All'inizio,
non avendo spese di mantenimento e vivendo con i genitori, tutto sembra agevole
e si comprano cose e situazioni, non rendendoci conto che una volta raggiunta
la sospirata indipendenza, di soldi non ne avanzano, casomai mancano.
Arrivando
dalla scuola e dall'adolescenza, bene o male prolungata, con il tempo si scopre
lentamente che il lavoro non nobilita affatto l'uomo, né la donna,
eventualmente gli dà la dimensione di quanto la vita sia dura e soprattutto
noiosa, se non la si prende al più presto per le corna e le si impone un ritmo
a noi più congeniale.
Le macchine, i mondiali, gli amici, le fidanzate, le case, i lavori, ma anche i punti fermi della filosofia nostra in formazione sono tutti utili per situarci in epoche differenti e i cambiamenti non solo nel cervello e nel cuore, ma anche nel resto del corpo che raramente dimagrisce, più spesso ingrassa e soffre di progressivi mali fisici, ecco un altro parametro da seguire. Per ultimi mettiamoci i libri e i racconti pubblicati, perché gli altri, quelli messi da parte, sono troppi ed è difficile attaccarci l’immagine o la relazione di quello che si stava attraversando nell’epoca in questione.
Il prolungamento dell’adolescenza fu la cameretta chiusa
con il lucchetto, dentro effetti speciali come stalattiti di gommapiuma con le
luci colorate dentro, fotografie e poster sulle pareti e sul soffitto. In
terra, grazie al pavimento lucido rosa bastava una lampadina rossa sotto
l’armadio e una sotto il letto per farlo diventare fosforescente, sembrava
addirittura liquido con una qualche apparente nebbiolina sopra. Poi il poster
staccato dal pilone dell’autostrada a Nove, dove si ammucchiavano decine di
firme, di tutte le persone entrate in quella camera.
LE RAGAZZE
QUESTE SCONOSCIUTE
La prima
cotta è difficile da localizzare, forse Lorella in quinta elementare. Poi
Rosanna la mia vicina di casa. Dopo Lia al Quercione e decine di altre cotte e
crude, insomma al sangue. In tanti casi come Immanuel Kant loro, le dirette
interessate, non lo hanno nemmeno mai sospettato, io facevo di tutto per
nasconderlo, per auto-sabotarmi, ma come facevo a saperlo?
Dai vent’anni
in là ho avuto diverse ragazze, nel senso che sono state loro a decidere di
mettersi con me, ma sono stato io a interrompere, nella maggior parte dei casi.
In pochi sono state loro a lasciarmi, ma era proprio quando sentivo il massimo
o credevo di sentirlo. Insomma mi hanno mandato affanculo quando ero
appassionato, e viceversa quando loro erano ben disposte invece, ce le mandavo
io.
Quest’epoca è
stata densa di movimento e piuttosto confusa, si capirà anche dalla tecnica di
scrittura, che salta di qua e di là. Insomma i cambiamenti di direzione sono
stati tanti, in tanti casi completamente casuali, ma forse le cose che sono
successe mi hanno fatto capire altre cose, che poi sono state importanti per
indirizzarmi meglio, per il futuro. Le donne sono entrate nella mia vita e
hanno fatto il bello e il cattivo tempo.
Parliamo del
rapporto che abbiamo avuto con queste donne, diciamo negli anni 80, mese più,
mese meno. Il plurale è per via che dentro di me c’è un esercito di persone che
non sempre la pensano allo stesso modo, che poi parlano poco, ma quasi come se
fossero antagoniste. In confronto al movimento interno poi nelle azioni c’è un
po’ di pace in più, perché sono poche e distribuite nel tempo.
Prima di
tutto c'è da notare che raramente ho potuto scegliere, sono stato sempre o
quasi sempre scelto. Poi c'è il fatto che i foruncoli e il mio aspetto fisico
non mi piacevano quando ero… diciamo adolescente e dopo mi sono portato dietro
un’insicurezza che veniva anche dalla mentalità comunicatami dalla famiglia,
piena di pensieri e di scarsissime azioni.
Quindi la
prima è stata a Marta che poteva anche andare benissimo, ma io non conoscevo me
stesso e lei non aveva niente che non andasse, ma non mi sentivo innamorato
come mi aspettavo, vedevo più difetti che i pregi.
PERCHÉ
SCRIVERE?
Il
mio professore d’italiano delle scuole medie stroncò un mio tema in classe, che
parlava della violenza nello sport: ero scarsissimo sull’attualità e cercare di
raziocinare su notizie imprecise non mi era riuscito.
Ma
il professor Saccomanni, che non solo per questo fu il primo insegnante che mi
piacque, innescò in me un meccanismo di rivalsa.
Scosse
il mio cervello pigro o magari il cuore bloccato dalla mia stessa eccessiva
sensibilità, forse perché seppe spiegarmi per bene perché il mio tema in classe
facesse schifo.
Quello
seguente, infatti, che invece era sui miei progetti futuri, visto che non ne
avevo nessuno e che scrissi totalmente di fantasia, fu un successone e me lo
fece leggere ad alta voce alla classe.
Poi
poesie. Senza rima, senza ritmo, ma si può dire che la poesia moderna non ha
più bisogno di questi schemi e già allora questa libertà mi affascinò.
Perché
per ritrarre uno stato d’animo o una situazione bastavano poche parole, si
poteva scrivere in pochi minuti, poi ci volevano giorni per correggere e per
renderla più artistica, va bene, ma quello che contava era che il primo sbozzo
si faceva in poco tempo.
Scrivere
poesie era una cosa che mi intristiva anche di più di quello che già ero, e lo
ero assai.
Nel
1978 avevo smesso di studiare, si fa per dire, diciamo che smisi di andare a
scuola, per studiare non studiavo nemmeno prima.
Poi
iniziai a lavorare in pasticceria, un anno dopo, nell’80 partii militare, ad
agosto.
Nell’81
ripresi il lavoro in pasticceria.
Da
militare iniziai i miei primi romanzi, con una certa convinzione, che non era
poi molta, ma avevo così tanto tempo a disposizione che lo facevo anche per
distrarmi.
Questi
primi manoscritti erano versioni maccheroniche e mischiate di film e storie già
masticate, pieni di parolacce e di oscenità per colpire il pubblico, anche se
non ce n’era, attraverso un sensazionalismo che all’epoca non esisteva ancora,
almeno come termine.
Erano
comici quando volevano essere seri e tragici quando volevano essere divertenti.
Certo
che poesie e romanzi furono solo un rozzo, ripetitivo e sanguigno esercizio di
formazione, tanto per cominciare dalla maniera più sbagliata, andando per
esclusione, come ho fatto spesso, in generale, nella mia vita, per indecisione
e per conseguente flessibilità, o anche perché, in fondo, m’interessa tutto o
quasi, perciò mi è difficile sapere quanto, finché non ho provato ad entrarci
dentro e non ci ho sbattuto perbene la faccia.
PASTICCERIA SMERALDO
Buttavo
sul banco espressi, macchiati e cappuccini senza nemmeno aspettare che me li
ordinassero, nelle mattinate di punta, come il mercoledì, quando le altre
pasticcerie erano chiuse, o la domenica che era tradizionale per venirci a
comprare un dolce per pranzo. Aprivo il negozio alle sette e andavo a casa
all’una. La mia terza ragazza è stata una commessa del Smeraldo. Ci ho lavorato
per due anni in tutto, a cavallo del servizio militare, era brava gente, mi ci
trovavo bene e ho mangiato un numero indescrivibile di paste e pezzi salati. Alcuni
prodotti come la focaccina alla cipolla, ripiena di insalata, tonno, capperi e
maionese li mangiavamo solo noi, il pubblico ne ha viste di rado. E soprattutto
la birra cecoslovacca Pilsner Urquell.
Un
ricordo pesante di quando lavoravo alla pasticceria, è quello d'inverno la
mattina presto, con un freddo della madonna, arrivavo con la 126 e per la
strada ascoltavo sempre la cassetta dei Pink Floyd The Wall, specialmente
quelle canzoni tristissime che si adattavano al fatto che mi ero lasciato con
Valeria, che è stato il primo grande amore, durato pochissimo, ma molto intenso
da parte mia.
Una
sera mi ero messo anche a piangere con lei, ingenuamente manifestando la paura
che mi lasciasse. Naturalmente lei si approfittò di questa mia debolezza e mi
trattava con una certa sufficienza, qualche volta anche minacciando di non
incontrarmi, sapendo che per me era molto più importante che per lei e poi mi
lasciò l'ultimo dell'anno del 1980.
Nel
1982 però vincemmo il mondiale, vidi tutte le partite insieme a un gruppo di
gente derivante dalle mie conoscenze di scuola, la finale insieme ad Aldo nella
casa di campagna nel Compitese dei suoi zii. Visto che il primo tempo andava
male, nell’intervallo facemmo diversi chilometri per unirci insieme agli altri
a Porta Elisa a casa del Giorgini e la mossa si rivelò indovinata.
BARABBA
Nel
1982 ho cominciato a lavorare da Berardo in Piazza dell'Anfiteatro, era stato
lui che mi aveva chiesto se mi interessava di lavorare nella sua
birreria-paninoteca, che all'epoca era una delle poche che esistevano a Lucca.
Aveva lavorato al Magro dei Tini lui, che all'epoca era l'unica che si potesse
dire di quel tipo di mescita un po’ più sofisticata e cittadina, che serviva
anche panini caldi.
Solo
che lì non era tutti i giorni, era solo nel fine settimana, ma lì accanto in
via dell'Anfiteatro, c'era la trattoria Barabba che era gestita anche da
Girolamo, mio amico e dopo mi chiesero se volevo lavorarci come lavapiatti;
quindi saremmo stati già vicini al 1983. Ci ho fumato le mie prime sigarette,
Camel senza filtro e qualche canna, ma non là dentro. Poi diventai cameriere e
quando, mi chiesero di essere socio, me ne andai e la indovinai.
La
sera, dopo le dieci, era il ritrovo degli alternativi, che non erano molti e a
volte anche troppo alternativi. Ogni tanto qualche rissa. Ci arrivai attraverso
amici e non poteva esser differente, tutto era basato sull’amicizia. Era uno
dei ristoranti più vecchi di Lucca, più che altro un’osteria. Ci si possono
trovare ancora lapidi di marmo che testimoniano cene e libagioni epiche e
copiose, di quasi un secolo fa.
Un
cambio di amicizia graduale era iniziato quando attraverso un’innamorata
effimera, compagna di lavoro allo Smeraldo Pasticceria Bar, avevo conosciuto il
Gatti e tutto insieme venne poi il giro di Piazza San Gennaro, che in seguito
mi portò al lavoro alla Trattoria Barabba. Insomma gente meno agiata e più
ruspante, nel senso di autentica, che poi per anni sostituì quelli di prima e
nacquero nuove e forti amicizie.
Mi
sentivo veramente bene con gli altri dipendenti e con i tre soci, all’inizio
erano quattro, ma poi uno se andò. Però per essere pagato, alla fine della
settimana, li dovevo marcare a uomo. Posso dire con orgoglio che - sotto la
detta gestione - sono stato l’unico a riscuotere regolarmente e completamente
lo stipendio.
La faccia
tosta di Achille era fatta di bronzo di Riace, riusciva a dire le cose più
assurde in perfetta serietà e ci aggiungeva anche una falsa e orgogliosa umiltà
che sembrava spontanea.
Una volta
dei clienti abituali mi chiesero del vino rosé e Achille stava passando carico
di piatti sporchi, intervenne e disse che era arrivato proprio quella mattina
un Pinot Rosé che era una favola.
Detto fatto
andò nello sgabuzzino e si fabbricò al momento il rosé promesso, con vino
bianco e rosso. I clienti furono così entusiasti che ritornarono sempre a
chiederlo e gli altri camerieri dovettero imparare a farne al momento, anche se
le proporzioni non furono mai divulgate da Achille, anche perché non le sapeva,
e andavano eseguite a occhio, per non risultare eccessivamente scuro, né troppo
chiaro. Però nel tale sgabuzzino ci si vedeva poco e i rosé che ne venivano
fuori erano troppo differenti per non accorgersene, eppure nessuno giammai
protestò.
Una volta
comprò uno stock gigantesco di un pessimo whisky Cluny, fatto chissà dove,
forse in Francia. Mi pare una decina di scatoloni o più, per anni restò l’unico
a disposizione, secondo le rigorose istruzioni di Achille che voleva
sbolognarlo tutto, e a prezzi nemmeno lontanamente giustificati dalla qualità.
Questo non
gli impediva certo di interpretare una scena da teatro, specialmente quando un
cliente spocchioso voleva mostrare di intendersi di whisky e alla fine di una
lauta cena gli chiedeva quali fossero a disposizione. Alla domanda Achille
rispondeva quasi gridando TUTTI e alle più incredibili richieste portava sempre
lo stesso Cluny, si metteva di fronte al cliente e aspettava che se lo
assaggiasse, con la facciona seria, orgogliosa e fiduciosa.
Una volta
che avevano chiesto un whisky di torba Laphroaig, invecchiato dieci anni, Achille
gli portò una complementare ma necessaria acqua di torba di rubinetto
arrugginito che opportunamente prese nel cortile, in più mise un goccetto di
amaro Averna nel Cluny.
Nessun
cliente ebbe mai a dubitare o a lamentarsi di qualche disguido, la faccia di Achille
bastava a convincere chiunque, clienti abituali e stanziali, viaggiatori e
turisti. A nessuno venne mai in mente di mettere in dubbio la sua credibilità, ma
lui sapeva bene a chi farli questi teatrini.
L’altro
socio, Memo, era uno sciupafemmine di quelli assai gelosi della moglie, come
pare logico e inevitabile. C’aveva un’amante mulatta brasiliana, conosciuta in
un night club, che di soprannome era Xuxu, nome di una specie di zucca
rampicante di qua. Una volta gli telefonò e risposi io, dissi che Memo non
c’era, ma lei era convinta che fosse lui che faceva lo scemo, come forse aveva
fatto altre volte e non mi riuscì di convincerla per un bel po’.
La
gente credeva perfino che io fossi fratello di Memo, e addirittura un anziano
ex-pasticcere dello Smeraldo, uscito fuori di testa per la morte del figlio in
un incidente stradale, quando ci si incontrava in Fillungo mi scambiava per
lui, giacché avevano lavorato insieme alla Cantoni Cucirini Coats. Rimanevamo dunque
un poco a parlare del più e del meno, io impersonando alla meglio il mio fratello
barbuto.
Da
Barabba c’era un clima casalingo che la gente apprezzava, ricordo anche che Achille
alla gente non diceva di sedersi, ma di mettersi
a ceccia. Si mangiava bene e si beveva di più, ma alla fine vendettero,
all’epoca, per un prezzo equivalente alla metà dei loro debiti.
Tra
i soci di Barabba quindi c'era il novello cuoco, cugino del Gatti, Girolamo
detto anche Savonarola, soprannome ereditato da suo padre, un camionista
onesto, lavoratore e sempre dritto per la sua strada, che il figlio invece non
voleva seguire. In quell’ambiente essere scavezzacolli era la regola e non
l’eccezione. Non che lui non fosse onesto, anzi lo era assai, e generosissimo
come non ho mai più trovato nessuno. La nostra amicizia, come le altre, è stata
fatta a pezzi dal fottuto mondo che ti prende e ti porta via, poi rimessa
insieme da un’inerzia sotterranea, un sentimentalismo sano che ancora
sopravvive, almeno in Italia.
In
affitto abbiamo abitato in via Cenami, o piazza S.Giusto, siamo stati a Berlino
insieme, nello stesso appartamento di Goethe strasse, lui lavorava lì vicino al
ristorante Pasta e Basta. Scappammo di là affrettatamente, appena riscosso i
salari rispettivi, per una decisione presa mentre da pedoni aspettavamo il
verde a un semaforo. Ci scolammo non so quante bottiglie al ritorno verso
Lucca.
Poi
Giro aveva sposato una ragazza del Sol Levante e ha vissuto non so quanti anni
in Giappone a fare il cuoco in un ristorante italiano, il Sabatini, che
funzionava come una specie di catena di montaggio e dove l’unico peninsulare
era lui.
PIAZZA
S. GIUSTO O VIA CENAMI?
Un
cliente livornese di Barabba ci raccomandò e ottenemmo in affitto un
appartamento in Piazza San Giusto, o forse era via Cenami, ma era bell’assai e
con una vista non indifferente sui tetti di Lucca da un terrazzetto stupendo.
Le stanze erano su vari livelli, scarsamente ammobiliate ma con gusto e con il
parquet, però c'erano da montare delle scale che non finivano più, eravamo
all'ultimo piano.
Prima che ci buttassero fuori per i troppi
rumori notturni, musica alta e balli sfrenati, diversa gente passò ad abitare
con noi. La storia con Sabine inizio qui e Morgana ci abitava già, anzi mi
aiutò distraendo l'amica Gunda proprio la sera fatale.
Poi
con l'entrata di Mirko indirettamente cominciò anche l'epopea del Voltaire.
Morgana
era di Trento e sorella di Fausto Vavassori, amico nostro e collega a suo tempo
di lavoro da Barabba. Due simpaticoni, lei era anche una bella ragazza, oltre
che vivace e abbastanza diversa dalle belle ragazze lucchesi che erano
invariabilmente dei pesci lessi. Non si innamorò di me, bensì di Mirko e noi
eravamo, se non l'opposto, quasi.
Fausto
era un cuoco dedito più che altro alla bibita, come tutti noi, ma forse a un
livello superiore e si faceva anche più canne. In seguito si stabilì a Torbole,
sul lago di Garda e ci ospitò, Giro e me, diverse volte. Dove abitava era
bellissimo e c'era anche una meravigliosa vista sul lago dall’alto. I loro
genitori anche erano molto simpatici e andando e tornando da Berlino spesso ci
siamo fermati una notte o due.
VAGLI
DI SOTTO
Le spedizioni a Vagli per Achille erano
ogni fine settimana con la scusa che andava a riparare le ruote del camion,
portava su una masnada di gente a ubriacarsi. Anche lui non si tirava certo indietro,
ma poi si svegliava presto, il giorno dopo lavorava sul serio e quello non era un
lavoro leggero. Ho partecipato una volta sola, ma si beveva tanto che sembrava
un lavoro. Eravamo Achille, Memo, Giro, Fausto e io, ma la formazione variava a
ogni spedizione.
Il copione della commedia era questo: all'andata
ci si fermava a tutti bar che c'erano sulla strada, per aperitivi e
superalcolici vari. Il camioncino si arrampicava su a tappe e la sera per rimettersi
in forma era rituale il brodo di carne. Durante e dopo cena si riattaccava con
il vino rosso e vari personaggi locali si univano alla libagione.
A un certo punto uno sparì e ci si
preoccupò. Cominciamo a chiamarlo per la campagna sottostante, un poggio
scosceso verso il lago, incuranti del fatto che svegliavamo tutto il paese.
Donna, così era soprannominato l'uomo, si
scoprì solo il giorno dopo che era andato fuori a pisciare e poi a letto. Si
era dimenticato di avvertire.
A dormire ero nella camera più in alto, la
casa stessa sembrava una grotta, polvere e umidità erano copiose e lassù il
letto era puzzolente e sporco, la finestra era un buco aperto nella parete. Quasi
non chiusi occhio, ma alle sette Giro e Fausto cominciarono a strillare che era
l'ora del Campari e la giornata cominciò così proseguendo con il Maraschino
casalingo, specialità locale e del resto poi non ricordo bene, ma le prossime
volte che mi invitarono inventai delle scuse. Anche se risero e non ci
credettero, capirono bene il mio punto di vista, forse avrebbero voluto
rinunciarci anche loro, ma non potevano.
Mi è venuto in mente che un mio giovane
allievo brasiliano mi raccontò di un suo punto di vista, simile al mio, circa
andare in vacanza con i suoi amici. Lui ci aveva provato, ma quelli non
dormivano mai e quei giorni alla spiaggia diventavano per lui, che era un po'
più posato, un autentico inferno.
COLORSTAR
Era
un mestiere quello che solo un giovane può fare, perché si doveva correre come
matti a costo di prendere delle multe per portare le foto ai fotografi e spesso
ti dovevi sopportare le lamentele per i ritardi, ma te non c’entravi niente.
La
cosa bella, che a un giovane può piacere, era la dinamicità del lavoro, poi il
fatto che la zona di Livorno-Grosseto era bella, anche se le strade erano
insufficienti e sull’Aurelia si rischiava la vita tutti i giorni. La macchina
si rompeva spesso e lo stipendio era misero considerato quello che facevi e per
come lo dovevi fare.
Il
primo cliente era a Rosignano e lo trovavo chiuso, sotto la saracinesca
prendevo una busta con i negativi e ne lasciavo un’altra, con le foto. L’ultimo
anche, era a Suvereto e non ci si incontrava mai. Per i pagamenti non mi
ricordo come facessero.
Quando
la Roma giocò la finale della coppa dei campioni io facevo il viaggiatore per
la Colorstar, era il 1984, mi invitarono a cena sul percorso, esattamente a
S.Vincenzo, il titolare di Clic, negozio di fotografo era Andrea, un tipo
giovane e simpatico, almeno a quei tempi. Non ho mai capito se si arrufianava
con me pensando che potessi accelerare la stampa delle foto, invece io gliele
portavo quando me le davano e per il resto non potevo fare niente. Quello che è
successo dopo mi fa pensare di sì, comunque era a quei tempi un tipo piacevole
e una volta mi sono anche permesso di andare al mare con lui e la sua ragazza,
durante il giro, nella pausa di mezzogiorno.
I
suoi erano piuttosto anziani e la sua casa era proprio accanto al passaggio a
livello, all’ingresso della cittadina, suo padre credo che fosse stato un
ferroviere o qualcosa del genere. La Roma perse ai rigori con il Liverpool
anche se giocava in casa, mentre noi si mangiava e dopo me ne tornai verso
casa, anche se mi pare che dormii a Bibbona, che a quei tempi i miei c’avevano
un monolocale.
La
prima volta che lo sono andato a trovare erano passati tanti anni dieci o
quindici, non lo so, forse di più e mi ha accolto freddamente, sembrava
incazzato. Non mi ricordo in quale occasione è stato, perché mi trovassi da
quelle parti, ma mi parlava solo di foto e di come quel commercio stesse
andando di male in peggio, non si usciva dall'argomento. Pareva quasi che la
colpa fosse mia, che il suo negozio e tutta una tendenza del mondo occidentale
fossero inopinatamente cambiati e lo avessero lasciato in mezzo al rimpianto e
all’amarezza.
Io
ho pensato che quel determinato momento della sua vita forse complicato da
motivi che non potevo sapere e lui non me li ha detti. Non ci ho pensato più di
tanto, capitano a tutti dei periodi negativi, una persona li attraversa, per
lunghi o corti che siano, poi approda dall'altra parte. Io poi con le foto non
c'entravo più niente, durante gli anni avevo cambiato più volte passioni,
occupazioni e indirizzi.
La
seconda volta ero con mia moglie, erano passati altri tanti anni e lui non
c’era, il signore del negozio vicino al suo, molto gentile, mi ha detto che era
morto da poco suo padre, ma lo ha chiamato lo stesso con il cellulare, Andrea è
venuto. Ancora più incazzato e tenebroso dell’altra volta. Il digitale aveva
distrutto la sua vita e quella delle foto, il suo negozio non ce la faceva ad
andare avanti, S.Vincenzo era un posto che funzionava sempre meno per il
turismo, i tempi erano cambiati ed era manifestamente tutta colpa mia, per come
mi trattava, pareva evidente.
Forse
avrei dovuto sparire e se avessi avuto una bacchetta magica lo avrei fatto, mia
moglie era imbarazzata e io peggio ancora, in pochi minuti ce ne siamo
scappati. Era morto suo padre, va bene, forse l’altra volta era morta la madre
e io non lo sapevo. Comunque non ci vado più a trovarlo, S.Vincenzo non mi piace
nemmeno.
VOLTAIRE
Quando
lavoravo a Barabba, la sera si chiudeva e si andava a piedi al Caffè Voltaire.
Era un fatto automatico, non c'era nemmeno bisogno di annunciarlo a parole. In
quell'epoca, molto più che in altre, varie ragazze sperse nella notte erano
passate dal mio letto, che poi era solo un materasso a una piazza e mezzo,
steso su un tappeto, come avevo visto a Berlino, direttamente sul pavimento di
parquet.
Una
di queste era stata Morgana, ma tra noi non si andò mai oltre il bacio che era
già scivolata in un altro letto e dentro c'era Mirko, il proprietario del Caffè
Voltaire. In poco tempo lui diventò un abitante della nostra comunità, io suo
socio al 50% del Caffè Voltaire e le cose s'incamminarono in un ben determinato
tipo di maniera.
Diventai
socio di Mirko su sua richiesta, ma ci conoscevamo appena. La sua filosofia era
semplice e assoluta, si basava sulla libertà, sul sentirsi a proprio agio
sull'uso disinteressato che era concesso a tutti di approfittare delle cose
degli altri scambievolmente e fraternamente.
Il
principio era bello e giusto, disinteressato e bilaterale in teoria, in pratica
lui non aveva niente e in base a questo suo nobile ragionamento poteva usare le
altrui proprietà a suo piacimento. Anche gli altri diceva, certo anche gli
altri naturalmente potevano, però per una strana coincidenza non ne avevano
facilmente occasione.
Mirko
era un tipo differente dai ragazzotti rozzi di Lucca, pareva più libero, anche
piuttosto delicato, veniva da Torino, ma era di origine ligure. Mi aveva
proposto di essere suo socio per una serie di motivi diagonali. Gli avevo
imprestato l'appartamento dei miei al mare, per andarci con la suddetta
ragazza. Si era lasciato con la sua precedente che lavorava con lui al Caffè,
improvvisamente c'erano due posti vacanti nella sua vita, rappresentati prima
da un’unica persona, ora diventate due. In più anche il suo portafogli era
vuoto.
Aveva
urgente bisogno di soldi per pagare i debiti fatti per mettere su la birreria e
di qualcuno che ci lavorasse, meglio se la stessa persona che portava la grana.
Aveva
fatto una pratica di stregoneria, con una specialista del ramo, che mi raccontò
poi lui stesso e con la quale era risultato che io fossi la persona adatta. In
generale, per scegliersi un buon socio, però la stregoneria non è una scienza
esatta: mi sarei dovuto accorgere che quella era una storia irta di difficoltà
immense, già prima di cominciare.
Agli
inizi del diciottesimo secolo Voltaire era un uomo che scrivendo tragedie si
scontrò contro tutti e tutto, rivoluzionò la maniera di scrivere, non tanto
nello stile, ma soprattutto nei contenuti. Polemiche le sue lettere ai
regnanti, che gli servirono per capire in prima persona cosa e come fosse la
prigione, e di sviluppare, così, il suo concetto di libertà. Il suo Candido fu
il primo libro con risvolti comici della storia della letteratura.
Il
nome stesso di Voltaire diventò poi, nell’epoca moderna, sinonimo di apertura
mentale, di costumi tolleranti. Probabilmente si iniziò a Parigi, adesso in
tutte le grandi città del mondo c’è almeno un Caffè Voltaire. Non che questo
implichi che Lucca sia una metropoli, anzi, e poi là non c’è più. Si suppone
però, tacitamente, che tutti i Caffè Voltaire nascano con un’idea di libertà.
Quest’idea
di libertà io l’ho sentita personalmente solo dopo che me ne sono liberato,
dopo alcuni anni veramente turbolenti, sofferti e così via.
Il
Caffè Voltaire era un unico stanzone col soffitto alto a volta, l'entrata era
di fronte al lato corto del banco, fatto a elle arrotondata, di granito rosa e
nero, stesso materiale dei dieci tavoli rotondi e con un lampioncino rosa a
cadere su alcuni di essi, facendoci un occhio di luce, evidenziando il
passaggio di nubi di fumo in lento movimento.
Un
locale scuro, senza finestre, con musica dal vivo la domenica, gli altri giorni
invece suonavamo selezioni miste di ogni tipo, ad alto volume, che aumentava
progressivamente, seguendo l'orologio, fino all'una di notte, teorica ora di
chiusura.
Ero
diventato un improbabile imprenditore, quindi, con un socio e tutto, più una
grossa voglia di bere e dimenticare, che però invece ricordava e ricominciava
puntualmente il giorno dopo.
Il
Caffè Voltaire era un punto di ritrovo obbligato, certo, era bello ritrovarsi
ogni sera, almeno all’inizio, ma dopo qualche mese ci ritrovavamo sempre a
ritrovarci e allora ho cominciato a trovarlo noioso.
Poi,
quando smisi di ubriacarmi, anche se non lo capii subito, fu proprio un errore
imperdonabile. Mio malgrado vidi cosa stavo facendo, dove e soprattutto come e
con chi.
Prima
di tutto dovremmo figurarci una città di provincia, dalla parola celtica Luk,
palude, un luogo dove non succedeva mai niente. Il perbenismo ipocrita era
l'ideale per la sua stessa natura, una città che aveva un’università in meno di
Pisa e questo pesava nella sua vecchiaia precoce della gente, nella vetustà
polverosa degli ideali.
Il
successo del Caffè Voltaire era dovuto al suo romantico aspetto e alla sua
struttura di locale, era più caratterizzato delle poche altre birrerie e la
musica ad alto volume, cosa mai tentata prima a Lucca, rappresentava un’idea di
libertà che faceva paura a tanti ed era apprezzata in maniera altrettanto forte
da altri.
Arrivavo
lì con il cibo ancora in gola perché la sera mangiavo assai. Il lavoro partiva
alle nove la sera e dopo aver chiuso, all’una, si prolungava con gli amici
spesso tutta la notte, quando gli altri si alzavano io andavo a letto.
A
mezzogiorno non pranzavo mai perché spesso era l’ora della sveglia, se non
ancora troppo presto per alzarsi. Il fatto poi di dover aspettare tutto il
giorno prima di lavorare, generava una certa ansia. Dormire dalle quattro a
mezzogiorno non è la stessa cosa che farlo da mezzanotte alle otto, infatti si
dice che la notte è fatta per dormire, anche per una questione di ritmo naturale
per il nostro corpo.
Una
vecchietta che viveva lì vicino mi disse che lei ci chiamava Voltaren, ecco un
altro nome onomatopeico.
I
soldi prestati da mio padre per comprare parte della mia quota del Caffè
Voltaire sono stati restituiti mensilmente, finché lui ha deciso che avevo
sempre onorato il debito puntualmente e i miei fratelli vivevano ancora lì a
casa e io no, che il costo relativo del loro mantenimento poteva essere
rappresentato da quelle rate, che dopo un po' non avrei più dovuto pagare.
La Renault 5 non mi ricordo se la comprai da
loro o se me l'avevano semplicemente regalata usata, ma alla fine fu manovrata
per pagare in parte un'altra macchina, una seconda Fiesta mentre io ero già a
Berlino. La Panda non credo di avergliela pagata, perché quando io venni in
Brasile e loro la vendettero, papà mi chiese chi si sarebbe preso i soldi e io
dissi che li avrei presi io, anche se doveva dovevano essere di loro, perché io
ne avevo più bisogno.
Mio
padre insomma voleva che apprezzassi e imparassi la lealtà negli affari, e
nella vita in generale, quando vedeva che ero determinato, quadrato e onesto
poi mi regalava il restante generosamente.
Insomma
la mia famiglia mi ha aiutato parecchio a livello di soldi, ma non hanno mai
voluto lasciarmi le cose troppo facili, per abituarmi alla vita. L'idea che
avevano dell’educazione per noi figli era abbastanza spartana, senza cerimonie
o retorica, ma solidale quando c'era bisogno.
Di
tre fratelli farne tre opposti non è facile, ma loro ci sono riusciti. Il merito
o la colpa sono stati anche dell'ambiente attorno, nel quale era in atto
l'ennesimo grande cambiamento, dal boom economico al berlusconismo. In pratica
raggiunto uno stato di ricchezza relativa, l'italiano cominciava a chiedersi
quale fosse il senso della vita, come succede di solito, quando una generazione
abituata alla povertà ne porta al mondo un'altra più agiata, che ha molti meno
problemi per la sopravvivenza. Di solito in questo processo si va anche da
sinistra verso destra, ma a ondate e con altri componenti relativi e
supplementari, tra cui quello dell’immigrazione e di fare sempre meno figli.
Dei
tre fratelli poi uno solo ha avuto una prole, di un unico individuo, ma il
mondo intanto era cambiato ancora e qualcuno direbbe in peggio.
Sulla
trentina mi ero allontanato non solo dall’Italia ma anche dagli amici
precedenti, ne avevo di nuovi che poi sarebbero stati lasciati indietro pure
loro, ma qualcuno sarebbe ritornato in prima linea.
Le
direzioni da prendere erano ancora incerte e lo sarebbero sempre state, almeno
per me, ma non lo sapevo.
Il
Caffè Voltaire è stato il mio incubo più forte e duraturo, d’accordo, di
libertà ne ho usufruito anche quando ci lavoravo, basta dire che in un anno ho
chiuso quattro volte e ho fatto quattro viaggi all’estero. Però sono stati anni
assai difficili lo stesso, sono stato sempre peggio e mi pareva che tutto
intorno a me anche peggiorasse.
Quella
avrebbe potuto essere - di nuovo - la fine dell’adolescenza, ma avevo già più
di trent’anni e forse era troppo tardi, ormai.
Certo
ho conosciuto tanta gente, non tutta interessante, ma ne ho approfondito
spesso, mio malgrado oppure no, anche i lati negativi, quelli che se ne
uscivano fuori con l’alcool, mischiati agli altri. Magari è stato uno studio
antropologico interessante, ma non era quello che mi ero immaginato ed era
lontano anche da qualsiasi idea auspicabile del futuro, insomma mi ci sono
trovato, più che averlo scelto veramente. Questo però succede spesso o quasi
sempre nella vita, almeno qua sulla terra, come fisiologica conseguenza mi ha
spinto a voltare pagina: ho cambiato lavoro, niente più ristorazione o bar.
Le
notti del Caffè Voltaire però erano dense e piene di simbolico significato,
oltre che di birra, vino e superalcolici, cause ed effetti che si mischiavano
fino a non capirci più niente.
Dopo
il normale orario che sarebbe stato dopo l’una, pulivamo tutto per il giorno
dopo e partivamo per la notte, che era piccola per noi, come dicevano le
sorelle Kessler, molti anni prima, ma il loro motto era più che attuale e
funzionante.
Quelle
notti erano molto meno torbide e scure quando qualcuno ci aspettava e dopo la
chiusura facevamo quello che poteva essere chiamato Turismo al Chiar di Luna.
Consisteva nell’infilarsi in una o più automobili e tagliare la notte girando a
caso, con l'obbiettivo prima di tutto di farsi un bel cannone o due, poi
ricercare punti turistici di quello speciale genere, ci poteva essere una bella
vista o un particolare tipo di energia. Di tanti che ne abbiamo trovati alcuni
non riusciremo a localizzarli più. Siamo arrivati a un punto che volevamo fare
proprio una guida con questi punti turistici, tanto che avevo deciso di
scrivere una guida notturna per ubriaconi e gente affetta dall’insonnia,
corredata di foto e mappe di tutti i tesori turistici di quella parte della
Toscana. Visitavamo castelli, cimiteri, punti di rilievo storici e geografici
vari della lucchesia addormentata e non solo. Ma poi anche a farla chi
l'avrebbe mai consultata? Il turista al chiar di luna non è certo il tipo che
consulta una guida.
LESLIE
Lo
conobbe il mio socio, per strada suonava senza saperlo fare, ma la sua simpatia
era accattivante. Mirko lo invitò a venire a suonare da noi. Fu amicizia a
prima vista. Era un barbuto irlandese dai lineamenti tagliati con l'accetta,
beveva come un matto e suonava e cantava con molto impegno, i risultati
artistici erano scarsi, abbastanza buoni però dal punto di vista di monete che
cadevano nella custodia della sua chitarra dozzinale e vecchia.
Leslie
era molto simpatico e lo era in maniera naturale senza sforzarsi di esserlo,
senza dire battute divertenti o cercando di piacere agli altri. Rideva a
scroscio e ti faceva ridere anche te, era contagioso, anche se non sapevi
perché ridesse in quel momento. Era completamente sé stesso e non aveva pose,
anche quando rifiutava per scarsa purezza cose e persone, situazioni che a ben
vedere non erano come pensava lui. Odiava gli americani e Bruce Springsteen non
solo perché aveva fatto una canzone intitolata Born in the USA.
Un
irlandese cresciuto in Inghilterra insomma, che viveva in Francia, ma passava
tanto tempo in giro, suonando, bevendo e vivendo di conseguenza. Disse che a
Udine aveva avuto il maggior impatto, suonava meno che dalle altre parti perché
guadagnava di più.
La
seconda volta che venne da noi la sua qualità come musicista era molto
migliorata, era diventato bravo. Forse quando lo avevamo conosciuto aveva
cominciato da poco. Suonava e cantava un po’ di tutto, ma c’erano cose che non
digeriva per niente.
Per
qualche giorno dormì al Caffè Voltaire, come al solito quando era a Lucca,
siccome io ero tornato a vivere dai miei si prese il mio giaciglio. Una mattina
Mirko vide che c’era una grossa pentola vuota vicino al letto. Gli chiese a
cosa gli servisse, lui rispose che era per vomitarci dentro.
In
Francia aveva una ragazza che si chiamava Nadine, non ricordo in quale città,
forse a Lione.
Chissà
dove è andato a finire, dubito che sia andato a lavorare in banca, o che abbia
spesso vestito una cravatta, come invece tanti altri hanno fatto.
CATTIVE AMICIZIE
Di
cosiddette brutte frequentazioni ne ho avute a sufficienza, direi che per
alcuni, in certi periodi, lo sono stato io stesso per loro. Insomma è normale,
a una certa età vuoi provare tutto o quasi, poi è meglio voltare pagina, ma c'è
gente che non l'ha ancora voltata. Va bene così, chi è che nell’esistenza si
può effettivamente vantare di scegliere, senza essere un bugiardo?
L'epoca
più alcolica è stata forse quella che va da Barabba al Caffè Voltaire, ma a
Berlino non ho certo perso tempo. I primi tempi in Brasile anche non sono stati
analcolici, ma gli ultimi venti anni invece ho quasi totalmente abbandonato, le
sigarette e le canne proprio del tutto. Cominciai a fumare a Barabba dato che
là quasi tutti lo facevano e mi offrivano Camel con e senza filtro, MS e
Marlboro. Una delle tante volte avevo smesso subito prima, ma a Berlino
ricominciai. Stesso procedimento in Brasile. Probabilmente prima di partire ero
rilassato, con la prospettiva del futuro, dopo, invece ero nervoso, perché
ricominciare a vivere in un altro luogo, o meglio: proprio in un’altra nazione,
provoca scompensi logistici per cui si attraversano inevitabili periodi di
stress, ottemperati dall’opportuno e logico entusiasmo per il cambiamento.
PARAMETRI
LIQUIDI
Da
bambino bevevo di tutto meno gli alcolici, che a me non piacevano proprio. Vino
e birra io li ho iniziati a gustare che ero quasi maggiorenne. A mio fratello
Sandro invece, da bambino la birra gli garbava già.
Altro
parametro utile sono le bevande, infelicemente le amicizie ti confermano dei
vizi che te avevi già e quello del bere poi è diventato forte, ma solo ed
esclusivamente per loro causa, non certo per mia, purtroppo ho recuperato il
terreno perduto, forse per caso, o forse no, lavorando in bar, ristoranti e
birrerie.
Al
Voltaire facevo un cocktail chiamato Fond de Bouteilles, che era sempre
diverso, perché si usavano i fondi delle bottiglie. Naturalmente non tutti. Si
doveva, si voleva e si poteva scegliere, sennò faceva schifo.
L’Agua
de Valencia, ci fu insegnata da un’argentina dalla risata a cascata, Aparecida,
assai simpatica, che era anche cuoca e aveva fatto a Barabba una serata di
cucina del suo paese. Era un bicchierone di mistura di liquori e succo
d’arancia che al gusto sembrava totalmente innocuo e analcolico, ma dava delle
botte non indifferenti ai malcapitati, che spesso erano anche recidivi. Un tipo
di bibita molto apprezzato anche dalle donne. Dalla moglie di mio fratello
Umberto, Dayane, poi qua in Brasile per ovvi motivi è stato inventato il vino
Feminino e il vino Masculino.
Sia
a Barabba che poi al Voltaire c’erano delle birre rosse alla spina buonissime. Forse
per caso, o forse no, talvolta se ne facevano in più e purtroppo ce le dovevamo
poi bere noi. Più se ne bevevano e più se ne sbagliavano e così via.
La
Grolla era un’altra mistura di liquori caldi della Val D’Aosta che amici nostri
portarono a Lucca dopo le ferie in loco. Se non facevi attenzione, bevendo
dall’apposito contenitore di legno con più buchi, ti potevi scottare, ma di
sicuro e sempre poi ne uscivi ubriaco e accaldato. L’appartamento in via
Cenami, o piazza S.Giusto, assistè almeno due volte a questa cerimonia
tipicamente invernale e che provocava una rivoluzione nell’ordine delle cose e
soprattutto delle idee delle persone in questione.
A
proposito di roba forte la Biere du Demon aveva una ventina di gradi e un
cliente abituale del Voltaire, detto il Chiedone, dopo averne bevute una decina,
insisteva per pagare due volte, ingenuamente non glielo permettemmo e dalla
rabbia spaccò un vetro della porta con un cazzotto.
Il
vino l’ho apprezzato più raramente delle altre bevande, da ricordare una sera a
Pisa alla Limonaia, una sequenza di bottiglie pagate da amici di Orentano,
erano dei fottutissimi nettari manco a dirlo, ma tutti quei soldi io non ce li
avrei spesi.
STUPEFACENTI
Le canne sono un argomento più complesso: la
prima deve essere stata nell'epoca di Barabba, ma la stessa materia in
questione è causa di perdite di memoria e quindi non ricordo con chi e meno
ancora in quale occasione. In queste condizioni gli episodi buffi da raccontare
aumentavano e quello pareva essere ciò che contava, cioè l'importante era
divertirsi e non eravamo molto lontani dal giusto, magari era il modo che era
esagerato.
Savonarola
una volta in montagna in una escursione con un gruppo di avvinazzati e non
solo, si fermò a pisciare dietro un gruppo di case e una finestra si aprì, si
affacciò una donna, disse qualcosa che lui non capì, richiuse e dopo lui raccontava
a tutti che era stata un'apparizione della madonna. Poi venne chiamato n’apparì la Madonna dagli amici e
conoscenti per via anche della sua nappa piuttosto pronunciata in gergo.
Si
può rimanere stupefatti dai vari vantaggi o sintomi che ci danno gli stupefacenti,
la gente ha bisogno di stupefarsi, soprattutto quando la vita insiste nel sembrare
troppo simile a sé stessa.
FUSILLI
HOME
Mettendo
i soldi da parte per andarmene a Berlino cominciai a lavorare a Fusilli Home,
dietro lo stadio e ci sono rimasto dei mesi, facendo il turno spezzato, che non
ti da’ tempo e luogo per fare nient’altro che lavorare e dormire.
Eravamo
in diversi e c’era anche Fausto in cucina, si lavorava in maniera spensierata e
ci si divertiva anche, ma c’era da galoppare.
C'erano
diversi tipi da spiaggia a Fusilli Home e non erano tutti clienti, ci facevano
una pizza buonissima con il grande forno a legna, dove la domenica si arrostivano
una cinquantina di polli da portare via.
Fiano
era uno dei gestori, l'altro era Nando, detti Cric e Croc, sempre insieme ma si
sopportavano a fatica.
Fiano
era un playboy capellone con moglie e figli, uno di quelli assai gelosi ma
traditori naturali, come se fossero due cose che combinano bene. Nando invece
era più serio almeno da quel lato lì, ma anche lui non totalmente assoluto.
Fiano
chiamava i clienti con soprannomi onomatopeici, oppure contrari, o anche
casuali, ma tu capivi subito a chi dovevi portare le pizze, se lui diceva che
erano di Kojak e Sofia Loren. Vicino alla cassa aveva messo un piccolo cactus
in vaso, sottintendendo forse un simbolo fallico, era chiamato Uccelli di Rovo.
Era
in perenne polemica con Rino, siciliano sordo e attempato, che lavava i piatti
in una cucina grande e incallita di sporco atavico.
Fausto
era il cuoco e ogni tanto c'era nel fine settimana la vecchia padrona chiamata
da Fiano con soprannomi in questa sede innominabili. La figlia e padrona
attuale appariva di rado, ma ero stato contattato da lei, probabilmente perché
il lavoro era aumentato e Fiano e Nando non ce la facevano più.
Nel
fine settimana c'era un pizzaiolo specializzato di Porcari, come Nando, perché
le pizze erano fatte senza teglia e se non ci sapevi fare si accartocciavano al
primo contatto di pala. Sabato, domenica e feste comandate c'erano anche due
ragazze giovani, a volte la moglie di Nando. Il quale era sempre con la
sigaretta in bocca, cambiava il peso da una gamba all’altra e chiacchierava
incessantemente se trovava uno che lo ascoltava. Un classico era la domenica
sera, preparando le pizze che il pizzaiolo poi metteva in forno, con la massima
apparente calma, di fronte a decine di persone che aspettavano e guardavano,
non stava zitto un secondo. Nando era sprovvisto di ogni senso dell’humour, una
domenica a mezzogiorno un anziano gli chiese, di fronte all’ovvia ecatombe di
volatili allo spiedo, preparati in quella che in Brasile chiamano televisione per cani:
“Vesti
vi en polli?”
E
lui rispose serio e laconico, con la sigaretta all’angolo della bocca:
“Vesti
vi en polli.”
Risata
generale.
Fiano
era in eterna - ma tacita - polemica con Rino, per la sporcizia della cucina,
per le pur involontarie scorregge mentre mangiavamo e perché metteva teglie
sporche a scaldare e a sgrassare sui fornelli durante le ore di servizio al
pubblico.
Gli
faceva sempre le boccacce alle spalle e poi pettegolezzi stizzosi e
bestemmiati, ma non sempre giustificati. Altro classico poi era lo scherzo
ricorrente di mettergli il sellino della bici dritto, svitandone la base. Il
vecchietto che per andare a casa si toglieva finalmente gli occhiali da vista,
qualche volta era quasi caduto e Fiano aveva riso sommessamente in quella sua
maniera tipica, con la bocca chiusa, perché era sdentato e si vergognava.
Una
volta che ero andato a trovarli in ferie da Berlino, Fiano gli aveva fatto lo
scherzetto di rito e Rino si arrabbiò con me, forse perché aveva smesso di
farglielo in mia assenza, dato che l'unico sospettabile automaticamente diventava
lui.
“Pure
dalla Germania vengono a ròmpere i cogliòni…”
A
Fusilli Home si mangiava bene e si spendeva il giusto, c'erano tanti tavoli e
funzionava anche per i pranzi di lavoro, rosticceria e bar.
In
una certa epoca tentarono anche di fare consegne a domicilio, ma Fiano poi
fatta la consegna spariva e tornava solo a chiusura. Tentarono anche con
un'agenzia scalcagnata, uscirono perfino manifesti e volantini, ma il successo
fu più scarso ancora.
Essendo
in un quartiere popolare, addirittura malfamato, vicino allo stadio e
all'ospedale, il lavoro era tanto e se i clienti non li prendevi in una maniera,
lì acchiappavi nell'altra, non avevano scampo. Era per via delle leggi delle
probabilità, insomma la matematica degli algoritmi.
CITTISBANCA
Il
fotografo Marchetti era uno dei più quotati a Lucca, non ricordo come ci siamo
conosciuti, sicuramente era un cliente di Barabba, veniva tutti i giorni a
pranzo, qualche volta a cena. Suo amico e musicista, cantante e simpaticone, il
piccolo ma arzillo Ceccotti, con il quale sempre a rate, ma siamo diventati più
amici dopo, quando ero già in Brasile e venivo in Italia una volta all'anno.
La Cittisbanca era un gruppo musicale formato
da loro sulla figura folkloristica del Citti, omo di una simpatia sottile ma trascinante. Io ne feci parte come
guardia del corpo, o buttafuori, nel senso che stavo di lato al palco, come un
altro, nei concorsi canori guardando male il pubblico, con una sigaretta spenta
che muovevo con le labbra, senza toccarla con le mani, conserte sul petto. Le
canzoni erano umoristiche e basate su scene di vita vissuta. Per la canzone E la cuoca sudava l'argentina Aparecida
si mise a piangere, ma non era riferita a lei, piuttosto alla signora di un
desco campagnolo e rustico alle cui mangiate il Citti era stato invitato più
volte. Il Citti era un gestore di un banchetto stabile di giocattoli dietro il
coro di San Michele a Lucca, esiste ancora gestito dalla moglie e dal figlio,
molto somigliante al padre fisicamente, ma poco di carattere.
Al Barino di Sant’Agata avevano una squadra
per i tornei estivi che annoverava degli assi del calcio lucchese e vinceva
sempre troppo facilmente, 6 a 0,
Dopo facevano qualche gol loro, del Barino
e, quando gli altri parevano un po’ giù, facevano un altro congelamento o
due... allora i risultati diventavano
Ma gli avversari non si arrabbiavano?
A volte sì, altre volte la prendevano sul
ridere. Succedeva anche che, punti nell’orgoglio, iniziavano a giocare meglio e
a fare gol anche senza l’aiuto dei congelamenti.
L’Ondulato S.Marchino, era una squadra
forte, anche fisicamente e forse erano stati informati del trucco. In finale,
dall’inizio della partita, come mossa tattica presero a picchiare negli stinchi.
Come un tutt’uno, l’Ondulato, come se il pallone non gli fosse mai interessato,
botte su botte. Comunque, dopo il secondo congelamento, stavano
Il Citti e il Ferrara, un suo amico
conosciuto anche per essere un altro tremendo, antiquario di Sant'Agata,
andavano spesso a pescare al lago di Massaciuccoli, ma non avevano il permesso
e mettevano le canne dei puntali, come si usa fare per la pesca alla carpa e
alla tinca, nella quale ci vuole una grande pazienza, come dicono i manuali.
Quando arrivarono le guardie della Venatoria
loro dissero che le canne non erano di loro proprietà, al che una delle guardie
disse:
“Se non sono vostre allora non vi
dispiacerà se le prendiamo noi.”
“Ma veramente s’erano viste prima noi…”
Il
Citti è morto già da qualche anno. Ceccotti ha venduto il negozio di cornici,
scrive e canta ancora belle canzoni, doveva partecipare a Sanremo, a suo tempo,
ma pare che fisicamente sia stato giudicato insufficiente. Antonio Marchetti
credo faccia ancora i servizi fotografici dei matrimoni, ma ha chiuso il
negozio, per fare dei corsi di fotografia. Per causa di un incidente
automobilistico in Inghilterra è rimasto deformato in faccia e piuttosto sordo.
Questo non gli impedisce di continuare a fare il tecnico del suono ai concerti
del Ceccotti, che attualmente fa un repertorio di Fabrizio De André. Da Antonio
indirettamente ho lavorato anch'io, facendo le foto nelle scuole. Ho abitato
qualche settimana a casa sua a Sant'Agata portandoci addirittura mio fratello
Umberto per un giorno o due. Siamo stati anche con Alberto Ceccotti in vacanza
ad Hammamet e una volta siamo stati insieme, sempre noi tre, a Montalcino per
un'escursione enogastronomica. Ultimamente sono stato invitato a una cena, che
loro fanno regolarmente, del gruppo dei Diversamente
Giovani di cui fa parte anche Girolamo e poi anche Pedro, un altro amico di
piazza San Gennaro, con il quale però ho perso un po' i contatti e recentemente
si è sposato per la seconda volta, a 65 anni.
Lo
sport dovrebbe essere un veicolo di salute e un indirizzo più sano per il
giovane che si affaccia alla vita dell’adulto. In gioventù si ha l’occasione di
rinunciare alla droga e all’alcool, di mantenere sano il corpo e magari anche
la mente. Questo non sempre avviene, naturalmente, né si può fare a meno di
notare che sono proprio i più talentosi che s’imbenzinano per bene il giorno
prima della partita, che vengono all’allenamento dopo essersi fatti una bella
canna.
Io
ho iniziato un po’ tardi, rispetto ad altri, ero già al liceo. A cominciare dal
G.S. Nove, Falco di Santa Agata, Buonsuolo, S.Mario e Flotta. Ho giocato per
anni, a fasi alterne, ma anche con buoni risultati, con un altro cervello avrei
potuto diventare un professionista, o forse anche se avessi avuto qualche
allenatore con i debiti coglioni quadrati, che ne ho sempre visti da lontano.
Mi allenavo e avevo un fisico sano, anche se, una volta incominciato a bere, da
una parte smaltivo le tossine, da quell’altra le accumulavo.
Ricordo
che una volta un massaggiatore, visto che non recuperavo da un infortunio, mi
chiese se per caso bevevo, ed io risposi di sì, ma che forse non era per caso.
VEICOLI DI
LIBERTA’
La 126 beige
era di mamma e ho iniziato a usarla di nascosto rubandola di notte per imparare
a guidare. Una volta ho fatto diversi chilometri con il freno a mano tirato e
non riuscivo a capire perché quella macchinetta fosse diventata tanto pigra.
Per riportarla a casa, al cancello di entrata la spingevo e in un’occasione
quando uscii per aprire, la macchina spenta in folle partì nella discesa e fu
fermata sull'orlo del precipizio da un abetino provvidenziale.
Dopo
l'incidente a Vorno mio padre decise di prendere una Fiesta e dare alla Ford la
126 appena uscita dalla carrozzeria. Solo che alla carrozzeria, dove c'era lo
zio di Marzio, io avevo detto di fare un lavoro economico che tanto si sarebbe
data via in pochi giorni. Il lavoretto in effetti fu così a risparmio che il
parafango toccava la ruota e camminando portava via strisce di gomma. Appena
tornati a casa con la Fiesta nuova, dalla Ford telefonarono e gli toccò a
pagare la riparazione ben fatta, a mio padre che non sapeva niente ed era
l'onestà in persona. La Fiesta la prese mamma e io ereditai la Renault 5 blu
che era una meraviglia.
Però la 126
era stata un trattorino non indifferente, mi ricordo una spedizione domenicale
in montagna, al Casone, con un'altra 126 blu e un gruppo di ragazze tra cui il
mio primo grande amore Valeria che mi mandò a quel paese non molto tempo dopo,
nella festa dell'ultimo dell'anno a casa di Giampaolo a Buonsuolo.
Il gruppo di
tal paese a me introdotto da Martino, era composto di una masnada di giovinotti
molesti e assai uniti nel bene e nel male, ma specialmente nel male, che
d'estate facevano gavettoni a chi se ne stava seduto a parlare fuori dalle
case. Le feste a casa di Giampaolo erano belle perché aveva uno spazio a
disposizione tipo discoteca e uno stereo con i controcazzi, dischi e volontà
eccetera.
Martino aveva una bellissima Alfetta che
sapeva guidare bene assai, ricordo in Piazza Grande scendeva con la macchina in
prima e come se la presentasse al pubblico la teneva per lo sportello
camminando e docilmente girando alla tonda come si farebbe con un cavallo o con
un animale da esposizione.
Con la 126
d'estate io e Umberto andammo sotto il ponte dell'autostrada tra Nove e
Buonsuolo per fregare un manifesto di una donna nuda che faceva il surf su una
tavola fatta a cuore. Il poster era appena attaccato sul cemento armato del
pilone e se ne venne via subito, proprio mentre stavo aprendo lo sportello e
Umberto saltava giù lasciando parte delle palle e relative bestemmie verso di
me e sullo sportello in questione.
Se
non avessero inventato i computer, probabilmente avrei smesso di scrivere, ero
troppo arruffone e discontinuo, in più facevo una vita assai sregolata. Con la
macchina da scrivere dovevo lottare per dei giorni con la stessa pagina, prima
di poterla vedere scritta, senza troppe modifiche, pasticci e cancellature,
come volevo io.
Poi,
quando era pronta, dopo essermi azzuffato fino a diventare esausto, con
grammatica, sintassi e stile, la guardavo per qualche istante e poi la dovevo
scrivere di nuovo. In quel momento l’avevo finalmente vista bene, così come non
la potevo immaginare prima e allora sorgevano subito ulteriori miglioramenti da
fare.
Il
processo si ripeteva anche con la seguente stesura, e quella dopo, che magari
poteva sembrare definitiva, ma non lo era, fino a darmi l’impressione quasi
tangibile di essere una storia infinita...
E
si trattava solo di una pagina.
Il
computer è una meraviglia, perché permette di correggere, per un numero
infinito di volte, i nostri errori e le cretinate che diciamo.
Per
carità, si stampa solo quando va tutto bene.
O
quando ci siamo veramente stufati.
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