Pedona
mercoledì 4 settembre 2025
MARTO
E PALLINO
Più che scrivere è meglio
vivere, se proprio si deve scegliere, ma se si riuscisse a fare le due cose
insieme, o alternandole, è chiaro che una influenzerà l’altra, non sempre e
solo positivamente.
Lee Gustav Paltrinieri (L’Incomunicabilità del
Dialogo)
I
miei racconti sono anche loro popolati di animali, gente non ce n’è. E
dovrebbero essere per i bambini, ma alla fine, dice zio Gianni, che si sente
più psicanalista che essere umano, sono tutto il contrario, a causa del simbolismo,
sono per adulti.
“Mi chiamo Pallino per via di una macchia quasi perfettamente rotonda e marrone scura sul pelo bianco, sul dorso, quasi all’altezza delle gambe posteriori. Ho anche tante altre macchie, più piccole, alcune solo sotto il pelo, ma quella è la principale. Questo è un caso trai più famosi, a cui il sottoscritto ha preso parte, col fido assistente Marto detto Martino, o anche Biforcazione, poi si capirà perché.
È ambientato, come tutti gli
altri, nei dintorni della cittadina di Fagundes Varela, nell’interno dello
stato Brasiliano del Rio Grande do Sul. Tanto per entrare nel vivo della
storia, il pastore tedesco Schöneberger mi aveva fatto chiamare alla Fazenda
Tonhão, quella mattina di cui ricordo bene il freddo intenso e il vento. Non
tutti sanno che in un Brasile famoso per il suo caldo, nella sua parte sud,
vicino ad Argentina e Uruguay c’è un inverno relativamente rigido, più che
altro umido e ventoso.
Il vento dalla Patagonia
spirava dritto dentro le nostre orecchie, noi sapevamo che veniva da più sotto
ancora, dall’Antartide, per questo non c’era da scherzarci.”
“Parli sempre del Brasile,
eppure, correggimi se sbaglio, tu non ci sei mai stato.”
“No, no, infatti.”
“Forse perché vorresti
andarci.”
“Credo di sì. Non lo so. Aveva
piovuto e il fango della strada ci fece sporcare le zampe, è vero, ma ci
permise altresì di trovare le prime tracce del malfattore, ed erano appendici
poderose assai, ma non parevano di un cane, almeno non di nessun cane che noi
conoscessimo, anche se gli somigliavano, Marto era d’accordo con me su questo.
Lupi e volpi in Brasile non ce
ne sono mai stati, tantomeno Dingos o altri tipi di bestie selvatiche della
famiglia dei Canidi, i pochi e rari animali del genere erano dei comuni
bastardi fuggiti ai loro padroni, di solito roba piccola.
Qualunque cosa fosse, quel
bastardone aveva rubato con evidenti scopi alimentari una gallina di cui
Schöneberger era responsabile, come per il resto del pollaio.
“Se prendete questo figlio di
un cane.” Disse il pastore tedesco col corpaccione vibrante di rabbia. “Vorrò
essere io personalmente ad incaricarmi della relativa punizione!”
“Beh, come lei m’insegna, i
figli di cani si dividono in due categorie…” Intervenne a sproposito quanto
prontamente Marto: “Quelli di nome e di fatto e poi quelli nel puro senso
dispregiativo, io personalmente, preferisco senza ombra di possibile dubbio…”
“Lascia perdere, Martinho.
Andiamo piuttosto avanti con le indagini.” Dissi io e così facemmo, sebbene il
brontolio del mio assistente non scemasse, continuò solo più a basso volume.
Dai nostri nasi allenati ed
umidi, anche per il tempo inclemente, l’odore che sentimmo era forte assai, ma
spariva, troppo disgraziatamente, insieme alle tracce delle zampe e alle piume
color cannella del volatile, bagnate per terra, proprio dove iniziava la strada
lastricata a parallelepipedi di pietra.
L’olfatto di noi cani è
superiore agli altri nostri sensi, l’udito anche è buono assai, d’accordo, ma
la vista ce l’abbiamo scarsa e se l’oggetto in questione non ha la benevolenza
di muoversi, non lo distinguiamo nemmeno dal grigiore generale, anche perché i
colori, per noi, sono semplici opinioni, di cui però non amiamo discutere con
nessuno.
Il segugio è famoso per il suo
naso umido e sensibile, ma anche tutti gli altri cani, tra cui noi, anche se a
torto chiamati bastardi, abbiamo addirittura un certo comportamento standard,
perlopiù in funzione del nostro odorato.
Le razze pure non esistono,
mettiamo subito in chiaro che ogni cane di alto lignaggio è frutto di incroci e
anche se sono più snob sono più delicati, facili ad ammalarsi, vivono anche
meno.
Pur essendo di purissima razza
bastarda, per esempio, io di fatto sono un segugio, non di nome, nossignori, ma
piuttosto di fatto.
Approfitto della mia
attitudine innata al fiuto per scoprire i colpevoli di eventuali misfatti e
così mi guadagno ossi e pezzi di carne di vario tipo, croste di formaggio e
succulente pastasciutte avanzate agli umani, col mio lavoro.
Quello che si capì subito dopo
era che il cagnolone non era affatto selvatico, era un domestico,
sorprendentemente, giacché sentimmo olezzi vari di antipulci e altri prodotti
vomitevoli da veterinari e da cagnolini di città.
Il fatto che le tracce
finissero sulla strada lastricata era una disdetta, d’accordo, ma ci fece
capire un'altra cosa: che il cane era il colpevole materiale, sì, ma il
mandante poteva e doveva essere un uomo che lo trasportava con un carretto
trainato da cavallo o qualcos’altro con le ruote.
A questo punto, corremmo
narici a terra su e giù, giù e su. Come volevasi dimostrare, trovammo
pallottole verdastre di provenienza equina, a giudicare dalla grandezza e dal
relativo olezzo.
Eravamo già avanti con le
supposizioni e le ipotesi, eppure non avevamo ancora niente sotto le zampe,
perché quella coppia doveva essere venuta da una distanza che per poca che
fosse non era facile da scoprire a naso, il miglior rivelatore che avevamo.
“Qui le possibilità sono due.”
Disse Marto. “O i nostri amici-nemici sono due delinquenti che mirano a
qualcosa di più alto e complicato. Oppure...”
“Oppure?” Chiese interessato
Schöneberger che ancora non conosceva Martinho.
“Oppure sono una coppia di
cretini e allora non si capisce perché armare una tresca del genere per rubare
una gallina.”
“Lascia perdere Martinho.”
Dissi io. “Naso a terra e pedalare, Schöne, ci vediamo dopo, spero presto.”
“Wooofs!” Rispose il pastore.
Io e il mio fido assistente
abbiamo solo due cose in comune, ma importanti: zampe corte e naso lungo, tutta
roba che ci permette di correre senza staccare le narici dal suolo.
Meno male che quel cavallo era
un generoso concimatore di terreni e ogni poche centinaia di metri lasciava le
sue inequivocabili tracce odorose.
Dopo qualche chilometro ci
fermammo a bere le acque limacciose del ruscello Rio Pardo sul lato di un
ponticello e fu una fortuna. Da lì sotto fu possibile vedere tracce fresche di
ruote, su una stradina sterrata che da sopra non avevamo visto. Poche decine di
metri più avanti il cavallo ci aveva di nuovo gentilmente quanto
involontariamente e profumatamente aiutato. Seguimmo quelle tracce prima che la
pioggia o qualche animale troppo affamato le facessero sparire. Le gocce non
erano troppo forti ma ci si bagnava lo stesso, senza fretta. Entrammo in un
bosco la strada cominciò anche a salire. Gli alberi a diventare sempre più
fitti, la fame ad aumentare.
Il castello apparve dalla
nebbia e tra la pioggia ora battente, tutto buio alle finestre, c’infilammo
cautamente in una specie di cantina. Nessun rumore riusciva a oltrepassare
quello del temporale, nessuna luce attorno, ci addormentammo sulla paglia, con
un languore dentro lo stomaco. Piovve tutta la notte, oppure ci svegliammo solo
alla mattina e c’era un pallido sole che filtrava dalla finestra dai vetri
rotti. Il silenzio regnava nel castello e quando uscimmo i nostri piccoli passi
sulla ghiaia bagnata sembravano l’unico rumore.
Arrivò una simpatica signora
in camice bianco insanguinato che ci accarezzò e ci dette delle ciotolate di
spezzatino sulle quali ci buttammo a pesce, si fa per dire.
Dentro c’era del sonnifero, io
e il mio socio poi ci risvegliammo in gabbia, una per uno, di ferro e troppo
piccole e strette. Non si sa quanto tempo era passato e ci faceva male la
testa, attorno a noi tante piccole, medie e grandi gabbie e ognuna con un cane
di diverso tipo rinchiuso dentro.
“Ci sarebbero due ipotesi da
fare…” Cominciò a dire Marto, ma quando si girò ammutolì perché vide il mostro,
forse l’autore dei misfatti in questione, cioè un grosso cane, ma pareva fatto
con i pezzi di altri cani, che si girava attorno minaccioso, l’unico libero
disteso su un materasso in terra.
Dopo aver ringhiato per bene e
zittito la confusione degli altri cani curiosi del nostro arrivo e angosciati
per la triste fine che anche noi come loro avremmo fatto, il cagnolone
minaccioso è uscito.
Zio
Gianni a questo punto se ne è uscito con il suo solito sacco di stereotipi a
partire dal mio essere esageratamente individualista, per arrivare allo
scegliermi sempre un collaboratore sempliciotto da poter dominare. Io secondo
lui insisterei sempre nel voler dipingere l’essere umano come un manipolatore e
schiavizzatore della natura e degli altri animali. Chissà da dove avrò
estrapolato tutte queste assurdità, diceva e poi rideva.
Diceva
anche che io ambientavo sempre i miei racconti in un posto dove non vivevo e
non avevo mai vissuto, forse perché cercavo sempre l’altrove e quando lo
trovavo non mi bastava, ne volevo un altro e poi un altro ancora. Forse aveva
anche ragione. C'erano decine di altrovi in giro.
Il castello era un grande
parallelepipedo evidentemente costruito da un italiano del nord, aveva la
stessa struttura del Maso Alto Atesino. Fatto di pietra e mattoni, ma solo la
base era in muratura, la parte alta era tutta di legno, con i merli e tutto,
era minaccioso, anacronistico e ridicolo allo stesso tempo.
Dalle rispettive gabbie
abbiamo cominciato a comunicare con gli altri cani, abbiamo appreso novità per
niente edificanti tra cui quella che questi cagnoni artificiali erano fatti con
i pezzi nostri, cioè di cani veri e piuttosto disgraziati. Uno degli ingabbiati
era un Volpino piuttosto sveglio e osservatore che ci ha detto:
“La professoressa Franca Delle Pietre è una pazza, mostruosa a cominciare dal nome, chissà perché si è fissata che vuol fare dei Frankenstein canini e fino a un certo punto ci riesce pure, solo che quelli poi non obbediscono e se vanno a rubare le galline poi invece di portargliele a lei se le mangiano, invece di fare terrore e ordine qui, come lui vorrebbe, producono disordine e scenette comiche, oltretutto sono eccessivamente scorreggioni, più imbranati e stupidi dei cani normali, anche se hanno grandi denti aguzzi e maggior forza fisica non sanno approfittarsene. La professoressa cerca di riprendere il controllo da tempo perduto con l’ipnotismo, ma finora è riuscita solo a peggiorare la situazione.”
“I casi sono due.” Lo ha interrotto
Marto. “Dobbiamo ipnotizzare noi i cagnoni, perché proprio loro ci potrebbero
aiutare ad uscire, caso contrario, sennò qui, diventiamo anche noi spezzatino e
già l’idea non mi garba per niente.”
“Passiamo quindi alla
pratica.” Ho detto io, mi sono informato tra gli altri ingabbiati su quale
fosse il più stupido o più sensibile all’ipnotismo e mi hanno indicato H, detto
la Bomba, per via delle sue rumorose esplosive o mitragliate capacità gassose.
I cagnoni erano denominati con
le lettere dell’alfabeto, H era l’ottavo tentativo miseramente fallito di fare
un mostro almeno un poco efficiente, ma ce ne erano tanti altri precedenti o
seguenti, figurarsi che erano arrivati fino alla P, di Pollo, che era stupido,
camminava a due zampe e attraversava la strada proprio quando arrivavano le
automobili.
H era così sensibile
all’ipnotismo che a volte andava in trance da solo, con il movimento di una
foglia al vento, o il pendolare di un ragno da un filo, il volo di un
passerotto attorno a un alberello. Alla prima occasione Marto lo chiamò quando
lo vide passare, quando fu abbastanza vicino iniziai a muovere la coda a
strisce bianconere in maniera più che sinuosa e freudiana mentre Marto con la
sua voce più profonda e impersonale gli diceva di chiudere gli occhi, di
addormentarsi e di ubbidire ai suoi ordini. Poco dopo la mia gabbia era aperta
e H su nostro ordine si era nascosto dietro una botte enorme. Quando tutti gli
altri cagnoni si furono allontanati per l’ora della pappa giornaliera aprii
tutte le gabbie e facemmo uscire i relativi e numerosi cani dal castello e poi
rapidamente dalla proprietà. Nel frattempo io con un becco Bunsen appiccavo il
fuoco alla paglia del fienile, che essendo alto e attaccato alla parte in legno
in poco tempo si tramutò in un incendio totale. Essendo il cortile all’interno
di quattro muri e di soprastanti ridicoli supporti di legno, credo che la
nostra opera di distruzione fu completa, forse poco etica dal punto di vista
professionale, ma chi se ne fregava? Un investigatore canino non può ricorrere
alla polizia e anche se portasse prove inconfutabili lo prenderebbero lo stesso
a calci nel culo. Un puzzo di bruciato invase il bosco, accompagnato da urla
disumane, ma noi eravamo opportunamente pieni di ragione e già lontani.
Gianni
pensa che le regole valgano ugualmente per tutti, per carità, ma non per lui,
ovviamente. Alla fine del mio racconto ha riso, mi ha detto che chissà perché
l’uomo che io ritraggo è sempre peggio degli animali. Fin lì avrei ragione,
secondo lui, ma mi dimentico sempre a quale categoria io appartengo, per quanto
mi dissoci sarò sempre un essere umano. O qualcosa del genere. E poi è inutile
che io mi sforzi di sognare animali e solo animali, che tanto quelli rappresenteranno
gli uomini, le persone insomma.
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