"Ho cominciato a scrivere seriamente da qualche tempo, anche se ogni tanto mi scappa da ridere. Scrivere è un po' come confessarsi, solo che i lettori non saranno necessariamente dei sacerdoti. I peccati non vengono dichiarati apertamente, ma come nelle parabole, nascosti e camuffati dentro le storie. La penitenza è quella di dover correggere gli errori, dare al testo un’apparenza piacevole, scorrevole o artistica, insomma dover leggere e rileggere più volte quello che hai scritto, confrontarcisi non solo a livello di grammatica e sintassi, ma anche e soprattutto con quello che dici, il rapporto che dovrebbe avere con la realtà.”
“Sì?”
“Non
lo so. Scrivere è come una psicanalisi in cui il terapeuta è anche il paziente,
per questo ci vuole calma e saper mitigare l'impazienza di vedere pubblicata la
nostra creazione, il nostro parto. La creatura verrà fuori sempre con un vizio
o l'altro, allora si cerca di educarla, ma noi stessi non siamo nemmeno
lontanamente perfetti, qualche magagna sarà necessaria ed ereditaria, farà
parte dello stile.
Scrivere è come parlare per chi accetta che spesso non
verrà udito o capito, leggere è come ascoltare perché anche non comprendendo
appieno ci si troverà immedesimati in una riflessione, che ci porterà a
ricordare qualcosa che altrimenti non si sarebbe mai raccontato nemmeno a sé
stessi.
Scrivere è come viaggiare nello spazio e nel tempo, pur
senza muoversi, ma le ore passano veramente e quando si ritorna dentro il
corpo, si ha fame, sete e voglia di fare la pipì.
Scrivere è un su e giù incessante di lima, confessa Oscar Wilde di aver tolto con tutto il lavoro del mattino una
virgola e con quello del pomeriggio di avercela rimessa.
L'errore si nasconderà all'autore finché, esposto al
pur esiguo pubblico, lui stesso lo vedrà e si chiederà come e perché non
l'avesse visto prima, non saprà rispondersi, ma lo correggerà.
Se la parola è un pezzo della nostra espressione, un
mattoncino romantico che con la modernità ha perso gran parte del suo valore,
insieme al significato della verità, la bugia e la banalità imperano e
probabilmente non lasceranno mai più spazio alla sensibilità, che ormai fa solo
paura.”
“Spiegati meglio.”
“Scrivere può servire a non sbarocciare, però può fare
anche l’effetto contrario. In genere fa bene, direi, se sei un certo tipo di
persona, perché ti porta a scorgere cose che con il solo pensiero vengono
evitate. Insomma è un esercizio per chi vuole sapere la verità, ma non bisogna
fissarcisi troppo, esagerare è un meccanismo fin troppo umano e passare
dall’altra parte è un volo.”
“A quale tipo di lettore ti rivolgi?”
“Il lettore non pare il tipo di vita intelligente più
comune, dai più vicini ai più lontani pianeti della via Lattea, e - per quanto
se ne sa - anche oltre. Sia la sua vita, che la sua intelligenza sono state
messe in dubbio, associando la lettura a qualcosa di inanimato, anacronistico,
obsoleto e perciò noioso. Ci sono anche i lettori di giornali e riviste, ma
coloro che leggono libri sono una fetta esigua, di questi, coloro che lo fanno
per il proprio piacere sono meno ancora. Di questa percentuale di sedicenti
talpe occhialute e polverose, quelle che si chiedono del perché qualcuno si
prende la briga di scrivere un libro, sono pochissime, ma a livello mondiale
possiamo dire che senza dubbio esistono, anche se si nascondono, senza volerlo
e senza vergognarsene, nella montagna di coloro di cui prima.”
“Non ho capito.”
“Lo sappiamo che la gente evita la verità, il
ragionamento logico e l’autocritica, io non ci riesco, che ci posso fare?
Conseguenza indiretta: abbiamo tanti pessimi scrittori, tanto il lettore non ci
fa caso.
Quello che ho realizzato, in questi anni di pubblicazioni e di pause, è che
non ci si può fare granché, il mondo della letteratura non è molto diverso dal
mondo che c’è intorno. Ultimamente ho testato un po’ il mercato brasiliano per
accorgermi che i sistemi sono gli stessi che ci sono in Italia, con lo
svantaggio che la gente qua legge anche meno.”
“Dici?"
"Io direi."
"Non sono d'accordo."
"Nemmeno io, perlomeno stento a crederci.
Guarda: sono sempre stato a contatto diretto con la realtà, pur sognando a
occhi aperti e immaginando parecchio, questo comporta un dispendio di energie
mentali non indifferente, sia per evadere che per accettare la vita di tutti i
giorni e la relativa routine, è dimostrato che ci si deve sforzare assai, solo
per accantonare tutto quello che ci viene proposto e non ci interessa.
Il vantaggio di saperlo per me è che scrivendo, almeno dentro di me, vedo
ed evidenzio la differenza tra quello che è la mia immaginazione e quello che
invece accade realmente.”
“Bene.”
“Grazie. Scrivere è una cosa ormai passata di moda, se per qualcuno questo
rappresentasse un motivo per smettere, per me invece è uno sprone ancora più
forte a continuare. È il manifesto giornaliero di un mondo senza fretta, fatto
di legno e di pietra, di stormir di fronde e foglie al vento, insomma di
romanticismo ancora più sentito e forte, ora che tutto tende al moderno e al
banale stereotipato, il passato viene ricordato dai più come una cosa da
dimenticare.”
“Ecco.”
“E poi Lucca è una piccola città di provincia snob come
tante, in Italia, ma è considerata un microcosmo assai limitante, da chi la
conosce e ha parametri di confronto, esattamente così come centinaia di altre
comunità urbane, soprattutto per chi di là non se ne esce un po’ in giro per il
resto del mondo.”
"Dipende."
“Sì, insomma, ambienti che noi non conosciamo, ma che
indirettamente hanno fatto in modo di formare la tua mentalità e di farti
diventare uno scrittore.”
“In effetti. Poco fa hai accennato agli scrittori e hai detto che sono pessimi, perché?”
“Ah, questa è la domanda!”
“E
la risposta?”
“La relativa risposta è la nota proprietà transitiva
dei meccanismi della vita cioè: se i lettori sono pessimi lo saranno anche gli
scrittori, per come funzionano le cose… e gli editori sono solo una
conseguenza. Cioè se la base, i lettori, fossero capaci e critici in maniera
costruttiva, tutto si adeguerebbe. Nell'arte in genere è così, o nella vita
stessa: vedi che se i cittadini fossero buoni cittadini, anche i politici,
l’elite stessa insomma, sarebbero forzati e loro malgrado dovrebbero diventare
migliori.”
“Tutto cioè dipende dalla base, secondo la tua teoria?”
“No,
magari dovrebbe, ma è tutto più confuso, purtroppo non si sa chi dovrebbe
iniziare a rendere il mondo migliore, si pensa che dovrebbero sempre essere gli
altri a fare il primo passo, invece se ognuno facesse la sua parte sarebbe
quasi immediato il miglioramento.”
“Niente di più improbabile?”
“Infatti, basterebbe che ognuno sapesse chi è… e dove
si trova. È troppo difficile.”
“Un'equazione spazio-tempo?”
“Ecco:
in poche parole io non credo affatto nell’efficacia dei movimenti collettivi,
sono inevitabilmente sprovveduti e manipolati, purtroppo è così. Se e quando
cambiasse qualcosa in meglio, allora è per caso. Certo non perché prima si
fosse pensato o auspicato di arrivare a quel risultato.”
“Non è un po’ pessimistico?”
“Sì, ma è anche la verità, almeno in questo caso. La
realtà è molto più complicata e imprevedibile di un ragionamento razionale.
Specie se parliamo di un futuro, di una prospettiva.”
“E
l’italiano in genere è così? Qui stiamo parlando di italiani?”
“Sì, cioè no, io parlavo in generale, ma se alludi a me
e ai miei tipi di ragionamenti ti dirò che l’italiano è in genere testardo,
ipocrita, melodrammatico, polemico ed esageratamente ironico.”
“Tutte virtù e neanche un difetto?”
“Nemmeno uno, ci mancherebbe… e dimenticavo le
ramificate manie di persecuzione.”
“A partire da te e dal tuo focolare domestico?”
“Figurati!
Il mio ambiente, la mia famiglia non facevano certo
eccezione, il toscano, specie quello delle alture è piuttosto permaloso.
Il primo risultato di questa epoca fu il diventare un
bugiardo, questo è abbastanza comune, solo che con il passare degli anni rimase
parte di me, anzi si articolò e si integrò alle attività di altre diverse e
successive epoche. E comunque un bugiardo che sapeva mentire malissimo agli
altri, ma già piuttosto bene a sé stesso. Magari era meglio iniziare a
scrivere.”
“Ecco, ma, esattamente, quando è che iniziasti?”
“Non sono stato molto precoce. Direi quando il mio
professore d’italiano delle scuole medie stroncò un mio tema in classe, che
parlava della violenza nello sport: ero scarsissimo sull’attualità e cercare di
raziocinare su notizie imprecise non mi era riuscito.
Il professor Sacco che non solo per questo fu il primo
insegnante che mi piacque, innescò in me un meccanismo di rivalsa, di sfida, o
scosse solamente il mio cervello pigro o magari il cuore bloccato dalla mia
stessa eccessiva sensibilità, o chi lo sa cosa… forse perché seppe spiegarmi esattamente perché il mio tema in classe faceva schifo.
Quello seguente, infatti, che invece era sui miei
progetti futuri, visto che non ne avevo nessuno e che scrissi totalmente di
fantasia, fu un successone e me lo fece leggere ad alta voce alla classe.
Quindi diventai in poco tempo bravo a scrivere, nelle
altre materie ero abbastanza scarso, non mi interessavano. In un secondo
momento cominciai ad apprezzare l'inglese, ma era una cosa
collegata, in qualche maniera.”
“E che cosa scrivesti, allora, per cominciare?”
“Senza dargli eccessiva importanza, avevo scritto un
libro di pesca, un manuale. Mi piaceva pescare e avevo preso di qua e di là
notizie, aggiunte alla mia personale esperienza, ritagliato foto e disegnato
scene di pesca in acqua dolce. Successivamente, inoltre, sempre disegnando i
gol e le azioni degne di nota, scopiazzando dai giornali sportivi,
ritagliandone le foto, avevo fatto un libro sui mondiali di calcio del 1974.”
“Ma il vero passo avanti fu quando scrivesti qualcosa
di fantasia, non è vero?”
“Sì, poesie.
Senza rima, e anche senza ritmo, ma si può dire che la poesia moderna non ha
più bisogno di questi schemi e già allora questa libertà mi affascinò.
Per ritrarre uno stato d’animo o una situazione
bastavano poche parole, si poteva scrivere in pochi minuti, poi ci volevano
giorni per correggere e per renderla più fluida, va bene, ma quello che contava
era che il primo sbozzo si faceva in poco tempo. Dopo si collegava la fantasia
con la tecnica e peggiorava ancora, ma c’era un entusiasmo che porta avanti, che
fa correre il novello poeta verso altre poesie e poi...”
“Quando scrivesti la prima poesia?”
“La mia prima poesia non so a quando risale.
Certo in precedenza un mio amico, aveva scritto un
poema volgare ma efficace e comico, che poi recitava spesso a memoria, specie
quando era il momento meno propizio. E poi scopiazzavo qua e là, traducevo e
davo per miei testi di canzoni di Bob Dylan, Lou Reed e altri. Comunque
scrivere poesie era una cosa che mi intristiva anche di più di quello che già
ero, e lo ero assai. Allora, a un certo punto mi resi conto, più o meno
inconsciamente, che il processo da iniziare era esattamente quello contrario,
ma avevo già una trentina d’anni. Anche qui uno choc fu necessario per cambiare
direzione, quello che mi scosse il cervello e il cuore, fu quando un altro mio
amico, mi chiese se avevo per caso copiato il titolo di una mia poesia, mia
autentica stavolta, da quello di una
canzone uscita a quell’epoca: Il mare
d’inverno.”
“Allora abbandonasti le poesie?”
“Sì, da
militare avevo anche iniziato qualcosa che assomigliava ai miei primi passi di
prosa, con una certa convinzione, che non era poi molta, ma avevo così tanto
tempo a disposizione che lo facevo anche per distrarmi.”
“Ma non era difficile scrivere in mezzo a tanta altra
gente?”
“Ah sì, il fatto
è che da militare facevo il
magazziniere, diventai quasi subito il più anziano del magazzino, il sergente Cicala mi faceva
fare quello che volevo, perché sapevo riempire documenti amministrativi che lui
non aveva voglia di stare a perderci tempo dietro, così facevo a mia volta
lavorare gli altri, le cosiddette reclute.
Allora mi trasferii, branda e tutto, nel magazzino
degli zaini, che veniva aperto solo quando tornava un militare già congedato, o
da una lunga licenza e voleva riprendersi le sue cose chiuse là dentro,
comunque molto raramente, arrivava qualcuno. Non dovevo nemmeno presentarmi per
fare l’adunata, per non parlare poi delle fughe,
che erano licenze false, fatte da noi stessi per andarcene a casa nelle epoche
giuste, senza che nessuno se ne accorgesse.”
“Hai fatto il militare a diciott’anni?”
“No, feci alcuni rinvii, perché stavo studiando. Si fa
per dire. Nel senso che formalmente andavo a scuola. Ma quando partii ero già
al secondo lavoro.”
“Quali furono i tuoi due primi lavori?”
“Prima feci il manovale, per quasi un anno, poi il
barista in una pasticceria, un lavoro che mi piaceva, perché c’era da mangiare
parecchio e bene, infatti lo ripresi al mio ritorno dal militare.”
“Sei uno a cui piace parecchio mangiare?”
“Sono sempre stato molto goloso e poi mangio alla
svelta, ma questo non fa bene alla salute. Sono sovrappeso da qualche anno. Per
fortuna faccio anche parecchio movimento.”
“Sport?”
“Calcio, tennis, pallacanestro, nuoto, corsa, ne ho
fatti di tutti i tipi. Il calcio più di tutti.”
“Ma di quali anni stiamo parlando ora... che anni
erano?”
“Nel 1978 smisi di studiare, diciamo che smisi di
andare a scuola, per studiare non studiavo nemmeno prima. Poi iniziai a
lavorare, feci il manovale per un anno circa, poi in pasticceria, un anno dopo,
nell’80 partii militare, ad agosto. Nell’81 ripresi il lavoro in pasticceria.”
“Come erano i rapporti con i tuoi genitori e con i tuoi
fratelli, in quegli anni?”
“L’adolescenza
fu difficile, i foruncoli, i primi duri rifiuti dalle ragazze, la provvisoria
mancanza d’interessi nella vita, la città piccola e ipocrita, il mio carattere
in formazione ma anche troppo al rallentatore… poi i rapporti con i fratelli e
i genitori, considerata anche quella tendenza a drammatizzare citata prima,
erano già pessimi, ma andarono
peggiorando fino verso i trent’anni.”
“Che cosa fu che fece migliorare le cose?”
“Il fatto di essermi staccato da loro, dalla famiglia,
ero andato a vivere, prima a Lucca, poi a Berlino, poi ero ritornato da loro,
nel giugno del 1989, l’anno in cui cadde il Muro, a novembre.
Poi non ci resistevo più, a casa, e me ne resi conto.
Ecco, avevo già un’idea più o meno formata della vita,
del valore dei soldi, del lavoro… insomma, quando ero partito militare ero un
bambinone viziato e stupido… dieci anni dopo non ero certo un filosofo, ma
iniziavo a capire che una certa disciplina nella vita è necessaria, non si può
vivere ammucchiando le cose a caso in un contenitore, il corpo, per poterne
approfittare, in seguito, ci vuole un certo ordine… questo processo uno può
iniziare a farlo, se ci riesce, solo quando la protezione dei genitori viene a
mancare, secondo me.
I genitori perfetti non esistono, anche il mondo
attorno non aiuta, ma in Italia forse abbiamo troppe manie e si passano ai
figli facilmente, anche perché tardano ad andarsene via dalla famiglia, più che
altrove.
Quindi con il servizio militare ho iniziato a rendermi
conto, prima di tutto, di chi ero io e che cosa avevo fatto fino a quel
momento… da lì partii per una serie di notti
insonni, per una successiva e necessaria accettazione della realtà e in seguito per le esperienze a seguire.”
“Interessante. Ma, tornando alla letteratura, come
erano questi primi romanzi?”
“Erano versioni maccheroniche e mischiate di film e
storie già masticate, pieni di
parolacce e di oscenità per colpire il pubblico, anche se non c’era nessun pubblico, attraverso un sensazionalismo che
all’epoca ancora non esisteva, almeno come termine. Erano comici quando
volevano essere seri e tragici quando volevano essere divertenti. Certo che
poesie e romanzi furono solo un rozzo, ripetitivo e sanguigno esercizio di
formazione, tanto per cominciare dalla maniera più sbagliata, andando per
esclusione, come ho fatto spesso, in generale, nella mia vita, per indecisione
e per conseguente flessibilità, o anche perché, in fondo, m’interessa tutto o
quasi, perciò mi è difficile sapere quanto, finché non ho provato a entrarci
dentro e non ci ho sbattuto perbene la faccia.”
“Che cosa era per te lo scrivere, a quel tempo? Ne
avevi coscienza o lo facevi solo per farlo? Che ne so: magari per darsi un
atteggiamento interessante con le ragazze?”
“Certo era una cosa che mi affascinava, in primo
luogo, simbolicamente, forse pensavo anche alle ragazze, ma non mi pare che riscuotessi
molto successo con loro, anche perché mi vergognavo a far leggere quello che scrivevo,
specialmente alle ragazze… in un secondo momento iniziai a usarlo come una
buona carta da giocare in quel tipo di competizione, ma non ho ancora capito se
ha mai funzionato con qualcuna di loro. Forse no.
Penso che la maggior parte lo interpretò come una
specie di pazzia e se ne fuggì a cercare qualcun altro, anche perché erano cose
brusche, rudi, possiamo anche dire rozze e aggiungerei pure brutte, almeno a
quei tempi.
Certo che era una cosa pratica, perché iniziai a
rendermi conto, un po’ alla volta, che potevo farlo ovunque, bastava una penna
e un foglio.
Scrivevo spesso dopo aver bevuto, allora mi venivano
le idee più bizzarre, solo recentemente mi sono reso conto che le idee vengono
lo stesso e senza bere l’organizzazione del lavoro è migliore.”
“Scrivevi a mano o a macchina?”
“All’inizio
solo a mano, comprai la mia prima macchina da scrivere a Berlino, al Floh
Markt, il Mercatino delle Pulci, e tornai verso il mio monolocale in affitto
della Tempelherren strasse, fantasticando sul fatto quasi compiuto che la
letteratura italiana, allora in decadenza, stava finalmente per conoscere un
nuovo talento.
La macchina era già un simbolo, la vedevo nei film,
gli scrittori ce l’avevano tutti, l’atto di mitragliare le lettere - che per me si realizzò solo diversi anni dopo – era un romantico
scorrere di parole e d’immagini, per me che avevo una
fantasia parallela e spesso ben separata dalla realtà.
Non si può dire che non scrissi proprio niente con
quella scassata portatile, che aveva quel tremendo difetto che quando doveva
battere una A entrava invece una B, e la O invece era un grosso punto nero
perfettamente rotondo, che dopo la C faceva uno spazio automatico e indesiderato,
che perdeva il margine a ogni riga e più altre numerose cosette di minor
conto.”
“Che successe allora?”
“Niente, fu una di quelle cose che pare che non siano
servite a niente, ma fu un piccolo passo avanti, un poco di sbieco, ma verso
qualcosa che intravedevo da lontano e non capivo ancora bene com’era. Nacque là sopra, per esempio l’idea del racconto
del pianoforte, riformulato e riscritto recentemente, ma che inizialmente era
una chitarra.”
“Quale?”
“La storia ambientata in Brasile di uno, che più o meno ero io, che va a una festa all’aperto, si ubriaca e comincia a suonare il pianoforte,
senza saperlo suonare, ma il risultato piace a tutti gli altri, che anche erano
ubriachi... Non so se l’hai mai letto. Il titolo di questo stesso racconto, è
cambiato diverse volte, tanto che non mi ricordo quale sia quello attuale e
ultimo, ma l’idea fu scritta per la prima volta, con quel disgraziato
ferrovecchio mezzo rotto. La storia a quel tempo era completamente differente,
ma aveva a che fare col valore simbolico di quello stesso strumento musicale.
Dopo aver tentato invano, per un po’, di usarla così
com’era, la macchina da scrivere, poi di aggiustarla per alcuni giorni di lotta
furiosa e relative feroci bestemmie, quel simbolico marchingegno, diventò ben presto
un autentico ammasso di pezzi smontati e sempre più guasti, inutilizzabili.
Lo fotografai allora alcune volte, nelle varie fasi di
smontaggio, nella stenderia di centinaia di pezzi disposti prima
ordinatamente e poi sempre più
disordinatamente - per mancanza di spazio e di necessaria calma - su fogli di
giornale, sul piccolo tavolo bianco da campeggio.
Però quelle di rimontaggio, di fasi, non ebbero mai
luogo, il prossimo passo fu il primo e mesto verso il bidone della spazzatura.
Stava terminando rapidamente un’era appena cominciata,
ma dentro di me c’erano nuovi dubbi e fresche certezze, delle quali,
naturalmente non mi rendevo ancora conto, ma che avrebbero fruttato presto
ulteriori tentativi frustrati, leggermente modificati e poi altri ancora, di
conseguenza.
La testardaggine è uno dei miei migliori difetti e
certo una delle peggiori virtù che ho.”
“Cioè, mi pare
di capire, la macchina da scrivere diventò sempre più importante, da quel momento, o no?”
“Beh… sì, tornato in Italia, usai per un buon tempo la
macchina da scrivere di mio padre, non ricordo se era in prestito o regalata,
ma pare che esista ancora nel suo studio, anche se lui è morto da anni.
Chissà se ora gli piacerebbe quello faccio ora, a quel
tempo no.
Però si sforzava di cercare di capire cosa
significava, e forse non è stato per caso che io abbia pubblicato i miei primi
libri solo dopo la sua morte: temevo troppo il suo giudizio, il suo pessimismo
come stile di vita.”
“Quando è che invece si passò al computer?”
“Nel 1991, con il computer di mio fratello, mi ero
appena lasciato da una delle mie ragazze più durevoli, Mariana, avevo
abbastanza tempo di giorno, di notte avevo una birreria, il Caffè Voltaire,
insieme a un socio.
Se non avessero inventato i computer, probabilmente
non avrei continuato a scrivere, ero arruffone e discontinuo, in più facevo una
vita assai sregolata. Con la macchina da scrivere, dovevo lottare per dei
giorni con la stessa pagina, prima di poterla vedere scritta, senza troppe
modifiche, pasticci e cancellature, come volevo io. Non sapevo nemmeno come la
volevo, a pensarci bene.
Poi, quando teoricamente era pronta, dopo essermi
azzuffato fino a diventare esausto, con grammatica, sintassi e stile, la
guardavo per qualche istante e la dovevo scrivere di nuovo, perché in quel
momento l’avevo finalmente vista bene, così come non la potevo immaginare prima
e allora sorgevano subito ulteriori miglioramenti da fare. Il processo si
ripeteva anche con la seguente stesura,
e la seguente che magari poteva sembrare definitiva, ma non lo era. Fino a
darmi quella impressione quasi tangibile di essere una storia infinita.
E si trattava solo di una pagina.
Il computer è una meraviglia, perché permette di
correggere, per un numero infinito di volte, i nostri errori e le cretinate che
diciamo, per carità, si stampa solo quando va tutto bene. Oppure quando ci
siamo veramente stufati.
A questo punto però è bene ricordarsi del passato con
la macchina da scrivere, perché così si diventa più pazienti, più tolleranti
con se stessi... e pure con i computer, bisogna esserlo, come con i casi della
vita tutta, ogni giorno.
Certo che prima dell’avvento dei computer gli
scrittori avevano delle volontà incrollabili, dubito che scrivessero le frasi
perfette al primo, al secondo... o anche al terzo tentativo.
Il computer, quando funziona, è una meraviglia della
natura, anche se si tratta di quella cibernetica. Quando invece comincia a non
voler collaborare, la sua indole è forse fin troppo burlona e allora si
rimpiange, non solo la obsoleta macchina da scrivere, ma anche la biro, la
stilografica fino all’antica penna d’oca, che, anche se meno rapida e più
grossolana, non risentiva di umidità e di elettricità dell’aria, mancanza di
energia, fulmini caduti a castigare il sedicente autore e a metterne in crisi
la confusa memoria.
Lo scrittore difficilmente poteva perdere le pagine
scritte, anche in caso di temporale, perché le infilava dentro un robusto
mobile di legno e la sua memoria era solo dentro il capiente cervello e
conseguente ermetica capocciona intorno. Solo se batteva una botta di fulmine
sulla sua testa gli si mischiavano i propositi letterari, allora moriva, non
potevano nemmeno tirarli fuori di là dentro e dargli una rinfrescatina di
sintassi.
È un fatto dimostrato quanto misterioso, il successo dei
manoscritti postumi.
Magari gli uomini sono inguaribili romantici, se lo
scrittore è morto in povertà la sua opera avrà ancora più valore, perché tutti
s’immagineranno lo stereotipo in carne e ossa del poveraccio che metteva su
carta il suo dramma, giorno per giorno.
Uno scrittore, per idiota che sia, non dovrebbe mai
buttare via niente, perché dopo la sua morte saranno soffiate via
immancabilmente le polveri stanche dai fogli ingialliti e pubblicata e ammirata
la sua opera, specialmente se incompiuta, meglio ancora se incomprensibile.
Certo che, a quel punto, a lui non gliene fregherà più
niente, magari l’immortalità è una cosa che interessa più ai vivi, magari i
morti sono indaffarati con altre cose, ma non si sa quali. Forse si riposano,
finalmente, già che da vivi non si ammettono facilmente pause.”
“Bene, passiamo ad altro: nella tua vita l’emigrare,
il viaggiare, lo spostarsi in generale, insomma ha avuto una grande importanza,
perché e in che modo?”
“Non sono mai stato un emigrante comune, se è questo che vuoi sapere, me ne sono andato dall’Italia per noia, per cercare di vivere e d’imparare
qualcosa di nuovo.
Viaggiare è stata una passione che mio padre mi ha
trasmesso, quasi a manate, da piccolo ha cominciato a portarci in giro, anche
per forza, io mi ribellavo e non volevo andarci, ma lui sapeva che era solo per
contrariarlo e mi obbligava, poi, ogni volta, mi piaceva tantissimo, ma non
volevo dargli soddisfazione.”
“Nei tuoi racconti parli spesso di spazio e tempo,
perché?”
“Beh, lo spazio è importante, come il tempo, sono sempre legati e
relativi l’uno all’altro, viaggiando e vivendo in un posto che non è il
nostro, dove siamo nati e cresciuti, si ampliano gli orizzonti, si trascende il
limite di spazio e il tempo diviene anche più malleabile.”
“Spiegati meglio, per favore.”
“È
semplice, se uno resta sempre sul posto, non si rende conto né che il tempo
passa, né che altrove è differente, cioè non sa come è il mondo, in sostanza
non conosce l’esistenza. La nostra città, il buco dove siamo nati, ci
anestetizza e ci fa sembrare tutto normale, indolore, incolore, senza stimoli.”
“Che importanza ha questo nella vita di una persona?”
“Tutto o niente, nel senso che trascendendo i propri
limiti si impara di più, questo non significa che la nostra
vita diventi più
facile, ma certo più interessante. La maggior parte
vive nell’altra maniera, non significa che non possa essere soddisfatta, ma che
s’inganna di più, rispetto al piano generale.”
“E guardando al tuo esempio personale di vita? Cosa è
cambiato, viaggiando e vivendo fuori dall’Italia?”
“Prima di tutto ho capito che quella realtà non era
l’unica, se lo fosse stato io mi sarei rassegnato, forse, a non scrivere, il
che può anche non essere necessariamente una tragedia, ma certo a vivere trascinando
i giorni in una maniera insoddisfatta.”
“Invece, vivendo in Germania e in Brasile, viaggiando
per una trentina di altri paesi?”
“Ho scoperto che potevo interferire sul mio destino,
che potevo cambiare le carte in tavola, che potevo conoscere persone che
vivevano meno stancamente e che credevano fermamente che tutto il mondo è paese è un proverbio idiota.”
“Che tipo di scrittore pensi di essere, hai qualche
modello, o vai per esclusione?”
“Modelli ne ho vari, forse una decina, ma non c’è nessuno di loro che sopravanza gli altri, sono solo
differenti.”
“Qualche nome?”
“Che ne so, magari: Allen, Cechov, Kerouac, Bukowski,
Benni, Sepulveda, Castaneda, Camilleri, De Crescenzo, Jerome K. Jerome… e anche
altri che ora non mi vengono in mente.”
“Che cosa hanno in comune, tutti questi?”
“Non lo so, forse che hanno tutti inventato dei generi
nuovi, è gente, che, aldifuori dei contenuti, mi pare assai gradevole da
leggere… e poi anche i contenuti sono di valore, certo, e anche molto diversi
tra di loro.”
“Ti ripeto la parte iniziale della domanda di prima,
alla quale non hai risposto: che tipo di scrittore pensi di essere?”
“Il genere non te lo so dire, ma non mi reputo uno
scrittore impegnato, i miei dovrebbero essere dei libri da leggere facilmente,
alla portata di tutti, almeno da tutti gli italiani. Perché i miei allievi
brasiliani dicono che sono difficili, ma loro stanno studiando ancora
l’italiano e poi, molti di loro, non sono abituati a leggere dei libri, anche
in portoghese, o comunque non questo genere di libro, fatto per il piacere
dello scrittore e non per studiare. Il brasiliano legge più perché è
necessario, non per il proprio piacere, anzi, forse questo è più o meno vero
dovunque.
Come scrittore sono un alternativo, perché scrivo per
il mio piacere e quando non sono in forma, invece, quello che scrivo mi fa
schifo e perciò lascio perdere.
Per me scrivere è come viaggiare nello spazio e nel
tempo, se nessuno m’interrompe posso
starci per dieci ore senza mangiare o bere.
Il fatto è che non mi pare di scrivere, ma di vivere
la storia, perché tutto quello che scrivo, in un certo senso, fa sempre parte
del cammino della mia storia, anche se dopo mi perdo per strade laterali.
Ultimamente ho scoperto che come scrittore amo
esattamente scrivere quello che mi da’
piacere, ma quando inizio qualcosa, non so mai dove sto andando ad
avventurarmi.
Scrivere è la maniera di pensare a tante cose che non
affronterei mai, se non le mettessi giù sulle pagine.
Resta da vedere se questa è una cosa positiva o no.
Per molti certo non lo sarebbe.
I pensieri della gente non prendono stradine
secondarie, circolano solo per i viali principali e le autostrade, si sentono
più sicuri.
Certo le altre strade, quelle piccole e dimenticate
sono più pericolose, sono i bassifondi, le strade sterrate, mal illuminate e
non si sa nemmeno dove vanno, non c’è nessuna indicazione. Il punto è: è bene
arrischiarsi? Sì e no, dipende dal tipo di persona che siamo o che vorremmo
essere, ma in genere non si sceglie, si fa tutto istintivamente.
La maggior parte della gente fa di tutto per chiudere
ogni sbocco alla propria sensibilità, ne ha paura. Invece altra gente sceglie
sistematicamente la via meno battuta, va dietro a quello che il cuore gli dice,
affronta i buchi e i pericoli, ma allarga costantemente i propri limiti, anche
se sta rischiando.”
“Quali sono i tuoi limiti?”
“Nello scrivere, o nella vita?”
“In tutti e due.”
“Nella vita mi ribello e non accetto di fare cose che
non mi piacciono, nello scrivere in fondo è lo stesso, il tema lo decido io, oppure non c’è nessun tema; non riesco a far niente che non mi
piaccia, non lo so, non ci ho mai provato, in maniera continua. Solo nel
lavoro, certo, anche se una cosa ti piace, se la devi fare per forza, smette
automaticamente di piacerti.
Non sono di quelli che non saprebbero vivere senza il
lavoro, datemi da campare, non dico i soldi, ma vitto e alloggio e io il lavoro
lo dimentico con gioia.”
“Solo questo?”
“No, ci sono tante altre cose, come per esempio, un
limite potrebbe essere che ogni mio racconto si può definire incompleto, sia
perché se lo rileggo lo cambio ancora e di nuovo, all’infinito; sia perché,
quando ne sto finendo uno, quello mi sta già annoiando, perché sono
contemporaneamente impegnato nell’iniziarne o svilupparne altri.
Preferisco pensare che un giorno farò un finale
migliore per ognuno di quelli scritti nel passato recente o lontano. Da tempo,
ormai, ho creato, per questo e per altri oggetti o situazioni, reali o virtuali
che siano, un aggettivo sostantivato bilaterale, in antitesi con sé stesso: il
provvisorio-definitivo.
Il fatto è che il finale, in sé, spesso mi pare
forzato, vorrei che la storia continuasse, perché la vita non finisce mai, ma a
quella porzione lì non posso più dargli attenzione.
Che ci posso fare?”
“Non è che il
tuo lavoro di professore d’italiano
ti distrae?”
“Il mio lavoro mi distraeva, certo, mi toglieva il
tempo e m’impediva di sprofondarmi totalmente nelle storie, ma mi dava anche
ispirazioni e modelli nuovi, e poi non so se vorrei veramente vivere solo
scrivendo, perché il rapporto con le persone ne verrebbe molto limitato.”
“E come è il tuo rapporto con le persone?”
“Confuso, sofferto ma vissuto minuto per minuto, cerco
di dare soddisfazione a tutti, in maniera differente, ma senza togliermi la mia
necessaria parte. Tento anche di non cercare di cambiare la gente che
frequento, di non separare i loro difetti dai pregi, ma non sempre ci riesco.
Troppe cose, la gente non pensa nemmeno alla metà di tutto quello che vorrei
fare.
Non mi curo molto di quello che pensano di me, cerco
di essere sempre me stesso, ho bisogno di compagnia ma anche di solitudine.
Cerco di alternare secondo il mio ritmo.”
“Cosa pensi che loro, quelli che ti conoscono, pensino
di te?”
“Credo che pensino che sono mezzo matto, ma mi pare
che mi considerino una persona simpatica, o interessante, penso di essere
amato, a volte anche più di quello che vorrei.”
“In che senso? La gente ha spesso il problema
contrario, si sente poco amata.”
“Lo so, ma quello che mi succede è che si attaccano a me, a volte anche quando non mi
piacciono, allora devo interrompere ed è doloroso. Oppure anche quando persone che mi
piacciono insistono per passare tempo insieme a me, oltre la mia volontà, anche
in questo caso divento sgradevole, ma li devo ridimensionare. Comunque succede
anche il contrario, che le persone con cui vorrei passare più tempo ne abbiano
meno per me. Questo è un fenomeno che con il passar degli anni sta diminuendo.”
“Perché pensi che
questo succeda?”
“Diciamo che fin da bambino ho sempre cercato
compagnia e sono sempre o quasi rimasto deluso dai risultati, sia perché la gente non mi accettava come sono, sia perché
avevano altre cose da fare, sia perché io non accettavo loro. Insomma è sempre
stato un rapporto sofferto, nel bene e nel male. Ma non sono mai stato falso.
Da qualche anno a questa parte invece ritorno alla mia
originaria voglia di stare da solo, oppure in compagnia di Jamila, ma non cerco
nessun altro.”
“Forse perché lei ti basta.”
“Infatti, credo che sia così.Anche perché lei rispetta il fatto che io abbia bisogno di
porzioni di solitudine giornaliere, in genere, quasi tutti, soffrono a stare da
soli, anche solo per una parte della giornata. Io no, ne ho addirittura bisogno.”
“Sì, ma perché si attaccano a te?”
“Non si attaccano più, credo di averli scoraggiati. Ma
era proprio perché gli pareva che gli sfuggissi prima, perché non condividevo
quel loro voler stare insieme a me, almeno non del tutto. E poi perché sono una
persona forse anche troppo spontanea, nel bene e nel male”
“D’accordo,
credo di aver capito. Ritorniamo al discorso di prima: dal punto di vista di
lettore cosa ti piace di leggere?”
“Come lettore preferisco quelle cose che quando le
leggo mi trasferisco, di località e di fuso orario, insomma mi dimentico proprio che
sto leggendo, non mi piacciono quelli che complicano e infiorettano troppo,
rallentano il ritmo, o sono autocompiaciuti.
Personalmente mi considero uno di quelli che non amano
le cerimonie, di nessun tipo, sia nella vita che nella letteratura.
Non leggo libri tecnici, saggi, manuali, ci deve
sempre essere una storia, per me; ogni tanto, raramente, leggo biografie.
Lo stile per me è importantissimo, non riesco proprio
a leggere niente di chi non amo stilisticamente, ma ci sono scrittori che mi
piacciono e molto, come stile, ma che non m’interessano a livello di contenuti.
Gli scrittori che mi catturano sono quelli che
mostrano la vita come è, nuda e cruda, che sia raffinata e pacifica, oppure
rude e violenta, va sempre bene… molta gente preferisce le bugie, certo,
sembrano più comode.”
“Il tuo compromesso con la verità è una cosa abbastanza elastica,
pare evidente dai tuoi racconti, come è che lo vivi e come dovrebbe
interpretarlo il tuo lettore?”
“Bella domanda.
Esiste sempre un dualismo, di tipo verità-fantasia, mi
piace che il mio lettore si ponga la questione, quando legge, se quello che sta
attraversando è vero, oppure no, ma non è l'eventuale risposta che è
importante. Secondo me, invece, è bene che si rifletta su un fatto: che le due
cose non sono tanto separate come sembrano, che non possiamo avere certezza di
tante cose, che dobbiamo saper separare e mischiare le due componenti, a
seconda dell’uso che ne facciamo.
Vorrei che la gente imparasse un poco ad astrarsi,
secondo me essere troppo attaccati alla realtà è una malattia, che come
risultato ci fa sfuggire di mano il nostro baricentro nello spazio e nel tempo,
cioè, in parole povere, più ci ossessioniamo per capire la realtà, meno la
capiamo, perché non sappiamo più usare la nostra fantasia, la nostra
creatività.”
“Qual è, allora,
la tua esperienza a riguardo?”
“La mia esperienza è stato un progressivo adattarmi alla realtà e un
contemporaneo separarne la fantasia, ne ho avuto bisogno per infilarmi nel
mondo del lavoro. Solo dopo ho capito che invece dovevo integrarle e non
separarle, realtà e fantasia ora vivono in me, alternandosi e completandosi,
prima invece facevano a pugni. Ogni tipo di additivo sia alcolico che chimico,
allontana dai punti fermi, infatti sono cose in genere usate per sfuggire alla
realtà.
Ora infatti bevo raramente e fumo ancor meno.
Credo che non si possa e non si debba nemmeno tentare
di sfuggire alla realtà, ma avere delle belle valvole di scarico, quotidiane,
se noi sappiamo usare bene questo dispositivo, quello che ci permette di
astrarci. Un buon libro è sufficiente, per evadere dalla routine di tutti i
giorni, che è alienante perché ci fa sforzare in maniera poco costruttiva
tornando ossessivamente su situazioni già vissute, già ripetutamente
sviscerate, di stereotipi che ritornano e ritornano, senza stimoli, questo
succede molto nel mondo del lavoro, in generale.”
“A proposito di evasione, cosa pensi della meditazione
e delle culture orientali?”
“Ne penso tutto il bene possibile, per imparare ad
astrarci dobbiamo prima apprendere a svuotare la nostra mente, se riusciamo a
non pensare a niente siamo sulla buona strada, la natura ci aiuta, per esempio,
nella sua contemplazione in un bosco, ci fa riposare gli occhi e la mente, non
abbiamo bisogno di pensare a niente.
Le culture orientali possono servire a questo, senza
esagerare, la meditazione è una buona cosa, il ritrovare la nostra calma dopo
qualche ora di grande attività, pensare al corretto uso della respirazione e
applicarlo con continuità.”
“La tua educazione è stata di stampo occidentale, ma i tuoi genitori non
erano molto convenzionali, specialmente tuo padre, come ha influito la sua
maniera di essere sulla tua personalità in formazione?”
“Beh, durante la mia infanzia, dovevo più o meno spesso simulare e dissimulare e mio padre -
che era psichiatra - lo scopriva sempre e comunque.
Come quella volta in cui disegnai un dinosauro giallo
con sei gambe e il dottor-genitore mi disse che quello me lo era inventato.
Era solo una bonaria constatazione, ma io ero troppo sensibile
e suscettibile e in più non capivo come diavolo avesse fatto a scoprirlo.
Mio padre diceva che quando ero in un luogo, fingevo
sempre di essere in un altro. Per esempio se ero su una barca facevo finta di
essere su un aeroplano, se ero su un aeroplano fingevo di essere in un
sottomarino, se ero in un sottomarino allora m’immaginavo di stare in
un’astronave e così via, sempre per nuove e incredibili avventure, ben
immaginate e ricche di particolari.”
“E allora?”
“E allora sotto il controllo costante di uno
psichiatra abitualmente di malumore, ho passato l’infanzia, solo che poi non è finita, si è sovrapposta alle altre epoche, perdura malamente
cammuffata fino al giorno d’oggi.
D'altra parte mio padre mi ha insegnato anche ad
aprire la mente, indirettamente, viaggiando o leggendo, insomma pensando a cose
poco convenzionali.
Infilarsi nelle righe di un racconto in costruzione, è
facile e spontaneo, per me. Quelli che metto giù sono tanti personaggi che
hanno le loro cose da dire, che per me sono notevoli e valgono la pena di
essere scritte, ma non sono io che le dico, sono loro. Non sono tutte idee mie,
io le butto giù cercando alla meglio di farlo seguendo la grammatica e la
sintassi, cercando di dargli un’idea di movimento.
E il movimento è parte essenziale nel mio modo di
scrivere, si direbbe che i miei racconti sono copioni per una serie di film,
fatti a episodi, divisi in tanti spezzoni più o meno brevi e separati, tutti
parte di uno stesso grande disegno a fantasia, tipo un tragicomico e apocalittico
trittico di Bosch.”
“Qual è la
funzione principale dell’arte, secondo te, nel mondo
moderno?”
“Penso che l’arte - per chi ne fa uso e per chi la produce - sia
una maniera per sbriciolare la routine, per mischiarne gli ingredienti, per
frantumare la rotazione di giorni identici che si ripetono.
Per spezzare il frangersi sempre uguale a sé stesso di
un onda sulla riva, ci vuole una tempesta e l’arte è un uragano dei sensi, è
quasi come una droga o un eccesso alcolico, ma è più sano e costruttivo, o
almeno può esserlo.
La realtà è stretta, nel senso che ai suoi confini
l’uomo impazzisce per non saperle trovare una ragione.
Però è anche troppo larga, perché facilmente ci si
sperde, là dentro, senza saper decidere nel mare di opzioni e si finisce nel fare
come gli altri, per non essere considerati diversi, per non rischiare.
Ed è esattamente cosa dovremmo fare, secondo me,
rischiare se non molto almeno un poco, per provare a migliorare la nostra
routine, delle cui piccole porzioni, le giornate, sono fatte le nostre vite.”
“L’arte perciò nasce dal desiderio d’evasione?”
“No, forse l’arte nasce dal riprodurre e celebrare le bellezze
della natura e del mondo, ma può essere anche un veicolo per evadere tutti i
giorni, con continuità e soddisfazione.
L’evasione è necessaria per uscire da quel ruolo che
ci siamo costruiti addosso, magari senza volerlo, ma un poco anche
coscientemente, per vedere dal fuori quel personaggio di cui noi non siamo
certo gli unici responsabili, per permeare e comprendere questo mondo che ci
piace, sì, perché non ne conosciamo un altro, ma che se lo potessimo rifare,
forse, lo rifaremmo in una maniera un po’ differente.
Lo scrittore che fa con il cuore in mano il suo
viaggio virtuale, ma concreto, ridistribuisce il suo mondo, come gli piace, non
importa se sia riconosciuto dal successo o no.”
“L’artista
per produrre è obbligato a soffrire? Non
potrebbe farlo, invece, per il suo piacere?”
“Non lo so, per me è così, ma spesso l’artista si
libera del fardello che ha sulle spalle e soffre mentre lo fa.
Ho già attraversato e superato questa fase, se non lo
avessi fatto avrei smesso di scrivere, perché il risultato di quei dolorosi
parti d’incudini non mi piaceva, né prima, né durante e soprattutto nemmeno
dopo, nel rileggerlo.”
“Allora tu non le partorisci più quelle incudini?”
“Sì, le partorisco ancora, ma prima le faccio a pezzi,
le mastico e le sminuzzo, quando escono sono meno dolorose, sia per me che mi
diverto a vivere situazioni interessanti, sia per il lettore, spero. Chi legge
i miei racconti si diverte, non è moltissima gente, ma quella che è lo fa per
il proprio piacere.”
“Tutti possono essere artisti?”
“Tutti possono praticare un tipo di arte e ricavarne
soddisfazione, forse non tutti possono essere riconosciuti, come artisti da un grande
pubblico. Io ne sono l’esempio vivente. Mi sento artista, ne sento un bisogno e
un giovamento quotidiano, ma non ricevo un riconoscimento pubblico della mia
cosiddetta arte, o almeno solo da una cerchia ristretta di persone, allievi e
amici, o amici di amici e amici di allievi.”
“Trasferirti in Brasile è stato importante per la tua carriera?”
“Premesso che io non ho ancora nessuna carriera, ma
solo alcune opere pubblicate, la mia fuga in Brasile è stata decisiva in questa
direzione, perché mi ha fatto scoprire un nuovo angolo da cui vedere le cose,
un punto di vista più reale, meno parziale. Diciamo che fino a che sono stato
in Europa ero solo un bamboccione e sono diventato uomo, se mai lo sono
diventato, solo qua. Nel senso che accetto le mie responsabilità e le separo
quotidianamente dal sentirsi in colpa per qualcosa o per qualcuno, di prima,
dell’altra parte dell’Oceano Atlantico.”
“Allora diresti che per uno come te, anche se il mondo
va in direzioni diverse, se non opposte, vale la pena di essere scrittore?”
“Direi che da’ un ventaglio di opzioni in più. Perché
m’infilo dove voglio e quando lo desidero, a vari livelli di realtà che insceno
parola per parola, frase per frase. Soprattutto nel momento in cui scrivo, mi
sento bene, come se riuscissi a trascendere le normali sensazioni umane.
Se la gente pensa senza riuscire a controllare i
propri pensieri, anche io non faccio certo eccezione. Per quanto ci si provi è
difficile controllare i propri pensieri e impedirgli di andare in certe
direzioni che a volte vogliamo evitare. Quelli è proprio lì che se ne andranno,
ancora e ancora. Invece quando scrivo è come se riuscissi a scegliere in
maniera continua, a cosa pensare e come. Quando ritorno sulla terra, poi, tutto
mi pare meno volgare, perché ne capisco meglio i meccanismi e mi pare
d’interferire meglio e di più nel cammino del mio destino.”
“Hai detto mi
pare, con questo vuoi dire che è un’illusione?”
“Sì e no, ma è importante che io abbia questa sensazione, perché mi rende tutto più a portata di mano, dialogo meglio con me stesso e
questo è il punto di partenza
fondamentale, ma anche di arrivo… prima di tutto cerco di essere sincero con me
stesso, ho faticato a impararlo, ma credo che sia piuttosto importante.”
“A proposito di essere sinceri con sé stessi, pensi
che ti manchi qualcosa per aver successo? Cioè, credi che gli scrittori di
bestsellers abbiano qualcosa più di te?”
“Non tecnicamente, cioè non a livello di capacità letteraria, ma piuttosto di
opportunità concrete e poi penso che mi manchi anche quel cercare il successo.
Non lo faccio, non lo so fare, anche perché implicherebbe un cambiamento di
stile e di personalità. Oltretutto credo che se perdessi la credibilità con me
stesso, anzi ne sono convinto, certo smetterei anche di scrivere… e poi se m’imponessero tempi e temi non saprei come fare, perché
non l’ho mai fatto, credo che sia improbabile, per uno come me.”
“E se, nonostante tutto questo, tu avessi successo
ugualmente, cosa cambierebbe, nella tua vita e nel tuo modo di scrivere?”
“Non lo so, sono già abbastanza impegnato con la realtà di oggi, per chiedermi cosa succederà domani, se una determinata e remota condizione si
realizzerà.”
“Non ci hai mai pensato?”
“Sì, tante
volte, ma di passaggio, non in maniera tale da potermi chiedere veramente cosa
farei. Io vivo il presente in maniera intensa, a volte anche troppo, non sono
capace di pianificare il futuro, anche perché non m’interessa.”
“Il futuro non t’interessa?”
“No, non m’interessa pianificare
il futuro, sennò finisco per perdere
la dimensione del presente, che è quella essenziale. Molta gente lo fa, ma mi
pare che poi non riesca per niente a vivere il presente.”
“Prova a pensarci adesso, allora, che cosa accadrebbe
se ti arrivasse addosso il grande successo?”
“Beh, la prima cosa che mi viene in mente è che smetterei di lavorare come professore, poi,
subito dopo, che diventerei ancora più timido e solitario, certo che un po’ lo sono già.”
“E quello che tu stesso definisci il tuo confuso rapporto con le persone?”
“Cambierebbe e molto, sicuramente fuggirei e mi
rinchiuderei, cercherei di evitare le interviste.”
“Non andresti nemmeno al Maurizio Costanzo Show?”
“Ma perché, non l’hanno finalmente soppresso?”
“Sì, ma era
solo per fare un esempio, per vedere se ti saresti venduto un po’, per la popolarità…”
“Noooo, non ci sarei andato nemmeno prima, in caccia
di successo, figurati dopo, se ce l’avessi già.”
“E per quanto riguarda la tua maniera di scrivere,
cosa succederebbe?”
“Penso che si rivoluzionerebbe, magari non in maniera
positiva, anche perché gli editori cominciano a
martellarti per importi quello che vogliono loro.”
“Allora credi che il successo sia una cosa negativa?”
“No, se è il riconoscimento che quello che stai
facendo, è una bella cosa, soprattutto se porta dei meccanismi che tu possa
usare per ampliare la tua libertà, solo che probabilmente la mia vita
diventerebbe più difficile.”
“Ma, mi dici una cosa? Tu non parli mai di soldi, non
vivi anche te sul nostro pianeta? Non hai bisogno di soldi?”
“Certo, ma non tanto da vendermi l’anima…”
“E che cosa significa vendersi l’anima, per te?”
“Significa fare le cose solo per raggiungere un
risultato, costi quel che costi, passare sopra tutti e non curarsi di chi si
calpesta… o cambiare il proprio stile in funzione dei lettori e di un successo?
No, no, secondo me la propria identità è
altrettanto importante, sennò il
riconoscimento del pubblico è truccato,
conformarsi al mercato dal punto di vista artistico è la cosa più infame e
trita, lo fanno quasi tutti, mi illudo ancora di credere che io, invece, no.”
“Che cosa ti fa illudere di essere diverso dagli
altri?”
“Il fatto che la vita che faccio mi piace, per questo
non sono disperatamente alla ricerca di editori, e poi essere famosi va bene
per gli altri, per fortuna non tutti, io non ho idoli e figurati se voglio
diventarne uno, no, non mi garba, mi piacerebbe poter vivere con la scrittura,
ma non so nemmeno se ne sarei capace. Stravolgerebbe il mio mondo.”
“Vabbè hai ragione, il successo bisogna volerlo, tu
non sai nemmeno se lo vuoi... Ma saltiamo di palo in frasca, parlami del
romantico processo creativo.”
“Il non sempre romantico processo creativo può avvenire in varie maniere e momenti e si possono
usare anche dei procedimenti standard, atti a stimolare la fantasia per poi
creare, conoscendo noi stessi, ma difficilmente si può... senza avere delle
idee personali, dell’esperienza di vita, del passato interessante da decomporre
e ricomporre.
Sebbene molti scrittori di successo ne facciano a
meno, e si limitano a scopiazzare qua e là, come facevo io da adolescente e
anche oltre, si dedicano a sviluppare e a ramificare una serie di stereotipi
efficaci, preferibilmente, a prova di marketing.”
“Allora pensi che molti scrittori famosi siano un
bluff?”
“Non esattamente, penso che scrivere sotto pressione
da’ risultati peggiori, se sei un
autore di bestsellers non puoi fare a meno di lanciare un nuovo libro finché il ferro è caldo. Non è difficile perché quando uno è affermato,
insomma se sei già un idolo, puoi scrivere un po’ quello che vuoi, secondo la
mia esperienza di lettore ogni grande scrittore è andato sempre a peggiorare, a
livello di qualità, aumentando la quantità.”
“Quanti libri pensi di aver letto?”
“Approssimativamente un migliaio, forse di più, difficile dirlo.”
“Più scrivi e
meno leggi?”
“Sì. Almeno
attualmente funziona così.”
“Ho capito, tornando al processo creativo?”
“Beh, l’idea originale può nascere in qualsiasi
momento, di solito di fronte a qualche avvenimento reale o suggeritore di detta
ispirazione, ma spesso avviene scrivendo, cioè mettendo giù quello che la mente
manda fino alle dita, passando dal cuore, magari, sulla base di input avuti e accumulati anche in altri
momenti… che poi sarebbe l’esperienza di vita dello scrittore stesso. Che è
fondamentale.
Scrivere su ciò che si conosce è consigliabile, con la
formidabile eccezione del grande Emilio Salgari, che non era mai stato nei mari
del sud, ma li descrisse così bene, forse perché visse dentro di sé tutto ciò
che buttò sulle pagine, con forte e autentica emozione.
È difficile
scrivere su quello che non si conosce, certo che vari scrittori di bestsellers
lo hanno fatto e continueranno a farlo, approfittando della dabbenaggine del
loro lettore-tipo, e poi ci sono gli scrittori di fantascienza che fanno un
capitolo a parte.
Il lettore dall’altro lato deve o dovrebbe appartenere
a delle categorie e perciò si potrebbe partire cercando di capire perché legge,
quel determinato lettore-tipo.
Se lo scrittore è anche lettore, assai difficilmente
non esserlo, si può cercare di capire prima di tutto, perché legge, la sua
lettura avrà a che fare con la sua scrittura. Anche se, in alcuni casi,
potrebbero non somigliarsi nemmeno. Capire a che categoria di lettori e di
scrittori si appartiene, facilita le cose. Io per esempio non l’ho mai capito,
forse perché non sono catalogabile in nessuna delle due risme in questione e ho
difficoltà, sia a trovare qualcosa che mi piaccia da leggere, sia a scrivere
qualcosa che sia limitato a un solo tipo di genere alla volta.
Anche in questo caso, allora, si dovrebbe fare al
contrario di me, ma spesso i contrari sono più di uno, e poi queste non sono
cose che si scelgono o s’insegnano…”
“E l’ispirazione
cos’è? Esiste veramente o è un’invenzione
della vostra fertile mente di artisti? Alcuni dicono che è solo un mito da sfatare…”
“Ti dirò che per anni ho creduto che fosse una specie di magia
indipendente da tutto e da tutti, eppure erano anni in cui per scrivere dovevo
bere, o farmi una canna, cioè il mio pensiero era molto poco razionale.
Ora la vedo così: se ho dormito bene, se non ho
pensieri cattivi per la testa, se non ci sono rumori molesti, se ho mangiato e
sto respirando bene, se non sono stanco, io sono sempre ispirato.
Cioè, potenzialmente posso scrivere sempre, certo che
a volte escono cose migliori, in alcuni determinati momenti, ma non dipende da
una qualche ispirazione, solo da concatenate associazioni di idee, che vengono
fuori dal morale più o meno buono, dal tipo di vita che si fa, dal sentirsi più
o meno realizzati nella propria routine.
Per me l'ispirazione è la volontà di far uscire quello
che ho dentro, che è sempre una roba di grande volume, per me la volontà di
scrivere è una cosa dipendente dai molti fattori esterni, più che da quelli
interni.”
“Ottimo, credo che possiamo chiudere qui, con quest’ultima domanda, che magari non ti piacerà, visto il tipo poco comune di personaggio che sei, ma
te la faccio lo stesso: che consigli daresti a chi inizia a scrivere?”
“Sì… è vero che la domanda non mi piace, provo a rispondere
lo stesso, ma al contrario, dirò che cosa
non bisogna fare. Allora: se non v’importa troppo del successo è abbastanza
facile, fate come me. Se lo volete intensamente, ma non volete vendervi, almeno
dal punto di vista artistico, e se credete che vale la pena di leggere le
vostre pagine, cercate di arrufianarvi più possibile con persone importanti del
ramo, è ancora la maniera migliore, anche se siamo nel terzo millennio. Uno
scrittore senza appoggi non ottiene nemmeno che vengano letti i suoi
manoscritti, non che quelli degli altri li leggano, no, li fanno leggere, ma
solo in parte, da qualcuno, addetto, malpagato e ancora meno ascoltato. Se
volete il successo e non v’importa di meritarvelo non avete bisogno di nessun
consiglio.”
“D’accordo,
ma per quanto riguarda la tecnica di scrittura?”
“Ah, la tecnica, ci sono anche dei bellissimi e
inutili corsi, peccato che nessuno possa insegnare a scrivere, perché la
tecnica è una cosa inseparabile dal contenuto, lo stile e le idee sono un
tutt’uno, ma le idee non si possono insegnare e lo stile si può solo copiare o
simulare, senza inventarne uno, ed è evidente che non si può insegnare a
inventarlo.
Ci si può sentire scrittori prima di diventarlo,
allora si insiste su schemi di ripetizioni, esercizi di formazione, finché
quello che scriviamo non ci soddisfa, questo è importante perché la prima
persona del pubblico siamo noi, passato questo primo esame, allora possiamo far
leggere qualcosa agli altri.
Se poi gli altri ci bocciano non possiamo desistere,
ma se ci elogiano, dobbiamo fare un filtro e cercare di capire fino a che punto
possiamo crederci.
Il nostro riferimento principale saremmo sempre noi,
ma tutto il resto non è separato. È una bufera di particolari sempre in
movimento, spesso di carattere disturbatorio, la cosa migliore è imparare a
filtrarla, questa tempesta, perché ignorarla ci farebbe diventare insensibili a
quella percentuale che ci può interessare.
Mi spiego: tutto quello che gli altri ne pensano è
importante, ma non ci deve deviare troppo da quello che siamo noi, dobbiamo più
che altro conciliare queste cose, ma la nostra fonte di idee non può seccare
per pareri distruttivi, è opportuno solo convogliare meglio quelle che sono le
acque dell’ispirazione...”
"Più in particolare?"
"Prima lo scrivo a mano, poi lo leggo al programma
suddetto e così via. Questa tecnica la sto usando da un po' di tempo, per fare
prima a scrivere, per non stancarmi troppo gli occhi e per riuscire finalmente
a scrivere alla stessa maniera in cui parlo, che mi pare una cosa interessante.
Io detto i testi - scritti a mano - a questo
programmino di riconoscimento vocale on-line. Che cosa fa il programma in
questione? Semplicemente scrive quello che io dico a voce alta, o almeno ci
prova. Spesso si sbaglia, forse anche perché io tossisco e gemo, più qualche
mezzo rutto o pronuncia scassata malamente per la distrazione e la velocità.
Il programma non scrive le parolacce, ci mette dei
puntini-puntini, alcuni altri programmi di questo tipo ci mettono asterischi
vari.
Dopo io ricopio in Word quello che viene scritto sul
testo on-line e poi faccio la correzione.
Questo sistema è venuto fuori quando tre lettere
abbastanza usate, la G, la H e la A com l’accento, del mio computer portatile,
non funzionavano più e ho scoperto che qua era molto difficile ripararle,
perché la tastiera nuova andava fatta venire da San Paulo che sono 1200 km di
distanza da Porto Alegre. Difficoltà che si calcola non solo in soldi, ma anche
in attesa impaziente.
Il sistema più razionale per fare le correzioni
dovrebbe essere: che prima di pubblicare qualsiasi cosa, anche solo sul mio
blog, dovrei sistemarlo in maniera da dare al racconto un aspetto definitivo o
quasi.
Bene, anzi male, io le correzioni le faccio
principalmente dopo aver pubblicato, perché questo fatto di essere esposto al
pubblico tacitamente mi impone tale disciplina, e non raramente anche il
racconto cambia parecchio, perché mi vengono in mente altre cose eccetera.
Questo modo di postare un pezzo alla volta, di circa
una pagina, è un sistema per favorire la lettura di chi si spaventa a vedere
una roba troppo lunga, ma anche per obbligarmi a dare a questi spezzatini di
racconti un aspetto se non definitivo almeno quasi.
Perché non ci riesco a farlo prima?
Non lo so nemmeno io, però so di essere un tipo
fors’anche disciplinato, rispetto a tanti altri, ma in una certa maniera
piuttosto indisciplinata, cioè m’impegno solamente quando ho le spalle al muro,
a fare qualcosa di regolare ed efficace, insomma quasi.
Magari è una scusa per poter scrivere all’aria aperta, confesso, è molto
più bello lasciar la mente libera fuori, piuttosto, anche la qualità delle
immagini se ne giova.
Non so se sia la fantasia che fa venire voglia di scrivere o se è lo stesso
scrivere che poi alimenta, favorisce o provoca la fantasia, la creatività, cioè
quello che manca alla maggior parte della gente e forse spaventa anche chi
preferisce una routine rassicurante, fatta di cose tutte uguali, tutti i
giorni, tutta la vita.
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