venerdì 20 ottobre 2023

TRA LA GERMANIA E IL BRASILE


 

Anche volendo a Berlino non ci sarei potuto rimanere, perché bisognava ritornare al Caffè Voltaire, dato per due anni in gestione a uno che se gli piaceva poi lo avrebbe comprato.

E non gli era piaciuto. 

Al ritorno dalla Germania diverse cose erano cambiate. Se in un primo momento mi ero assoggettato a starmene al Quercione dai miei, intravidi l'occasione appena venduto il Caffè Voltaire e me ne andai a vivere a Viareggio, nel loro piccolo appartamento, ma con un grande terrazzo, dove feci alcune feste prontamente rintuzzate dalla polizia, chiamata dai vicini.

Non capivo ancora, o ritenevo più opportuno ignorare, nella pratica quotidiana, che la mia libertà finiva dove cominciava quella degli altri, anche se erano dei vecchietti rincoglioniti. Se non altro perché un giorno io sarei diventato uno di loro e ora mentre scrivo non ci sono tanto lontano.

L'amicizia con Aldo fu riallacciata, anche se ci vedevamo raramente, lo stesso quella con Martino, ma quella con Rinaldo no, forse era ancora presto.

Usai per un buon tempo la macchina da scrivere di mio padre, una Olivetti. Chissà se ora gli piacerebbe quello che faccio ora, a quel tempo no. Si sforzava invano di cercare di capire cosa significava, ma non è stato per caso che io abbia pubblicato i miei primi libri solo dopo la sua morte. Temevo troppo il suo giudizio, il suo pessimismo mio malgrado un po’ ereditato, come stile di vita.

Nel 1991 iniziai a scrivere con il computer di mio fratello Umberto, mi ero appena lasciato da una delle mie ragazze più durevoli, avevo abbastanza tempo di giorno, di notte lavoravo al Caffè Voltaire. A Viareggio comprai un portatile usato che durò pochissimo, ma stavo scrivendo anche quasi niente.

Quando partii militare ero un sempliciotto ingenuo, dieci anni dopo non ero certo un filosofo, ma iniziavo a capire che una certa disciplina nella vita è necessaria.

Ero andato a vivere, prima a Lucca, poi a Berlino, poi ero ritornato a casa, nel giugno del 1989, l’anno in cui cadde il Muro, ma già a novembre non ci resistevo più.

Per tanti anni con i vecchi amici dell’infanzia non mi sono incontrato, nemmeno per caso.

Roberto perse quasi subito il suo lavoro di meccanico alla Peugeot, a suo tempo fallita, ma secondo me è stata la sua fortuna, perché si è messo a fare il falegname con suo padre, ereditandone anche il soprannome: l’impiegato.

(Si narra che il padre, bell’uomo di poche parole, mentì alla sua amante che era un impiegato, forse anche statale, insomma un tipo stabile, uno stipendio sicuro.)

Allora ha fatto una vita libera, unico operaio-padrone della sua ditta, proprietario del suo naso, come si dice in Brasile. Di falegnami in Italia ce ne sono rimasti sempre più pochi e se volevi riparare qualcosa dovevi aspettare, lui non ha mai avuto eccessiva fretta e da poco è andato in pensione contento.

Girolamo aveva preso un ristorante a Canaiola, sulle colline e ci andavo spesso. Lì c'era una cameriera, Mariana, con la quale cominciò una storia tra le più importanti, solo che me ne resi conto dopo. Sarei potuto rimanere con lei per sempre, mi ci trovavo bene, ma era proprio su me stesso che non potevo contare, ero troppo ribelle anche per un rapporto a due, per lo meno come veniva comunemente inteso.

Rinaldo ha mantenuto fino ad andare in pensione il suo lavoro alla pressa, per fare suole e tomaie per una piccola fabbrica di scarpe. Ha fatto per un po’ di tempo i mercatini nei fine-settimana, comprando e vendendo orologi per varie città italiane.

Mauro era socio in una palestra a Pontecchio essendo professore di ginnastica. Martino era al Club Campagna di Apparso, vicino al confine del territorio di Lucca. Faceva il factotum, dalla reception alla cucina, dalla piscina al maneggio, Marzio forse stava facendo un corso negli Stati Uniti. Lui e Aldo si erano laureati in Veterinaria, se non sbaglio.

In un periodo non precisato per rimorchiare certe ragazze, dicevo anch’io che ero all’università, invece stavo lavorando. Principalmente nell’epoca delle vacanze estive a Bibbona, insieme ad Aldo, che mi diceva cosa dovevo raccontare, degli esami e cose del genere.

 

 

MIO PADRE

 

Mi pento e mi dolgo di aver - seppur di nascosto - preso in giro mio padre per la sua scarsa affinità con i berretti, ma forse dovrei dire berette, come si dice a Marilia e in tutto il Capannorese. La mia somiglianza anche caratteriale (non direi fisica, forse solo nella faccia, perché io sono molto più alto e lui era assai meno atletico) si è accentuata con il passare degli anni e la forma della testa, da ovale… a molto ovale. Quindi sempre meno combina con le berette di ogni tipo e la maledizione, forse anche per colpa mia, mi ha colpito. Ora ogni tipo di copricapo mi sta male e qualcuno peggio.

Mio padre guardava Derrick tutte le sere alle diciannove, alla stessa ora poi c’è stato un altro tedesco, più simpatico, che di faccia assomigliava assai a papà e portava degli occhiali simili a due piazze, da mafioso fuori moda, il commissario Köster. Il Maresciallo Rocca c’è stato più tardi, e poi era solo una volta alla settimana, e quello lo guardava anche mamma, per via di Gigi Proietti, che a Viterbo, in mezzo a sistematiche tragedie purtroppo umane e a volte perfino disumane, non perdeva il suo buonumore e trovava la maniera di fare delle battute come questa:

“Lo sai perché i gatti quando li accarezzi sulla schiena alzano la coda?”

“No, perché?”

“Per avvisare: fine der gatto!”

Mio padre è morto nel 1996, non ha fatto in tempo a venirmi a trovare in Brasile, né a vedere il Commissario Montalbano, che è stato trasmesso solo a partire dal 1999, ma ho motivo di credere che gli sarebbe piaciuto.


 

 

COME INIZIAI A FARE L’INDIANO

 

Nel 1993 le vacanze in India mi hanno portato una finestra nuova, che ho scavalcato immediatamente. La non competitività era una cosa che ne spiegava tante altre ed era molto più pratica e intelligente di tutto quello che avevo provato e vissuto nel mondo occidentale, competitivo su tutto e per tutto, anche quando non ce n'era nessuna utilità. Un sistema di vita troppo diffuso, quanto inefficace e frustrante.

Si pensa che l’uomo debba rincorrersi la coda, sennò s’impigrisce e non produce. Forse è anche vero, con alcune persone, ma molte altre si accodano, vanno dietro a qualcosa che non capiscono, ma si adeguano. Tutta questa produzione è fine a sé stessa, per stare bene sono necessarie altre cose, che invece si perdono di vista sempre di più.

Non era passato molto tempo dalla fine della prima Guerra del Golfo, noi tre avevamo preso un volo che faceva scalo nel Kuwait; per questo eventuale rischio, costava molto meno e in più, dall’alto, si potevano vedere ancora i pozzi bruciare e tanti i crateri delle bombe.

Mi trovavo in viaggio per l’India insieme a un mio amico, Dino e a sua moglie, appena usciti da un centro di riabilitazione per tossicodipendenti.

Facemmo vita di albergo in un sedicente quanto decadente hotel di Connaught Place di Nuova Delhi, che, secondo Dino, significava girare per le camere di amici e/o conoscenti e farsi ripetute canne, o sennò chilum, insomma bonghetti e cose di questo genere, che quindici giorni mi parvero una manciata di secondi.

 Fummo invitati da questo signore di cui non ricordo, date le nostre meravigliose pratiche religiose, né il nome vero, né quello fittizio indiano. Non ascoltavo neppure, se ben mi rammento, quando loro parlavano, assai assorbito com’ero dal pulsare dei colori, degli oggetti, delle persone e animali che andavano e venivano dentro di quello che pareva un sogno, con i ricordi e i pensieri connessi e mischiati, passato, presente e futuro... ma in maniera piacevole. Da notare la squisita persona del guru in questione, seduto sul letto, ma non nella posizione del loto, come ci si potrebbe altrimenti immaginare.

Durante quella lunga conversazione, per accompagnare gli additivi fumiganti e preparati dal mio amico, non mosse mai un muscolo che non fossero quei pochi della bocca, ma anche quelli, devo dire mio malgrado, il minimo possibile per parlare, eppure in maniera armoniosa e naturale.

Certo, senza essere visti, si muovevano pure qualche timpano e relativi ossicini appositi all’udito, dentro alle sue orecchie, ma lui era assolutamente rilassato e lo si capiva dal fatto che se ne stava lì completamente immobile, senza magari ruotare gli occhi intorno, per esempio.

Noi tre invece no: i nostri corpi non si fermavano un secondo, in aggiunta alle nostre instancabili pupille, sgambettavamo come bambini, la cui energia traboccante non poteva proprio essere placata.

Questo sacerdote indù di religione, ma romano di origine, anche dopo le ripetute e per noi devastanti fumate, sembrava sorprendentemente uguale a prima, mentre noi eravamo stravolti e sudati come tacchini allo spiedo.

Con quel guru lì, mi resi conto, faceva bene a tutti parlare, anche solo guardare e essere guardati, come avevo fatto io per qualche volta, anche nei giorni seguenti, senza proferire troppe parole.

Faceva bene specialmente alla gente stressata che era abituata a gesticolare, come comitiva di mulini a vento impazziti, a strizzare gli occhi e ad avere tic nervosi a profusione, senza farci troppo caso e potersi controllare in minima parte.

Quando parlavi tu, lui ti ascoltava con interesse, senza interromperti, che è una cosa rara al mondo, quando parlava lui, ti veniva da ascoltarlo veramente, le cose che diceva erano belle e semplici, in più le accompagnava con una faccia che combinava pure.

A proposito di gente forsennata, incontrammo un’italiana fuori di testa, assai atteggiata a profonda e calma meditatrice, ma nervosa e tesa come una corda d’arco.

Questo però fu dopo, a Benares, detta anche Varanasi, Vanarasi, Banaras, Baranas più un’altra decina di nomi simili e graziosamente anagrammati, che poi è un’unica e famosa città sacra sul Gange, pure fiume sacro, dove gli indiani vengono da lontano per morire e ogni tanto si vede qualche cadavere a sedere ritto, in decomposizione avanzata, passare sulle acque limacciose.

Loro quell’acqua lì se la bevono anche, sono diffuse a livello endemico malattie come epatite B, tifo e colera. Noi di fuori non possiamo bere l’acqua del rubinetto, solo in bottiglia e non ci si deve azzardare a mangiare verdure crude.

 Avevo saputo, che questa ragazza, all’ingresso del centro di preghiera sulle pendici dell’Himalaya che loro frequentavano periodicamente, non era stata neppure lasciata entrare, giacché poteva influenzare gli altri con i suoi vari e intermittenti attacchi d’ansia, tic, scatti e movimenti convulsi.

Avrebbe certo potuto intaccare e danneggiare il sistema di pace e orazioni calate in una dimensione di meravigliosa e giusta fuga dal mondo occidentale.

Una volta, in Italia, almeno una decina di anni prima, sono stato una settimana in un appartamento del litorale toscano durante l’inverno, avevo fatto la spesa, non c’era nessuno e io volevo scrivere.

Dopo sette giorni senza parlare, tornando verso casa, mi sono fermato a fare rifornimento per la mia Renault 5.

Quando è arrivato il benzinaio, per qualche lunghissimo secondo, non sono riuscito a parlare, mi pareva di essere diventato muto, mi sono anche spaventato... poi, un poco alla volta, quasi come se fossero state anchilosate, informicolite e appiccicate l’una all’altra, sono uscite faticosamente le prime parole.

Insomma mi ha fatto riflettere questo fottutissimo guru romano, al quale avevano imposto un anno di silenzio, per raggiungere la sua calma interiore, per poi diventare un sacerdote del Buddha. Non deve essere stato facile, sebbene io non sia tra gli esseri umani più loquaci, non credo che ci sarei riuscito. Quello che rappresentava era forse l’opposto di questo rumorosissimo mondo occidentale, dove tutti parlano e nessuno ascolta.

Per chi non lo sapesse, c’è da dire che, in India, i sopracitati additivi hanno una funzione preparatoria per le cerimonie dei sacerdoti e relativi devoti. Però al ritorno a Lucca rimasi seduto sul vaso sanitario per un mese.

 

 

CUOCHI

 

Ho letto da qualche parte che lo scrivere è un'attività dissociativa, più che unire separa la gente. Ignari si comincia a battere sui tasti, mitragliando vocali e consonanti e ce ne andiamo via col proprio cervello e cuore, da un'altra parte, non importa dove. Eppure, da quando scrivo, mi sento coi piedi per terra, ben piazzato nel mezzo di questa realtà instabile e confusa del mondo moderno. Se a volte m’inceppo per qualche mese, poi inevitabilmente riparto.

Qua in Brasile, ho pubblicato due libri e un CD multimedia, in lingua italiana, guadagnando anche un qualcosetta di soldi, cioè ho rintuzzato le spese. Conosco gente di tutti i tipi e di varie nazionalità, ho una lista di una cinquantina d'indirizzi e-mail. Mando quello che scrivo, ansiosamente, che a volte non è ancora terminato, attraverso l'internet. So che dall'altra parte del filo l'ansia non è la stessa, la gente deve lavorare e darsi da fare per tante altre cose.

Tanti non hanno l'abitudine di leggere, alcuni non ne hanno la forza, la sera, dopo il lavoro, nei fine-settimana hanno tante altre cose arretrate da sbrigare. Tra tutti i miei potenziali lettori sparsi per il mondo, mi sono reso conto che la categoria più rappresentata è quella dei cuochi, pure quasi sempre italiani e non molto avvezzi alla posta elettronica.

Un italiano che vuol viaggiare, ha un grande vantaggio, rispetto - per esempio - a un inglese: può adottare il ristorantino tipico come base logistica onnipresente. Non saprei dire dove non ce ne sono e anche se lo sapessi, magari, in questo momento ce ne starebbero costruendo uno o due a tradimento.

A Berlino, dove ho conosciuto questo cuoco, involontario protagonista della storia, nel 1988, ce ne erano la bellezza di 800, ma non tutti erano gestiti da italiani.

Ho visto con i miei occhi e perfino assaporato specialità di ristoranti italiani mandati avanti da turchi, libanesi, egiziani e altri popoli, avi con i baffetti di siciliani, calabresi e napoletani... e nemmeno tutti mediterranei. Ho lavorato per qualche tempo come cameriere e barista, in Italia e fuori, diciamo abbastanza da non volerlo fare più. Meno ancora come lavapiatti, pizzaiolo o aiuto cucina, perché là dentro c'è troppo caldo e ci si stressa pure con la spesso necessaria velocità del servizio. Tra i cuochi ho conosciuto veramente persone piene di energia, un po' fuori di testa, d’accordo, ma gente assai gradevole, forse perché intelligente e imprevedibile.

Ero bambino che non andavo ancora a scuola, la prima volta che ho visto un cuoco vero, con il berretto bianco a fungo in testa e tutto, nel ristorante lucchese chiamato Stipino: stava urlando ed inseguiva un cameriere con un coltellone in mano.

Dieci anni fa, sempre dentro una cucina, mi sono imbattuto in questo giovinottone dell'entroterra lombardo. Vive viaggiando di qua e di là, approfittando di quel fatto che ho già accennato, per il quale un esperto di culinaria italiana ha garanzie di lavoro ovunque nel mondo. L'ho ribattezzato Giuliano Contoni, per non insospettirlo alle prime pagine e corrisponde a uno degli indirizzi di e-mail della mia lista.

Il fatto è che, un po' di tempo fa, dopo aver bevuto e mischiato troppi e differenti alcolici, ho avuto l'assurda idea di attaccarmi al computer. L'ho fatto senza saperne nemmeno il perché, magari per scrivere qualche frase sghemba, in un racconto, che poi avrei corretto con calma o proprio cancellato del tutto, nei giorni successivi.

Invece no: ho scritto e mandato un’e-mail di protesta contro i miei lettori virtuali, visto che elettronicamente non mi spedivano più pareri e apprezzamenti, critiche o elogi. Con tono indignato e amareggiato, gli comunicavo che mi pareva che lavorassero troppo, e, tra una cosa e l'altra, ho cercato di scuoterli dal loro torpore, con la migliore delle intenzioni, mi sembrava. Ho dichiarato con la mano sul cuore che li immaginavo come in una situazione in cui la gente di questo mondo globalizzato s'infila nel tunnel della routine e non vede né sente più niente di quello che non ne fa parte.

Alla fine concludevo, comunicando a tutti che era facile cancellarsi dalla mia lista, se stavo disturbando la loro vita prefabbricata, mandandogli manoscritti inutili, da cestinare virtualmente, bastava indirizzarmi un’e-mail con la chiara volontà di uscire da quel giochino del menga ed io li avrei tolti.

La lettera era da considerarsi ridicola, visto che il nostro tipo di rapporto era sempre stato del tipo di massima libertà, dato che nessuno aveva firmato un contratto, nessuno pagava e ognuno poteva fare quello che voleva.

Il giorno dopo, riletto il contenuto e la forma di quell'appello disperato, da moderna sceneggiata napoletana, me ne sono pentito. 

Era troppo tardi, però in seguito, tra le risposte, ho ricevuto delle frasi tanto sincere quanto inaspettate. Era forse quello che volevo quando, trascinato dall'alcool, inconsapevolmente li avevo provocati con quel lamento di sconfinata solitudine letteraria?

Probabilmente sì.

C'era gente che diceva che stavo esagerando e aveva ragione, ma questa non era la parte più interessante. Altri dicevano che li leggevano, i racconti, anche se non tutti, o che non avevano tempo, uno rivelò che l'ultimo mio poliziesco era stato troppo lungo e aveva rotto il ritmo, c'era stato poi un periodo seguente che avevo scritto e distribuito troppa roba e... insomma era stato difficile starmi dietro.

Avrò ricevuto una decina di e-mail di risposta, se ben mi ricordo, non tantissimi... però, tra tutti, proprio quello di Giuliano mi colpì. Perché disse di non fare scherzi, che non potevo assolutamente sospendergli l'invio di quei racconti, giacché li spacciava per suoi e lo aiutavano a conquistare una ragionevole porzione di ragazze. A dire la verità lui usava un termine che forse non dovrei citare qui, ma visto che sto facendo un racconto interattivo, basato sull'assoluta veridicità dei fatti, anche nei particolari, lo dirò.

Giuliano dichiarava che i racconti gli servivano per beccare le tardone. Naturalmente la cosa m'intrigava, perché significava che avevo un certo tipo di lettrice che non sapevo di avere. In Italia le tardone abbondano, per motivi di cultura o per la sua mancanza, per via della globalizzazione o per snobismo, per mancanza di opzioni e di uomini autenticamente maschi, per esuberanza di embrioni femminili e di stress.

Se da una parte l'attitudine dissociativa dello scrittore in generale è effettiva e veritiera - come nel mio caso, almeno per quanto riguarda l'evasione - dall'altro lato pareva proprio che associasse, invece. E se quelle creature di sesso femminile apprezzavano i miei racconti, era segno che là dentro c'era della vita, della voglia di comunicare... oppure anche piuttosto il contrario e loro erano delle sempliciotte e io peggio di loro e Giuliano manco a parlarne?

Comunque fosse, era una cosa che m'incuriosiva.

Giuliano ed io, a Berlino qualche volta uscivamo per farci una birretta o due, e proprio non mi ricordo niente di quello che ci dicevamo, ma ci divertivamo ed era quello che contava. 

Non lo vedo da almeno una quindicina d'anni. In seguito a questa sua straordinaria rivelazione, comunque, gli ho chiesto dei chiarimenti, che ha ignorato come già m'aspettavo, non ho insistito. A dire la verità, non c'è quasi nessuno, tra i miei amici italiani, che risponde alle domande che gli faccio per e-mail.

E poi mi sono trovato spesso a pensarci, a Giuliano e alla sua sorprendente e piacevole rivelazione, a cercare di capire, a distanza, la meccanica delle sue tattiche. Non è mai stato un lettore assiduo, proprio per via del suo lavoro massacrante e dell'hobby dello svuotare i bicchieri. Lui, ne sono quasi certo, li stampa e li sfoglia distrattamente, prima di passarli sghignazzando, tra sé e sé, alle sue vittime.

Ecco che ho pensato che magari potevo saperne di più, perciò ho iniziato a scrivere questo raccontino truccato, apparentemente uno di quelli in cui parlo di tante cose, per alcuni interessanti, per altri no e per certi occhi stanchi, a volte, una barba insopportabile. Verso la fine, avendo già abbondantemente annebbiato gli sguardi esausti o ubriachi di Giuliano Contoni, apro il gioco, dico che lui è un bravo ragazzone, pure di buona famiglia, un buon partito e tutto... ma che, per quanto ne sappia io, al massimo è capace di scrivere la lista della spesa del ristorante.

Attraverso queste stesse pagine mi metto a disposizione per parlare con queste mature ragazze, per qualsiasi informazione a riguardo del nostro astuto burlone, discussioni letterarie incluse. Lascio il mio indirizzo e-mail bardoni camuffato in mezzo alle parole, chiocciola, così che lo possano terra. copiare e com. br usare. 

Il fatto che io non abiti in Italia e che staziono da decenni in un luogo lontano e perduto, nel sud del Brasile più meridionale, le dovrebbe aiutare ad aprirsi con me, spiegarmi magari che cosa gli piace o cosa non gli piace nei miei racconti, fare qualche critica costruttiva, qualche mordace distinzione o interessante scoperta di difetti.

Non è neppure da escludersi che il cuciniere in questione, mosso e/o commosso dalle conseguenze della mia iniziativa, si faccia vivo personalmente, via e-mail, per ringraziarmi o per mandarmi affanculo.

 


SOSIA

 

Quando sono andato a vivere a Viareggio mi sono sorpreso a vedermi salutare per strada, al supermercato, o in un bar da gente che io non avevo mai visto. Essendo molto fisionomista ero sicuro di non sbagliarmi, erano loro che mi scambiavano per qualcun altro. C’era un mio sosia, forse qualcuno che mi assomigliava parecchio.

Mi era già successo che mi scambiassero per qualcun altro, per una effettiva ma a volte neanche troppo forte somiglianza, come quella al portiere dell'Inter Zenga, in una certa epoca in cui lui era famoso e avevamo anche lo stesso taglio di capelli a caschetto.

Un'altra volta, molto tempo dopo, mi hanno preso per Sarri, che a quel tempo allenava la Juventus, al ristorante Prato Verde di Chiatri, perché oltre alla approssimativa somiglianza, portavo degli occhiali simili ai suoi e anche il taglio di capelli assai corti era di quel tipo, la barba un po' incolta eccetera.

Però stavolta vivendo in una città dove non avevo mai vissuto, varie persone mi hanno scambiato per qualcuno che evidentemente abitava in quella stessa città, cioè Viareggio. Ho provato allora a capire chi fosse, ma non ci sono riuscito. La situazione mi incuriosiva e allora ho pensato di parlare con quelli che mi salutavano, di chiedere chi fosse quel signore che loro credevano che io fossi ma non ero.

Solo che le prime volte ero troppo sorpreso per farlo e le seconde volte non ci sono state proprio, non vivevo già più a Viareggio.

Non è che non avessi niente da fare, anzi il mio lavoro di giardiniere era complicato, nel senso che era assai faticoso e in più dovevo farmi con la mia Panda venti chilometri di andata e venti al ritorno. A San Michele di Moriano c'era questa villa antica acquistata da uno di Milano, ma non lavoravo tutti i giorni, mi chiamavano quando c'era bisogno. Sabato sera e domenica pure, fatti i soliti quaranta chilometri tra andata e ritorno, facevo il cameriere alla Barcarola, ristorante-pizzeria di Monte San Quirico.

Il bello o il brutto era che negli ultimi tempi, finché ero rimasto a Lucca, ero stato disoccupato. Quei due lavori li avevo trovati, manco a farlo apposta, appena ero andato a vivere a Viareggio.

 

 

MECCANISMI


Nel vecchio continente non ho mai avuto la pazienza di rileggere e correggere, di terminare qualcosa che valesse la pena, in qualche modo c’è bisogno di una maturità, forse mai trovata completamente, ma migliorata assai in Brasile.

Queste case ordinate, con i giardini che sembrano di plastica, queste automobili nuove e appena lavate, questa gente vestita così in maniera impeccabile, le donne agghindate come se andassero all'opera, ma invece vanno in bicicletta all'alimentari a comprare due salsicce e un pezzo di pecorino.

A qualcuno tutto questo piace, ma a me no, e non mi è mai garbato, anche quando affannosamente cercavo di vestirmi meglio e di sembrare diverso da come ero.

Il senso di tutto questo mi è sempre sfuggito, mi sentivo anche in colpa, ma ora capisco che avevo ragione. Naturalmente questo mi allontana dagli altri, che cercano di assomigliarsi il più possibile, di omologare la propria vita a quella dalla gente attorno. Mentre io cerco di sfuggire a questi meccanismi assurdi, eppure anche troppo logici e umani.

Ebbene sì, ho cercato anch'io di essere normale, ma non mi è riuscito, non perché fosse oltre le mie capacità… o magari sì, non sono stato capace di essere falso, di vivere secondo un canone prestabilito e sono stato me stesso sempre, più o meno fin dall'inizio della mia vita di nicchia. Proprio per questo la mia storia e la mia geografia non potevano portare a un successo qualunque, tra quelli comunemente intesi, poiché non mi piacevano.

La realtà mi è sempre sembrata stretta, ma a volte anche troppo larga, allora sentivo il bisogno di uscire, di astrarmi, di evadere insomma e ho cominciato a scrivere. D'accordo: non volendo sono stato più originale, ma ho seguito anch'io dei canoni prestabiliti.

Magari ne avevo la vocazione, da piccolo scrivevo dei pensierini curiosi, poi dopo dei temi che venivano letti alla classe. Da militare i miei primi romanzi di formazione, delle boiate insulse, mi ci divertivo, perché avevo la necessaria immaginazione per trasferirmi in quelle situazioni.

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