempre in giro il nonno perché lo chiamava la motogigletta.
Poi, in un giorno freddissimo di febbraio
io e Saverio siamo andati sopra il garage dei contadini, dove macellavano il
maiale e là sopra c'era una specie di altana con il granturco sgranato a
seccare, di quel mucchio avevamo fatto un cratere, come se fosse un vulcano ed
era diventato la nostra trincea, si sparava ai nemici protetti da argini di
granturco.”
“Bello e poi?”
“Io non l’ho mai visto, ma una figura mitologica era
il Veloge che prima degli anni
sessanta veniva a piedi con qualche scarsa pentola da vendere, e diceva:
- La volede questa bella pentorina?
Le donne, più per divertirsi che altro, si
mettevano a farci le trattative sui prezzi, fingendo di considerarli esosi, ma
alla fine poi non gliele compravano quasi mai, povero vecchietto.
Suo erede naturale, ma con una struttura
assai più ricca e complessa era il Bocione, che urlava quando arrivava con la
sua Apecar carica di utensili per la cucina, perlopiù di plastica, dopo
l’avvento del Moplen, che attaccati a una struttura metallica aperta
sventolavano e si dimenavano quando era in movimento. Era un tipo grassoccio e
rosso in faccia, che probabilmente amava il vino e la cucina rustica della
Garfagnana, aveva un vocione che non aveva bisogno del megafono, ma in un
secondo momento anche quello apparve trai suoi richiami per il pubblico, tutto
femminile e casalingo, che si divertivano anche con lui a trattare sui prezzi e
a parlarci senza aver troppe intenzioni di comprare, faceva parte del gioco.”
“Altri giochi?” Versa ancora due bicchierotti. Brinda.
“Salute. Tra le prime volte che ho giocato a pallone c’è stata
quella sul letto del fiume Serchio, un campetto improvvisato pieno di sassi e
senza erba, insieme al mio cugino Saverio ed è stata una partita tra una decina
di bambini di varie età. Le due squadre erano denominate Seghini e Segoni, vincemmo
noi Segoni cinque a quattro.”
“Eh sì, i Segoni erano forti assai. Ci ritorni
volentieri a vedere la casa dei nonni?”
“Sì. Ci sono tornato tante volte e ora fa
proprio pena vederla, cambiata in peggio, alcune sue parti abbandonate, con le
finestre rotte e vedere che lì attorno il degrado è ormai routine dichiarata e
affermata.
Ci sono
tornato varie volte a Mologno, una volta anche con mamma e un suo vecchio
amico, che le telefonava sempre, dopo la morte di mio padre. Anche se tutto è
cambiato e abbandonato, ci vado sempre volentieri. Quello era il mondo dove è
cresciuta mia madre, ho cercato spesso di immaginarla da bambina giocare, in
quell’ambiente, andare a scuola a piedi a Barga e poi quando ha conosciuto mio
padre, in una festa da ballo all’aperto, come a quei tempi organizzavano
d’estate.”
IMMAGINAZIONE
Ricordo il film Kapò, sui campi di concentramento tedeschi, che passai
quasi tutto dietro la poltrona, ma perché non me ne andavo proprio? Qualcosa
m’incuriosiva e mi attirava, ma mi faceva troppa paura. Oltretutto da là dietro
sentivo l’audio e mi figuravo cose ancora più turpi con la mia immaginazione
galoppante.
Non credo che i genitori moderni avrebbero fatto vedere a un bambino di
circa cinque anni un film del genere, ma visto che noi vivevamo nel Manicomio
di Miggiano, forse una cosa implicava e complementava l’altra.
Penso che sia stata in quell’epoca che mi insegnarono ad andare in
bicicletta senza le ruotine laterali, sul prato rasato del giardino, per via
dei voli in terra e poi togliendole una alla volta.
Papà prendeva in giro il tenente Sheridan, diceva che era troppo
implacabile e\o inesorabile. La Freccia Nera piaceva un po’ a tutti e ce la
guardavamo sempre. Maigret gli garbava e penso che se lo sia visto tutto, dopo
cena, nell’epoca del bianco e nero. Lo stesso con i Racconti del Maresciallo di
Mario Soldati con Turi Ferro. Poi c’è stato FBI (Francesco Bertolazzi
Investigatore) piuttosto buffo, con una musichina tipica da suspense, sei puntate stile commedia
poliziottesca, di e con Ugo Tognazzi, ma era già a colori.
Quando guardiamo un film ci commuoviamo quando
riusciamo ad immaginare noi stessi in quella situazione o in quell’altra.
“Sì, magari ci vuole della fantasia, anche solo per scorgere qualcosa
di più romantico, oltre la ripetizione di
situazioni e di pensieri.”
“La fantasia è importante, non è mica una mercanzia come le altre.”
“Non me lo dire a me che di fantasia io ce ne ho sempre avuta da
vendere, eppure non l’ho mai venduta, a eccezione di questi libri, forse, la
fantasia non la vuole nessuno, anche i miei libri poi non li compra nessuno,
non perché non siano belli, ma perché la gente oggi va dietro ad altre cose e
questi poi non ha nemmeno occasione di venire a sapere che esistono, o che
leggerli sarebbe una maniera piacevole di passare il tempo e che nel mezzo non
c’è nemmeno un po’ di martellante pubblicità, ormai non ci si fa più caso. In
più leggendo non si dà noia a nessuno e questa purtroppo è un’altra cosa che
non interessa ai più, la gente è diventata dinamica nel senso più negativo,
rumorosa nel senso meno positivo.”
“In che senso?”
“Nel senso che si muove troppo senza ottenere niente, che vuol
cambiare sempre e comunque, specialmente le cose che vanno bene e si potrebbero
lasciare così, che dà meno importanza alla storia, oggi che il movimento fine a
sé stesso è diventato il sistema di vita di una civiltà che fa il verso a sé
stessa e non capisce più dove sta il bene e dove il male.”
“Fermati qui, so che potresti continuare, ma non ce n’è bisogno. Anche te non compreresti libri di qualcuno che non
conosci, quando compri un libro vai a colpo sicuro, no?”
“Infatti, ma il problema non sono tanto i lettori, quanto il
sistema che li invoglia verso cose molto più altisonanti, la pubblicità... cioè
il mercato, quelli decidono cosa è bello e non viceversa come dovrebbe essere.
Oggigiorno la novità anche vuota e ripetuta ma mascherata da nuovo è l’unica
possibile, perché se dovessero tornare ad apprezzare veramente le cose belle,
riabituare il pubblico a riconoscerle, ci vorrebbe più tempo e allora i costi
salirebbero. Chi se ne frega se l’arte è diventata una banana attaccata con il
nastro adesivo al muro? Se il nostro carburante sono questo tipo di novità, la
frustrazione sarà il nostro precoce destino, ma alla fine non importa a
nessuno. La creatività e il senso dell’humor piuttosto sarebbero il sale e il
pepe dell’esistenza, anche dentro un libro, se riuscissimo a divertirci tutti i
giorni, invece di fingere, anche nelle situazioni noiose o inevitabilmente più
volte ripetute, tutto sembrerebbe avere una migliore e bastevole ragione di
esistere.”
“Ma secondo te, la gente ha bisogno di pensare a tutte queste cose?”
“Forse no, purtroppo, a tanta o troppa gente la ripetizione, così
com’è, va anche bene. Gli basta di avere quelle cose garantite che andrà avanti
all’infinito con la stessa routine.”
“Fammi un esempio allora, pratico e indicativo.”
“Per esempio, se vedo i comici di un tempo mi fanno ancora ridere,
quelli di oggi pare che non sappiano più cosa fare, ma la gente mi pare che non
lo noti, ride lo stesso, di cose ripetute e stereotipate.”
“Effettivamente…”
“Che la vita sia piuttosto ripetitiva forse se ne accorgono in
pochi, e forse solo costoro scoprono che va saputa allargare a partire dalle
sue innumerevoli pieghe, le piccole cose di tutti i giorni, per esempio i
ricordi bisogna saperli ripescare, anche e soprattutto quelli vecchi che si
possono anche rivivere, che ci possono anche insegnare cose divertenti e utili
nell’attualità.”
“Tipo cosa?”
DINO E GIANNI
Dino quando era piccolo c’aveva dei biscotti tondi e
quadrati con dei minuscoli buchi, le Marie. Magali allora diceva:
“Lo vuoi tondo o quadrato?”
“Tondo.” Lei glielo dava tondo, e lui piangeva
forte:
“Nooo!! Lo
voglio quadrato!!!”
Quando si rompevano poi lui non li voleva più e
allora lei glieli cuciva.
Da
bambino mi avevano portato in città, a Lucca, per qualche giorno per via
dell’allergia al polline. Mi tennero a casa di zia Ada, a quei tempi un
appartamento enorme, agli ultimi piani, di cui ricordo principalmente la notte,
quando passava una macchina per la strada sottostante, la luce dei fari formava
schermate di luce attraverso le persiane, che si allungavano e camminavano
lungo la grande sala e la percorrevano tutta, fino alla curva a gomito, poi sparivano
con il rumore del motore dell’automobile. Il loro figlio, mio cugino Dino, probabilmente aveva pescato tre
pesciolini che dormivano nella vasca da bagno, ma se accendevi la luce
saettavano, per fuggire, non so dove e non lo sapevano nemmeno loro. Due gobbi
e una rovella timidi che tentavano di abituarsi al buio.
Con
suo padre, Gianni, andammo una domenica a vedere la Lucchese a Carrara, che
vinse su sfortunato autogol, ma per loro fu fortunato, solo che Dino non lo fecero giocare. Eravamo in
tre, c’era anche zia Magali, che purtroppo una partita di calcio, con il suo
difetto di vista, non la poteva vedere, ma ci fece compagnia. Non mi ricordo se
fu all’andata o al ritorno che ci fermammo sull’Aurelia per un caffè, un
panino, quello che c’era. Io ero abituato con la mia famiglia, che quando non
mi piaceva qualcosa me la dovevo mangiare lo stesso, quindi quando arrivò il
panino dissi che era troppo alto, non che mi aspettassi che me lo mandassero a
rifare, ma zio Gianni era molto premuroso sebbene non ridesse mai, e chiese
gentilmente se me lo potevano tagliare un po’ più basso. Quando tornò mi
accorsi che era più basso sì, ma anche che dentro c’era la pancetta, che non mi
piaceva. Zio Gianni di nuovo mandò a farlo con il formaggio. Al terzo giro non
dissi niente e me lo mangiai, il pecorino era secco e duro, il pane anche. Se
mi pigliavo quello che era arrivato per primo era certo più buono, il pane era
alto sì, ma era fresco, era difficile tagliarlo fine. La pancetta a dire il
vero non l’avevo mai assaggiata, quando successe ero già maggiorenne e mi
piacque.
RODOLFO
Nel grande recinto, in una casa
vecchia e grande, ci vivevano insieme: Mauro, suo padre Rodolfo, sua madre
Nadia, il fratello Umberto, nato là dentro. Ci rimasero dal 1961 al ‘67, epoca
determinante nella formazione del loro giovane carattere. Rodolfo Bartelloni
lavorava là dentro, nell’Ospedale Psichiatrico.
Era uno che si portava il
lavoro a casa, visto che, oltretutto, la casa era dentro al Manicomio. Senza
volerlo, indagava nelle loro piccole esistenze in formazione, il suo cervello
voleva sempre entrare nel loro, per questo formarono, inevitabilmente, le loro
corazze, le loro difese.
Per questo un navigato figlio
di psichiatra, dovrebbe assolvere bene il suo compito di essere umano, nella
confusione della vita, in mezzo a tanta gente. A patto che non gli venga
chiesto niente, però, non gli piace di essere forzato.
Il figlio di psichiatra è uno
che, suo malgrado e indirettamente, da sempre è stato coinvolto nel meccanismo,
ne conosce più la pratica e meno la teoria. Ecco che il figlio di psichiatra
trova il suo più confortevole baricentro nel necessario cammino del tempo.
E le soluzioni ai quesiti
lasciati in sospeso dal genitore illustre, uomo molto più teorico che pratico,
insieme alle alternative necessarie per ovviarne i punti dolenti. In più, evita
sistematicamente di porsi troppe domande, alle quali poi non saprebbe
rispondere.
Un figlio di psichiatra, anche
se ha dei dubbi su come gestire la propria vita, su quella degli altri si pronuncia
con scioltezza, disinteresse e, a volte, perfino con precisione e capacità.
“Non riuscivo a capire come
facesse immancabilmente ad accorgersi di quando stavo mentendo e, più avanti, a
sbaragliare con facilità i miei primi prototipi di tattiche, dandomi una
perenne sensazione di impotenza, un po’ come quel dannato occhio di Dio che ti
vede e ti giudica sempre e dovunque.
Una volta disegnai dei
dinosauri e poi gli feci vedere le mie opere, gli piacquero, ma trovò subito
quello falso, inventato da me, solo perché era giallo limone e con sei zampe.
A proposito di film, mio padre
aveva una teoria, piuttosto difficile da dimostrare, secondo lui, in un buon
film di cowboy, ci doveva essere per forza un biascino, cioè un vecchietto che di solito guidava la corriera, col
cappello mezzo sgualembrato calato fin sugli occhi, la barbaccia incolta,
masticava tabacco con la bocca sdentata e sputacchiava qua e là.
Il biascino, di solito moriva in un assalto degli indiani, in una
scena commovente, perché tutti gli volevano bene, era un vecchietto sempre di
buonumore, coraggioso e generoso per natura.
Gli indiani naturalmente erano
sempre cattivi e nei film non si diceva mai perché, figurarsi che non avevano
rispetto nemmeno per i biascini.
Una volta, mio padre disse anche
che i fucili Winchester, ai tempi epici della conquista del West, si
ricaricavano una volta alla settimana. Per scherzo, visto che non smettevano
mai di sparare, ma io ci credetti.
Giocando a cowboy con i miei
compagni, difesi alla lettera questa tesi, pur se loro se ne dimostrarono più
volte scettici, ma alla fine l’accettarono.
PRETI
Mio padre diceva anche che nei
film di Fellini c’erano spesso dei preti, gruppi di suore e di frati, file
lunghissime di giovani del seminario, magari su una deserta spiaggia d’inverno.
Facevano parte del movimento della scena, del paesaggio insomma, non erano
personaggi principali, piuttosto delle comparse. Attraversavano la scena, si
guardavano intorno. Erano anche delle persone, in un certo senso, ma direi che
erano piuttosto dei simboli.
Mi pare un bell’effetto comico,
dentro una cosa altrimenti seria e che rappresenta bene assai quest’involucro
generale della religione, tipicamente italiano.
Forse perché anche tra gli
amici di mio padre c’erano due preti, ed essere amico di mio padre non era
facile. Questo suo rapporto coi preti la dice lunga su di lui, che normalmente
era ipercritico con gli altri e magnanimo con sé stesso, dentro di lui però
sono convinto che era approssimativamente il contrario. Per papà quei due
rappresentavano le uniche persone veramente corrette, in un mondo
d’imbroglioni, di tanta o troppa gente senza dignità.
Qualche volta facemmo anche le
vacanze insieme, ma uno alla volta, e notai che tutti e due, in maniera assai
differente, erano persone veramente affabili e simpatiche, gente di buona e
grande compagnia.
Il primo era Don Mario, il
parroco di S.Pietro in Campo che aveva sposato mio padre, nel senso che aveva
celebrato la cerimonia in chiesa.
Dovevo aver sei o sette anni
quando ce ne andammo per una settimana in montagna, al Lago Santo e alloggiammo
tutti e tre nella stessa camera del rifugio Marchetti. La sera, la lotta sul
letto con Don Mario era una tappa obbligata, prima di dormire, era lui che mi
saltava addosso quando meno me lo aspettavo.
Con Don Mario celebrammo anche
una messa all’aperto, davanti alla cappella del lago, io ero il chierichetto e
tutti e due vestiti sobriamente, ma senza alcuna uniforme sacra. Era una
bellissima mattinata di agosto e la gente si commosse delle sue parole di
gratitudine all’ipotetico creatore, del suggerimento che dava alla gente di
pensare più a quello che aveva e meno a quello che gli mancava.
Mi commossi anch’io e persino
mio padre.
Noi due non abbiamo mai
praticato la religione, né veramente creduto in un eventuale Dio qualsiasi.
L’abbiamo sempre vista come una cosa falsa, prefabbricata, con le debite
eccezioni che sono quelle che sto raccontando. Mia madre no, lei andava alla
messa ogni domenica, quando ha smesso di andarci diceva che nessuno ce la
portava, ma quando mio fratello era disponibile inventava qualche scusa.
Don Mario, durante i giorni
feriali, al Lago Santo, andava in giro addirittura con dei pantaloni corti blu
e una maglietta polo nera, aveva due gambette bianche e pelose che non dovevano
avere visto il sole fin da quando era bambino. Ci parve che contrastassero
assai con la faccia scura che c’era sopra, tanto che a S. Pietro in Campo lo
chiamavano il Grillo Moro. L’ometto in questione fumava anche e parecchio,
aveva le due dita che abitualmente giostravano la sigaretta, completamente
ingiallite. Mio nonno diceva che alla messa leggeva i nomi di chi faceva le
offerte in denaro alla parrocchia, specificando le cifre, per far vergognare
chi aveva dato poco e inorgoglire chi aveva donato assai. Don Mario era una
persona acuta, leggermente incazzereccio, ma si sapeva dominare.
L’altro prete, invece, dirigeva
un centro di recupero per giovani nella campagna pisana, a Montalto. Un
bell’uomo alto, coi capelli bianchissimi, aveva delle maniere impeccabili e
assai signorili, ma allo stesso tempo naturali, poi anche un sorriso vero, di
una grande bontà d’animo e quello era sicuramente un sant’uomo. Persino mio
padre, che era uno specialista, non è mai riuscito a trovargli un unico
difetto.
Don Aladino Cheti è un nome piuttosto onomatopeico, suggeriva che
in silenzio facesse dei miracoli, uno era già avere l’approvazione completa di
mio padre. Andammo in vacanza a Londra, piovve sempre. Mi ricordo che papà, per
tutta la settimana, scherzò spesso storpiandogli il nome all’inglese,
chiamandolo Aladaino e lui rideva giovialmente.
Ce n’era un altro buffo, Don
Andreatta, il parroco del Quercione, dove viveva la mia famiglia a quei tempi,
che veniva spesso a trovarci, la sera, all’ora di cena, ma non era per mangiare
a sbafo, perché mia madre lo invitava sempre e lui non ha mai accettato.
Lo chiamavamo il Prete
Toppeggiato, perché aveva i capelli neri macchiati di bianco. Arrivava a razzo
con la sua cinquecento bianca, frenava e sbatteva lo sportello a tutta forza,
nell’arco di pochi secondi suonava il campanello e noi ci guardavamo con aria
sconsolata. Aveva sempre un mazzo di chiavi enorme in mano, che faceva
rumoreggiare di continuo, una tortura per tutti, anche il cane lo guardava
storto.
Mi ricordo che poi, finalmente,
quando diceva la sua solita frase, intendendo che era tardi e doveva proprio
andarsene, ripetendo più volte il solito “Via!
Scappo”, mio padre accennava, come per caso, al fatto che conosceva uno che
diceva sempre che andava via e poi invece continuava a rimanere... E lui non so
se capiva o no, ma via non ci andava e si bloccava sulla porta a mezzorate, gli
venivano in mente tante e nuove e inutili cose da dire, insomma uno stress per
tutti noi, che eravamo stanchi e affamati.
LA MAMMA: NADIA BUTI
“Una volta avevo preso sui muri
del manicomio dei pezzettini di muschio per farci il presepio, mia madre però
non li volle usare perché erano piccoli e rotti, ce ne erano di molto più belli
e grossi, quelli di bosco. Allora io mi misi a piangere, dissi che mi ero
rovinato le dita per prenderli e feci un po’ la vittima. Cosicché lei si
commosse e li mise in qualche parte vicino alle case, dove non ci poteva essere
l’erba alta, in mezzo alle pietre di vario tipo, tra i pezzi di ghiaia e i
sassetti di fiume.”
“Bello.”
“Non è vero che di mamme ce n’è
una sola, per me ce ne sono tante dentro, invece, divise un po’ per epoca e
sono così tante che non me le ricordo nemmeno tutte bene.
Però ognuna fa capo,
attualmente, a quella signora che lotta continuamente contro la sua memoria in
dissolvenza, ma che passati gli ottanta ancora ha una gran voglia di ridere e
scherzare.
Le sue facce e le relative
personalità sono state varie e molteplici, a seconda delle sue varie fasi,
brutte o belle, le parti della sua vita.
Dopo la morte di mio padre ha
assorbito una parte del suo carattere, per esempio, come per compensare la sua
mancanza.
È la persona che conosco da più
tempo, cioè approssimativamente da sempre.
D’accordo, non è sempre
positiva ed è testarda come una mula, o come ogni italiana, ulteriormente
peggiorata dalla condizione di essere una Buti in Bartelloni
Però è la persona in assoluto
che ride di più alle mie battute, anche quando sono idiote e ripetute.”
“Ecco.”
IL PROFILARSI DI UN DETERMINATO PROFILO
A dieci anni avevo scritto la
mia prima opera, un petulante manualetto di pesca, in cui scopiazzavo a destra
e a manca, mi piaceva pescare ed avevo preso di qua e di là notizie, aggiunte
alla mia personale esperienza, ritagliato foto e disegnato scene di pesca in
acqua dolce.
Successivamente, inoltre,
sempre disegnando i gol e le azioni degne di nota, prendendo dai giornali
sportivi, ritagliandone le foto, avevo fatto un libro sui mondiali di calcio
del 1974.
Poi altri libretti sul calcio,
coi disegni dei goals, mentre a scuola, i miei pensierini si stavano già
raccogliendo nei primi temi.
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