Lo conoscevo di vista, padre di amici,
amico di amici del giro di Piazza San Gennaro, ne avevo sentito
parlare in maniera pittoresca, a cominciare dal fatto che
era un non molto comune genitore, piuttosto goliardico, di undici figli.
Quando cominciò a frequentare il Caffè Voltaire familiarizzammo in poco tempo utile, distribuito in un arco più lungo di quello materiale, frazionato sia dell'alcool che dai tanti altri personaggi, non tutti positivi, che gravitavano in quelle notti di lavoro, ma anche di teatro contemporaneo.
Appassionato di jazz e di musica
brasiliana, non disprezzava certo un Bacharach o un Paolo
Conte. Al Caffè Voltaire faceva spesso richieste musicali, più
che altro sempre le stesse, con preferenza per un certo Art Van
Damme, virtuoso dei Paesi Bassi e della fisarmonica, arrivammo a
donargli la cassetta, che se l'ascoltasse con calma a casa, quante
volte volesse.
A trecentosessanta gradi era la nostra musica, nel senso della temperatura e del volume alto, ma anche dei generi diversi e opposti, dipendendo anche dagli orari. Le cassette le facevo io, registrando dai dischi in vinile, ma non erano tanto curate nei particolari, soprattutto le chiusure erano improvvise e troncate, a volte piuttosto rudemente.
Caramella shoccato da uno di
quei finali senza tanti complimenti, di
un'accorata performance di Tootsie Thielemans, altro virtuoso
dei Paesi Bassi e dell'armonica a bocca, sinceramente se
ne preoccupò, chiese più volte a Tutte, come lo chiamava
lui, cosa era successo, se si era fatto male, come stava
eccetera. Nell'improvviso silenzio musicale tutto il pubblico locale
sentì e rise.
Faceva amicizia con
tutti, ragazzotti di trenta o anche quarant'anni più
giovani, era sempre sorridente e scherzoso. Uno di quei clienti che
consumavano una birretta in tutta la serata, ma che ti faceva piacere
di vederlo lì spesso, non tutte le sere, ma quasi. Non si sedeva
mai, stava sempre al banco, dove un certo tipo di avventori insiste nell'avere
rapporti sociali anche con i baristi, camerieri o padroni del locale.
Era chiamato Caramella perché ne
aveva sempre una certa quantità in tasca da dare ai bambini.
La differenza di età per lui non
era affatto un ostacolo, anzi. Una volta lo
sentii dire a una nostra cameriera belloccia, Miranda, se lei lo
avesse guardato ammodino negli occhi, che lo avrebbe voluto sapere
perché lui - sennò - stava per andarsene. Lei rise e
la prese per quella che era, una dichiarazione d'amore, da uno che da
giovane doveva essere stato un rubacuori, ma gli piaceva ancora il gioco
della conquista, anche solo per scherzare, per un piacevole e falso
malinteso.
Da noi lavorava Victorinho e
Caramella ci attaccava discorso spesso, mentre lui passava carico di
vassoi pieni di bicchieri pieni e di bibite. Amava la
musica brasiliana ed era anche stato anche a visitare i suoi
parenti a San Paulo. Tutte le volte che aveva occasione lo presentava agli
altri, che lo conoscevano già più di lui, dicendogli: questo
è Victorinho, di Curitiba, dello stato del Paranà.
Riferisco dalle sue stesse parole il
rapporto stringato di una serata a casa di amici, erano lui e il
Serantoni, mi pare, altra figura notevole del quartiere. Avevano bevuto di
tutto e insieme, ma cominciava ad essere tarduccio, verso le due il suo amico
ospitante, la cui moglie era già andata a letto da tempo, andò in un’altra
stanza e si sentiva sbatacchiare e frugare nei cassetti da un po’, al che
Caramella, che è sempre stato un gentiluomo lo chiamò e gli disse:
“Guarda non ci devi rimanere male, ma
noi dobbiamo proprio andare via.”
Mi fa venire in mente la difficoltà
enorme, tutte le sere, per mandare via i clienti
ubriachi. Quella più grande l’ebbi con un - mai visto
prima, né dopo - signore di una certa età, con la sua innamorata di
circa la metà degli anni, al quale, dopo aver finito di fare le
pulizie con un aspirapolvere rumorosissimo e toltogli il
tavolino con tutto quello che c’era sopra, fu necessario dirgli più volte che
dovevamo proprio chiudere, che eravamo più di un’ora oltre l’orario
stabilito e permesso dalla legge.
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