E non gli era piaciuto.
Al ritorno dalla Germania diverse cose erano cambiate.
Se in un primo momento mi ero assoggettato a starmene al Quercione dai miei, intravidi
l'occasione appena venduto il Caffè Voltaire e me ne andai a vivere a Viareggio,
nel loro piccolo appartamento, ma con un grande terrazzo, dove feci alcune
feste prontamente rintuzzate dalla polizia, chiamata dai vicini.
Non capivo ancora, o ritenevo più opportuno ignorare, nella pratica quotidiana, che la mia libertà finiva dove cominciava quella degli altri, anche se erano dei vecchietti rincoglioniti. Se non altro perché un giorno io sarei diventato uno di loro e ora mentre scrivo non ci sono tanto lontano.
L'amicizia con Aldo fu riallacciata, anche se ci
vedevamo raramente, lo stesso quella con Martino, ma quella con Rinaldo no,
forse era ancora presto.
Usai per un buon tempo la macchina da
scrivere di mio padre, una Olivetti. Chissà se ora gli piacerebbe quello che
faccio ora, a quel tempo no. Si sforzava invano di cercare di capire cosa
significava, ma non è stato per caso che io abbia pubblicato i
miei primi libri solo dopo la sua morte. Temevo troppo il suo giudizio, il suo
pessimismo mio malgrado un po’ ereditato, come stile di vita.
Nel 1991 iniziai a scrivere con il computer
di mio fratello Umberto, mi ero appena lasciato da una delle mie ragazze più
durevoli, avevo abbastanza tempo di giorno, di notte lavoravo al Caffè
Voltaire. A Viareggio comprai un portatile usato che durò pochissimo, ma stavo
scrivendo anche quasi niente.
Quando
partii militare ero un sempliciotto ingenuo, dieci anni dopo non ero
certo un filosofo, ma iniziavo a capire che una certa disciplina nella vita è
necessaria.
Ero
andato a vivere, prima a Lucca, poi a Berlino, poi ero ritornato a casa, nel
giugno del 1989, l’anno in cui cadde il Muro, ma già a novembre non ci
resistevo più.
Per tanti anni con i vecchi amici
dell’infanzia non mi sono incontrato, nemmeno per caso.
Roberto perse quasi subito il suo lavoro di
meccanico alla Peugeot, a suo tempo fallita, ma secondo me è stata la sua
fortuna, perché si è messo a fare il falegname con suo padre, ereditandone
anche il soprannome: l’impiegato.
(Si narra che il padre, bell’uomo di poche
parole, mentì alla sua amante che era un impiegato, forse anche statale,
insomma un tipo stabile, uno stipendio sicuro.)
Allora ha fatto una vita libera, unico operaio-padrone
della sua ditta, proprietario del suo
naso, come si dice in Brasile. Di falegnami in Italia ce ne sono rimasti
sempre più pochi e se volevi riparare qualcosa dovevi aspettare, lui non ha mai
avuto eccessiva fretta e da poco è andato in pensione contento.
Girolamo aveva preso un ristorante a Canaiola, sulle
colline e ci andavo spesso. Lì c'era una cameriera, Mariana, con la quale
cominciò una storia tra le più importanti, solo che me ne resi conto dopo.
Sarei potuto rimanere con lei per sempre, mi ci trovavo bene, ma era proprio su
me stesso che non potevo contare, ero troppo ribelle anche per un rapporto a
due, per lo meno come veniva comunemente inteso.
Rinaldo ha mantenuto fino ad andare in
pensione il suo lavoro alla pressa, per fare suole e tomaie per una piccola
fabbrica di scarpe. Ha fatto per un po’ di tempo i mercatini nei fine-settimana, comprando e vendendo orologi per varie città italiane.
Mauro era socio in una palestra a
Pontecchio essendo professore di ginnastica. Martino era al Club Campagna di Apparso,
vicino al confine del territorio di Lucca. Faceva il factotum, dalla reception
alla cucina, dalla piscina al maneggio, Marzio forse stava facendo un corso
negli Stati Uniti. Lui e Aldo si erano laureati in Veterinaria, se non sbaglio.
In un periodo non precisato per rimorchiare
certe ragazze, dicevo anch’io che ero all’università, invece stavo lavorando.
Principalmente nell’epoca delle vacanze estive a Bibbona, insieme ad Aldo, che
mi diceva cosa dovevo raccontare, degli esami e cose del genere.
MIO PADRE
Mi pento e mi dolgo di aver - seppur di nascosto -
preso in giro mio padre per la sua scarsa affinità con i berretti, ma forse
dovrei dire berette, come si dice a Marilia e in tutto il Capannorese. La mia
somiglianza anche caratteriale (non direi fisica, forse solo nella faccia,
perché io sono molto più alto e lui era assai meno atletico) si è accentuata
con il passare degli anni e la forma della testa, da ovale… a molto ovale.
Quindi sempre meno combina con le berette di ogni tipo e la maledizione, forse
anche per colpa mia, mi ha colpito. Ora ogni tipo di copricapo mi sta
male e qualcuno peggio.
Mio padre
guardava Derrick tutte le sere alle diciannove, alla stessa ora poi c’è stato
un altro tedesco, più simpatico, che di faccia assomigliava assai a papà e
portava degli occhiali simili a due piazze, da mafioso fuori moda, il
commissario Köster. Il Maresciallo Rocca c’è
stato più tardi, e poi era solo una volta alla settimana, e quello lo guardava
anche mamma, per via di Gigi Proietti, che a Viterbo, in mezzo a sistematiche
tragedie purtroppo umane e a volte perfino disumane, non perdeva il suo
buonumore e trovava la maniera di fare delle battute come questa:
“Lo
sai perché i gatti quando li accarezzi sulla schiena alzano la coda?”
“No,
perché?”
“Per
avvisare: fine der gatto!”
Mio
padre è morto nel 1996, non ha fatto in tempo a venirmi a trovare in Brasile,
né a vedere il Commissario Montalbano, che è stato trasmesso solo a partire dal
1999, ma ho motivo di credere che gli sarebbe piaciuto.
COME
INIZIAI A FARE L’INDIANO
Nel 1993 le vacanze in India mi hanno
portato una finestra nuova, che ho scavalcato immediatamente. La non
competitività era una cosa che ne spiegava tante altre ed era molto più pratica
e intelligente di tutto quello che avevo provato e vissuto nel mondo
occidentale, competitivo su tutto e per tutto, anche quando non ce n'era
nessuna utilità. Un sistema di vita troppo diffuso, quanto inefficace e
frustrante.
Si pensa che l’uomo debba rincorrersi la
coda, sennò s’impigrisce e non produce. Forse è anche vero, con alcune persone,
ma molte altre si accodano, vanno dietro a qualcosa che non capiscono, ma si
adeguano. Tutta questa produzione è fine a sé stessa, per stare bene sono necessarie
altre cose, che invece si perdono di vista sempre di più.
Non era passato molto tempo dalla fine
della prima Guerra del Golfo, noi tre avevamo preso un volo che faceva scalo
nel Kuwait; per questo eventuale rischio, costava molto meno e in più, dall’alto,
si potevano vedere ancora i pozzi bruciare e tanti i crateri delle bombe.
Mi trovavo in viaggio per l’India insieme a
un mio amico, Dino e a sua moglie, appena usciti da un centro di riabilitazione
per tossicodipendenti.
Facemmo vita
di albergo in un sedicente quanto decadente hotel di Connaught Place di
Nuova Delhi, che, secondo Dino, significava girare per le camere di amici e/o
conoscenti e farsi ripetute canne, o sennò chilum, insomma bonghetti e cose di
questo genere, che quindici giorni mi parvero una manciata di secondi.
Fummo
invitati da questo signore di cui non ricordo, date le nostre meravigliose
pratiche religiose, né il nome vero, né quello fittizio indiano. Non ascoltavo
neppure, se ben mi rammento, quando loro parlavano, assai assorbito com’ero dal
pulsare dei colori, degli oggetti, delle persone e animali che andavano e
venivano dentro di quello che pareva un sogno, con i ricordi e i pensieri
connessi e mischiati, passato, presente e futuro... ma in maniera piacevole. Da
notare la squisita persona del guru in questione, seduto sul letto, ma non nella
posizione del loto, come ci si potrebbe altrimenti immaginare.
Durante quella lunga conversazione, per
accompagnare gli additivi fumiganti e preparati dal mio amico, non mosse mai un
muscolo che non fossero quei pochi della bocca, ma anche quelli, devo dire mio
malgrado, il minimo possibile per parlare, eppure in maniera armoniosa e
naturale.
Certo, senza essere visti, si muovevano
pure qualche timpano e relativi ossicini appositi all’udito, dentro alle sue
orecchie, ma lui era assolutamente rilassato e lo si capiva dal fatto che se ne
stava lì completamente immobile, senza magari ruotare gli occhi intorno, per
esempio.
Noi tre invece no: i nostri corpi non si
fermavano un secondo, in aggiunta alle nostre instancabili pupille,
sgambettavamo come bambini, la cui energia traboccante non poteva proprio essere
placata.
Questo sacerdote indù di religione, ma
romano di origine, anche dopo le ripetute e per noi devastanti fumate, sembrava
sorprendentemente uguale a prima, mentre noi eravamo stravolti e sudati come
tacchini allo spiedo.
Con quel guru lì, mi resi conto, faceva
bene a tutti parlare, anche solo guardare e essere guardati, come avevo fatto
io per qualche volta, anche nei giorni seguenti, senza proferire troppe parole.
Faceva bene specialmente alla gente
stressata che era abituata a gesticolare, come comitiva di mulini a vento
impazziti, a strizzare gli occhi e ad avere tic nervosi a profusione, senza
farci troppo caso e potersi controllare in minima parte.
Quando parlavi tu, lui ti ascoltava con
interesse, senza interromperti, che è una cosa rara al mondo, quando parlava
lui, ti veniva da ascoltarlo veramente, le cose che diceva erano belle e
semplici, in più le accompagnava con una faccia che combinava pure.
A proposito di gente forsennata,
incontrammo un’italiana fuori di testa, assai atteggiata a profonda e calma
meditatrice, ma nervosa e tesa come una corda d’arco.
Questo però fu dopo, a Benares, detta anche
Varanasi, Vanarasi, Banaras, Baranas più un’altra decina di nomi simili e graziosamente anagrammati, che poi
è un’unica e famosa città sacra sul Gange, pure fiume sacro, dove gli indiani
vengono da lontano per morire e ogni tanto si vede qualche cadavere a sedere
ritto, in decomposizione avanzata, passare sulle acque limacciose.
Loro quell’acqua lì se la bevono anche,
sono diffuse a livello endemico malattie come epatite B, tifo e colera. Noi di
fuori non possiamo bere l’acqua del rubinetto, solo in bottiglia e non ci si
deve azzardare a mangiare verdure crude.
Avevo saputo, che questa ragazza, all’ingresso
del centro di preghiera sulle pendici dell’Himalaya che loro frequentavano
periodicamente, non era stata neppure lasciata entrare, giacché poteva
influenzare gli altri con i suoi vari e intermittenti attacchi d’ansia, tic,
scatti e movimenti convulsi.
Avrebbe certo potuto intaccare e
danneggiare il sistema di pace e orazioni calate in una dimensione di
meravigliosa e giusta fuga dal mondo occidentale.
Una volta, in Italia, almeno una decina di
anni prima, sono stato una settimana in un appartamento del litorale toscano
durante l’inverno, avevo fatto la spesa, non c’era nessuno e io volevo
scrivere.
Dopo sette giorni senza parlare, tornando
verso casa, mi sono fermato a fare rifornimento per la mia Renault 5.
Quando è arrivato il benzinaio, per qualche
lunghissimo secondo, non sono riuscito a parlare, mi pareva di essere diventato
muto, mi sono anche spaventato... poi, un poco alla volta, quasi come se
fossero state anchilosate, informicolite e appiccicate l’una all’altra, sono
uscite faticosamente le prime parole.
Insomma mi ha fatto riflettere questo fottutissimo
guru romano, al quale avevano imposto un anno di silenzio, per raggiungere la
sua calma interiore, per poi diventare un sacerdote del Buddha. Non deve essere
stato facile, sebbene io non sia tra gli esseri umani più loquaci, non credo
che ci sarei riuscito. Quello che rappresentava era forse l’opposto di questo
rumorosissimo mondo occidentale, dove tutti parlano e nessuno ascolta.
Per chi non lo sapesse, c’è da dire che, in
India, i sopracitati additivi hanno una funzione preparatoria per le cerimonie
dei sacerdoti e relativi devoti. Però al ritorno a Lucca rimasi seduto sul vaso
sanitario per un mese.
Ho letto da qualche parte che lo scrivere
è un'attività dissociativa, più che unire separa la gente. Ignari si comincia a
battere sui tasti, mitragliando vocali e consonanti e ce ne andiamo via col
proprio cervello e cuore, da un'altra parte, non importa dove. Eppure, da quando
scrivo, mi sento coi piedi per terra, ben piazzato nel mezzo di questa realtà
instabile e confusa del mondo moderno. Se a volte m’inceppo per qualche mese,
poi inevitabilmente riparto.
Qua in Brasile, ho pubblicato due libri e
un CD multimedia, in lingua italiana, guadagnando anche un qualcosetta di
soldi, cioè ho rintuzzato le spese. Conosco gente di tutti i tipi e di varie nazionalità, ho una lista di
una cinquantina d'indirizzi e-mail. Mando quello che scrivo, ansiosamente, che
a volte non è ancora terminato, attraverso l'internet. So che dall'altra parte
del filo l'ansia non è la stessa, la gente deve lavorare e darsi da fare per
tante altre cose.
Tanti non hanno l'abitudine di leggere,
alcuni non ne hanno la forza, la sera, dopo il lavoro, nei fine-settimana hanno
tante altre cose arretrate da sbrigare. Tra tutti i miei potenziali lettori
sparsi per il mondo, mi sono reso conto che la categoria più rappresentata è
quella dei cuochi, pure quasi sempre italiani e non molto avvezzi alla posta
elettronica.
Un italiano che vuol viaggiare, ha un
grande vantaggio, rispetto - per esempio - a un inglese: può adottare il
ristorantino tipico come base logistica onnipresente. Non saprei dire dove non
ce ne sono e anche se lo sapessi, magari, in questo momento ce ne starebbero
costruendo uno o due a tradimento.
A Berlino, dove ho conosciuto questo cuoco,
involontario protagonista della storia, nel 1988, ce ne erano la bellezza di
800, ma non tutti erano gestiti da italiani.
Ho visto con i miei occhi e perfino
assaporato specialità di ristoranti italiani mandati avanti da turchi,
libanesi, egiziani e altri popoli, avi con i baffetti di siciliani,
calabresi e napoletani... e nemmeno tutti mediterranei. Ho lavorato per qualche
tempo come cameriere e barista, in Italia e fuori, diciamo abbastanza da non
volerlo fare più. Meno ancora come lavapiatti, pizzaiolo o aiuto cucina, perché
là dentro c'è troppo caldo e ci si stressa pure con la spesso necessaria
velocità del servizio. Tra i cuochi ho conosciuto veramente persone piene di
energia, un po' fuori di testa, d’accordo, ma gente assai gradevole, forse
perché intelligente e imprevedibile.
Ero bambino che non andavo ancora a scuola,
la prima volta che ho visto un cuoco vero, con il berretto bianco a fungo in testa
e tutto, nel ristorante lucchese chiamato Stipino: stava urlando ed inseguiva
un cameriere con un coltellone in mano.
Dieci anni fa, sempre dentro una cucina, mi
sono imbattuto in questo giovinottone dell'entroterra lombardo. Vive viaggiando
di qua e di là, approfittando di quel fatto che ho già accennato, per il quale
un esperto di culinaria italiana ha garanzie di lavoro ovunque nel mondo. L'ho
ribattezzato Giuliano Contoni, per non insospettirlo alle prime pagine e
corrisponde a uno degli indirizzi di e-mail della mia lista.
Il fatto è che, un po' di tempo fa, dopo
aver bevuto e mischiato troppi e differenti alcolici, ho avuto l'assurda idea
di attaccarmi al computer. L'ho fatto senza saperne nemmeno il perché, magari
per scrivere qualche frase sghemba, in un racconto, che poi avrei
corretto con calma o proprio cancellato del tutto, nei giorni successivi.
Invece no: ho scritto e mandato un’e-mail
di protesta contro i miei lettori virtuali, visto che elettronicamente non mi
spedivano più pareri e apprezzamenti, critiche o elogi. Con tono indignato e
amareggiato, gli comunicavo che mi pareva che lavorassero troppo, e, tra una
cosa e l'altra, ho cercato di scuoterli dal loro torpore, con la migliore delle
intenzioni, mi sembrava. Ho dichiarato con la mano sul cuore che li immaginavo
come in una situazione in cui la gente di questo mondo globalizzato
s'infila nel tunnel della routine e non vede né sente più niente di quello che
non ne fa parte.
Alla fine concludevo, comunicando a tutti
che era facile cancellarsi dalla mia lista, se stavo disturbando la loro vita
prefabbricata, mandandogli manoscritti inutili, da cestinare virtualmente,
bastava indirizzarmi un’e-mail con la chiara volontà di uscire da quel giochino del menga ed io li avrei tolti.
La lettera era da considerarsi ridicola,
visto che il nostro tipo di rapporto era sempre stato del tipo di massima
libertà, dato che nessuno aveva firmato un contratto, nessuno pagava e ognuno poteva fare quello che voleva.
Il giorno dopo, riletto il contenuto e la forma di quell'appello disperato, da moderna sceneggiata napoletana, me ne sono pentito.
Era troppo tardi, però in seguito, tra le risposte, ho ricevuto delle
frasi tanto sincere quanto inaspettate. Era forse quello che volevo quando,
trascinato dall'alcool, inconsapevolmente li avevo provocati con quel lamento
di sconfinata solitudine letteraria?
Probabilmente sì.
C'era gente che diceva che stavo esagerando
e aveva ragione, ma questa non era la parte più interessante. Altri dicevano
che li leggevano, i racconti, anche se non tutti, o che non avevano tempo, uno
rivelò che l'ultimo mio poliziesco era stato troppo lungo e aveva rotto il
ritmo, c'era stato poi un periodo seguente che avevo scritto e distribuito
troppa roba e... insomma era stato difficile starmi dietro.
Avrò ricevuto una decina di e-mail di risposta,
se ben mi ricordo, non tantissimi... però, tra tutti, proprio quello di
Giuliano mi colpì. Perché disse di non fare scherzi, che non potevo
assolutamente sospendergli l'invio di quei racconti, giacché li spacciava per
suoi e lo aiutavano a conquistare una ragionevole porzione di ragazze. A dire
la verità lui usava un termine che forse non dovrei citare qui, ma visto che
sto facendo un racconto interattivo, basato sull'assoluta veridicità dei fatti,
anche nei particolari, lo dirò.
Giuliano dichiarava che i racconti gli
servivano per beccare le tardone. Naturalmente la cosa m'intrigava, perché
significava che avevo un certo tipo di lettrice che non sapevo di avere. In
Italia le tardone abbondano, per motivi di cultura o per la sua mancanza, per
via della globalizzazione o per snobismo, per mancanza di opzioni e di uomini
autenticamente maschi, per esuberanza di embrioni femminili e di stress.
Se da una parte l'attitudine dissociativa
dello scrittore in generale è effettiva e veritiera - come nel mio caso, almeno
per quanto riguarda l'evasione - dall'altro lato pareva proprio che associasse,
invece. E se quelle creature di sesso femminile apprezzavano i miei racconti,
era segno che là dentro c'era della vita, della voglia di comunicare... oppure
anche piuttosto il contrario e loro erano delle sempliciotte e io peggio di
loro e Giuliano manco a parlarne?
Comunque fosse, era una cosa che
m'incuriosiva.
Giuliano ed io, a Berlino qualche volta uscivamo per farci una birretta o due, e proprio non mi ricordo niente di quello che ci dicevamo, ma ci divertivamo ed era quello che contava.
Non lo
vedo da almeno una quindicina d'anni. In seguito a questa sua straordinaria
rivelazione, comunque, gli ho chiesto dei chiarimenti, che ha ignorato come già
m'aspettavo, non ho insistito. A dire la verità, non c'è quasi nessuno, tra i
miei amici italiani, che risponde alle domande che gli faccio per e-mail.
E poi mi sono trovato spesso a pensarci, a
Giuliano e alla sua sorprendente e piacevole rivelazione, a cercare di capire,
a distanza, la meccanica delle sue tattiche. Non è mai stato un lettore
assiduo, proprio per via del suo lavoro massacrante e dell'hobby dello svuotare
i bicchieri. Lui, ne sono quasi certo, li stampa e li sfoglia distrattamente,
prima di passarli sghignazzando, tra sé e sé, alle sue vittime.
Ecco che ho pensato che magari potevo
saperne di più, perciò ho iniziato a scrivere questo raccontino truccato,
apparentemente uno di quelli in cui parlo di tante cose, per alcuni
interessanti, per altri no e per certi occhi stanchi, a volte, una barba
insopportabile. Verso la fine, avendo già abbondantemente annebbiato gli
sguardi esausti o ubriachi di Giuliano Contoni, apro il gioco, dico che lui è
un bravo ragazzone, pure di buona famiglia, un buon partito e tutto... ma che,
per quanto ne sappia io, al massimo è capace di scrivere la lista della spesa
del ristorante.
Attraverso queste stesse pagine mi metto a disposizione per parlare con queste mature ragazze, per qualsiasi informazione a riguardo del nostro astuto burlone, discussioni letterarie incluse. Lascio il mio indirizzo e-mail bardoni camuffato in mezzo alle parole, chiocciola, così che lo possano terra. copiare e com. br usare.
Il fatto che io non abiti in
Italia e che staziono da decenni in un luogo lontano e perduto, nel sud del
Brasile più meridionale, le dovrebbe aiutare ad aprirsi con me, spiegarmi
magari che cosa gli piace o cosa non gli piace nei miei racconti, fare qualche
critica costruttiva, qualche mordace distinzione o interessante scoperta di
difetti.
Non è neppure da escludersi che il
cuciniere in questione, mosso e/o commosso dalle conseguenze della mia
iniziativa, si faccia vivo personalmente, via e-mail, per ringraziarmi o per
mandarmi affanculo.
SOSIA
Quando sono andato a vivere a Viareggio mi sono
sorpreso a vedermi salutare per strada, al supermercato, o in un bar da gente
che io non avevo mai visto. Essendo molto fisionomista ero sicuro di non
sbagliarmi, erano loro che mi scambiavano per qualcun altro. C’era un mio
sosia, forse qualcuno che mi assomigliava parecchio.
Mi era già successo che mi scambiassero per qualcun
altro, per una effettiva ma a volte neanche troppo forte somiglianza, come
quella al portiere dell'Inter Zenga, in una certa epoca in cui lui era famoso e
avevamo anche lo stesso taglio di capelli a caschetto.
Un'altra volta, molto tempo dopo, mi hanno preso per
Sarri, che a quel tempo allenava la Juventus, al ristorante Prato Verde di
Chiatri, perché oltre alla approssimativa somiglianza, portavo degli occhiali
simili ai suoi e anche il taglio di capelli assai corti era di quel tipo, la
barba un po' incolta eccetera.
Però stavolta vivendo in una città dove non avevo mai
vissuto, varie persone mi hanno scambiato per qualcuno che evidentemente
abitava in quella stessa città, cioè Viareggio. Ho provato allora a capire chi
fosse, ma non ci sono riuscito. La situazione mi incuriosiva e allora ho
pensato di parlare con quelli che mi salutavano, di chiedere chi fosse quel
signore che loro credevano che io fossi ma non ero.
Solo che le prime volte ero troppo sorpreso per farlo
e le seconde volte non ci sono state proprio, non vivevo già più a Viareggio.
Non è che non avessi niente da fare, anzi il mio
lavoro di giardiniere era complicato, nel senso che era assai faticoso e in più
dovevo farmi con la mia Panda venti chilometri di andata e venti al ritorno.
A San Michele di Moriano c'era questa villa antica acquistata da uno di
Milano, ma non lavoravo tutti i giorni, mi chiamavano quando c'era bisogno.
Sabato sera e domenica pure, fatti i soliti quaranta chilometri tra andata e
ritorno, facevo il cameriere alla Barcarola, ristorante-pizzeria di Monte San
Quirico.
Il bello o il brutto era che negli ultimi tempi,
finché ero rimasto a Lucca, ero stato disoccupato. Quei due lavori li avevo
trovati, manco a farlo apposta, appena ero andato a vivere a Viareggio.
MECCANISMI
Nel vecchio continente non ho mai avuto la pazienza di rileggere
e correggere, di terminare qualcosa che valesse la pena, in qualche modo c’è
bisogno di una maturità, forse mai trovata completamente, ma migliorata assai
in Brasile.
Queste
case ordinate, con i giardini che sembrano di plastica, queste automobili nuove
e appena lavate, questa gente vestita così in maniera impeccabile, le donne
agghindate come se andassero all'opera, ma invece vanno in bicicletta
all'alimentari a comprare due salsicce e un pezzo di pecorino.
A
qualcuno tutto questo piace, ma a me no, e non mi è mai garbato, anche quando
affannosamente cercavo di vestirmi meglio e di sembrare diverso da come ero.
Il
senso di tutto questo mi è sempre sfuggito, mi sentivo anche in colpa, ma ora
capisco che avevo ragione. Naturalmente questo mi allontana dagli altri, che
cercano di assomigliarsi il più possibile, di omologare la propria vita a
quella dalla gente attorno. Mentre io cerco di sfuggire a questi meccanismi
assurdi, eppure anche troppo logici e umani.
Ebbene
sì, ho cercato anch'io di essere normale, ma non mi è riuscito, non perché fosse
oltre le mie capacità… o magari sì, non sono stato capace di essere falso, di
vivere secondo un canone prestabilito e sono stato me stesso sempre, più o meno
fin dall'inizio della mia vita di nicchia. Proprio per questo la mia storia e
la mia geografia non potevano portare a un successo qualunque, tra quelli
comunemente intesi, poiché non mi piacevano.
La realtà mi è sempre sembrata stretta, ma a volte anche troppo
larga, allora sentivo il bisogno di uscire, di astrarmi, di evadere insomma e
ho cominciato a scrivere. D'accordo: non volendo sono stato più originale, ma
ho seguito anch'io dei canoni prestabiliti.
Magari ne avevo la vocazione, da piccolo scrivevo dei pensierini
curiosi, poi dopo dei temi che venivano letti alla classe. Da militare i miei
primi romanzi di formazione, delle boiate insulse, mi ci divertivo, perché
avevo la necessaria immaginazione per trasferirmi in quelle situazioni.
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