Ho conosciuto pessimi, medi e formidabili raccontatori di barzellette, appartengo senz’altro alla prima categoria, perché mentre racconto, mi sento particolarmente imbranato e la mia confusione, in implacabile crescendo, arriva al suo zenit proprio al momento della frase finale a effetto. L’effetto delle mie barzellette, più che l’allegria, è l’imbarazzo.
Stranamente, però, con
le stesse mie peculiarità, mio cugino Remo, faceva scompisciare la gente e
forse lo fa ancora, solo che io l’ho perso di vista. L’ilarità che soleva
suscitare, non era dovuta alla genialità delle sue storielle, o alla sua
abilità descrittiva e scioltezza verbale. No, era piuttosto perché le
barzellette le raccontava così male, mischiandole tra di loro, sbagliando tutto
quello che c’era da sbagliare, con una decisa preferenza per i finali. Visto
che tutti ridevano, lui si è sempre considerato un buon raccontatore di
barzellette.
(Qui si dovrebbe
aprire una parentesi sulla comicità involontaria, ma è corta assai, perché chi
ne ha il talento, subito inizia a sfruttarlo, la comicità non è già più
involontaria e la parentesi si chiude.)
La battuta è una
facezia improvvisata, che viene fuori dalla bocca della persona, quasi per
caso, di conseguenza a quello che è stato detto o fatto in precedenza. La
barzelletta invece è una cosa preparata, che qualcun altro ci ha raccontato, o
l’abbiamo letta su un giornale.
Durante la nostra
lunga carriera di critici osservatori di difetti altrui, e di ostinati e
sistematici occultatori dei nostri, spesso ci è capitato di vedere serate tra
amici - compagni di lavoro, colleghi di scuole serali, tifosi sportivi,
iscritti a partiti politici e tante altre categorie - essere irrimediabilmente
guastate da inarrestabili raccontatori di barzellette, che non permettevano
altro tipo di conversazione e alla fine, malinconici più che mai, ce ne
andavamo tutti a letto, maledicendo l’universo intero e tutti i suoi abitanti.
Il ridere induce
l’organismo a produrre sostanze come ad esempio le betaendorfine, che attenuano
gli stimoli dolorosi e danno un generale senso di benessere. Le betaendorfine,
anche se le usiamo tutti i giorni, non le conosciamo a fondo, (oppure diciamo
che non le abbiamo mai sentite nominare,) ma sono lì e hanno la loro
importanza, lavorano per la nostra salute.
Inoltre il ridere
tutela il sistema immunitario perché combatte le sostanze tipiche prodotte
dallo stress, come il cortisone e l’adrenalina che a lungo andare logorano
l’organismo e abbassano le difese. Una certa dose di buon umore rappresenta una
barriera naturale dell’organismo contro i microbi, funzionando di fatto come un
vaccino universale.
Però ci vuole un senso
dell’umorismo ben temperato, per vedere il lato soleggiato della strada e per
camminarci più o meno costantemente, per noi umani non è una cosa naturale,
anzi lo è di più il contrario, lamentarsi e commiserarsi, ma bisogna prima
pensarci per tempo e poi, dopo, continuare a pensarci.
La vita è una
disciplina.
“E due vite sono una
disciplona” disse un nostro amico, costernato di fronte alle fisiologiche
difficoltà del rapporto giornaliero con la sua appena sposata mogliettina.
Naturalmente la colpa non era esclusivamente di lei, ma lui se ne accorse solo
dopo la tristezza della separazione, del divorzio e degli alimenti da pagare.
Il nostro amico non sapeva ancora che la cosa che distingue di più l'uomo dagli
animali, è proprio la capacità di diversificare la propria esistenza, per farlo
non la si può prendere troppo sul serio, bisogna saperci ridere sopra. Un
certo Carlos Castaneda ci parla della follia controllata.
Stiamo qui parlando
dell’uomo inteso come umanità e dell’animale inteso come facente parte di tutte
quelle altre categorie non vegetali e certo nemmeno delle pietre, magari
lasceremo fuori anche tutti gli organismi unicellulari. Ebbene sì, confessiamo
di non sapere esattamente cosa accade alle amebe, alle rocce e alle piante, ma
osserviamo che gli animali sono sempre seri, se hanno la bocca aperta e la
lingua fuori non significa che stiano ridendo, magari stanno solo respirando.
È provato
scientificamente che gli animali non sono affatto dotati di eccessivo senso
dell'umorismo, questo non significa che non ne abbiano, magari è solo diverso
da quello degli scienziati e dei sociologi, i quali, in alcuni casi, però anche
non ne hanno e non s'impegnano certo a farcelo sapere.
Osservarli di nascosto
è divertente, gli animali, probabilmente anche gli scienziati e i sociologi, ma
purtroppo non è tanto incentivato, né permesso dalle vigenti norme.
Limitiamoci allora a
dire che le nostre bestiole fanno le cose più buffe senza ridere, come i
cani quando si grattano le pulci, a volte ci accorgiamo che hanno pose umane
mischiate tra i gesti più animaleschi.
L’uomo si dimentica,
spesso e volentieri, che anche lui è una bestia, specie quando ha un vestito
perfettamente stirato e una cravatta che combina a meraviglia con la camicia, a
nostro parere diventa ancora più bestia, eppure la sua tendenza è considerarsi
piuttosto al contrario.
Intanto il mio cane si
vergogna un po’, mentre fa i suoi bisogni in giardino, mi guarda con le
orecchie basse, quasi come per scusarsi, ma non ne può fare a meno, è più forte
di lui. Deve proprio fare la cacca. Proprio come un comico che fa delle cose
assurdamente buffe, rimanendo completamente serio, fa ancora più ridere. Buster
Keaton aveva una faccia eternamente impassibile, Charlie Chaplin, nei film
muti, assai raramente faceva smorfie anche solo somiglianti a un sorriso,
allora rapido, ironico o ruffiano.
L'ironia è ridere
degli altri, l'umorismo è invece ridere con gli altri, dice Carlo M.Cipolla,
arguto storico e scrittore italiano.
E allora che cosa è la
comicità? Che cosa ci fa ridere, oppure no? Se siamo di buon umore, è
sufficiente venire a sapere che esiste uno che si chiama Carlo M.Cipolla. Però,
a cose normali, è più complicato, non c'è niente di più soggettivo. La tragedia
invece è una cosa che tutti capiscono e, in più, assai facilmente ci si
riconoscono e a volte ci si crogiolano anche piuttosto volentieri.
Secondo alcuni,
paradossalmente, anche chiamarsi Carlo M.Cipolla, può essere una tragedia, ma
non per tutti. Infatti lo storico in questione pare aver vissuto piuttosto
bene. La nostra personale opinione è che ci sono cose ben più comiche, come le
persone dalla mentalità rigida e che hanno sempre paura di cadere nel ridicolo.
La vita degli uomini,
in generale, è purtroppo portata all’esagerazione. C’è gente che si butta a
peso morto nel lavoro, altra gente che si butta a peso morto nell’alcool, ci
sono quelli che si buttano a peso morto nella droga, nel mangiare, nello sport,
nel sesso e così via. Insomma tutti si buttano a peso morto su qualcosa, si
direbbe che è una contagiosa tendenza comune a tutti gli umani viventi. I morti
ovviamente ci si sono già buttati in precedenza.
Il fatto è che noi
crediamo di ingannare gli altri, ma invece freghiamo noi stessi, come il medico
che dice ai pazienti di smettere di fumare e di bere, ma lui fa di peggio.
D’accordo, diciamocelo
dicendocelo: gli esseri umani si abbandonano sempre, volenti o nolenti,
all’esagerazione, non riescono a resistere, anzi: non ci provano nemmeno. Può
essere un’esagerazione di un qualcosa che ci piaccia, o di un qualcosa che ci
porti dei vantaggi, oppure, ancor più comunemente, un’esagerazione di un
qualcosa che anche gli altri fanno e questo non significa affatto che sia
vantaggioso o intelligente.
Abbiamo ragione di
credere che questo accada per un istinto di imitazione che tutti noi abbiamo,
che ha certo il suo bravo motivo di esistere, gli psicologi non si stancano mai
di spiegarcelo.
Certo che è difficile
capirne l’attuale utilità, nell’epoca moderna, ora che sfuggire a una
catastrofe naturale, o essere inseguiti da animali feroci, sono tra i pericoli
meno frequenti in cui ci troviamo, all’interno della nostra pallosa routine.
L’istinto di
imitazione era stato ideato e creato da Dio, o chi per Lui, ma poi avrebbe
potuto modificarlo o toglierlo, secondo noi, insomma è anacronistico e
obsoleto. Almeno si poteva regolarlo, fornire eventuali opzioni alternative,
invece di fare vista grossa e lasciarlo esattamente così, come migliaia di anni
fa, quando era indubbiamente utile ai cavernicoli, cioè quando le due uniche
opzioni erano cacciare o essere cacciati.
A questo proposito c’è
un robusto eppure sottile proverbio, originario di una zona dove si vive ancora
in maniera rustica, sulle Montagne Rocciose degli Stati Uniti: “A volte tu
mangi l’orso, altre volte è l’orso che mangia te.”
Insomma, per farvela
breve l’unico senso della vita è stare bene, ma per farlo bisogna continuarla.
Cosa c’è di più forte dell’istinto naturale e la conseguente propagazione della
specie? Pur ammettendo anche che la specie umana ci abbia già abbondantemente
scassato gli ammennicoli, è meglio volerle bene, perché, a volte per fortuna, o
più spesso purtroppo, ne facciamo sempre parte.
Allora cominciamo con
l’accettare di buon grado un fatto secondo noi incontestabile: questa storia
della felicità, gli uomini, intesi come umanità, l’hanno scoperta da
pochissimo. E da quel momento gli ha portato, più che altro, generose dosi
d’infelicità.
Se la sua vita fa
piuttosto schifo, l’uomo si lascia morire a poco a poco, con la depressione.
Oppure si ammazza subito per non perdere tempo. Per fare questo ci sono vari
metodi, più o meno efficaci, ma che se falliscono per un nonnulla, possono
rendere anche più tremenda quella stessa esistenza, che già non ci piaceva, con
invalidità di varie entità e grado, ad esempio, oppure pentimenti dolorosi e
inutili.
Per questo che noi
consigliamo di andarci piano, se uno proprio si vuole suicidare, è
consigliabile che lo faccia perbene, magari senza bersi una bottiglia di grappa
per prendere coraggio, perché ci vuole determinazione e lucidità anche in
questo.
Una volta non era
affatto così, la gente sapeva che doveva soffrire e lo faceva di buon grado,
insomma, non aveva alternative, o non sapeva di averne. Da quando hanno
scoperto la felicità, invece le cose sono diventate un po’ più complesse.
Perché la felicità è un po’ come la libertà o la democrazia, pure recenti
scoperte che sono sulla bocca di tutti, ma nessuno sa come sono fatte.
Certo la vita sarebbe
assai più grama, se non ci accorgessimo, un po’ prima della sua fine, che noi
non siamo affatto pecore, che questo seguire il gregge è triste, ma anche
comico, per fortuna. La vita è tragicomica, basta saperla osservare con dei
visori tridimensionali, allora sì che possiamo cercare di approfittare di
entrambi questi due lati, che possono magicamente saltarci agli occhi,
finalmente notare anche che fluttuano graziosamente in eterno squilibrio. Per
questo si consiglia di ridere, insomma proviamo magari a dosare il pianto, o la
disperazione, le grida di dolore. Cerchiamo di gioire di quello che abbiamo e
non pensare tanto a quello che ci manca, perché sempre ci mancherà qualcosa e
quello non deve impedirci di approfittare di ciò che possediamo.
Non ricordiamo proprio
chi abbia detto, non molto recentemente e non solo per farsi quattro risate,
che la comicità è tragedia più tempo. Un esempio: se noi filmiamo nostro zio,
l’appuntato dei Carabinieri Cosimo Casalabbate, mentre cerca affannosamente di
attaccare un quadro e si batte una feroce martellata su un dito, è meglio non
fargli vedere subito il video, sennò ci potrebbe dare una martellata anche
sulla telecamera. Allora abbiamo ragione di credere che sia meglio aspettare un
po’.
Qualche giorno dopo,
se non è un completo animale, nostro zio Cosimo sarà capace di vedere quel
filmato e di ridere della scena comica che ha interpretato involontariamente,
gridando e saltando per il dolore. Se non è un idiota, riderà perfino della
faccia disperata che ha fatto, dei sorrisi imbarazzati e addirittura delle
grasse risate degli altri, che al momento, invece, gli sono piaciute assai
meno.
Noteremo che il tempo
gli avrà dato la necessaria distanza, il giusto distacco per poter considerare
quella situazione senza soffrire, scorgendone finalmente il lato comico, oltre
quello tragico, di conseguenza dimenticato, allora passato a minore importanza.
Henri Bergson,
filosofo francese, disse che la comicità è la combinazione di distacco e
complicità. Il distacco è necessario per sorridere delle nostre cose, per
esempio se uno racconta una barzelletta sulle corna, rideranno tutti meno
quelli che hanno problemi con le mogli. Come abbiamo visto prima, il distacco
può essere anche dato dal tempo, ma non necessariamente o sempre.
La complicità spesso
si esprime in dialetto, o nel gergo popolare ed è perciò intraducibile, per cui
la complicità napoletana è assai diversa da quella milanese, come anche i
soggetti e le situazioni... e tutto questo senza uscire dalla nostra
stivaleggiante penisola.
In questo momento non
ricordiamo in quale lingua orientale ci siano due differenti parole, per
chiamare la risata dell’uomo e quella della donna. Il fatto notevole è che le
due cose siano considerate separate e differenti, non tanto da quale paese
provenga questa bizzarria del lessico.
Se leggiamo il primo
Cechov, inventore dei racconti corti, ci accorgiamo che abbiamo una
straordinaria familiarità con l'Ucraina di quei tempi remoti, ci pare di aver
sempre vissuto a Taganrog, e la Crimea, penisola sulla quale non abbiamo mai
messo piede, per noi non abbia segreti. È solo perché lui era un genio fottuto,
anche se non se ne accorse e con il tempo diventò sempre più triste e
malinconico, forse anche perché era malato di tubercolosi.
Ironia del destino:
spesso i comici sono persone tristi, a proposito, si dice che il fenomenale
Totò fosse uno che non usciva mai di casa e che era terrorizzato dall’ipotesi
che qualcuno lo invitasse a cena e, tacitamente
o meno, gli chiedesse di far divertire i
commensali. Cosa che poi succedeva di continuo, per cui lui cercava di
inventare ogni tipo di scusa, ma gli altri non riuscivano a crederci, pensavano
sempre che scherzasse e insistevano a oltranza.
Tornando al precedente
Anton Cechov, soprattutto nei primi tempi del suo scrivere, con poche
pennellate infallibili, ha avuto modo e capacità di farci saltare migliaia di
chilometri in un colpo solo, proponendoci le sue situazioni di tutti i giorni,
di quei luoghi e tempi a noi lontani e portandoceli di schianto a casa nostra.
Facendoci morire dal
ridere, ci ha fatto sentire più vivi. Ci ha fatto sentire sulla pelle che cosa
è la complicità. Riuscire a vedere la nostra vita con distacco ci può far
notare quanto esista anche l'aspetto umoristico in tutto quello che facciamo.
Il lato comico magari
lo notiamo di più negli altri, nelle situazioni di tutti i giorni, in tutto
quello che ci succede intorno, allora sentiamo la complicità con il mondo che
ci circonda. Non è facile scherzare proprio sulle nostre stesse tragedie, ma è
bene farlo, perché ci sembreranno meno terribili, allora sarà più facile
conviverci.
Un politico brasiliano
di qualche tempo fa, soprannominato il Barone di Itararè, noto soprattutto per
le sue frasi ironiche, disse che:
“Il senso dell’humour
è quella cosa che ti permette di spanciarti dal ridere di una situazione che se
capitasse a te, ti renderebbe furioso.”
A questo proposito,
abbiamo avuto modo di notare che la persona stressata è così presa dall’importanza
della tragedia spazio-temporale che sta vivendo, che non si accorge di
nient’altro, tantomeno del lato comico della routine. Non ne ha tempo e meno
ancora la voglia, non sa nemmeno di averne la capacità.
Basterebbe che si
calmasse, che si dimenticasse della sua furia ostinata e cieca, per riuscire a
venir fuori da quelle sabbie mobili, ma per via delle circostanze in cui si trova a
nuotare, non affogare è proprio la cosa più improbabile.
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