mercoledì 4 ottobre 2023

IN BRASILE



Perché sono venuto qua in Brasile? Me lo chiedono soprattutto i brasiliani, gli italiani lo sanno già, anche se poi quello che si figurano del Brasile è più stereotipo che verità. Per la gente di qua però è un mistero, perché coltivano una passione esagerata per l'Europa e gli Stati Uniti. Il primo mondo è una realtà idealizzata, ed è così chiamato per motivi finanziari, ma anche culturali, non da tutti, perché qui i soldi, e chi ce li ha, sono idoli dorati. Ma i brasiliani che escono da qua si accorgono meglio di quello che c'è di buono in questa grande nazione. Quelli che non sono mai andati fuori dicono che non è un grande paese, ma un paese grande, sottintendendo una certa amarezza.

All'inizio ho abitato in un appartamento piccolo, umido e buio, ma dopo, da sposato, siamo venuti quassù. Il primo e il secondo matrimonio sono crollati e qui ai miei due lati ci sono due case con dentro altri due uomini soli. Dopo aver vissuto qualche decina di anni insieme, aver fallito con le due rispettive donne, aver fatto figli, che ora sono adulti e poi basta... ognuno per la sua strada.

Una volta il matrimonio anche qui era indissolubile, ora è diventato una barzelletta. Non sono mai stato un estimatore del matrimonio, per carità, per me lo ritengo assai improbabile, ma ammiro la famiglia come era una volta, anche se era fondata sulla rinuncia. La gente stava meglio quando c'erano meno soldi e meno tecnologia, forse anche meno illusioni.

 

SPIAGGIA

 

“Quando sono arrivato in Brasile la famiglia Spreafico mi ha aiutato assai e sento per loro la massima gratitudine.

Erano veramente brava gente, o meglio: lo sono ancora.

Il figlio di nonna Nora, Gianfranco, sposato con Gertrude, di famiglia tedesca, lavorava ai sindacati.

Nel rapido fioccare dei giorni feriali, se per caso lo incontravo, m’invitava per la tradizionale escursione del fine settimana:

- Venerdì sera alle cinque e mezzo sono qui e appena arrivo viaaaa, tutti alla spiaggiaaa!! Così dicendo batteva le mani per evidenziare, con lo schiocco, l’estrema rapidità di quell’epica fuga dallo stress della grande città.

Dopo le prime esperienze dirette, sapevo che non sarebbe andata esattamente così, anzi quasi tutto al contrario.

Era come un film.

Per cominciare, alle cinque e mezzo lui non arrivava mai, ma sempre verso le sette. La moglie e la madre immancabilmente e instancabilmente lo accusavano del ritardo, lui si arrabbiava e cominciavano a preparare le cose da portare via aiutandosi a urli.

Man mano che le cose venivano preparate, aveva luogo un pittoresco andirivieni di gente a caricare la macchina, con tutto quello che ci sarebbe potuto entrare e riuscendo talvolta a elasticizzare le rigide proprietà geometriche dei corpi solidi e, in alcuni casi, perfino della fisica quantica.

Martinho, figlio di primo letto di Gertrude, era un bambinone quasi adolescente, dalla simpatica faccia da indio e faceva il grosso del trasporto, dall’appartamento al primo piano, fino all’automezzo, che proprio grande non era.

Considerando che saremmo rimasti là solo due giorni, era una montagna di roba, ma a pensarci bene sarebbe stata troppa anche per un mese.

Io mi mettevo a fare altre cose, intanto, nel mio piccolo appartamento a lato di quello di nonna Nora, a piano terra, se avessero avuto bisogno di una mano mi avrebbero chiamato, certo che mettersi ad aspettare era una cosa assurda.

Nonna Nora, invece, seduta sul divano colla borsetta in mano, televisione rigorosamente spenta, ci stava fino alle undici, undici e mezzo. Ogni volta che passava Gianfranco litigavano un po’, al volo, ripassando i loro cliché classici, alla tipica maniera italiana. Al momento di partire una montagna di cose giacevano ancora fuori dalla macchina, sul marciapiede, pronte ad essere caricate.

La prima volta, al mio inutile avvertimento, Gianfranco disse che andava bene così e gli altri ridacchiarono e mi fecero cenno di salire.

Una volta entrati e seduti tutti, lui ce le mise addosso, in maniera che non ci si potesse più muovere, ma che le teste affiorassero dalla marea di oggetti di vario tipo. Insomma, in fondo si poteva anche respirare e perfino parlare, ma le voci venivano fuori un po’ soffocate.

Naturalmente lui era l’unico escluso dal martirio, perché doveva guidare e già che c’era lo faceva anche alla velocità massima, come se fosse l’ultima azione che avessimo potuto compiere nella nostra vita, cosa che poteva anche essere, a conti fatti, ma ci siamo salvati sempre, per fortuna.

Eravamo partiti, finalmente, ma purtroppo ci si doveva ancora fermare a prendere la chiave dallo zio Adolfo in un quartiere completamente fuori mano di Porto Alegre, poi a prendere una coperta e un trapano dalla cugina Adelaide in un’altra zona, un servizio di piatti e bicchieri a casa del cugino Romeo in un terzo quartiere deserto e così via.

Questi altri personaggi sorridevano sornioni e fingevano di sorprendersi per l’inusuale ritardo, erano ore che ci aspettavano, dicevano e ci offrivano da mangiare e da bere, comprendendo il nostro sforzo fisico e mentale.

Noi non potevamo scendere e ne approfittavamo sul posto, liberando gli arti prensili alla meglio e intanto si chiacchierava allegramente del più e del meno. Anzi, poi non la smettevano più di parlare, a dire il vero, causando ulteriore ritardo agli orari della spedizione e secondo me quelli lo facevano di proposito.

Quando ci trovavamo miracolosamente e finalmente sulla strada per il mare erano passate alcune ore e le nostre ossa scricchiolavano.Per fortuna la spiaggia era solo a un centinaio di chilometri e di traffico a quell’ora non ce n’era tanto.

Alle curve una massa enorme di oggetti tentava di scapparsela e si muoveva sinistramente, noi ne venivamo trascinati fino alle porte ben chiuse della macchina.

Ogni tanto Gianfranco non riusciva ad evitare un cratere dell’asfalto, comparsogli davanti all’ultimo istante e il risultato lo sentivamo tutti direttamente sull’osso sacro.

Gertrude gli gridava di andare piano, ma Gianfranco non se ne faceva un cruccio, non le rispondeva neanche; poi accumulandosi le richieste urlate, alla fine rispondeva e urlava anche lui, allora era peggio.

Qualche volta, in quello stress di viaggio avevamo anche la petulanza di berci il chimarrão, nel qual caso, aveva luogo un rumoroso e ripetuto e frenetico movimento di braccia, per spostare gli oggetti che ci ingombravano le mani, per riceverne il recipiente, (fatto con una zucca secca e chiamato cuja) per le nostre relative calde succhiate nella notte già abbastanza sudata.

Arrivati a Magisterio, ci pareva di essere su una nave di Cristoforo Colombo che avvistava terra. Dal mare si vedeva un chiarore di alba e noi colle membra anchilosate, eravamo veramente contenti di venire liberati, uno alla volta, oggetto sotto oggetto e dopo di scaricare tutto, portare la roba in casa, respirare a pieni polmoni l’aria che sapeva di salmastro.

Poi andavamo a dormire stanchi morti, ma felici di avercela fatta.

A questo punto non so se ero l’unico ad avere già il pensiero alla domenica sera di dover ripetere la scena, per il ritorno, ma non lo dicevo a nessuno. Appena sdraiato gli occhi mi si chiudevano da soli, avevo appena  il tempo di sentire il preludio del concerto di russate che risuonava per tutta la casetta, dalle porte aperte delle piccole camere.

Una volta l’abitazione era stata di legno, più grande e proprietà delle due famiglie, quella di nonna Nora e di sua sorella Mara. Poi era stata letteralmente segata in due, quella di Nora e Gianfranco, dove stavamo noi era stata distrutta e ricostruita in muratura. Dall’altra parte, però, era rimasta tale e quale, o quasi, perché quell’operazione di drastica spartizione non aveva tenuto conto delle strutture portanti, credo, o almeno non del tutto e l’aveva resa pericolante e storta.

Gianfranco aveva comprato una telecamera e un giorno ci fecero vedere, a me e a mia moglie, attraverso la televisione, il primo filmato fatto, che ritraeva in movimento la famiglia Spreafico in uno spaccato di normale quotidianità.

Erano in casa, tutti presenti, però c’era qualcosa che non andava. Il film mancava di brio, loro si chiedevano addirittura le cose per favore, nessuno gridava, nessuno si mandava affanculo. Davanti alla telecamera tutta la pittoresca naturalezza del gruppo Spreafico si era irrimediabilmente persa.

Cercammo di non ridere, loro se ne accorsero, non ci rimasero male, credo che non ne capirono il perché.

 

 

INFORMAZIONI STRADALI

 

Nei miei primi mesi di permanenza nello stato del Rio Grande do Sul, mi mandarono a insegnare la mia lingua madre in una cittadina di circa 200.000 abitanti, di dominazione tedesca, con qualche italiano d’origine sparso. L’industria calzaturiera era stata per anni la fonte primaria della loro economia, poi i cinesi da lontano li avevano eliminati dalla mappa, per via dei prezzi bassi della loro mano d’opera. Novo Hamburgo era a una quarantina di chilometri da Porto Alegre.

Arrivai in macchina e non c’ero mai stato. Dovevo incontrare il signor Tramontin, il responsabile della scuola, che poi era un club di italo-brasiliani.

Chiedere un’informazione per strada, per sapere dov’è l’ospedale - o la stazione, o la scuola tal dei tali – è un tipo di azione che può dare sviluppi e risultati differenti a seconda della nazione o perfino della regione dove ci troviamo. Per esempio in Brasile è una cosa piuttosto diversa dall’Italia, ancor più dalla Germania, tanto per citare i tre paesi dove ho vissuto.

Un cinquantenne pelato e un po’ sudato mi raccontò nei particolari la storia della sua vita e della sua famiglia, per una strana coincidenza di origine italiana. Poi con qualche apparente difficoltà di orientamento mi spiegò, girandosi attorno nervosamente e scrutando l’orizzonte (che doveva essere dietro a quei palazzoni di tre o quattro piani,) come sarei potuto arrivare, senza perdere troppo tempo, e/o denaro, a destinazione. Seguendo le istruzioni di quell’affabile individuo mi persi in un dedalo di stradine e chiesi di nuovo indicazioni a una signora che aspettava l’autobus, probabilmente di origine tedesca. Non mi raccontò niente di romantico e personale, era piuttosto riservata, ma mi disse che c’ero vicino assai, a piedi in cinque minuti ci sarei arrivato, però con la macchina dovevo fare un giro piuttosto lungo che mi spiegò in maniera confusa ma ripetuta. Dalla progressiva rarefazione di case capii che dovevo aver sbagliato qualcosa. Ero in aperta campagna. Rientrato in città scelsi - tra la tanta gente intorno - un ragazzo con in mano un pacco lungo e pesante che insisteva nel non voler appoggiare per terra, disse che studiava la nostra lingua e precisamente la più bella al mondo, gli garbavano assai Laura Pausini ed Eros Ramazzotti.

 Alla fine, su mia ripetuta insistenza, affrontammo di nuovo l’argomento che mi premeva di più e fu allora che mi mostrò una cartina della città appesa nella piazzetta del Municipio, dove ci trovavamo in quel momento. Non mi potevo sbagliare, eravamo a un tiro di schioppo. Mi spiegò che il centro di Novo Hamburgo era piccolo assai e che lì non ci si poteva proprio perdere, neanche volendo.

Eppure io ci riuscii di nuovo, forse per colpa dei sensi unici o del calore.

Non so più quante piccole e tragicomiche disavventure dopo, in base a qualche divina ispirazione, alzai la testa, anche per asciugare la mia fronte che grondava copioso sudore, distinguendo con quasi certezza che il nome di quella stessa strada, scritto in bianco su una targa azzurra, era proprio quello giusto.

L’Associazione Italiana Mamma Mia era al numero 2, a dieci metri da dove avevo chiesto la prima indicazione. Avevo girato come una mosca senza testa per più di mezz’ora ed ero arrivato nel punto esatto dove avevo chiesto informazione a quel primo signore, trai tanti che avevo interpellato in cerca di aiuto, l’indirizzo in questione era lì di fronte a me e pareva impossibile che ci fosse stato anche prima.

Quando raccontai quella storia al signor Tramontin rise di gusto, parlava un italiano mezzo mischiato al dialetto veneto con qualche parola di portoghese. Dopo un’ultima risata e un residuo porcodio, mi spiegò divertito:

“No, no, non si fa così. Si vede che lei non è proprio di queste parti. Lei deve capire prima di tutto che il brasiliano si vergogna a dire che non lo sa. Gli pare brutto. Sembra che non voglia collaborare, una mancanza di rispetto. Allora dice quello che pensa che sia il posto giusto, gli pare di averlo sentito dire, o era qualcosa del genere, che poi saperlo e spiegarlo sono già due cose differenti, ma se non lo si sa nemmeno...”

Il Tramontin era un simpaticone, mi raccontò che era stato direttore del Banco di Brasil, che ora era in pensione, grazie a dio, che sua figlia era in Italia sposata con un italiano autentico, che l’altro che conosceva ero io, ma poi c’era anche il segretario, al quale subito mi presentò e gli raccontò la storia. Il signor Pacini arrossì e rise, si scusò, parlava un italiano quasi da manuale:

“Io sono Toscano come lei. Son arrivato qui una ventina d’anni fa, ma ho ancora parenti a Grosseto, li visito ogni due o tre anni, a volte vengono loro qui da me.

Guardi: la pazienza è necessaria sempre, non solo nel Rio Grande do Sul; ma qua bisogna anzitutto capire che questa brava gente preferisce dare un’informazione sbagliata al dire che non sa dove è quel luogo, gli pare meglio mentire con classe che dire una spiacevole verità. Si fa molta attenzione a non contrariare gli altri, la soavità del modo di fare a noi pare eccessiva e ad ogni costo, è certo una maniera di stare con gli altri differente dalla nostra europea, più schiva e spesso anche fredda.

Al turista si consiglia di chiedere più volte le informazioni e di fare una media tra tutte, riuscirà così, con un po’ di fortuna, a capire, più o meno, dove si trova l’indirizzo che cerca e a conoscere tanta gente disposta sinceramente ad aiutarlo, anche se purtroppo non hanno la necessaria competenza per farlo, sono servizievoli, gentili e simpatici.

E qui nel Rio Grande do Sul è meglio non dirgli che siete italiano, ma proprio italiano vero, non solo di origine, che sennò per strada lei ci fa notte, è anche pericoloso. Meglio dire che siete spagnolo, qui ce ne sono pochi anche di origine e non sono tanto entusiasti come i nostri compaesani, anche solo di origine, lei mi capisce. ”

Nell’ultimo stato in fondo al Brasile, sopra l’Uruguay sul litorale e a lato dell’Argentina all’interno, ci sono numerosi peninsulari di origine e ognuno proprio per quel motivo si sente speciale. Non sono mai stati in Italia, ma l’amano con tutta la loro forza.

 

 

 

 MACCHÉ

 

“Nel sud del Brasile si da’ lezione anche in epoche calde, come a marzo, alla fine dell’estate, o a novembre, alla fine della primavera.

Nella tarda mattinata di un qualsiasi giorno caldissimo, mi preparai opportunamente vestito con pantaloni lunghi, ma leggerissimi, portati dalla Germania ed una maglietta impalpabile.

Le lezioni alle classi non si possono dare con i pantaloni corti e francamente in un Brasile anche solo subtropicale come il nostro, mi pare assurdo, ma è così.

Chi lavora negli uffici, anche se c’è l’aria condizionata, prima o poi deve uscire, sia solo per andare a pranzo, o tornare  casa e in giacca e cravatta, con 35 o più gradi, si fa delle sudate da sauna.

Meno male che, ora che lavoro solo con le lezioni private, lo faccio in canottiera, pantaloncini e sandali, accetto solo allievi con aria condizionata eppure torno a casa appiccicoso e fetido.

Non sono mai stato uno di quelli che si guardano tanto allo specchio per vedere se sono belli o stilisticamente conformi al desiderato, col passare degli anni lo sono diventato ancora meno, se possibile.

Però prima di due lezioni d’italiano, davanti a classi di una ventina di persone, è meglio darsi almeno un’occhiatina, non si sa mai.

Mi era già capitato di dare lezione con un bel buco nella maglia sul petto, ma, per fortuna o per sfortuna, me ne ero accorto solo dopo.

Il Brasile, devo dire, rispetto all’ossessiva cura dell’aspetto dell’Italia, mi da’ molto più sollievo, anzi, quando sono troppo elegante mi sento a disagio, ma mi capita di rado.

Quel giorno però, credevo di essere particolarmente a posto, mi ci sentivo bene, insomma, perché erano indumenti leggeri e freschi, ma perfettamente combinati come colori.

I pantaloni di quel violetto scuro che era quasi un grigio, la maglietta rossa aperta, senza colletto, con quattro bottoni, le scarpe blu scuro tutte buchettate comprate in Italia, pagate da mamma.

Il dubbio, da queste parti, quando ti vesti un po’ a colori vivaci, è che ti scambino per un omosessuale, ma i tempi stanno lentamente cambiando, in quella direzione, anche in uno stato storicamente assai maschilista e rigido in certi tipi di situazione.

Perciò quando uscii di casa sentivo il venticello fresco su tutto il corpo, mi sentivo bene, fisicamente ed esteticamente, secondo i miei gusti personali, ma notai subito che tutti mi guardavano.

I casi erano due: sembravo eccessivamente delicato, o ero troppo elegante, anche se, già altre volte avevo usato quell’accostamento e non avevo notato niente del genere.

Prima di partire verso la scuola di destinazione, ero andato a parlare con i muratori che lavoravano nel giardino della casa del mio vicino di fianco.

Mi ero messo d’accordo con loro, tempo addietro, per fare un lavoro nel mio giardino e precisamente la struttura di pietra intorno alla piscina, installata da poco e già funzionante.

Carlinho, il capo di questi muratori, (che mi guardavano tutti colla coda dell’occhio, come se la mia parte più elegante fosse visibile proprio dal dietro,) era il mio vicino di fronte, dalla parte del portone d’entrata.

Colla mia coda dell’occhio, a mia volta, avevo notato questo ben determinato tipo di tendenza, mentre parlavo con lui su quando sarebbero finiti quei lavori lì, che stavano tentando di terminare invano, da alcune settimane e più o meno quando sarebbero cominciati i miei lavori.

Con la coda del mio cervello,  mi stavo chiedendo di quale dei due casi si trattasse: omosessualità o eleganza eccessiva, o, chissà, magari un terzo ed imprevisto caso... un misto dei primi due?

Però, in fondo, di quello che pensano gli altri me ne frego sempre abbastanza e a volte, lo ammetto, sbaglio.

Il dialogo era finito, senza naturalmente risolvere il mio interrogativo riguardo al tempo restante di attesa.

Stavo cominciando a capire che qualsiasi cosa mi avesse detto, Carlinho, o qualsiasi altro brasiliano, non ci potevo contare.

Che cosa glielo chiedevo a fare non lo so, forse per fargli capire che avevo fretta, magari, o qualcosa del genere.

Il tempo italiano disgraziatamente non coincide mai col tempo brasiliano che qui è giusto che sia quello ufficiale.

Ho sempre avuto le mie difficoltà a comprenderlo, il tempo brasiliano, come ne ho ancora adesso, dopo quasi quindici anni, perché risulta un’entità flessibile, assai elastica e talvolta perfino astratta, comunque mai corrispondente a quel che si dice prima.

Perciò, rassegnato alla mia illimitata attesa, salutai e me ne stavo andando, quando Carlinho, un po’ imbarazzato mi chiamò da una parte.

Carlinho ha i lobi delle orecchie più grandi e carnosi che io abbia mai visto e ho girato il mondo.

È un ragazzo intelligente ma lentissimo, anche nel parlare, i suoi lavori sono molto ben fatti, ma il tempo che ci vuole è almeno il doppio di quello che ha dichiarato all’inizio.

È simpatico in quella maniera involontaria, specialmente quando tenta di stare serio, perché è proprio allora che gli scappa da ridere:

- Senta, non se la prenda a male, glielo dico solo per aiutarLa... Le volevo dire... che Lei ha uno strappo enorme nei pantaloni, dietro. Giù dal sedere, si vedono anche le mutande, ma poi scende per tutta la lunghezza della coscia.”

 

 

 

 

TRANSITO

 

Anche se grossa la macchina è solo una cosa, ma specialmente qui in Brasile è una cosa sopravvalutata, forse perché non tutti possono comprarsela e tanti di quelli che ne acquistano una poi devono continuare a pagarla per anni.

Il traffico cittadino di Porto Alegre è claustrofobico, a tratti tragicomico, almeno visto da fuori.

La nostra è una quasi metropoli di nemmeno due milioni di abitanti, favele incluse, ma senza impegni di precisione numerica.

Trattasi di sviluppo urbano ed extraurbano cresciuto senza controllo, con alcune città dormitorio attaccate e relative migliaia di persone che le visitano di notte e poi la mattina presto ritornano verso il lavoro.

Il flusso dei mezzi di locomozione di questa capitale di stato del sud del Brasile, pur seguendo alla lettera la teoria del caos, ha una sua logica, un po’ come quello di Napoli, senz’altro migliore di quello di Rio de Janeiro, tutto il contrario di quello di Zurigo.

I semafori sono numerosi, in alcune parti della città sembrano troppo vicini l’uno all’altro. Chi ti sorpassa a tutta velocità è destinato a ritrovarsi al tuo fianco al semaforo seguente e poi a quello dopo e così via.

Le industrie automobilistiche sono arrivate a vendere le macchine in 99 comodissime rate mensili, non che poi vengano pagate, in seguito, ma intanto si muove il mercato.

Per andare dalla zona sud alla zona nord della città, ci si metteva, prima della costruzione della terza circonvallazione, più tempo che ad andare nella città più vicina, Canoas.

Le cose ora sarebbero migliorate, ma le macchine sono aumentate e anche gli autobus, i camion, i taxi e le navette... insomma, pur avendo lavorato affannosamente per migliorare, siamo allo stesso punto di prima.

Si suona raramente il clacson, rispetto all’Italia, ma la tendenza è in crescendo.

Si suona più per salutare gli amici che per altro, magari per attirare l’attenzione di qualche bellezza sculettante.

Chi è in ritardo cerca di mettere sotto pressione gli altri automobilisti, incollandosi dietro ai posteriori, a volte di macchine che perdono i pezzi, di vecchietti che chiacchierano, che non guardano mai nello specchietto, per nessun motivo e transitano tranquillamente nella corsia che dovrebbe essere quella del sorpasso, a velocità non misurabili da un contachilometri moderno.

I taxisti si fermano per prendere o lasciare i passeggeri in mezzo alla strada e lo stesso fanno i vari tipi di autobus.

Nessuno usa la freccia per segnalare qualcosa come una svolta o una fermata; se e quando lo fanno è dopo o durante. Però quando la urtano inavvertitamente col braccio, se la dimenticano poi accesa per tutto il viaggio.

Ci sono i carrettini dei raccoglitori di carta, tirati da cavalli magrissimi, o piuttosto dei mezzi muli, i cui conduttori non rispettano alcuna regola, di nessun tipo o codice, e formano interminabili code nelle strettoie. Se a bordo sono in due, ecco che si organizzano: uno guida e l’altro manda affanculo i motorizzati dietro.

I numerosissimi pedoni s’infilano in mezzo che è una bellezza, le automobili  - per evitarli - aumentano la velocità, ma se qualcuno ingenuamente si ferma, per lasciarli passare, viene circondato e dimenticato in mezzo alla folla.

Al semaforo, in questo clima di guerra per ogni metro in più, non c’è molto tempo per passare, quelli che sfrecciano già col rosso dall’altra parte, alla fine del verde, s’impadroniscono dell’esiguo tempo utile.

Se le automobili sono troppe, gli autobus occupano molto più spazio e sono lenti e tanti che a volte se ne vedono quattro o cinque, gli uni attaccati agli altri, come un treno.

D’estate, l’aria condizionata dell’automobile eviterebbe, oltre al caldo insopportabile, i contatti con i venditori e con chi chiede elemosina, isolerebbe piacevolmente dal resto e sarebbe quindi una cosa meravigliosa, ma non tutti possono permettersela.

Ad allietare la scena di transito urbano, poi, ci sono i lavori in corso, i camion raccoglitori della spazzatura, gli spazzini a piedi, i blocchi stradali, le macchine ferme in mezzo alla strada per un guasto, gli incidenti a catena e i motociclisti che passano a tutta velocità tra le macchine ferme, tra le varie corsie. Chi fa un cambiamento di fila non ha tempo di vederli arrivare, ne muoiono tutti i giorni, ma non se ne preoccupano.

Al semaforo ci sono quelli che chiedono una monetina, quelli che lavano i vetri specialmente di chi non vuole, poi i venditori di giornali, tergicristalli di ricambio e altri articoli per la macchina, succhi d’arancia, frutta, rose e fiori e qualsiasi altra cosa.

A volte gli elemosinanti o i venditori sono anche in sedia a rotelle, se ne stanno tranquillamente in mezzo e ritardano ogni già problematico movimento.

Sempre al semaforo, quelli che stanno in prima fila sono gli unici che non guardano se cambia colore e una volta arrivato il verde, partono solo quando gli suonano da dietro, riducendo ancora il tempo utile per il passaggio che è già cortissimo.

Una moda diffusa ed efficace è non considerare mai il punto di vista degli altri, ma questo vale anche e soprattutto fuori dal traffico, nella vita quotidiana.

La libertà del cittadino non finisce dove inizia quella degli altri, ma nel migliore dei casi, dove iniziano le sue proteste.

Quando l’autista scende dal suo mezzo di trasporto, magicamente comincia a ragionare come un pedone e a mandare a quel paese gli autisti.

Intanto il pedone è arrivato alla sua automobile e ha già cambiato mentalità, la sua ottica è diventata quella del guidatore e non sopporta tutti quei pedoni tra i piedi.

Si chiede perché mai esistono e perché si ostinano a camminare in mezzo alle automobili ostacolandone la già difficile, ma pur legittima marcia.

Oltre a chi sperimenta giornalmente i due lati della lotta, senza permettergli mai di comunicare tra di loro, ci sono quelli che invece non hanno soldi per comprare una macchina o anche solo una moto e allora odiano incondizionatamente ed ostacolano, quando possono, tutti quelli che ne possiedono.

 

 

 CORRIERE

 

Il guaio era che tutte le volte che andavo in Italia, ingenuamente lo dicevo in giro e mi coprivano di ordini e faccende da sbrigare.

Purtroppo, quando mi prendo un impegno, per una specie di aberrazione mentale, lo porto fino in fondo.

Un allievo doveva mandare un sacco di fagioli neri ad un suo parente che abitava a centocinquanta chilometri da Lucca e dodicimilacentocinquanta da Porto Alegre?

Io tentavo di dissuaderlo, gli dicevo che ormai quei fagioli si trovavano anche là, che in Italia c’erano già tanti brasiliani, ma non c’era niente da fare. Voleva mandarglieli lui e originali di qua e dovevo portarglieli io.

Una signora amica di amici aveva dei parenti a 65 chilometri da Lucca, pochissimi, secondo lei e voleva mandargli un pacco di dolcetti fatti in casa? Toccava a me e a nessun altro.

Va da sé che chi riceveva regali voleva contraccambiare, specialmente se avvisavo per telefono che sarei passato di là, con un pacchettone-pensierino dei parenti brasiliani. Anche se ce n’era poco, trovavano il tempo necessario per improvvisare qualcosa di ingombrante, pesante e tradizionale e, al mio arrivo, di mettermelo in mano, accompagnando tutto con un sorriso e qualche frase di incoraggiamento.

Le cose da trasportare erano quasi sempre sia per l’andata che per il ritorno.

Ho cominciato a improvvisare, arrivavo all’indirizzo della persona e le lasciavo il pacco in mano, prima che potesse razionalizzare scappavo via, almeno mi risparmiavo una parte dell’incombenza.

Però l’impulso dall’altra parte era irrefrenabile, nella maggior parte dei casi mi rintracciavano, e mi consegnavano, poche ore prima del mio ritorno in Brasile, tutto quello che avrei voluto evitare di dover trasportare.

A volte tentavo di spiegare che non avevo ancora completato, dopo anni, il mio trasloco, che potevo farlo solo quando andavo là e avrei potuto - se solo me lo avessero lasciato fare - approfittare dei miei chili di bagaglio permessi dalle compagnie aeree, di cose che mi sarebbero potute servire a casa, cose che non potevo trovare in Brasile e anche trovandole avrei dovuto spendere dei soldi.

Le mie spiegazioni non servivano a niente, ognuno pensava che la propria esigenza fosse più importante e che non ci fossero varie altre persone a chiedermi lo stesso favore obbligatorio.

Se glielo dicevo, loro non ci credevano, l’entusiasmo che avevano nel farlo, nel mandare anche cose insignificanti, ma che riempivano le mie valigie e pesavano sulla mia stanchezza durante le tre tappe aeree e i relativi spostamenti del viaggio, finivano per contagiarmi.

A volte persone che non conoscevo, amici di conoscenti, o conoscenti di quasi sconosciuti, volevano che io gli comprassi quella tal cosa, oppure quell’altra, o tutt’e due: profumi o gioielli, cose che in Brasile non si trovano, o costano assai di più.

Non ho mai trasportato droga, se anche l’ho fatto, non l’ho mai saputo. C’è voluto del tempo, ma finalmente ho terminato il mio trasloco. Già oltre i trent’anni, grazie agli insegnamenti brasiliani, sono diventato un discreto bugiardo e quando mi succede di andare in Italia, non lo dico a nessuno e, se anche me lo chiedono, nego a oltranza.

 

 

 

IL MIGLIOR VINO

 

Ecco. In una delle ultime cene dell’Associazione italiana di Porto Alegre a cui ho avuto il piacere di partecipare, mi sono trovato, come sempre accanto a gente che non avevo mai conosciuto. Eravamo seduti su panche e distribuiti a caso ai lunghissimi tavoli, forse proprio per stimolare le nuove conoscenze. Arriva una signora e mi si siede accanto, tra le sue prime frasi, che nessuno pretendeva dovessero essere un esempio di intelligenza, c’è stata questa:

“Credevo che il vino migliore fosse americano, invece no. Mi sono dovuta ricredere, è australiano.”

Per quanto ci abbia provato, non sono riuscito a commentare, mi sono sentito imbarazzato per lei, mi ha disorientato. Per fortuna c’erano gli altri che hanno cominciato a conversare con la signora in questione e con una certa larghezza di vedute, che io posso anche avere, nascosta dentro di me, ma non ci riesco a innescarla quando sono preso di sorpresa.

Forse non si sono nemmeno accorti che me ne ero andato a cercare un altro posto. Non sono un patriota, anzi me ne frego della patria, e non perché si dovesse dire per forza che i migliori vini sono francesi o italiani, tutti i gusti son gusti, ma proprio per questa sensazionalista voglia di stupire, di dire una cosa sorprendente che non mi può garbare.

 

 

CANI

 

Il rapporto di mamma con il secondo Blacky e poi con Tommy era piuttosto diverso dall’usuale, in tempi diversi ma adiacenti hanno dormito con la testa sul cuscino, nel letto matrimoniale accanto a lei, ma non usavano lenzuoli e coperte, il loro pelo gli bastava. Però quando c’era il temporale Tommy era terrorizzato e saltava addosso a mamma e la sgraffiava, involontariamente la immobilizzava. Dalla cui situazione venne fuori la polemica frase:

“Ci voleva anche il cane bischero!”

Una frase che, al momento senza farci troppo caso, ho adottato recentemente anch’io per Franco, il mio macchiatino, pur valente responsabile della sicurezza della casa e del giardino, abbaia anche ai vicini di casa pur non essendocene effettivamente bisogno. Forse per attirare l’attenzione o anche per proteggere le sue proprietà in maniera preventiva, quando ha un osso comincia a fargli la guardia e a ringhiare a tutti, per giorni, notti incluse, anche e specialmente se gli altri se ne fregano di lui e del suo osso.

Figurarsi che in Brasile di avocados (qua si chiamano abacates) ce ne ho diversi alberi in giardino e specialmente quando c’è vento ne cadono giù di non completamente maturi, che la gente per portarli al punto giusto li incarta con fogli di giornale e in qualche giorno sono pronti.

I miei cani non solo se li mangiavano, ma se li litigavano addirittura. Franco, bastardino bianco a macchie nere e marroni, se ne porta uno nella cuccia, non completamente maturo, ne mangia la parte più molle e matura, poi gli fa la guardia per giorni, aspettando che maturi, ringhiando a chiunque si avvicini. Ultimamente lo porta fuori e lo mette anche al sole, per farlo maturare prima.

Agata, era una bastardina beige più anziana e sapeva però come fare per fregarlo. Quando lui era addormentato o distratto, arrivava come un lampo abbaiando a tutta forza e prendendolo di sorpresa gli portava via l’avocado restante.

E poi perché i cani si devono sempre chiamare con nomi inglesi? Magari perché sono più corti, o forse perché si vedono troppi film americani? Non mi garba tutta questa assurda moda, anzi non mi piacciono le mode, in generale.

I miei cani hanno avuto tutti nomi italiani e corti. Alfio è stato il primo, un pastore tedesco che gli mancava la parola, tanto era intelligente. Altra moda senza senso, molto meglio che non parlino, almeno loro, che a parlare ci pensa la gente e di gente che parla ce n’è già anche troppa. Quello che apprezzo nei cani è proprio il silenzio, il loro sguardo pieno di entusiasmo bambino, quel loro respiro forte, ma che infonde tranquillità, mi rassicurano e mi tranquillizzano, è bello dormire insieme a loro davanti alla televisione senza volume e una fioca abat-jour accesa.

Il mio primo cane brasiliano, con la casa ancora in costruzione, è stato Alfio, un pastore tedesco a pelo medio. Appena preso da un negozio specializzato si è ammalato di parvo-virosi. Il veterinario, che era una donna e precisamente una mia allieva di lezioni private, ha chiamato la proprietaria di quel negozio dicendo che secondo lei non era tanto specializzato, la quale ha interloquito dicendo che me ne avrebbe dato un altro e io ho detto di sì.

 Ma esattamente quando ho acconsentito, Alfio che non era ancora stato battezzato ed era sdraiato di fronte a me, si è alzato e mi ha guardato negli occhi, poi si è messo seduto a fissarmi.

Io allora ho detto di no e dopo una settimana di flebo, grazie alle quali è guarito e ha preso l'abitudine di mangiare sdraiato, Alfio è tornato a casa.

 I lavori erano ancora all'inizio e noi dormivamo ancora nell'appartamento in centro. Alfio è rimasto con i muratori che dormivano in garage, perché abitavano lontano e poi così potevano fare il churrasco e ubriacarsi tutte le sere, meno che nel fine settimana che andavano a bere e a casa e ci facevano anche il relativo churrasco, probabilmente.

La veterinaria aveva raccomandato di non dargli la carne, prendeva ancora delle pasticche ed era convalescente. Poi i muratori confessarono, tempo dopo, che gliela davano invece, perché il cucciolotto era troppo simpatico e gli saltava addosso per prendergliela, quando facevano le loro grigliate quotidiane. Io sospetto che quando finirono i lavori loro avevano già speso lì tutti i soldi che gli avevo dato. A parte il churrasco che si facevano tutti i santi giorni e la carne è una cosa cara, in più si ubriacavano sempre, giocavano al gioco del Bicho che è una specie di lotteria popolare, che fanno in tutto il Brasile e chi vende i numeri è un abusivo trai tanti, ma le estrazioni appaiono alla tv.

I muratori erano tre, ma per i lavori più duri, come la gittata, che loro non c’avevano nemmeno le paioline o tantomeno la betoniera, allora intervenivano vari colleghi amici e la sera poi la cachaça e la birra correvano a fiumi.

 Alfio passava più tempo con loro che con noi, novelli sposi, per attirare la loro attenzione si sdraiava dove stavano lavorando e loro con immensa pazienza andavano a lavorare altrove. Un classico era il mucchio di sabbia, dove scavava il manovale lui si sdraiava; poi cambiava posto e l’altro andava sdraiarsi là. Per riuscire a far lavorare i lavoratori, facemmo un recinto con i lunghi pannelli di Eternite, ma da là Alfio protestava abbaiando tutto il tempo.

Era un cane bello e simpatico, ma scavezzacollo, come tutti i giovani. Quando i muratori non c'erano già più, si fece male e la veterinaria ci fece mettere il vecchio secchio di plastica usato per il cemento attorno alla testa di Alfio, per non leccarsi la ferita. All'inizio lui rimase molto abbacchiato, almeno per i primi cinque-sei minuti, poi iniziò a correre su e giù per il terreno come se non fosse successo niente e la notte, visto che il suo pelo era assai assai scuro, quasi tutto nero e con poco marrone, si vedeva solo un secchio bianco che saletellava e vagava instancabilmente nell'oscurità.

La compagnia dei cani e dei gatti mi è spesso più affine e d’aiuto di quella umana, forse perché il cane non usa le parole, magari perché il suo pensiero è più essenziale e non si perde nei meandri del ragionamento.

Il cane mantiene la sua serietà anche quando è buffo. La felicità dei cani, mi sembra, sia soprattutto nel sentire e riconoscere la natura, tutto quello che esiste, attraverso gli odori. La gioia che noi proviamo nel contemplare uno stupendo paesaggio, che ne so, un tramonto, più raramente un’opera d’arte, oppure nell’ascoltare una canzone che in qualche modo amiamo, i cani la percepiscono con l’olfatto: se un cane potesse formulare la sua personale e animalesca idea di bellezza e di piacere conseguente, lo farebbe principalmente considerando quello che gli passa attraverso l’umido naso.

 

 

BUON APPETITO!

 

In Brasile non si usa dire buon appetito, forse perché lo si ritiene superfluo e implicito, quello c’è sempre.

Il churrasco è la specialità di qua e il fine settimana a Porto Alegre basta respirare per farne una scorpacciata. Qui intorno tutti, se non almeno un 90%, arrostiscono la carne nel forno a legna e carbone che una casa, per essere una casa, deve avere per forza.

La carne qua nel sud del Brasile è la base di ogni refezione, pochi perdono l’occasione per margiarne a pranzo e a cena.

A nord la chiamano Carne do Sol , carne del sole, perché è seccata sotto i forti raggi locali, lo charque è una carne secca e salata tipica di questo stato brasiliano, una volta tanto importante perfino per la loro economia, per il quale si fece addirittura una guerra, che fu perduta, sì, ma che ancora oggi si festeggia ogni anno a settembre, perché nonostante la grande disparità dei mezzi si resistette impavidamente contro il nemico Paulista per un bel po'.

La classe di Relvado ne era fiera, come tutti qua, di quella specialità e mi invitarono a cena, dopo la lezione, in un ristorante specializzato in quel Riso alla Carrettiera (Arroz Carreteiro) in cui la carne secca in questione era base del sugo e secondo loro una leccornia fenomenale, per ovvi motivi, che dovevo assolutamente assaporare. Ho avuto grosse difficoltà a mangiarlo, ma penso di essere riuscito a dissimulare, insomma loro hanno fatto finta di non accorgersene.

Quando m’invitavano a cena in Italia andavo tranquillo, assai difficilmente si mangiava male e se accettavo sapevo che anche la compagnia era buona. Qua invece cerco d’inventare una scusa plausibile, perché mi sono spesso trovato in situazioni imbarazzanti e non sapendo fingere mi sono vergognato anche di me stesso, dopo.

Il fatto è che noi italiani siamo abituati troppo male, se andiamo a mangiare da qualsiasi parte del mondo, resteremo quasi sempre delusi e con la fame.

Per esempio se m’invitano in un ristorante cinese, per non rifiutare, e per fare una cosa differente dal solito, ci vado, ma poi ne esco affamato.

Se voglio veramente fare una mangiata come si deve, al massimo accetto un ristorante francese, ma devo stare attento anche lì alle cose che non mi piacciono come lumache e cacciagione sul limite del marcio.

Una volta sono stato invitato, come tutti i miei allievi della classe di italiano dell’ottavo livello, a cena a casa di Gary che cucinava piuttosto bene, per questo mi fidai. Gary Ordakowskji Brandt, è di origine russa e a suo dire della famiglia stessa dello zar, da parte di madre e di padre irlandese, fuggiti in Francia e poi in Brasile quando lui aveva solo dieci anni.

Eravamo sette e la cena era in pratica un piatto unico di pasta con sugo di pesce, per il quale era stato scelto un taglierino integrale, direi poco appropriato e poi il peperoncino era andato oltre misura.

Questa storia di antipasto, primo, secondo e contorno è tipicamente italiana e al mondo ce l'abbiamo solo noi, se non erro. Altrove il piatto unico regna, se non impera, accompagnato da riso, insalata e altre cose, anche se si tratta di pasta. Per noi è un sacrilegio, ma è così.

Sapendo come so di essere fin troppo sincero, mi ero preparato una critica benevola, avrei mentito sulla bontà del piatto in questione, dato che qua si fa così e poi loro non hanno certo il gusto raffinato di chi è viziato come noi peninsulari. Per loro, se anche lo pensassero, dire totali o parziali bugie in assoluto è routine, sono tutti ottimi simulatori e dissimulatori, in sintesi potenziali manipolatori naturali.

I rapporti tra le persone sono molto più soavi che da noi e la gente qua tenta sempre di trovare il positivo anche dove non c’è, mentre in Italia ci si lamenta anche per abitudine, quando non solo è superfluo, ma controproduttivo.

La compagnia era buona, il vino anche, ben presto mi dimenticai di ogni remora, bevvi assai e mi immedesimai in quell'atmosfera di sentirsi sé stessi, come faccio quasi sempre, anche quando -come professore - non posso o meglio: non potrei.

Il vino rosso gelato non era appropriato, come secondo me non lo è mai, diciamocela tutta, nemmeno la pasta integrale. Né così tanto peperoncino con quel tipo di sugo di pesce, ma il risultato non era proprio tremendo, insomma si lasciava mangiare e aiutandomi con gli accompagnamenti di riso, insalata, crostini, crocchette e altre cose servite tutte insieme e se vogliamo fuori luogo, ma provvidenziali, sono riuscito a far finta. Sennonché preso alla sprovvista mi sono dimenticato del mio buon senso, che ce l'ho anch’io, ma non sempre lo uso e avevo trincato tanto, diciamo troppo.

Forse ero anche piuttosto paonazzo, quando alla fine e a sorpresa mi chiesero se anche un italiano pignolo e fissato come me, aveva potuto assaporare appieno quella meraviglia di cena.

Suggerendo già nella domanda provocatoria, che era proprio il momento giusto per fare il brasiliano e mentire, insomma simulare e dissimulare rotondamente come fanno loro, dichiarare che era stata una cosa gustosissima, da nessuno metterci dei difetti come dicono loro, che mi congratulavo e ringraziavo eccetera eccetera.

Invece fu il vino che prese il comando e quella domanda come provocazione, come stimolo appropriato per dire la verità, nient’altro che la verità, pur senza giurarlo, non ce n’era bisogno.

Tante volte nella mia vita avrei voluto tornare indietro, quella fu una, in cui mi vergognai della mia esagerata presa diretta senza filtri.

Per fortuna loro sono assai elastici, risero e si divertirono per la mia totale mancanza di tatto ed educazione. Per come bonariamente non reagirono, direi che da me se lo aspettavano.

 

PALI E FRASCHE

 

Con Marli difficilmente avrebbe potuto funzionare eppure, o forse proprio per questo, all'inizio mi aveva catturato e pensavo che sarebbe durata. O forse no, ero solo infatuato e poi lei cominciò a fare la prepotente e questo segnò la fine del nostro rapporto. Dopo due mesi voleva sposarmi e diceva che ero troppo lento a decidermi.

Due cose buone mi sono rimaste, con lei ho iniziato a scrivere i racconti sulla spiaggia di Matadeiro, voglio dire a farlo in maniera disciplinata e allo stesso tempo entusiasta.

Un'altra cosa buona è stata l'abitudine regolare a lavarmi i denti prima di dormire che è durata per anni e ora l'ho già perduta.

A proposito dei miei racconti, chi mi ha convinto e portato materialmente a pubblicarli è stato Gary, che mi ha pure presentato Ubiratão che mi ha condotto per mano fino al libro cartaceo.

Certo poi la distribuzione l'ho dovuta fare io di persona, con due lanci nel Museo del Lavoro di Porto Alegre, di cui il secondo completamente fallimentare. Quello che conta è che poi, rotto il ghiaccio, ne ho pubblicati oltre una decina, quasi sempre sborsando dei soldi, senza avere mai un editore serio o disposto a far conoscere veramente l'opera in questione.

Di quel primo libro ne ho ancora 186 copie che non so proprio come sbolognerò, ma buttarle via non posso. Qualcuno l’ho venduto a scuola quando insegnavo per il consolato, pochi altri nelle librerie di Porto Alegre. Sommati a quelli donati, comunque ottocento se ne sono andati, e a qualcuno sono perfino piaciuti.

Ubiratão è morto e con Gary, mio ex allievo di italiano, ogni tanto facciamo qualche videoconferenza. È un pittore, ma i suoi quadri sono quasi al confine della scultura, è un personaggio simpatico, ma differente dagli sterotipi conosciuti.

Mio padre diceva che nessuno è normale e io aggiungo che lui ne era la dimostrazione vivente. Io stesso ne ho ereditato alcune magagne, non tutte maledette, certe cose utili, altre deleterie.

I brasiliani mi piacciono di più, perché sembrano bambini che giocano a fare gli adulti, un po’ come me. C’è da notare anche che ho abitato proprio nei tre paesi che hanno vinto più mondiali di calcio di tutti, tredici su venti. Forse significa qualcosa, ma cosa?

 In Brasile c'è tanta o troppa marijuana che qui chiamano macogna (maconha). Droga cosiddetta pesante quasi mai, due volte ho provato la cocaina, ma forse non era tanto buona, insomma mi ha fatto l’effetto di due espressi napoletani.

Il salto di palo in frasca a me piace, non solo scrivendo, so che potrebbe confondere l'eventuale interlocutore, però scongiura la noia e provoca dei piccoli sobbalzi al cuore, senza i quali, sopita ogni emozione, non solo l'omo, ma anche la donna, aspettano solo la morte.

 


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