Perché sono venuto qua in Brasile?
Me lo chiedono soprattutto i brasiliani, gli italiani lo sanno già, anche se
poi quello che si figurano del Brasile è più stereotipo che verità. Per la
gente di qua però è un mistero, perché coltivano una passione esagerata per
l'Europa e gli Stati Uniti. Il primo mondo è una realtà idealizzata, ed è così
chiamato per motivi finanziari, ma anche culturali, non da tutti, perché qui i
soldi, e chi ce li ha, sono idoli dorati. Ma i brasiliani che escono da qua si
accorgono meglio di quello che c'è di buono in questa grande nazione. Quelli
che non sono mai andati fuori dicono che non è un grande paese, ma un paese
grande, sottintendendo una certa amarezza.
All'inizio ho abitato in un appartamento piccolo, umido e buio, ma dopo, da
sposato, siamo venuti quassù. Il primo e il secondo matrimonio sono crollati e
qui ai miei due lati ci sono due case con dentro altri due uomini soli. Dopo
aver vissuto qualche decina di anni insieme, aver fallito con le due rispettive
donne, aver fatto figli, che ora sono adulti e poi basta... ognuno per la sua
strada.
Una volta il matrimonio
anche qui era indissolubile, ora è diventato una barzelletta. Non sono mai
stato un estimatore del matrimonio, per carità, per me lo ritengo assai
improbabile, ma ammiro la famiglia come era una volta, anche se era fondata
sulla rinuncia. La gente stava meglio quando c'erano meno soldi e meno
tecnologia, forse anche meno illusioni.
SPIAGGIA
“Quando sono arrivato in Brasile
la famiglia Spreafico mi ha aiutato assai e sento per loro la massima
gratitudine.
Erano veramente brava gente, o
meglio: lo sono ancora.
Il figlio di nonna Nora,
Gianfranco, sposato con Gertrude, di famiglia tedesca, lavorava ai sindacati.
Nel rapido fioccare dei giorni
feriali, se per caso lo incontravo, m’invitava per la tradizionale escursione
del fine settimana:
- Venerdì sera alle cinque e mezzo
sono qui e appena arrivo viaaaa, tutti alla spiaggiaaa!! Così dicendo batteva
le mani per evidenziare, con lo schiocco, l’estrema rapidità di quell’epica
fuga dallo stress della grande città.
Dopo le prime esperienze dirette,
sapevo che non sarebbe andata esattamente così, anzi quasi tutto al contrario.
Era come un film.
Per cominciare, alle cinque e
mezzo lui non arrivava mai, ma sempre verso le sette. La moglie e la madre
immancabilmente e instancabilmente lo accusavano del ritardo, lui si arrabbiava
e cominciavano a preparare le cose da portare via aiutandosi a urli.
Man mano che le cose venivano
preparate, aveva luogo un pittoresco andirivieni di gente a caricare la
macchina, con tutto quello che ci sarebbe potuto entrare e riuscendo talvolta a
elasticizzare le rigide proprietà geometriche dei corpi solidi e, in alcuni
casi, perfino della fisica quantica.
Martinho, figlio di primo letto di
Gertrude, era un bambinone quasi adolescente, dalla simpatica faccia da indio e
faceva il grosso del trasporto, dall’appartamento al primo piano, fino
all’automezzo, che proprio grande non era.
Considerando che saremmo rimasti
là solo due giorni, era una montagna di roba, ma a pensarci bene sarebbe stata
troppa anche per un mese.
Io mi mettevo a fare altre cose,
intanto, nel mio piccolo appartamento a lato di quello di nonna Nora, a piano
terra, se avessero avuto bisogno di una mano mi avrebbero chiamato, certo che
mettersi ad aspettare era una cosa assurda.
Nonna Nora, invece, seduta sul
divano colla borsetta in mano, televisione rigorosamente spenta, ci stava fino
alle undici, undici e mezzo. Ogni volta che passava Gianfranco litigavano un
po’, al volo, ripassando i loro cliché classici, alla tipica maniera italiana.
Al momento di partire una montagna di cose giacevano ancora fuori dalla
macchina, sul marciapiede, pronte ad essere caricate.
La prima volta, al mio inutile
avvertimento, Gianfranco disse che andava bene così e gli altri ridacchiarono e
mi fecero cenno di salire.
Una volta entrati e seduti tutti,
lui ce le mise addosso, in maniera che non ci si potesse più muovere, ma che le
teste affiorassero dalla marea di oggetti di vario tipo. Insomma, in fondo si
poteva anche respirare e perfino parlare, ma le voci venivano fuori un po’
soffocate.
Naturalmente lui era l’unico
escluso dal martirio, perché doveva guidare e già che c’era lo faceva anche
alla velocità massima, come se fosse l’ultima azione che avessimo potuto
compiere nella nostra vita, cosa che poteva anche essere, a conti fatti, ma ci
siamo salvati sempre, per fortuna.
Eravamo partiti, finalmente, ma
purtroppo ci si doveva ancora fermare a prendere la chiave dallo zio Adolfo in
un quartiere completamente fuori mano di Porto Alegre, poi a prendere una
coperta e un trapano dalla cugina Adelaide in un’altra zona, un servizio di
piatti e bicchieri a casa del cugino Romeo in un terzo quartiere deserto e così
via.
Questi altri personaggi
sorridevano sornioni e fingevano di sorprendersi per l’inusuale ritardo, erano
ore che ci aspettavano, dicevano e ci offrivano da mangiare e da bere,
comprendendo il nostro sforzo fisico e mentale.
Noi non potevamo scendere e ne
approfittavamo sul posto, liberando gli arti prensili alla meglio e intanto si
chiacchierava allegramente del più e del meno. Anzi, poi non la smettevano più
di parlare, a dire il vero, causando ulteriore ritardo agli orari della
spedizione e secondo me quelli lo facevano di proposito.
Quando ci trovavamo
miracolosamente e finalmente sulla strada per il mare erano passate alcune ore
e le nostre ossa scricchiolavano.Per fortuna la spiaggia era solo a un
centinaio di chilometri e di traffico a quell’ora non ce n’era tanto.
Alle curve una massa enorme di
oggetti tentava di scapparsela e si muoveva sinistramente, noi ne venivamo
trascinati fino alle porte ben chiuse della macchina.
Ogni tanto Gianfranco non riusciva
ad evitare un cratere dell’asfalto, comparsogli davanti all’ultimo istante e il
risultato lo sentivamo tutti direttamente sull’osso sacro.
Gertrude gli gridava di andare
piano, ma Gianfranco non se ne faceva un cruccio, non le rispondeva neanche;
poi accumulandosi le richieste urlate, alla fine rispondeva e urlava anche lui,
allora era peggio.
Qualche volta, in quello stress di
viaggio avevamo anche la petulanza di berci il chimarrão, nel qual caso, aveva
luogo un rumoroso e ripetuto e frenetico movimento di braccia, per spostare gli
oggetti che ci ingombravano le mani, per riceverne il recipiente, (fatto con
una zucca secca e chiamato cuja) per le nostre relative calde succhiate nella
notte già abbastanza sudata.
Arrivati a Magisterio, ci pareva
di essere su una nave di Cristoforo Colombo che avvistava terra. Dal mare si
vedeva un chiarore di alba e noi colle membra anchilosate, eravamo veramente
contenti di venire liberati, uno alla volta, oggetto sotto oggetto e dopo di
scaricare tutto, portare la roba in casa, respirare a pieni polmoni l’aria che
sapeva di salmastro.
Poi andavamo a dormire stanchi
morti, ma felici di avercela fatta.
A questo punto non so se ero
l’unico ad avere già il pensiero alla domenica sera di dover ripetere la scena,
per il ritorno, ma non lo dicevo a nessuno. Appena sdraiato gli occhi mi si
chiudevano da soli, avevo appena il
tempo di sentire il preludio del concerto di russate che risuonava per tutta la
casetta, dalle porte aperte delle piccole camere.
Una volta l’abitazione era stata
di legno, più grande e proprietà delle due famiglie, quella di nonna Nora e di
sua sorella Mara. Poi era stata letteralmente segata in due, quella di Nora e
Gianfranco, dove stavamo noi era stata distrutta e ricostruita in muratura.
Dall’altra parte, però, era rimasta tale e quale, o quasi, perché
quell’operazione di drastica spartizione non aveva tenuto conto delle strutture
portanti, credo, o almeno non del tutto e l’aveva resa pericolante e storta.
Gianfranco aveva comprato una
telecamera e un giorno ci fecero vedere, a me e a mia moglie, attraverso la
televisione, il primo filmato fatto, che ritraeva in movimento la famiglia
Spreafico in uno spaccato di normale quotidianità.
Erano in casa, tutti presenti,
però c’era qualcosa che non andava. Il film mancava di brio, loro si chiedevano
addirittura le cose per favore, nessuno gridava, nessuno si mandava affanculo.
Davanti alla telecamera tutta la pittoresca naturalezza del gruppo Spreafico si
era irrimediabilmente persa.
Cercammo di non ridere, loro se ne
accorsero, non ci rimasero male, credo che non ne capirono il perché.
INFORMAZIONI STRADALI
Nei miei primi mesi di permanenza
nello stato del Rio Grande do Sul, mi mandarono a insegnare la mia lingua madre
in una cittadina di circa 200.000 abitanti, di dominazione tedesca, con qualche
italiano d’origine sparso. L’industria calzaturiera era stata per anni la fonte
primaria della loro economia, poi i cinesi da lontano li avevano eliminati
dalla mappa, per via dei prezzi bassi della loro mano d’opera. Novo Hamburgo
era a una quarantina di chilometri da Porto Alegre.
Arrivai in macchina e non c’ero
mai stato. Dovevo incontrare il signor Tramontin, il responsabile della scuola,
che poi era un club di italo-brasiliani.
Chiedere un’informazione per
strada, per sapere dov’è l’ospedale - o la stazione, o la scuola tal dei tali –
è un tipo di azione che può dare sviluppi e risultati differenti a seconda
della nazione o perfino della regione dove ci troviamo. Per esempio in Brasile
è una cosa piuttosto diversa dall’Italia, ancor più dalla Germania, tanto per
citare i tre paesi dove ho vissuto.
Un cinquantenne pelato e un po’
sudato mi raccontò nei particolari la storia della sua vita e della sua
famiglia, per una strana coincidenza di origine italiana. Poi con qualche
apparente difficoltà di orientamento mi spiegò, girandosi attorno nervosamente
e scrutando l’orizzonte (che doveva essere dietro a quei palazzoni di tre o
quattro piani,) come sarei potuto arrivare, senza perdere troppo tempo, e/o
denaro, a destinazione. Seguendo le istruzioni di quell’affabile individuo mi
persi in un dedalo di stradine e chiesi di nuovo indicazioni a una signora che
aspettava l’autobus, probabilmente di origine tedesca. Non mi raccontò niente
di romantico e personale, era piuttosto riservata, ma mi disse che c’ero vicino
assai, a piedi in cinque minuti ci sarei arrivato, però con la macchina dovevo
fare un giro piuttosto lungo che mi spiegò in maniera confusa ma ripetuta.
Dalla progressiva rarefazione di case capii che dovevo aver sbagliato qualcosa.
Ero in aperta campagna. Rientrato in città scelsi - tra la tanta gente intorno
- un ragazzo con in mano un pacco lungo e pesante che insisteva nel non voler
appoggiare per terra, disse che studiava la nostra lingua e precisamente la più
bella al mondo, gli garbavano assai Laura Pausini ed Eros Ramazzotti.
Alla fine, su mia ripetuta insistenza,
affrontammo di nuovo l’argomento che mi premeva di più e fu allora che mi
mostrò una cartina della città appesa nella piazzetta del Municipio, dove ci
trovavamo in quel momento. Non mi potevo sbagliare, eravamo a un tiro di
schioppo. Mi spiegò che il centro di Novo Hamburgo era piccolo assai e che lì
non ci si poteva proprio perdere, neanche volendo.
Eppure io ci riuscii di nuovo,
forse per colpa dei sensi unici o del calore.
Non so più quante piccole e
tragicomiche disavventure dopo, in base a qualche divina ispirazione, alzai la
testa, anche per asciugare la mia fronte che grondava copioso sudore,
distinguendo con quasi certezza che il nome di quella stessa strada, scritto in
bianco su una targa azzurra, era proprio quello giusto.
L’Associazione Italiana Mamma Mia
era al numero 2, a dieci metri da dove avevo chiesto la prima indicazione.
Avevo girato come una mosca senza testa per più di mezz’ora ed ero arrivato nel
punto esatto dove avevo chiesto informazione a quel primo signore, trai tanti
che avevo interpellato in cerca di aiuto, l’indirizzo in questione era lì di
fronte a me e pareva impossibile che ci fosse stato anche prima.
Quando raccontai quella storia al
signor Tramontin rise di gusto, parlava un italiano mezzo mischiato al dialetto
veneto con qualche parola di portoghese. Dopo un’ultima risata e un residuo
porcodio, mi spiegò divertito:
“No, no, non si fa così. Si vede
che lei non è proprio di queste parti. Lei deve capire prima di tutto che il
brasiliano si vergogna a dire che non lo sa. Gli pare brutto. Sembra che non
voglia collaborare, una mancanza di rispetto. Allora dice quello che pensa che
sia il posto giusto, gli pare di averlo sentito dire, o era qualcosa del
genere, che poi saperlo e spiegarlo sono già due cose differenti, ma se non lo
si sa nemmeno...”
Il Tramontin era un simpaticone,
mi raccontò che era stato direttore del Banco di Brasil, che ora era in
pensione, grazie a dio, che sua figlia era in Italia sposata con un italiano
autentico, che l’altro che conosceva ero io, ma poi c’era anche il segretario,
al quale subito mi presentò e gli raccontò la storia. Il signor Pacini arrossì
e rise, si scusò, parlava un italiano quasi da manuale:
“Io sono Toscano come lei. Son
arrivato qui una ventina d’anni fa, ma ho ancora parenti a Grosseto, li visito
ogni due o tre anni, a volte vengono loro qui da me.
Guardi: la pazienza è necessaria
sempre, non solo nel Rio Grande do Sul; ma qua bisogna anzitutto capire che
questa brava gente preferisce dare un’informazione sbagliata al dire che non sa
dove è quel luogo, gli pare meglio mentire con classe che dire una spiacevole
verità. Si fa molta attenzione a non contrariare gli altri, la soavità del modo
di fare a noi pare eccessiva e ad ogni costo, è certo una maniera di stare con
gli altri differente dalla nostra europea, più schiva e spesso anche fredda.
Al turista si consiglia di
chiedere più volte le informazioni e di fare una media tra tutte, riuscirà
così, con un po’ di fortuna, a capire, più o meno, dove si trova l’indirizzo
che cerca e a conoscere tanta gente disposta sinceramente ad aiutarlo, anche se
purtroppo non hanno la necessaria competenza per farlo, sono servizievoli,
gentili e simpatici.
E qui nel Rio Grande do Sul è
meglio non dirgli che siete italiano, ma proprio italiano vero, non solo di
origine, che sennò per strada lei ci fa notte, è anche pericoloso. Meglio dire
che siete spagnolo, qui ce ne sono pochi anche di origine e non sono tanto
entusiasti come i nostri compaesani, anche solo di origine, lei mi capisce. ”
Nell’ultimo stato in fondo al
Brasile, sopra l’Uruguay sul litorale e a lato dell’Argentina all’interno, ci
sono numerosi peninsulari di origine e ognuno proprio per quel motivo si sente
speciale. Non sono mai stati in Italia, ma l’amano con tutta la loro forza.
MACCHÉ
“Nel sud del Brasile si da’
lezione anche in epoche calde, come a marzo, alla fine dell’estate, o a
novembre, alla fine della primavera.
Nella tarda mattinata di un
qualsiasi giorno caldissimo, mi preparai opportunamente vestito con pantaloni
lunghi, ma leggerissimi, portati dalla Germania ed una maglietta impalpabile.
Le lezioni alle classi non si
possono dare con i pantaloni corti e francamente in un Brasile anche solo
subtropicale come il nostro, mi pare assurdo, ma è così.
Chi lavora negli uffici, anche se
c’è l’aria condizionata, prima o poi deve uscire, sia solo per andare a pranzo,
o tornare casa e in giacca e cravatta,
con 35 o più gradi, si fa delle sudate da sauna.
Meno male che, ora che lavoro solo
con le lezioni private, lo faccio in canottiera, pantaloncini e sandali,
accetto solo allievi con aria condizionata eppure torno a casa appiccicoso e
fetido.
Non sono mai stato uno di quelli
che si guardano tanto allo specchio per vedere se sono belli o stilisticamente
conformi al desiderato, col passare degli anni lo sono diventato ancora meno,
se possibile.
Però prima di due lezioni
d’italiano, davanti a classi di una ventina di persone, è meglio darsi almeno
un’occhiatina, non si sa mai.
Mi era già capitato di dare
lezione con un bel buco nella maglia sul petto, ma, per fortuna o per sfortuna,
me ne ero accorto solo dopo.
Il Brasile, devo dire, rispetto
all’ossessiva cura dell’aspetto dell’Italia, mi da’ molto più sollievo, anzi,
quando sono troppo elegante mi sento a disagio, ma mi capita di rado.
Quel giorno però, credevo di
essere particolarmente a posto, mi ci sentivo bene, insomma, perché erano
indumenti leggeri e freschi, ma perfettamente combinati come colori.
I pantaloni di quel violetto scuro
che era quasi un grigio, la maglietta rossa aperta, senza colletto, con quattro
bottoni, le scarpe blu scuro tutte buchettate comprate in Italia, pagate da
mamma.
Il dubbio, da queste parti, quando
ti vesti un po’ a colori vivaci, è che ti scambino per un omosessuale, ma i
tempi stanno lentamente cambiando, in quella direzione, anche in uno stato
storicamente assai maschilista e rigido in certi tipi di situazione.
Perciò quando uscii di casa
sentivo il venticello fresco su tutto il corpo, mi sentivo bene, fisicamente ed
esteticamente, secondo i miei gusti personali, ma notai subito che tutti mi
guardavano.
I casi erano due: sembravo
eccessivamente delicato, o ero troppo elegante, anche se, già altre volte avevo
usato quell’accostamento e non avevo notato niente del genere.
Prima di partire verso la scuola
di destinazione, ero andato a parlare con i muratori che lavoravano nel
giardino della casa del mio vicino di fianco.
Mi ero messo d’accordo con loro,
tempo addietro, per fare un lavoro nel mio giardino e precisamente la struttura
di pietra intorno alla piscina, installata da poco e già funzionante.
Carlinho, il capo di questi
muratori, (che mi guardavano tutti colla coda dell’occhio, come se la mia parte
più elegante fosse visibile proprio dal dietro,) era il mio vicino di fronte,
dalla parte del portone d’entrata.
Colla mia coda dell’occhio, a mia
volta, avevo notato questo ben determinato tipo di tendenza, mentre parlavo con
lui su quando sarebbero finiti quei lavori lì, che stavano tentando di
terminare invano, da alcune settimane e più o meno quando sarebbero cominciati
i miei lavori.
Con la coda del mio cervello, mi stavo chiedendo di quale dei due casi si
trattasse: omosessualità o eleganza eccessiva, o, chissà, magari un terzo ed
imprevisto caso... un misto dei primi due?
Però, in fondo, di quello che
pensano gli altri me ne frego sempre abbastanza e a volte, lo ammetto, sbaglio.
Il dialogo era finito, senza
naturalmente risolvere il mio interrogativo riguardo al tempo restante di
attesa.
Stavo cominciando a capire che
qualsiasi cosa mi avesse detto, Carlinho, o qualsiasi altro brasiliano, non ci
potevo contare.
Che cosa glielo chiedevo a fare
non lo so, forse per fargli capire che avevo fretta, magari, o qualcosa del
genere.
Il tempo italiano disgraziatamente
non coincide mai col tempo brasiliano che qui è giusto che sia quello
ufficiale.
Ho sempre avuto le mie difficoltà
a comprenderlo, il tempo brasiliano, come ne ho ancora adesso, dopo quasi
quindici anni, perché risulta un’entità flessibile, assai elastica e talvolta
perfino astratta, comunque mai corrispondente a quel che si dice prima.
Perciò, rassegnato alla mia
illimitata attesa, salutai e me ne stavo andando, quando Carlinho, un po’
imbarazzato mi chiamò da una parte.
Carlinho ha i lobi delle orecchie
più grandi e carnosi che io abbia mai visto e ho girato il mondo.
È un ragazzo intelligente ma
lentissimo, anche nel parlare, i suoi lavori sono molto ben fatti, ma il tempo
che ci vuole è almeno il doppio di quello che ha dichiarato all’inizio.
È simpatico in quella maniera
involontaria, specialmente quando tenta di stare serio, perché è proprio allora
che gli scappa da ridere:
- Senta, non se la prenda a male,
glielo dico solo per aiutarLa... Le volevo dire... che Lei ha uno strappo
enorme nei pantaloni, dietro. Giù dal sedere, si vedono anche le mutande, ma
poi scende per tutta la lunghezza della coscia.”
TRANSITO
Anche se grossa la macchina è solo
una cosa, ma specialmente qui in Brasile è una cosa sopravvalutata, forse
perché non tutti possono comprarsela e tanti di quelli che ne acquistano una
poi devono continuare a pagarla per anni.
Il traffico cittadino di Porto
Alegre è claustrofobico, a tratti tragicomico, almeno visto da fuori.
La nostra è una quasi metropoli di
nemmeno due milioni di abitanti, favele incluse, ma senza impegni di precisione
numerica.
Trattasi di sviluppo urbano ed
extraurbano cresciuto senza controllo, con alcune città dormitorio attaccate e
relative migliaia di persone che le visitano di notte e poi la mattina presto
ritornano verso il lavoro.
Il flusso dei mezzi di locomozione
di questa capitale di stato del sud del Brasile, pur seguendo alla lettera la
teoria del caos, ha una sua logica, un po’ come quello di Napoli, senz’altro
migliore di quello di Rio de Janeiro, tutto il contrario di quello di Zurigo.
I semafori sono numerosi, in
alcune parti della città sembrano troppo vicini l’uno all’altro. Chi ti
sorpassa a tutta velocità è destinato a ritrovarsi al tuo fianco al semaforo
seguente e poi a quello dopo e così via.
Le industrie automobilistiche sono
arrivate a vendere le macchine in 99 comodissime rate mensili, non che poi vengano
pagate, in seguito, ma intanto si muove il mercato.
Per andare dalla zona sud alla
zona nord della città, ci si metteva, prima della costruzione della terza
circonvallazione, più tempo che ad andare nella città più vicina, Canoas.
Le cose ora sarebbero migliorate,
ma le macchine sono aumentate e anche gli autobus, i camion, i taxi e le
navette... insomma, pur avendo lavorato affannosamente per migliorare, siamo
allo stesso punto di prima.
Si suona raramente il clacson,
rispetto all’Italia, ma la tendenza è in crescendo.
Si suona più per salutare gli
amici che per altro, magari per attirare l’attenzione di qualche bellezza
sculettante.
Chi è in ritardo cerca di mettere
sotto pressione gli altri automobilisti, incollandosi dietro ai posteriori, a
volte di macchine che perdono i pezzi, di vecchietti che chiacchierano, che non
guardano mai nello specchietto, per nessun motivo e transitano tranquillamente
nella corsia che dovrebbe essere quella del sorpasso, a velocità non misurabili
da un contachilometri moderno.
I taxisti si fermano per prendere
o lasciare i passeggeri in mezzo alla strada e lo stesso fanno i vari tipi di
autobus.
Nessuno usa la freccia per
segnalare qualcosa come una svolta o una fermata; se e quando lo fanno è dopo o
durante. Però quando la urtano inavvertitamente col braccio, se la dimenticano
poi accesa per tutto il viaggio.
Ci sono i carrettini dei
raccoglitori di carta, tirati da cavalli magrissimi, o piuttosto dei mezzi
muli, i cui conduttori non rispettano alcuna regola, di nessun tipo o codice, e
formano interminabili code nelle strettoie. Se a bordo sono in due, ecco che si
organizzano: uno guida e l’altro manda affanculo i motorizzati dietro.
I numerosissimi pedoni s’infilano
in mezzo che è una bellezza, le automobili
- per evitarli - aumentano la velocità, ma se qualcuno ingenuamente si
ferma, per lasciarli passare, viene circondato e dimenticato in mezzo alla folla.
Al semaforo, in questo clima di guerra
per ogni metro in più, non c’è molto tempo per passare, quelli che sfrecciano
già col rosso dall’altra parte, alla fine del verde, s’impadroniscono
dell’esiguo tempo utile.
Se le automobili sono troppe, gli
autobus occupano molto più spazio e sono lenti e tanti che a volte se ne vedono
quattro o cinque, gli uni attaccati agli altri, come un treno.
D’estate, l’aria condizionata
dell’automobile eviterebbe, oltre al caldo insopportabile, i contatti con i
venditori e con chi chiede elemosina, isolerebbe piacevolmente dal resto e
sarebbe quindi una cosa meravigliosa, ma non tutti possono permettersela.
Ad allietare la scena di transito
urbano, poi, ci sono i lavori in corso, i camion raccoglitori della spazzatura,
gli spazzini a piedi, i blocchi stradali, le macchine ferme in mezzo alla
strada per un guasto, gli incidenti a catena e i motociclisti che passano a
tutta velocità tra le macchine ferme, tra le varie corsie. Chi fa un
cambiamento di fila non ha tempo di vederli arrivare, ne muoiono tutti i giorni,
ma non se ne preoccupano.
Al semaforo ci sono quelli che
chiedono una monetina, quelli che lavano i vetri specialmente di chi non vuole,
poi i venditori di giornali, tergicristalli di ricambio e altri articoli per la
macchina, succhi d’arancia, frutta, rose e fiori e qualsiasi altra cosa.
A volte gli elemosinanti o i
venditori sono anche in sedia a rotelle, se ne stanno tranquillamente in mezzo
e ritardano ogni già problematico movimento.
Sempre al semaforo, quelli che
stanno in prima fila sono gli unici che non guardano se cambia colore e una
volta arrivato il verde, partono solo quando gli suonano da dietro, riducendo
ancora il tempo utile per il passaggio che è già cortissimo.
Una moda diffusa ed efficace è non
considerare mai il punto di vista degli altri, ma questo vale anche e
soprattutto fuori dal traffico, nella vita quotidiana.
La libertà del cittadino non
finisce dove inizia quella degli altri, ma nel migliore dei casi, dove iniziano
le sue proteste.
Quando l’autista scende dal suo
mezzo di trasporto, magicamente comincia a ragionare come un pedone e a mandare
a quel paese gli autisti.
Intanto il pedone è arrivato alla
sua automobile e ha già cambiato mentalità, la sua ottica è diventata quella
del guidatore e non sopporta tutti quei pedoni tra i piedi.
Si chiede perché mai esistono e
perché si ostinano a camminare in mezzo alle automobili ostacolandone la già
difficile, ma pur legittima marcia.
Oltre a chi sperimenta
giornalmente i due lati della lotta, senza permettergli mai di comunicare tra
di loro, ci sono quelli che invece non hanno soldi per comprare una macchina o
anche solo una moto e allora odiano incondizionatamente ed ostacolano, quando
possono, tutti quelli che ne possiedono.
CORRIERE
Il guaio era che tutte le volte
che andavo in Italia, ingenuamente lo dicevo in giro e mi coprivano di ordini e
faccende da sbrigare.
Purtroppo, quando mi prendo un
impegno, per una specie di aberrazione mentale, lo porto fino in fondo.
Un allievo doveva mandare un sacco
di fagioli neri ad un suo parente che abitava a centocinquanta chilometri da
Lucca e dodicimilacentocinquanta da Porto Alegre?
Io tentavo di dissuaderlo, gli
dicevo che ormai quei fagioli si trovavano anche là, che in Italia c’erano già
tanti brasiliani, ma non c’era niente da fare. Voleva mandarglieli lui e
originali di qua e dovevo portarglieli io.
Una signora amica di amici aveva
dei parenti a 65 chilometri da Lucca, pochissimi, secondo lei e voleva
mandargli un pacco di dolcetti fatti in casa? Toccava a me e a nessun altro.
Va da sé che chi riceveva regali
voleva contraccambiare, specialmente se avvisavo per telefono che sarei passato
di là, con un pacchettone-pensierino dei parenti brasiliani. Anche se ce n’era
poco, trovavano il tempo necessario per improvvisare qualcosa di ingombrante,
pesante e tradizionale e, al mio arrivo, di mettermelo in mano, accompagnando
tutto con un sorriso e qualche frase di incoraggiamento.
Le cose da trasportare erano quasi
sempre sia per l’andata che per il ritorno.
Ho cominciato a improvvisare,
arrivavo all’indirizzo della persona e le lasciavo il pacco in mano, prima che
potesse razionalizzare scappavo via, almeno mi risparmiavo una parte
dell’incombenza.
Però l’impulso dall’altra parte
era irrefrenabile, nella maggior parte dei casi mi rintracciavano, e mi
consegnavano, poche ore prima del mio ritorno in Brasile, tutto quello che
avrei voluto evitare di dover trasportare.
A volte tentavo di spiegare che
non avevo ancora completato, dopo anni, il mio trasloco, che potevo farlo solo
quando andavo là e avrei potuto - se solo me lo avessero lasciato fare -
approfittare dei miei chili di bagaglio permessi dalle compagnie aeree, di cose
che mi sarebbero potute servire a casa, cose che non potevo trovare in Brasile
e anche trovandole avrei dovuto spendere dei soldi.
Le mie spiegazioni non servivano a
niente, ognuno pensava che la propria esigenza fosse più importante e che non
ci fossero varie altre persone a chiedermi lo stesso favore obbligatorio.
Se glielo dicevo, loro non ci
credevano, l’entusiasmo che avevano nel farlo, nel mandare anche cose
insignificanti, ma che riempivano le mie valigie e pesavano sulla mia
stanchezza durante le tre tappe aeree e i relativi spostamenti del viaggio,
finivano per contagiarmi.
A volte persone che non conoscevo,
amici di conoscenti, o conoscenti di quasi sconosciuti, volevano che io gli
comprassi quella tal cosa, oppure quell’altra, o tutt’e due: profumi o
gioielli, cose che in Brasile non si trovano, o costano assai di più.
Non ho mai trasportato droga, se
anche l’ho fatto, non l’ho mai saputo. C’è voluto del tempo, ma finalmente ho
terminato il mio trasloco. Già oltre i trent’anni, grazie agli insegnamenti
brasiliani, sono diventato un discreto bugiardo e quando mi succede di andare
in Italia, non lo dico a nessuno e, se anche me lo chiedono, nego a oltranza.
IL MIGLIOR VINO
Ecco. In una delle ultime cene
dell’Associazione italiana di Porto Alegre a cui ho avuto il piacere di
partecipare, mi sono trovato, come sempre accanto a gente che non avevo mai
conosciuto. Eravamo seduti su panche e distribuiti a caso ai lunghissimi
tavoli, forse proprio per stimolare le nuove conoscenze. Arriva una signora e
mi si siede accanto, tra le sue prime frasi, che nessuno pretendeva dovessero
essere un esempio di intelligenza, c’è stata questa:
“Credevo che il vino migliore
fosse americano, invece no. Mi sono dovuta ricredere, è australiano.”
Per quanto ci abbia provato, non
sono riuscito a commentare, mi sono sentito imbarazzato per lei, mi ha
disorientato. Per fortuna c’erano gli altri che hanno cominciato a conversare
con la signora in questione e con una certa larghezza di vedute, che io posso
anche avere, nascosta dentro di me, ma non ci riesco a innescarla quando sono
preso di sorpresa.
Forse non si sono nemmeno accorti
che me ne ero andato a cercare un altro posto. Non sono un patriota, anzi me ne
frego della patria, e non perché si dovesse dire per forza che i migliori vini
sono francesi o italiani, tutti i gusti son gusti, ma proprio per questa
sensazionalista voglia di stupire, di dire una cosa sorprendente che non mi può
garbare.
CANI
Il rapporto di mamma con il
secondo Blacky e poi con Tommy era piuttosto diverso dall’usuale, in tempi
diversi ma adiacenti hanno dormito con la testa sul cuscino, nel letto
matrimoniale accanto a lei, ma non usavano lenzuoli e coperte, il loro pelo gli
bastava. Però quando c’era il temporale Tommy era terrorizzato e saltava
addosso a mamma e la sgraffiava, involontariamente la immobilizzava. Dalla cui
situazione venne fuori la polemica frase:
“Ci voleva anche il cane
bischero!”
Una frase che, al momento senza
farci troppo caso, ho adottato recentemente anch’io per Franco, il mio
macchiatino, pur valente responsabile della sicurezza della casa e del giardino,
abbaia anche ai vicini di casa pur non essendocene effettivamente bisogno.
Forse per attirare l’attenzione o anche per proteggere le sue proprietà in
maniera preventiva, quando ha un osso comincia a fargli la guardia e a
ringhiare a tutti, per giorni, notti incluse, anche e specialmente se gli altri
se ne fregano di lui e del suo osso.
Figurarsi che in Brasile di
avocados (qua si chiamano abacates) ce ne ho diversi alberi in giardino e
specialmente quando c’è vento ne cadono giù di non completamente maturi, che la
gente per portarli al punto giusto li incarta con fogli di giornale e in
qualche giorno sono pronti.
I miei cani non solo se li
mangiavano, ma se li litigavano addirittura. Franco, bastardino bianco a
macchie nere e marroni, se ne porta uno nella cuccia, non completamente maturo,
ne mangia la parte più molle e matura, poi gli fa la guardia per giorni,
aspettando che maturi, ringhiando a chiunque si avvicini. Ultimamente lo porta
fuori e lo mette anche al sole, per farlo maturare prima.
Agata, era una bastardina beige
più anziana e sapeva però come fare per fregarlo. Quando lui era addormentato o
distratto, arrivava come un lampo abbaiando a tutta forza e prendendolo di
sorpresa gli portava via l’avocado restante.
E poi perché i cani si devono
sempre chiamare con nomi inglesi? Magari perché sono più corti, o forse perché
si vedono troppi film americani? Non mi garba tutta questa assurda moda, anzi
non mi piacciono le mode, in generale.
I miei cani hanno avuto tutti nomi
italiani e corti. Alfio è stato il primo, un pastore tedesco che gli mancava la
parola, tanto era intelligente. Altra moda senza senso, molto meglio che non
parlino, almeno loro, che a parlare ci pensa la gente e di gente che parla ce
n’è già anche troppa. Quello che apprezzo nei cani è proprio il silenzio, il
loro sguardo pieno di entusiasmo bambino, quel loro respiro forte, ma che
infonde tranquillità, mi rassicurano e mi tranquillizzano, è bello dormire
insieme a loro davanti alla televisione senza volume e una fioca abat-jour
accesa.
Il mio primo cane brasiliano, con
la casa ancora in costruzione, è stato Alfio, un pastore tedesco a pelo medio.
Appena preso da un negozio specializzato si è ammalato di parvo-virosi. Il
veterinario, che era una donna e precisamente una mia allieva di lezioni
private, ha chiamato la proprietaria di quel negozio dicendo che secondo lei
non era tanto specializzato, la quale ha interloquito dicendo che me ne avrebbe
dato un altro e io ho detto di sì.
Ma esattamente quando ho acconsentito, Alfio
che non era ancora stato battezzato ed era sdraiato di fronte a me, si è alzato
e mi ha guardato negli occhi, poi si è messo seduto a fissarmi.
Io allora ho detto di no e dopo
una settimana di flebo, grazie alle quali è guarito e ha preso l'abitudine di
mangiare sdraiato, Alfio è tornato a casa.
I lavori erano ancora all'inizio e noi
dormivamo ancora nell'appartamento in centro. Alfio è rimasto con i muratori
che dormivano in garage, perché abitavano lontano e poi così potevano fare il
churrasco e ubriacarsi tutte le sere, meno che nel fine settimana che andavano
a bere e a casa e ci facevano anche il relativo churrasco, probabilmente.
La veterinaria aveva raccomandato
di non dargli la carne, prendeva ancora delle pasticche ed era convalescente.
Poi i muratori confessarono, tempo dopo, che gliela davano invece, perché il
cucciolotto era troppo simpatico e gli saltava addosso per prendergliela,
quando facevano le loro grigliate quotidiane. Io sospetto che quando finirono i
lavori loro avevano già speso lì tutti i soldi che gli avevo dato. A parte il
churrasco che si facevano tutti i santi giorni e la carne è una cosa cara, in
più si ubriacavano sempre, giocavano al gioco del Bicho che è una specie di
lotteria popolare, che fanno in tutto il Brasile e chi vende i numeri è un
abusivo trai tanti, ma le estrazioni appaiono alla tv.
I muratori erano tre, ma per i
lavori più duri, come la gittata, che loro non c’avevano nemmeno le paioline o
tantomeno la betoniera, allora intervenivano vari colleghi amici e la sera poi
la cachaça e la birra correvano a fiumi.
Alfio passava più tempo con loro che con noi,
novelli sposi, per attirare la loro attenzione si sdraiava dove stavano
lavorando e loro con immensa pazienza andavano a lavorare altrove. Un classico
era il mucchio di sabbia, dove scavava il manovale lui si sdraiava; poi
cambiava posto e l’altro andava sdraiarsi là. Per riuscire a far lavorare i
lavoratori, facemmo un recinto con i lunghi pannelli di Eternite, ma da là Alfio protestava abbaiando tutto il tempo.
Era un cane bello e simpatico, ma
scavezzacollo, come tutti i giovani. Quando i muratori non c'erano già più, si
fece male e la veterinaria ci fece mettere il vecchio secchio di plastica usato
per il cemento attorno alla testa di Alfio, per non leccarsi la ferita.
All'inizio lui rimase molto abbacchiato, almeno per i primi cinque-sei minuti,
poi iniziò a correre su e giù per il terreno come se non fosse successo niente
e la notte, visto che il suo pelo era assai assai scuro, quasi tutto nero e con
poco marrone, si vedeva solo un secchio bianco che saletellava e vagava
instancabilmente nell'oscurità.
La compagnia
dei cani e dei gatti mi è spesso più affine e d’aiuto di quella umana, forse
perché il cane non usa le parole, magari perché il suo pensiero è più
essenziale e non si perde nei meandri del ragionamento.
Il cane
mantiene la sua serietà anche quando è buffo. La felicità dei cani, mi
sembra, sia soprattutto nel sentire e riconoscere la natura, tutto quello
che esiste, attraverso gli odori. La gioia che noi proviamo nel contemplare uno stupendo paesaggio, che ne so, un
tramonto, più raramente un’opera
d’arte, oppure nell’ascoltare una canzone che in qualche modo amiamo, i cani la percepiscono con l’olfatto: se un cane potesse
formulare la sua personale e animalesca idea di bellezza e di piacere
conseguente, lo farebbe principalmente considerando quello che gli passa attraverso l’umido naso.
BUON APPETITO!
In
Brasile non si usa dire buon appetito,
forse perché lo si ritiene superfluo e implicito, quello c’è sempre.
Il churrasco è la specialità di qua e il
fine settimana a Porto Alegre basta respirare per farne una scorpacciata. Qui
intorno tutti, se non almeno un 90%, arrostiscono la carne nel forno a legna e
carbone che una casa, per essere una casa, deve avere per forza.
La carne
qua nel sud del Brasile è la base di ogni refezione, pochi perdono l’occasione
per margiarne a pranzo e a cena.
A nord la
chiamano Carne do Sol , carne del
sole, perché è seccata sotto i forti raggi locali, lo charque è una carne secca e salata tipica di questo stato
brasiliano, una volta tanto importante perfino per la loro economia, per il
quale si fece addirittura una guerra, che fu perduta, sì, ma che ancora oggi si
festeggia ogni anno a settembre, perché nonostante la grande disparità dei
mezzi si resistette impavidamente contro il nemico Paulista per un bel po'.
La classe
di Relvado ne era fiera, come tutti qua, di quella specialità e mi invitarono a
cena, dopo la lezione, in un ristorante specializzato in quel Riso alla Carrettiera (Arroz Carreteiro)
in cui la carne secca in questione era base del sugo e secondo loro una
leccornia fenomenale, per ovvi motivi, che dovevo assolutamente assaporare. Ho
avuto grosse difficoltà a mangiarlo, ma penso di essere riuscito a dissimulare,
insomma loro hanno fatto finta di non accorgersene.
Quando
m’invitavano a cena in Italia andavo tranquillo, assai difficilmente si
mangiava male e se accettavo sapevo che anche la compagnia era buona. Qua
invece cerco d’inventare una scusa plausibile, perché mi sono spesso trovato in
situazioni imbarazzanti e non sapendo fingere mi sono vergognato anche di me
stesso, dopo.
Il fatto
è che noi italiani siamo abituati troppo male, se andiamo a mangiare da
qualsiasi parte del mondo, resteremo quasi sempre delusi e con la fame.
Per
esempio se m’invitano in un ristorante cinese, per non rifiutare, e per fare
una cosa differente dal solito, ci vado, ma poi ne esco affamato.
Se voglio
veramente fare una mangiata come si deve, al massimo accetto un ristorante
francese, ma devo stare attento anche lì alle cose che non mi piacciono come
lumache e cacciagione sul limite del marcio.
Una volta
sono stato invitato, come tutti i miei allievi della classe di italiano
dell’ottavo livello, a cena a casa di Gary che cucinava piuttosto bene, per
questo mi fidai. Gary Ordakowskji Brandt, è di origine russa e a suo dire della
famiglia stessa dello zar, da parte di madre e di padre irlandese, fuggiti in Francia e poi in
Brasile quando lui aveva solo dieci anni.
Eravamo
sette e la cena era in pratica un piatto unico di pasta con sugo di pesce, per
il quale era stato scelto un taglierino integrale, direi poco appropriato e poi
il peperoncino era andato oltre misura.
Questa
storia di antipasto, primo, secondo e contorno è tipicamente italiana e al
mondo ce l'abbiamo solo noi, se non erro. Altrove il piatto unico regna, se non
impera, accompagnato da riso, insalata e altre cose, anche se si tratta di
pasta. Per noi è un sacrilegio, ma è così.
Sapendo
come so di essere fin troppo sincero, mi ero preparato una critica benevola,
avrei mentito sulla bontà del piatto in questione, dato che qua si fa così e
poi loro non hanno certo il gusto raffinato di chi è viziato come noi peninsulari.
Per loro, se anche lo pensassero, dire totali o parziali bugie in assoluto è
routine, sono tutti ottimi simulatori e dissimulatori, in sintesi potenziali
manipolatori naturali.
I
rapporti tra le persone sono molto più soavi che da noi e la gente qua tenta
sempre di trovare il positivo anche dove non c’è, mentre in Italia ci si
lamenta anche per abitudine, quando non solo è superfluo, ma controproduttivo.
La
compagnia era buona, il vino anche, ben presto mi dimenticai di ogni remora,
bevvi assai e mi immedesimai in quell'atmosfera di sentirsi sé stessi, come
faccio quasi sempre, anche quando -come professore - non posso o meglio: non
potrei.
Il vino
rosso gelato non era appropriato, come secondo me non lo è mai, diciamocela
tutta, nemmeno la pasta integrale. Né così tanto peperoncino con quel tipo di
sugo di pesce, ma il risultato non era proprio tremendo, insomma si lasciava
mangiare e aiutandomi con gli accompagnamenti di riso, insalata, crostini,
crocchette e altre cose servite tutte insieme e se vogliamo fuori luogo, ma
provvidenziali, sono riuscito a far finta. Sennonché preso alla sprovvista mi
sono dimenticato del mio buon senso, che ce l'ho anch’io, ma non sempre lo uso
e avevo trincato tanto, diciamo troppo.
Forse ero
anche piuttosto paonazzo, quando alla fine e a sorpresa mi chiesero se anche un
italiano pignolo e fissato come me, aveva potuto assaporare appieno quella
meraviglia di cena.
Suggerendo
già nella domanda provocatoria, che era proprio il momento giusto per fare il
brasiliano e mentire, insomma simulare e dissimulare rotondamente come fanno
loro, dichiarare che era stata una cosa gustosissima, da nessuno metterci dei difetti come dicono loro, che mi
congratulavo e ringraziavo eccetera eccetera.
Invece fu
il vino che prese il comando e quella domanda come provocazione, come stimolo
appropriato per dire la verità, nient’altro che la verità, pur senza giurarlo,
non ce n’era bisogno.
Tante
volte nella mia vita avrei voluto tornare indietro, quella fu una, in cui mi
vergognai della mia esagerata presa diretta senza filtri.
Per
fortuna loro sono assai elastici, risero e si divertirono per la mia totale
mancanza di tatto ed educazione. Per come bonariamente non reagirono, direi che
da me se lo aspettavano.
PALI E FRASCHE
Con Marli difficilmente avrebbe
potuto funzionare eppure, o forse proprio per questo, all'inizio mi aveva
catturato e pensavo che sarebbe durata. O forse no, ero solo infatuato e poi
lei cominciò a fare la prepotente e questo segnò la fine del nostro rapporto.
Dopo due mesi voleva sposarmi e diceva che ero troppo lento a decidermi.
Due cose buone mi sono rimaste,
con lei ho iniziato a scrivere i racconti sulla spiaggia di Matadeiro, voglio
dire a farlo in maniera disciplinata e allo stesso tempo entusiasta.
Un'altra cosa buona è stata
l'abitudine regolare a lavarmi i denti prima di dormire che è durata per anni e
ora l'ho già perduta.
A proposito dei miei racconti, chi
mi ha convinto e portato materialmente a pubblicarli è stato Gary, che mi ha
pure presentato Ubiratão che mi ha condotto per mano fino al libro cartaceo.
Certo poi la distribuzione l'ho
dovuta fare io di persona, con due lanci nel Museo del Lavoro di Porto Alegre,
di cui il secondo completamente fallimentare. Quello che conta è che poi, rotto
il ghiaccio, ne ho pubblicati oltre una decina, quasi sempre sborsando dei
soldi, senza avere mai un editore serio o disposto a far conoscere veramente
l'opera in questione.
Di quel primo libro ne ho ancora 186
copie che non so proprio come sbolognerò, ma buttarle via non posso. Qualcuno
l’ho venduto a scuola quando insegnavo per il consolato, pochi altri nelle
librerie di Porto Alegre. Sommati a quelli donati, comunque ottocento se ne
sono andati, e a qualcuno sono perfino piaciuti.
Ubiratão è morto e con Gary, mio
ex allievo di italiano, ogni tanto facciamo qualche videoconferenza. È un
pittore, ma i suoi quadri sono quasi al confine della scultura, è un
personaggio simpatico, ma differente dagli sterotipi conosciuti.
Mio padre diceva che nessuno è
normale e io aggiungo che lui ne era la dimostrazione vivente. Io stesso ne ho
ereditato alcune magagne, non tutte maledette, certe cose utili, altre
deleterie.
I brasiliani mi piacciono di più,
perché sembrano bambini che giocano a fare gli adulti, un po’ come me. C’è da
notare anche che ho abitato proprio nei tre paesi che hanno vinto più mondiali
di calcio di tutti, tredici su venti. Forse significa qualcosa, ma cosa?
In Brasile c'è tanta o troppa marijuana che
qui chiamano macogna (maconha). Droga cosiddetta pesante quasi mai, due volte
ho provato la cocaina, ma forse non era tanto buona, insomma mi ha fatto
l’effetto di due espressi napoletani.
Il salto di palo in frasca a me piace, non solo
scrivendo, so che potrebbe confondere l'eventuale interlocutore, però scongiura
la noia e provoca dei piccoli sobbalzi al cuore, senza i quali, sopita ogni
emozione, non solo l'omo, ma anche la donna, aspettano solo la morte.
Nessun commento:
Posta un commento