domenica 24 novembre 2024

quasi un racconto per bambini, estratto dal romanzo L'ULTIMO MANOSCRITTO

 

Pedona  mercoledì 4 settembre 2025

  

MARTO E PALLINO

   

Più che scrivere è meglio vivere, se proprio si deve scegliere, ma se si riuscisse a fare le due cose insieme, o alternandole, è chiaro che una influenzerà l’altra, non sempre e solo positivamente.

                   Lee Gustav Paltrinieri (L’Incomunicabilità del Dialogo)

 

I miei racconti sono anche loro popolati di animali, gente non ce n’è. E dovrebbero essere per i bambini, ma alla fine, dice zio Gianni, che si sente più psicanalista che essere umano, sono tutto il contrario, a causa del simbolismo, sono per adulti.

“Mi chiamo Pallino per via di una macchia quasi perfettamente rotonda e marrone scura sul pelo bianco, sul dorso, quasi all’altezza delle gambe posteriori. Ho anche tante altre macchie, più piccole, alcune solo sotto il pelo, ma quella è la principale. Questo è un caso trai più famosi, a cui il sottoscritto ha preso parte, col fido assistente Marto detto Martino, o anche Biforcazione, poi si capirà perché.

È ambientato, come tutti gli altri, nei dintorni della cittadina di Fagundes Varela, nell’interno dello stato Brasiliano del Rio Grande do Sul. Tanto per entrare nel vivo della storia, il pastore tedesco Schöneberger mi aveva fatto chiamare alla Fazenda Tonhão, quella mattina di cui ricordo bene il freddo intenso e il vento. Non tutti sanno che in un Brasile famoso per il suo caldo, nella sua parte sud, vicino ad Argentina e Uruguay c’è un inverno relativamente rigido, più che altro umido e ventoso.

Il vento dalla Patagonia spirava dritto dentro le nostre orecchie, noi sapevamo che veniva da più sotto ancora, dall’Antartide, per questo non c’era da scherzarci.”

“Parli sempre del Brasile, eppure, correggimi se sbaglio, tu non ci sei mai stato.”

“No, no, infatti.”

“Forse perché vorresti andarci.”

“Credo di sì. Non lo so. Aveva piovuto e il fango della strada ci fece sporcare le zampe, è vero, ma ci permise altresì di trovare le prime tracce del malfattore, ed erano appendici poderose assai, ma non parevano di un cane, almeno non di nessun cane che noi conoscessimo, anche se gli somigliavano, Marto era d’accordo con me su questo.

Lupi e volpi in Brasile non ce ne sono mai stati, tantomeno Dingos o altri tipi di bestie selvatiche della famiglia dei Canidi, i pochi e rari animali del genere erano dei comuni bastardi fuggiti ai loro padroni, di solito roba piccola.

Qualunque cosa fosse, quel bastardone aveva rubato con evidenti scopi alimentari una gallina di cui Schöneberger era responsabile, come per il resto del pollaio.

“Se prendete questo figlio di un cane.” Disse il pastore tedesco col corpaccione vibrante di rabbia. “Vorrò essere io personalmente ad incaricarmi della relativa punizione!”

“Beh, come lei m’insegna, i figli di cani si dividono in due categorie…” Intervenne a sproposito quanto prontamente Marto: “Quelli di nome e di fatto e poi quelli nel puro senso dispregiativo, io personalmente, preferisco senza ombra di possibile dubbio…”

“Lascia perdere, Martinho. Andiamo piuttosto avanti con le indagini.” Dissi io e così facemmo, sebbene il brontolio del mio assistente non scemasse, continuò solo più a basso volume.

Dai nostri nasi allenati ed umidi, anche per il tempo inclemente, l’odore che sentimmo era forte assai, ma spariva, troppo disgraziatamente, insieme alle tracce delle zampe e alle piume color cannella del volatile, bagnate per terra, proprio dove iniziava la strada lastricata a parallelepipedi di pietra.

L’olfatto di noi cani è superiore agli altri nostri sensi, l’udito anche è buono assai, d’accordo, ma la vista ce l’abbiamo scarsa e se l’oggetto in questione non ha la benevolenza di muoversi, non lo distinguiamo nemmeno dal grigiore generale, anche perché i colori, per noi, sono semplici opinioni, di cui però non amiamo discutere con nessuno.

Il segugio è famoso per il suo naso umido e sensibile, ma anche tutti gli altri cani, tra cui noi, anche se a torto chiamati bastardi, abbiamo addirittura un certo comportamento standard, perlopiù in funzione del nostro odorato.

Le razze pure non esistono, mettiamo subito in chiaro che ogni cane di alto lignaggio è frutto di incroci e anche se sono più snob sono più delicati, facili ad ammalarsi, vivono anche meno.

Pur essendo di purissima razza bastarda, per esempio, io di fatto sono un segugio, non di nome, nossignori, ma piuttosto di fatto.

Approfitto della mia attitudine innata al fiuto per scoprire i colpevoli di eventuali misfatti e così mi guadagno ossi e pezzi di carne di vario tipo, croste di formaggio e succulente pastasciutte avanzate agli umani, col mio lavoro.

Quello che si capì subito dopo era che il cagnolone non era affatto selvatico, era un domestico, sorprendentemente, giacché sentimmo olezzi vari di antipulci e altri prodotti vomitevoli da veterinari e da cagnolini di città.

Il fatto che le tracce finissero sulla strada lastricata era una disdetta, d’accordo, ma ci fece capire un'altra cosa: che il cane era il colpevole materiale, sì, ma il mandante poteva e doveva essere un uomo che lo trasportava con un carretto trainato da cavallo o qualcos’altro con le ruote.

A questo punto, corremmo narici a terra su e giù, giù e su. Come volevasi dimostrare, trovammo pallottole verdastre di provenienza equina, a giudicare dalla grandezza e dal relativo olezzo.

Eravamo già avanti con le supposizioni e le ipotesi, eppure non avevamo ancora niente sotto le zampe, perché quella coppia doveva essere venuta da una distanza che per poca che fosse non era facile da scoprire a naso, il miglior rivelatore che avevamo.

“Qui le possibilità sono due.” Disse Marto. “O i nostri amici-nemici sono due delinquenti che mirano a qualcosa di più alto e complicato. Oppure...”

“Oppure?” Chiese interessato Schöneberger che ancora non conosceva Martinho.

“Oppure sono una coppia di cretini e allora non si capisce perché armare una tresca del genere per rubare una gallina.”

“Lascia perdere Martinho.” Dissi io. “Naso a terra e pedalare, Schöne, ci vediamo dopo, spero presto.”

“Wooofs!” Rispose il pastore.

Io e il mio fido assistente abbiamo solo due cose in comune, ma importanti: zampe corte e naso lungo, tutta roba che ci permette di correre senza staccare le narici dal suolo.

Meno male che quel cavallo era un generoso concimatore di terreni e ogni poche centinaia di metri lasciava le sue inequivocabili tracce odorose.

Dopo qualche chilometro ci fermammo a bere le acque limacciose del ruscello Rio Pardo sul lato di un ponticello e fu una fortuna. Da lì sotto fu possibile vedere tracce fresche di ruote, su una stradina sterrata che da sopra non avevamo visto. Poche decine di metri più avanti il cavallo ci aveva di nuovo gentilmente quanto involontariamente e profumatamente aiutato. Seguimmo quelle tracce prima che la pioggia o qualche animale troppo affamato le facessero sparire. Le gocce non erano troppo forti ma ci si bagnava lo stesso, senza fretta. Entrammo in un bosco la strada cominciò anche a salire. Gli alberi a diventare sempre più fitti, la fame ad aumentare.

Il castello apparve dalla nebbia e tra la pioggia ora battente, tutto buio alle finestre, c’infilammo cautamente in una specie di cantina. Nessun rumore riusciva a oltrepassare quello del temporale, nessuna luce attorno, ci addormentammo sulla paglia, con un languore dentro lo stomaco. Piovve tutta la notte, oppure ci svegliammo solo alla mattina e c’era un pallido sole che filtrava dalla finestra dai vetri rotti. Il silenzio regnava nel castello e quando uscimmo i nostri piccoli passi sulla ghiaia bagnata sembravano l’unico rumore.

Arrivò una simpatica signora in camice bianco insanguinato che ci accarezzò e ci dette delle ciotolate di spezzatino sulle quali ci buttammo a pesce, si fa per dire.

Dentro c’era del sonnifero, io e il mio socio poi ci risvegliammo in gabbia, una per uno, di ferro e troppo piccole e strette. Non si sa quanto tempo era passato e ci faceva male la testa, attorno a noi tante piccole, medie e grandi gabbie e ognuna con un cane di diverso tipo rinchiuso dentro.

“Ci sarebbero due ipotesi da fare…” Cominciò a dire Marto, ma quando si girò ammutolì perché vide il mostro, forse l’autore dei misfatti in questione, cioè un grosso cane, ma pareva fatto con i pezzi di altri cani, che si girava attorno minaccioso, l’unico libero disteso su un materasso in terra.

Dopo aver ringhiato per bene e zittito la confusione degli altri cani curiosi del nostro arrivo e angosciati per la triste fine che anche noi come loro avremmo fatto, il cagnolone minaccioso è uscito.

Zio Gianni a questo punto se ne è uscito con il suo solito sacco di stereotipi a partire dal mio essere esageratamente individualista, per arrivare allo scegliermi sempre un collaboratore sempliciotto da poter dominare. Io secondo lui insisterei sempre nel voler dipingere l’essere umano come un manipolatore e schiavizzatore della natura e degli altri animali. Chissà da dove avrò estrapolato tutte queste assurdità, diceva e poi rideva.

Diceva anche che io ambientavo sempre i miei racconti in un posto dove non vivevo e non avevo mai vissuto, forse perché cercavo sempre l’altrove e quando lo trovavo non mi bastava, ne volevo un altro e poi un altro ancora. Forse aveva anche ragione. C'erano decine di altrovi in giro.

Il castello era un grande parallelepipedo evidentemente costruito da un italiano del nord, aveva la stessa struttura del Maso Alto Atesino. Fatto di pietra e mattoni, ma solo la base era in muratura, la parte alta era tutta di legno, con i merli e tutto, era minaccioso, anacronistico e ridicolo allo stesso tempo.

Dalle rispettive gabbie abbiamo cominciato a comunicare con gli altri cani, abbiamo appreso novità per niente edificanti tra cui quella che questi cagnoni artificiali erano fatti con i pezzi nostri, cioè di cani veri e piuttosto disgraziati. Uno degli ingabbiati era un Volpino piuttosto sveglio e osservatore che ci ha detto:

“La professoressa Franca Delle Pietre è una pazza, mostruosa a cominciare dal nome, chissà perché si è fissata che vuol fare dei Frankenstein canini e fino a un certo punto ci riesce pure, solo che quelli poi non obbediscono e se vanno a rubare le galline poi invece di portargliele a lei se le mangiano, invece di fare terrore e ordine qui, come lui vorrebbe, producono disordine e scenette comiche, oltretutto sono eccessivamente scorreggioni, più imbranati e stupidi dei cani normali, anche se hanno grandi denti aguzzi e maggior forza fisica non sanno approfittarsene. La professoressa cerca di riprendere il controllo da tempo perduto con l’ipnotismo, ma finora è riuscita solo a peggiorare la situazione.”

“I casi sono due.” Lo ha interrotto Marto. “Dobbiamo ipnotizzare noi i cagnoni, perché proprio loro ci potrebbero aiutare ad uscire, caso contrario, sennò qui, diventiamo anche noi spezzatino e già l’idea non mi garba per niente.”

“Passiamo quindi alla pratica.” Ho detto io, mi sono informato tra gli altri ingabbiati su quale fosse il più stupido o più sensibile all’ipnotismo e mi hanno indicato H, detto la Bomba, per via delle sue rumorose esplosive o mitragliate capacità gassose.

I cagnoni erano denominati con le lettere dell’alfabeto, H era l’ottavo tentativo miseramente fallito di fare un mostro almeno un poco efficiente, ma ce ne erano tanti altri precedenti o seguenti, figurarsi che erano arrivati fino alla P, di Pollo, che era stupido, camminava a due zampe e attraversava la strada proprio quando arrivavano le automobili.

H era così sensibile all’ipnotismo che a volte andava in trance da solo, con il movimento di una foglia al vento, o il pendolare di un ragno da un filo, il volo di un passerotto attorno a un alberello. Alla prima occasione Marto lo chiamò quando lo vide passare, quando fu abbastanza vicino iniziai a muovere la coda a strisce bianconere in maniera più che sinuosa e freudiana mentre Marto con la sua voce più profonda e impersonale gli diceva di chiudere gli occhi, di addormentarsi e di ubbidire ai suoi ordini. Poco dopo la mia gabbia era aperta e H su nostro ordine si era nascosto dietro una botte enorme. Quando tutti gli altri cagnoni si furono allontanati per l’ora della pappa giornaliera aprii tutte le gabbie e facemmo uscire i relativi e numerosi cani dal castello e poi rapidamente dalla proprietà. Nel frattempo io con un becco Bunsen appiccavo il fuoco alla paglia del fienile, che essendo alto e attaccato alla parte in legno in poco tempo si tramutò in un incendio totale. Essendo il cortile all’interno di quattro muri e di soprastanti ridicoli supporti di legno, credo che la nostra opera di distruzione fu completa, forse poco etica dal punto di vista professionale, ma chi se ne fregava? Un investigatore canino non può ricorrere alla polizia e anche se portasse prove inconfutabili lo prenderebbero lo stesso a calci nel culo. Un puzzo di bruciato invase il bosco, accompagnato da urla disumane, ma noi eravamo opportunamente pieni di ragione e già lontani.

Gianni pensa che le regole valgano ugualmente per tutti, per carità, ma non per lui, ovviamente. Alla fine del mio racconto ha riso, mi ha detto che chissà perché l’uomo che io ritraggo è sempre peggio degli animali. Fin lì avrei ragione, secondo lui, ma mi dimentico sempre a quale categoria io appartengo, per quanto mi dissoci sarò sempre un essere umano. O qualcosa del genere. E poi è inutile che io mi sforzi di sognare animali e solo animali, che tanto quelli rappresenteranno gli uomini, le persone insomma.

 

 

 

 


Nessun commento:

Posta un commento