domenica 2 luglio 2023

DAI VENTI AI TRENTA

 


 

All'inizio, non avendo spese di mantenimento e vivendo con i genitori, tutto sembra agevole e si comprano cose e situazioni, non rendendoci conto che una volta raggiunta la sospirata indipendenza, di soldi non ne avanzano, casomai mancano.

Arrivando dalla scuola e dall'adolescenza, bene o male prolungata, con il tempo si scopre lentamente che il lavoro non nobilita affatto l'uomo, né la donna, eventualmente gli dà la dimensione di quanto la vita sia dura e soprattutto noiosa, se non la si prende al più presto per le corna e le si impone un ritmo a noi più congeniale.

Le macchine, i mondiali, gli amici, le fidanzate, le case, i lavori, ma anche i punti fermi della filosofia nostra in formazione sono tutti utili per situarci in epoche differenti e i cambiamenti non solo nel cervello e nel cuore, ma anche nel resto del corpo che raramente dimagrisce, più spesso ingrassa e soffre di progressivi mali fisici, ecco un altro parametro da seguire. Per ultimi mettiamoci i libri e i racconti pubblicati, perché gli altri, quelli messi da parte, sono troppi ed è difficile attaccarci l’immagine o la relazione di quello che si stava attraversando nell’epoca in questione.

Il prolungamento dell’adolescenza fu la cameretta chiusa con il lucchetto, dentro effetti speciali come stalattiti di gommapiuma con le luci colorate dentro, fotografie e poster sulle pareti e sul soffitto. In terra, grazie al pavimento lucido rosa bastava una lampadina rossa sotto l’armadio e una sotto il letto per farlo diventare fosforescente, sembrava addirittura liquido con una qualche apparente nebbiolina sopra. Poi il poster staccato dal pilone dell’autostrada a Nove, dove si ammucchiavano decine di firme, di tutte le persone entrate in quella camera.

 

 

 

LE RAGAZZE QUESTE SCONOSCIUTE

 

La prima cotta è difficile da localizzare, forse Lorella in quinta elementare. Poi Rosanna la mia vicina di casa. Dopo Lia al Quercione e decine di altre cotte e crude, insomma al sangue. In tanti casi come Immanuel Kant loro, le dirette interessate, non lo hanno nemmeno mai sospettato, io facevo di tutto per nasconderlo, per auto-sabotarmi, ma come facevo a saperlo?

Dai vent’anni in là ho avuto diverse ragazze, nel senso che sono state loro a decidere di mettersi con me, ma sono stato io a interrompere, nella maggior parte dei casi. In pochi sono state loro a lasciarmi, ma era proprio quando sentivo il massimo o credevo di sentirlo. Insomma mi hanno mandato affanculo quando ero appassionato, e viceversa quando loro erano ben disposte invece, ce le mandavo io.

Quest’epoca è stata densa di movimento e piuttosto confusa, si capirà anche dalla tecnica di scrittura, che salta di qua e di là. Insomma i cambiamenti di direzione sono stati tanti, in tanti casi completamente casuali, ma forse le cose che sono successe mi hanno fatto capire altre cose, che poi sono state importanti per indirizzarmi meglio, per il futuro. Le donne sono entrate nella mia vita e hanno fatto il bello e il cattivo tempo.

Parliamo del rapporto che abbiamo avuto con queste donne, diciamo negli anni 80, mese più, mese meno. Il plurale è per via che dentro di me c’è un esercito di persone che non sempre la pensano allo stesso modo, che poi parlano poco, ma quasi come se fossero antagoniste. In confronto al movimento interno poi nelle azioni c’è un po’ di pace in più, perché sono poche e distribuite nel tempo.

Prima di tutto c'è da notare che raramente ho potuto scegliere, sono stato sempre o quasi sempre scelto. Poi c'è il fatto che i foruncoli e il mio aspetto fisico non mi piacevano quando ero… diciamo adolescente e dopo mi sono portato dietro un’insicurezza che veniva anche dalla mentalità comunicatami dalla famiglia, piena di pensieri e di scarsissime azioni.

Quindi la prima è stata a Marta che poteva anche andare benissimo, ma io non conoscevo me stesso e lei non aveva niente che non andasse, ma non mi sentivo innamorato come mi aspettavo, vedevo più difetti che i pregi.

 

 

 

 

 

PERCHÉ SCRIVERE?

 

Il mio professore d’italiano delle scuole medie stroncò un mio tema in classe, che parlava della violenza nello sport: ero scarsissimo sull’attualità e cercare di raziocinare su notizie imprecise non mi era riuscito.

Ma il professor Saccomanni, che non solo per questo fu il primo insegnante che mi piacque, innescò in me un meccanismo di rivalsa.

Scosse il mio cervello pigro o magari il cuore bloccato dalla mia stessa eccessiva sensibilità, forse perché seppe spiegarmi per bene perché il mio tema in classe facesse schifo.

Quello seguente, infatti, che invece era sui miei progetti futuri, visto che non ne avevo nessuno e che scrissi totalmente di fantasia, fu un successone e me lo fece leggere ad alta voce alla classe.

Poi poesie. Senza rima, senza ritmo, ma si può dire che la poesia moderna non ha più bisogno di questi schemi e già allora questa libertà mi affascinò.

Perché per ritrarre uno stato d’animo o una situazione bastavano poche parole, si poteva scrivere in pochi minuti, poi ci volevano giorni per correggere e per renderla più artistica, va bene, ma quello che contava era che il primo sbozzo si faceva in poco tempo.

Scrivere poesie era una cosa che mi intristiva anche di più di quello che già ero, e lo ero assai.

Nel 1978 avevo smesso di studiare, si fa per dire, diciamo che smisi di andare a scuola, per studiare non studiavo nemmeno prima.

Poi iniziai a lavorare in pasticceria, un anno dopo, nell’80 partii militare, ad agosto.

Nell’81 ripresi il lavoro in pasticceria.

Da militare iniziai i miei primi romanzi, con una certa convinzione, che non era poi molta, ma avevo così tanto tempo a disposizione che lo facevo anche per distrarmi.

Questi primi manoscritti erano versioni maccheroniche e mischiate di film e storie già masticate, pieni di parolacce e di oscenità per colpire il pubblico, anche se non ce n’era, attraverso un sensazionalismo che all’epoca non esisteva ancora, almeno come termine.

Erano comici quando volevano essere seri e tragici quando volevano essere divertenti.

Certo che poesie e romanzi furono solo un rozzo, ripetitivo e sanguigno esercizio di formazione, tanto per cominciare dalla maniera più sbagliata, andando per esclusione, come ho fatto spesso, in generale, nella mia vita, per indecisione e per conseguente flessibilità, o anche perché, in fondo, m’interessa tutto o quasi, perciò mi è difficile sapere quanto, finché non ho provato ad entrarci dentro e non ci ho sbattuto perbene la faccia.

 

 

 

PASTICCERIA SMERALDO

 

Buttavo sul banco espressi, macchiati e cappuccini senza nemmeno aspettare che me li ordinassero, nelle mattinate di punta, come il mercoledì, quando le altre pasticcerie erano chiuse, o la domenica che era tradizionale per venirci a comprare un dolce per pranzo. Aprivo il negozio alle sette e andavo a casa all’una. La mia terza ragazza è stata una commessa del Smeraldo. Ci ho lavorato per due anni in tutto, a cavallo del servizio militare, era brava gente, mi ci trovavo bene e ho mangiato un numero indescrivibile di paste e pezzi salati. Alcuni prodotti come la focaccina alla cipolla, ripiena di insalata, tonno, capperi e maionese li mangiavamo solo noi, il pubblico ne ha viste di rado. E soprattutto la birra cecoslovacca Pilsner Urquell.

Un ricordo pesante di quando lavoravo alla pasticceria, è quello d'inverno la mattina presto, con un freddo della madonna, arrivavo con la 126 e per la strada ascoltavo sempre la cassetta dei Pink Floyd The Wall, specialmente quelle canzoni tristissime che si adattavano al fatto che mi ero lasciato con Valeria, che è stato il primo grande amore, durato pochissimo, ma molto intenso da parte mia.

Una sera mi ero messo anche a piangere con lei, ingenuamente manifestando la paura che mi lasciasse. Naturalmente lei si approfittò di questa mia debolezza e mi trattava con una certa sufficienza, qualche volta anche minacciando di non incontrarmi, sapendo che per me era molto più importante che per lei e poi mi lasciò l'ultimo dell'anno del 1980.

Nel 1982 però vincemmo il mondiale, vidi tutte le partite insieme a un gruppo di gente derivante dalle mie conoscenze di scuola, la finale insieme ad Aldo nella casa di campagna nel Compitese dei suoi zii. Visto che il primo tempo andava male, nell’intervallo facemmo diversi chilometri per unirci insieme agli altri a Porta Elisa a casa del Giorgini e la mossa si rivelò indovinata.

 

 

 

BARABBA

 

Nel 1982 ho cominciato a lavorare da Berardo in Piazza dell'Anfiteatro, era stato lui che mi aveva chiesto se mi interessava di lavorare nella sua birreria-paninoteca, che all'epoca era una delle poche che esistevano a Lucca. Aveva lavorato al Magro dei Tini lui, che all'epoca era l'unica che si potesse dire di quel tipo di mescita un po’ più sofisticata e cittadina, che serviva anche panini caldi.

Solo che lì non era tutti i giorni, era solo nel fine settimana, ma lì accanto in via dell'Anfiteatro, c'era la trattoria Barabba che era gestita anche da Girolamo, mio amico e dopo mi chiesero se volevo lavorarci come lavapiatti; quindi saremmo stati già vicini al 1983. Ci ho fumato le mie prime sigarette, Camel senza filtro e qualche canna, ma non là dentro. Poi diventai cameriere e quando, mi chiesero di essere socio, me ne andai e la indovinai.

La sera, dopo le dieci, era il ritrovo degli alternativi, che non erano molti e a volte anche troppo alternativi. Ogni tanto qualche rissa. Ci arrivai attraverso amici e non poteva esser differente, tutto era basato sull’amicizia. Era uno dei ristoranti più vecchi di Lucca, più che altro un’osteria. Ci si possono trovare ancora lapidi di marmo che testimoniano cene e libagioni epiche e copiose, di quasi un secolo fa.

Un cambio di amicizia graduale era iniziato quando attraverso un’innamorata effimera, compagna di lavoro allo Smeraldo Pasticceria Bar, avevo conosciuto il Gatti e tutto insieme venne poi il giro di Piazza San Gennaro, che in seguito mi portò al lavoro alla Trattoria Barabba. Insomma gente meno agiata e più ruspante, nel senso di autentica, che poi per anni sostituì quelli di prima e nacquero nuove e forti amicizie.

Mi sentivo veramente bene con gli altri dipendenti e con i tre soci, all’inizio erano quattro, ma poi uno se andò. Però per essere pagato, alla fine della settimana, li dovevo marcare a uomo. Posso dire con orgoglio che - sotto la detta gestione - sono stato l’unico a riscuotere regolarmente e completamente lo stipendio.

La faccia tosta di Achille era fatta di bronzo di Riace, riusciva a dire le cose più assurde in perfetta serietà e ci aggiungeva anche una falsa e orgogliosa umiltà che sembrava spontanea.

Una volta dei clienti abituali mi chiesero del vino rosé e Achille stava passando carico di piatti sporchi, intervenne e disse che era arrivato proprio quella mattina un Pinot Rosé che era una favola.

Detto fatto andò nello sgabuzzino e si fabbricò al momento il rosé promesso, con vino bianco e rosso. I clienti furono così entusiasti che ritornarono sempre a chiederlo e gli altri camerieri dovettero imparare a farne al momento, anche se le proporzioni non furono mai divulgate da Achille, anche perché non le sapeva, e andavano eseguite a occhio, per non risultare eccessivamente scuro, né troppo chiaro. Però nel tale sgabuzzino ci si vedeva poco e i rosé che ne venivano fuori erano troppo differenti per non accorgersene, eppure nessuno giammai protestò.

Una volta comprò uno stock gigantesco di un pessimo whisky Cluny, fatto chissà dove, forse in Francia. Mi pare una decina di scatoloni o più, per anni restò l’unico a disposizione, secondo le rigorose istruzioni di Achille che voleva sbolognarlo tutto, e a prezzi nemmeno lontanamente giustificati dalla qualità.

Questo non gli impediva certo di interpretare una scena da teatro, specialmente quando un cliente spocchioso voleva mostrare di intendersi di whisky e alla fine di una lauta cena gli chiedeva quali fossero a disposizione. Alla domanda Achille rispondeva quasi gridando TUTTI e alle più incredibili richieste portava sempre lo stesso Cluny, si metteva di fronte al cliente e aspettava che se lo assaggiasse, con la facciona seria, orgogliosa e fiduciosa.

Una volta che avevano chiesto un whisky di torba Laphroaig, invecchiato dieci anni, Achille gli portò una complementare ma necessaria acqua di torba di rubinetto arrugginito che opportunamente prese nel cortile, in più mise un goccetto di amaro Averna nel Cluny.

Nessun cliente ebbe mai a dubitare o a lamentarsi di qualche disguido, la faccia di Achille bastava a convincere chiunque, clienti abituali e stanziali, viaggiatori e turisti. A nessuno venne mai in mente di mettere in dubbio la sua credibilità, ma lui sapeva bene a chi farli questi teatrini.

L’altro socio, Memo, era uno sciupafemmine di quelli assai gelosi della moglie, come pare logico e inevitabile. C’aveva un’amante mulatta brasiliana, conosciuta in un night club, che di soprannome era Xuxu, nome di una specie di zucca rampicante di qua. Una volta gli telefonò e risposi io, dissi che Memo non c’era, ma lei era convinta che fosse lui che faceva lo scemo, come forse aveva fatto altre volte e non mi riuscì di convincerla per un bel po’.

La gente credeva perfino che io fossi fratello di Memo, e addirittura un anziano ex-pasticcere dello Smeraldo, uscito fuori di testa per la morte del figlio in un incidente stradale, quando ci si incontrava in Fillungo mi scambiava per lui, giacché avevano lavorato insieme alla Cantoni Cucirini Coats. Rimanevamo dunque un poco a parlare del più e del meno, io impersonando alla meglio il mio fratello barbuto.

Da Barabba c’era un clima casalingo che la gente apprezzava, ricordo anche che Achille alla gente non diceva di sedersi, ma di mettersi a ceccia. Si mangiava bene e si beveva di più, ma alla fine vendettero, all’epoca, per un prezzo equivalente alla metà dei loro debiti.

Tra i soci di Barabba quindi c'era il novello cuoco, cugino del Gatti, Girolamo detto anche Savonarola, soprannome ereditato da suo padre, un camionista onesto, lavoratore e sempre dritto per la sua strada, che il figlio invece non voleva seguire. In quell’ambiente essere scavezzacolli era la regola e non l’eccezione. Non che lui non fosse onesto, anzi lo era assai, e generosissimo come non ho mai più trovato nessuno. La nostra amicizia, come le altre, è stata fatta a pezzi dal fottuto mondo che ti prende e ti porta via, poi rimessa insieme da un’inerzia sotterranea, un sentimentalismo sano che ancora sopravvive, almeno in Italia.

In affitto abbiamo abitato in via Cenami, o piazza S.Giusto, siamo stati a Berlino insieme, nello stesso appartamento di Goethe strasse, lui lavorava lì vicino al ristorante Pasta e Basta. Scappammo di là affrettatamente, appena riscosso i salari rispettivi, per una decisione presa mentre da pedoni aspettavamo il verde a un semaforo. Ci scolammo non so quante bottiglie al ritorno verso Lucca.

Poi Giro aveva sposato una ragazza del Sol Levante e ha vissuto non so quanti anni in Giappone a fare il cuoco in un ristorante italiano, il Sabatini, che funzionava come una specie di catena di montaggio e dove l’unico peninsulare era lui.

 

 

 

PIAZZA S. GIUSTO O VIA CENAMI?

 

Un cliente livornese di Barabba ci raccomandò e ottenemmo in affitto un appartamento in Piazza San Giusto, o forse era via Cenami, ma era bell’assai e con una vista non indifferente sui tetti di Lucca da un terrazzetto stupendo. Le stanze erano su vari livelli, scarsamente ammobiliate ma con gusto e con il parquet, però c'erano da montare delle scale che non finivano più, eravamo all'ultimo piano.

 Prima che ci buttassero fuori per i troppi rumori notturni, musica alta e balli sfrenati, diversa gente passò ad abitare con noi. La storia con Sabine inizio qui e Morgana ci abitava già, anzi mi aiutò distraendo l'amica Gunda proprio la sera fatale.

Poi con l'entrata di Mirko indirettamente cominciò anche l'epopea del Voltaire.

Morgana era di Trento e sorella di Fausto Vavassori, amico nostro e collega a suo tempo di lavoro da Barabba. Due simpaticoni, lei era anche una bella ragazza, oltre che vivace e abbastanza diversa dalle belle ragazze lucchesi che erano invariabilmente dei pesci lessi. Non si innamorò di me, bensì di Mirko e noi eravamo, se non l'opposto, quasi.

Fausto era un cuoco dedito più che altro alla bibita, come tutti noi, ma forse a un livello superiore e si faceva anche più canne. In seguito si stabilì a Torbole, sul lago di Garda e ci ospitò, Giro e me, diverse volte. Dove abitava era bellissimo e c'era anche una meravigliosa vista sul lago dall’alto. I loro genitori anche erano molto simpatici e andando e tornando da Berlino spesso ci siamo fermati una notte o due.

 

 

 

VAGLI DI SOTTO

 

Le spedizioni a Vagli per Achille erano ogni fine settimana con la scusa che andava a riparare le ruote del camion, portava su una masnada di gente a ubriacarsi. Anche lui non si tirava certo indietro, ma poi si svegliava presto, il giorno dopo lavorava sul serio e quello non era un lavoro leggero. Ho partecipato una volta sola, ma si beveva tanto che sembrava un lavoro. Eravamo Achille, Memo, Giro, Fausto e io, ma la formazione variava a ogni spedizione.

Il copione della commedia era questo: all'andata ci si fermava a tutti bar che c'erano sulla strada, per aperitivi e superalcolici vari. Il camioncino si arrampicava su a tappe e la sera per rimettersi in forma era rituale il brodo di carne. Durante e dopo cena si riattaccava con il vino rosso e vari personaggi locali si univano alla libagione.

A un certo punto uno sparì e ci si preoccupò. Cominciamo a chiamarlo per la campagna sottostante, un poggio scosceso verso il lago, incuranti del fatto che svegliavamo tutto il paese.

Donna, così era soprannominato l'uomo, si scoprì solo il giorno dopo che era andato fuori a pisciare e poi a letto. Si era dimenticato di avvertire.

A dormire ero nella camera più in alto, la casa stessa sembrava una grotta, polvere e umidità erano copiose e lassù il letto era puzzolente e sporco, la finestra era un buco aperto nella parete. Quasi non chiusi occhio, ma alle sette Giro e Fausto cominciarono a strillare che era l'ora del Campari e la giornata cominciò così proseguendo con il Maraschino casalingo, specialità locale e del resto poi non ricordo bene, ma le prossime volte che mi invitarono inventai delle scuse. Anche se risero e non ci credettero, capirono bene il mio punto di vista, forse avrebbero voluto rinunciarci anche loro, ma non potevano.

Mi è venuto in mente che un mio giovane allievo brasiliano mi raccontò di un suo punto di vista, simile al mio, circa andare in vacanza con i suoi amici. Lui ci aveva provato, ma quelli non dormivano mai e quei giorni alla spiaggia diventavano per lui, che era un po' più posato, un autentico inferno.

 

 

COLORSTAR

 

Era un mestiere quello che solo un giovane può fare, perché si doveva correre come matti a costo di prendere delle multe per portare le foto ai fotografi e spesso ti dovevi sopportare le lamentele per i ritardi, ma te non c’entravi niente.

La cosa bella, che a un giovane può piacere, era la dinamicità del lavoro, poi il fatto che la zona di Livorno-Grosseto era bella, anche se le strade erano insufficienti e sull’Aurelia si rischiava la vita tutti i giorni. La macchina si rompeva spesso e lo stipendio era misero considerato quello che facevi e per come lo dovevi fare.

Il primo cliente era a Rosignano e lo trovavo chiuso, sotto la saracinesca prendevo una busta con i negativi e ne lasciavo un’altra, con le foto. L’ultimo anche, era a Suvereto e non ci si incontrava mai. Per i pagamenti non mi ricordo come facessero.

Quando la Roma giocò la finale della coppa dei campioni io facevo il viaggiatore per la Colorstar, era il 1984, mi invitarono a cena sul percorso, esattamente a S.Vincenzo, il titolare di Clic, negozio di fotografo era Andrea, un tipo giovane e simpatico, almeno a quei tempi. Non ho mai capito se si arrufianava con me pensando che potessi accelerare la stampa delle foto, invece io gliele portavo quando me le davano e per il resto non potevo fare niente. Quello che è successo dopo mi fa pensare di sì, comunque era a quei tempi un tipo piacevole e una volta mi sono anche permesso di andare al mare con lui e la sua ragazza, durante il giro, nella pausa di mezzogiorno.

I suoi erano piuttosto anziani e la sua casa era proprio accanto al passaggio a livello, all’ingresso della cittadina, suo padre credo che fosse stato un ferroviere o qualcosa del genere. La Roma perse ai rigori con il Liverpool anche se giocava in casa, mentre noi si mangiava e dopo me ne tornai verso casa, anche se mi pare che dormii a Bibbona, che a quei tempi i miei c’avevano un monolocale.

La prima volta che lo sono andato a trovare erano passati tanti anni dieci o quindici, non lo so, forse di più e mi ha accolto freddamente, sembrava incazzato. Non mi ricordo in quale occasione è stato, perché mi trovassi da quelle parti, ma mi parlava solo di foto e di come quel commercio stesse andando di male in peggio, non si usciva dall'argomento. Pareva quasi che la colpa fosse mia, che il suo negozio e tutta una tendenza del mondo occidentale fossero inopinatamente cambiati e lo avessero lasciato in mezzo al rimpianto e all’amarezza.

Io ho pensato che quel determinato momento della sua vita forse complicato da motivi che non potevo sapere e lui non me li ha detti. Non ci ho pensato più di tanto, capitano a tutti dei periodi negativi, una persona li attraversa, per lunghi o corti che siano, poi approda dall'altra parte. Io poi con le foto non c'entravo più niente, durante gli anni avevo cambiato più volte passioni, occupazioni e indirizzi.

La seconda volta ero con mia moglie, erano passati altri tanti anni e lui non c’era, il signore del negozio vicino al suo, molto gentile, mi ha detto che era morto da poco suo padre, ma lo ha chiamato lo stesso con il cellulare, Andrea è venuto. Ancora più incazzato e tenebroso dell’altra volta. Il digitale aveva distrutto la sua vita e quella delle foto, il suo negozio non ce la faceva ad andare avanti, S.Vincenzo era un posto che funzionava sempre meno per il turismo, i tempi erano cambiati ed era manifestamente tutta colpa mia, per come mi trattava, pareva evidente.

Forse avrei dovuto sparire e se avessi avuto una bacchetta magica lo avrei fatto, mia moglie era imbarazzata e io peggio ancora, in pochi minuti ce ne siamo scappati. Era morto suo padre, va bene, forse l’altra volta era morta la madre e io non lo sapevo. Comunque non ci vado più a trovarlo, S.Vincenzo non mi piace nemmeno.

 

 

VOLTAIRE

 

Quando lavoravo a Barabba, la sera si chiudeva e si andava a piedi al Caffè Voltaire. Era un fatto automatico, non c'era nemmeno bisogno di annunciarlo a parole. In quell'epoca, molto più che in altre, varie ragazze sperse nella notte erano passate dal mio letto, che poi era solo un materasso a una piazza e mezzo, steso su un tappeto, come avevo visto a Berlino, direttamente sul pavimento di parquet.

Una di queste era stata Morgana, ma tra noi non si andò mai oltre il bacio che era già scivolata in un altro letto e dentro c'era Mirko, il proprietario del Caffè Voltaire. In poco tempo lui diventò un abitante della nostra comunità, io suo socio al 50% del Caffè Voltaire e le cose s'incamminarono in un ben determinato tipo di maniera.

Diventai socio di Mirko su sua richiesta, ma ci conoscevamo appena. La sua filosofia era semplice e assoluta, si basava sulla libertà, sul sentirsi a proprio agio sull'uso disinteressato che era concesso a tutti di approfittare delle cose degli altri scambievolmente e fraternamente.

Il principio era bello e giusto, disinteressato e bilaterale in teoria, in pratica lui non aveva niente e in base a questo suo nobile ragionamento poteva usare le altrui proprietà a suo piacimento. Anche gli altri diceva, certo anche gli altri naturalmente potevano, però per una strana coincidenza non ne avevano facilmente occasione.

Mirko era un tipo differente dai ragazzotti rozzi di Lucca, pareva più libero, anche piuttosto delicato, veniva da Torino, ma era di origine ligure. Mi aveva proposto di essere suo socio per una serie di motivi diagonali. Gli avevo imprestato l'appartamento dei miei al mare, per andarci con la suddetta ragazza. Si era lasciato con la sua precedente che lavorava con lui al Caffè, improvvisamente c'erano due posti vacanti nella sua vita, rappresentati prima da un’unica persona, ora diventate due. In più anche il suo portafogli era vuoto.

Aveva urgente bisogno di soldi per pagare i debiti fatti per mettere su la birreria e di qualcuno che ci lavorasse, meglio se la stessa persona che portava la grana.

Aveva fatto una pratica di stregoneria, con una specialista del ramo, che mi raccontò poi lui stesso e con la quale era risultato che io fossi la persona adatta. In generale, per scegliersi un buon socio, però la stregoneria non è una scienza esatta: mi sarei dovuto accorgere che quella era una storia irta di difficoltà immense, già prima di cominciare.

Agli inizi del diciottesimo secolo Voltaire era un uomo che scrivendo tragedie si scontrò contro tutti e tutto, rivoluzionò la maniera di scrivere, non tanto nello stile, ma soprattutto nei contenuti. Polemiche le sue lettere ai regnanti, che gli servirono per capire in prima persona cosa e come fosse la prigione, e di sviluppare, così, il suo concetto di libertà. Il suo Candido fu il primo libro con risvolti comici della storia della letteratura.

Il nome stesso di Voltaire diventò poi, nell’epoca moderna, sinonimo di apertura mentale, di costumi tolleranti. Probabilmente si iniziò a Parigi, adesso in tutte le grandi città del mondo c’è almeno un Caffè Voltaire. Non che questo implichi che Lucca sia una metropoli, anzi, e poi là non c’è più. Si suppone però, tacitamente, che tutti i Caffè Voltaire nascano con un’idea di libertà.

Quest’idea di libertà io l’ho sentita personalmente solo dopo che me ne sono liberato, dopo alcuni anni veramente turbolenti, sofferti e così via.

Il Caffè Voltaire era un unico stanzone col soffitto alto a volta, l'entrata era di fronte al lato corto del banco, fatto a elle arrotondata, di granito rosa e nero, stesso materiale dei dieci tavoli rotondi e con un lampioncino rosa a cadere su alcuni di essi, facendoci un occhio di luce, evidenziando il passaggio di nubi di fumo in lento movimento.

Un locale scuro, senza finestre, con musica dal vivo la domenica, gli altri giorni invece suonavamo selezioni miste di ogni tipo, ad alto volume, che aumentava progressivamente, seguendo l'orologio, fino all'una di notte, teorica ora di chiusura.

Ero diventato un improbabile imprenditore, quindi, con un socio e tutto, più una grossa voglia di bere e dimenticare, che però invece ricordava e ricominciava puntualmente il giorno dopo.

Il Caffè Voltaire era un punto di ritrovo obbligato, certo, era bello ritrovarsi ogni sera, almeno all’inizio, ma dopo qualche mese ci ritrovavamo sempre a ritrovarci e allora ho cominciato a trovarlo noioso.

Poi, quando smisi di ubriacarmi, anche se non lo capii subito, fu proprio un errore imperdonabile. Mio malgrado vidi cosa stavo facendo, dove e soprattutto come e con chi.

Prima di tutto dovremmo figurarci una città di provincia, dalla parola celtica Luk, palude, un luogo dove non succedeva mai niente. Il perbenismo ipocrita era l'ideale per la sua stessa natura, una città che aveva un’università in meno di Pisa e questo pesava nella sua vecchiaia precoce della gente, nella vetustà polverosa degli ideali.

Il successo del Caffè Voltaire era dovuto al suo romantico aspetto e alla sua struttura di locale, era più caratterizzato delle poche altre birrerie e la musica ad alto volume, cosa mai tentata prima a Lucca, rappresentava un’idea di libertà che faceva paura a tanti ed era apprezzata in maniera altrettanto forte da altri.

Arrivavo lì con il cibo ancora in gola perché la sera mangiavo assai. Il lavoro partiva alle nove la sera e dopo aver chiuso, all’una, si prolungava con gli amici spesso tutta la notte, quando gli altri si alzavano io andavo a letto.

A mezzogiorno non pranzavo mai perché spesso era l’ora della sveglia, se non ancora troppo presto per alzarsi. Il fatto poi di dover aspettare tutto il giorno prima di lavorare, generava una certa ansia. Dormire dalle quattro a mezzogiorno non è la stessa cosa che farlo da mezzanotte alle otto, infatti si dice che la notte è fatta per dormire, anche per una questione di ritmo naturale per il nostro corpo.

Una vecchietta che viveva lì vicino mi disse che lei ci chiamava Voltaren, ecco un altro nome onomatopeico.

I soldi prestati da mio padre per comprare parte della mia quota del Caffè Voltaire sono stati restituiti mensilmente, finché lui ha deciso che avevo sempre onorato il debito puntualmente e i miei fratelli vivevano ancora lì a casa e io no, che il costo relativo del loro mantenimento poteva essere rappresentato da quelle rate, che dopo un po' non avrei più dovuto pagare.

 La Renault 5 non mi ricordo se la comprai da loro o se me l'avevano semplicemente regalata usata, ma alla fine fu manovrata per pagare in parte un'altra macchina, una seconda Fiesta mentre io ero già a Berlino. La Panda non credo di avergliela pagata, perché quando io venni in Brasile e loro la vendettero, papà mi chiese chi si sarebbe preso i soldi e io dissi che li avrei presi io, anche se doveva dovevano essere di loro, perché io ne avevo più bisogno.

Mio padre insomma voleva che apprezzassi e imparassi la lealtà negli affari, e nella vita in generale, quando vedeva che ero determinato, quadrato e onesto poi mi regalava il restante generosamente.

Insomma la mia famiglia mi ha aiutato parecchio a livello di soldi, ma non hanno mai voluto lasciarmi le cose troppo facili, per abituarmi alla vita. L'idea che avevano dell’educazione per noi figli era abbastanza spartana, senza cerimonie o retorica, ma solidale quando c'era bisogno.

Di tre fratelli farne tre opposti non è facile, ma loro ci sono riusciti. Il merito o la colpa sono stati anche dell'ambiente attorno, nel quale era in atto l'ennesimo grande cambiamento, dal boom economico al berlusconismo. In pratica raggiunto uno stato di ricchezza relativa, l'italiano cominciava a chiedersi quale fosse il senso della vita, come succede di solito, quando una generazione abituata alla povertà ne porta al mondo un'altra più agiata, che ha molti meno problemi per la sopravvivenza. Di solito in questo processo si va anche da sinistra verso destra, ma a ondate e con altri componenti relativi e supplementari, tra cui quello dell’immigrazione e di fare sempre meno figli.

Dei tre fratelli poi uno solo ha avuto una prole, di un unico individuo, ma il mondo intanto era cambiato ancora e qualcuno direbbe in peggio.

Sulla trentina mi ero allontanato non solo dall’Italia ma anche dagli amici precedenti, ne avevo di nuovi che poi sarebbero stati lasciati indietro pure loro, ma qualcuno sarebbe ritornato in prima linea.

Le direzioni da prendere erano ancora incerte e lo sarebbero sempre state, almeno per me, ma non lo sapevo.

Il Caffè Voltaire è stato il mio incubo più forte e duraturo, d’accordo, di libertà ne ho usufruito anche quando ci lavoravo, basta dire che in un anno ho chiuso quattro volte e ho fatto quattro viaggi all’estero. Però sono stati anni assai difficili lo stesso, sono stato sempre peggio e mi pareva che tutto intorno a me anche peggiorasse.

Quella avrebbe potuto essere - di nuovo - la fine dell’adolescenza, ma avevo già più di trent’anni e forse era troppo tardi, ormai.

Certo ho conosciuto tanta gente, non tutta interessante, ma ne ho approfondito spesso, mio malgrado oppure no, anche i lati negativi, quelli che se ne uscivano fuori con l’alcool, mischiati agli altri. Magari è stato uno studio antropologico interessante, ma non era quello che mi ero immaginato ed era lontano anche da qualsiasi idea auspicabile del futuro, insomma mi ci sono trovato, più che averlo scelto veramente. Questo però succede spesso o quasi sempre nella vita, almeno qua sulla terra, come fisiologica conseguenza mi ha spinto a voltare pagina: ho cambiato lavoro, niente più ristorazione o bar.

Le notti del Caffè Voltaire però erano dense e piene di simbolico significato, oltre che di birra, vino e superalcolici, cause ed effetti che si mischiavano fino a non capirci più niente.

Dopo il normale orario che sarebbe stato dopo l’una, pulivamo tutto per il giorno dopo e partivamo per la notte, che era piccola per noi, come dicevano le sorelle Kessler, molti anni prima, ma il loro motto era più che attuale e funzionante.

Quelle notti erano molto meno torbide e scure quando qualcuno ci aspettava e dopo la chiusura facevamo quello che poteva essere chiamato Turismo al Chiar di Luna. Consisteva nell’infilarsi in una o più automobili e tagliare la notte girando a caso, con l'obbiettivo prima di tutto di farsi un bel cannone o due, poi ricercare punti turistici di quello speciale genere, ci poteva essere una bella vista o un particolare tipo di energia. Di tanti che ne abbiamo trovati alcuni non riusciremo a localizzarli più. Siamo arrivati a un punto che volevamo fare proprio una guida con questi punti turistici, tanto che avevo deciso di scrivere una guida notturna per ubriaconi e gente affetta dall’insonnia, corredata di foto e mappe di tutti i tesori turistici di quella parte della Toscana. Visitavamo castelli, cimiteri, punti di rilievo storici e geografici vari della lucchesia addormentata e non solo. Ma poi anche a farla chi l'avrebbe mai consultata? Il turista al chiar di luna non è certo il tipo che consulta una guida.

 

 

LESLIE

 

Lo conobbe il mio socio, per strada suonava senza saperlo fare, ma la sua simpatia era accattivante. Mirko lo invitò a venire a suonare da noi. Fu amicizia a prima vista. Era un barbuto irlandese dai lineamenti tagliati con l'accetta, beveva come un matto e suonava e cantava con molto impegno, i risultati artistici erano scarsi, abbastanza buoni però dal punto di vista di monete che cadevano nella custodia della sua chitarra dozzinale e vecchia.

Leslie era molto simpatico e lo era in maniera naturale senza sforzarsi di esserlo, senza dire battute divertenti o cercando di piacere agli altri. Rideva a scroscio e ti faceva ridere anche te, era contagioso, anche se non sapevi perché ridesse in quel momento. Era completamente sé stesso e non aveva pose, anche quando rifiutava per scarsa purezza cose e persone, situazioni che a ben vedere non erano come pensava lui. Odiava gli americani e Bruce Springsteen non solo perché aveva fatto una canzone intitolata Born in the USA.

Un irlandese cresciuto in Inghilterra insomma, che viveva in Francia, ma passava tanto tempo in giro, suonando, bevendo e vivendo di conseguenza. Disse che a Udine aveva avuto il maggior impatto, suonava meno che dalle altre parti perché guadagnava di più.

La seconda volta che venne da noi la sua qualità come musicista era molto migliorata, era diventato bravo. Forse quando lo avevamo conosciuto aveva cominciato da poco. Suonava e cantava un po’ di tutto, ma c’erano cose che non digeriva per niente.

Per qualche giorno dormì al Caffè Voltaire, come al solito quando era a Lucca, siccome io ero tornato a vivere dai miei si prese il mio giaciglio. Una mattina Mirko vide che c’era una grossa pentola vuota vicino al letto. Gli chiese a cosa gli servisse, lui rispose che era per vomitarci dentro.

In Francia aveva una ragazza che si chiamava Nadine, non ricordo in quale città, forse a Lione.

Chissà dove è andato a finire, dubito che sia andato a lavorare in banca, o che abbia spesso vestito una cravatta, come invece tanti altri hanno fatto.

 

 

 

CATTIVE AMICIZIE

 

Di cosiddette brutte frequentazioni ne ho avute a sufficienza, direi che per alcuni, in certi periodi, lo sono stato io stesso per loro. Insomma è normale, a una certa età vuoi provare tutto o quasi, poi è meglio voltare pagina, ma c'è gente che non l'ha ancora voltata. Va bene così, chi è che nell’esistenza si può effettivamente vantare di scegliere, senza essere un bugiardo?

L'epoca più alcolica è stata forse quella che va da Barabba al Caffè Voltaire, ma a Berlino non ho certo perso tempo. I primi tempi in Brasile anche non sono stati analcolici, ma gli ultimi venti anni invece ho quasi totalmente abbandonato, le sigarette e le canne proprio del tutto. Cominciai a fumare a Barabba dato che là quasi tutti lo facevano e mi offrivano Camel con e senza filtro, MS e Marlboro. Una delle tante volte avevo smesso subito prima, ma a Berlino ricominciai. Stesso procedimento in Brasile. Probabilmente prima di partire ero rilassato, con la prospettiva del futuro, dopo, invece ero nervoso, perché ricominciare a vivere in un altro luogo, o meglio: proprio in un’altra nazione, provoca scompensi logistici per cui si attraversano inevitabili periodi di stress, ottemperati dall’opportuno e logico entusiasmo per il cambiamento.

 

 

PARAMETRI LIQUIDI

 

Da bambino bevevo di tutto meno gli alcolici, che a me non piacevano proprio. Vino e birra io li ho iniziati a gustare che ero quasi maggiorenne. A mio fratello Sandro invece, da bambino la birra gli garbava già.

Altro parametro utile sono le bevande, infelicemente le amicizie ti confermano dei vizi che te avevi già e quello del bere poi è diventato forte, ma solo ed esclusivamente per loro causa, non certo per mia, purtroppo ho recuperato il terreno perduto, forse per caso, o forse no, lavorando in bar, ristoranti e birrerie.

Al Voltaire facevo un cocktail chiamato Fond de Bouteilles, che era sempre diverso, perché si usavano i fondi delle bottiglie. Naturalmente non tutti. Si doveva, si voleva e si poteva scegliere, sennò faceva schifo.

L’Agua de Valencia, ci fu insegnata da un’argentina dalla risata a cascata, Aparecida, assai simpatica, che era anche cuoca e aveva fatto a Barabba una serata di cucina del suo paese. Era un bicchierone di mistura di liquori e succo d’arancia che al gusto sembrava totalmente innocuo e analcolico, ma dava delle botte non indifferenti ai malcapitati, che spesso erano anche recidivi. Un tipo di bibita molto apprezzato anche dalle donne. Dalla moglie di mio fratello Umberto, Dayane, poi qua in Brasile per ovvi motivi è stato inventato il vino Feminino e il vino Masculino.

Sia a Barabba che poi al Voltaire c’erano delle birre rosse alla spina buonissime. Forse per caso, o forse no, talvolta se ne facevano in più e purtroppo ce le dovevamo poi bere noi. Più se ne bevevano e più se ne sbagliavano e così via.

La Grolla era un’altra mistura di liquori caldi della Val D’Aosta che amici nostri portarono a Lucca dopo le ferie in loco. Se non facevi attenzione, bevendo dall’apposito contenitore di legno con più buchi, ti potevi scottare, ma di sicuro e sempre poi ne uscivi ubriaco e accaldato. L’appartamento in via Cenami, o piazza S.Giusto, assistè almeno due volte a questa cerimonia tipicamente invernale e che provocava una rivoluzione nell’ordine delle cose e soprattutto delle idee delle persone in questione.

A proposito di roba forte la Biere du Demon aveva una ventina di gradi e un cliente abituale del Voltaire, detto il Chiedone, dopo averne bevute una decina, insisteva per pagare due volte, ingenuamente non glielo permettemmo e dalla rabbia spaccò un vetro della porta con un cazzotto.

Il vino l’ho apprezzato più raramente delle altre bevande, da ricordare una sera a Pisa alla Limonaia, una sequenza di bottiglie pagate da amici di Orentano, erano dei fottutissimi nettari manco a dirlo, ma tutti quei soldi io non ce li avrei spesi.

 

 

 

 

STUPEFACENTI

 

 Le canne sono un argomento più complesso: la prima deve essere stata nell'epoca di Barabba, ma la stessa materia in questione è causa di perdite di memoria e quindi non ricordo con chi e meno ancora in quale occasione. In queste condizioni gli episodi buffi da raccontare aumentavano e quello pareva essere ciò che contava, cioè l'importante era divertirsi e non eravamo molto lontani dal giusto, magari era il modo che era esagerato.

Savonarola una volta in montagna in una escursione con un gruppo di avvinazzati e non solo, si fermò a pisciare dietro un gruppo di case e una finestra si aprì, si affacciò una donna, disse qualcosa che lui non capì, richiuse e dopo lui raccontava a tutti che era stata un'apparizione della madonna. Poi venne chiamato n’apparì la Madonna dagli amici e conoscenti per via anche della sua nappa piuttosto pronunciata in gergo.

Si può rimanere stupefatti dai vari vantaggi o sintomi che ci danno gli stupefacenti, la gente ha bisogno di stupefarsi, soprattutto quando la vita insiste nel sembrare troppo simile a sé stessa.

 

 

FUSILLI HOME

 

Mettendo i soldi da parte per andarmene a Berlino cominciai a lavorare a Fusilli Home, dietro lo stadio e ci sono rimasto dei mesi, facendo il turno spezzato, che non ti da’ tempo e luogo per fare nient’altro che lavorare e dormire.

Eravamo in diversi e c’era anche Fausto in cucina, si lavorava in maniera spensierata e ci si divertiva anche, ma c’era da galoppare.

C'erano diversi tipi da spiaggia a Fusilli Home e non erano tutti clienti, ci facevano una pizza buonissima con il grande forno a legna, dove la domenica si arrostivano una cinquantina di polli da portare via.

Fiano era uno dei gestori, l'altro era Nando, detti Cric e Croc, sempre insieme ma si sopportavano a fatica.

Fiano era un playboy capellone con moglie e figli, uno di quelli assai gelosi ma traditori naturali, come se fossero due cose che combinano bene. Nando invece era più serio almeno da quel lato lì, ma anche lui non totalmente assoluto.

Fiano chiamava i clienti con soprannomi onomatopeici, oppure contrari, o anche casuali, ma tu capivi subito a chi dovevi portare le pizze, se lui diceva che erano di Kojak e Sofia Loren. Vicino alla cassa aveva messo un piccolo cactus in vaso, sottintendendo forse un simbolo fallico, era chiamato Uccelli di Rovo.

Era in perenne polemica con Rino, siciliano sordo e attempato, che lavava i piatti in una cucina grande e incallita di sporco atavico.

Fausto era il cuoco e ogni tanto c'era nel fine settimana la vecchia padrona chiamata da Fiano con soprannomi in questa sede innominabili. La figlia e padrona attuale appariva di rado, ma ero stato contattato da lei, probabilmente perché il lavoro era aumentato e Fiano e Nando non ce la facevano più.

Nel fine settimana c'era un pizzaiolo specializzato di Porcari, come Nando, perché le pizze erano fatte senza teglia e se non ci sapevi fare si accartocciavano al primo contatto di pala. Sabato, domenica e feste comandate c'erano anche due ragazze giovani, a volte la moglie di Nando. Il quale era sempre con la sigaretta in bocca, cambiava il peso da una gamba all’altra e chiacchierava incessantemente se trovava uno che lo ascoltava. Un classico era la domenica sera, preparando le pizze che il pizzaiolo poi metteva in forno, con la massima apparente calma, di fronte a decine di persone che aspettavano e guardavano, non stava zitto un secondo. Nando era sprovvisto di ogni senso dell’humour, una domenica a mezzogiorno un anziano gli chiese, di fronte all’ovvia ecatombe di volatili allo spiedo, preparati in quella che in Brasile chiamano televisione per cani:

“Vesti vi en polli?”

E lui rispose serio e laconico, con la sigaretta all’angolo della bocca:

“Vesti vi en polli.”

Risata generale.

Fiano era in eterna - ma tacita - polemica con Rino, per la sporcizia della cucina, per le pur involontarie scorregge mentre mangiavamo e perché metteva teglie sporche a scaldare e a sgrassare sui fornelli durante le ore di servizio al pubblico.

Gli faceva sempre le boccacce alle spalle e poi pettegolezzi stizzosi e bestemmiati, ma non sempre giustificati. Altro classico poi era lo scherzo ricorrente di mettergli il sellino della bici dritto, svitandone la base. Il vecchietto che per andare a casa si toglieva finalmente gli occhiali da vista, qualche volta era quasi caduto e Fiano aveva riso sommessamente in quella sua maniera tipica, con la bocca chiusa, perché era sdentato e si vergognava.

Una volta che ero andato a trovarli in ferie da Berlino, Fiano gli aveva fatto lo scherzetto di rito e Rino si arrabbiò con me, forse perché aveva smesso di farglielo in mia assenza, dato che l'unico sospettabile automaticamente diventava lui.

“Pure dalla Germania vengono a ròmpere i cogliòni…”

A Fusilli Home si mangiava bene e si spendeva il giusto, c'erano tanti tavoli e funzionava anche per i pranzi di lavoro, rosticceria e bar.

In una certa epoca tentarono anche di fare consegne a domicilio, ma Fiano poi fatta la consegna spariva e tornava solo a chiusura. Tentarono anche con un'agenzia scalcagnata, uscirono perfino manifesti e volantini, ma il successo fu più scarso ancora.

Essendo in un quartiere popolare, addirittura malfamato, vicino allo stadio e all'ospedale, il lavoro era tanto e se i clienti non li prendevi in una maniera, lì acchiappavi nell'altra, non avevano scampo. Era per via delle leggi delle probabilità, insomma la matematica degli algoritmi.

 

 

 

CITTISBANCA

 

Il fotografo Marchetti era uno dei più quotati a Lucca, non ricordo come ci siamo conosciuti, sicuramente era un cliente di Barabba, veniva tutti i giorni a pranzo, qualche volta a cena. Suo amico e musicista, cantante e simpaticone, il piccolo ma arzillo Ceccotti, con il quale sempre a rate, ma siamo diventati più amici dopo, quando ero già in Brasile e venivo in Italia una volta all'anno.

 La Cittisbanca era un gruppo musicale formato da loro sulla figura folkloristica del Citti, omo di una simpatia sottile ma trascinante. Io ne feci parte come guardia del corpo, o buttafuori, nel senso che stavo di lato al palco, come un altro, nei concorsi canori guardando male il pubblico, con una sigaretta spenta che muovevo con le labbra, senza toccarla con le mani, conserte sul petto. Le canzoni erano umoristiche e basate su scene di vita vissuta. Per la canzone E la cuoca sudava l'argentina Aparecida si mise a piangere, ma non era riferita a lei, piuttosto alla signora di un desco campagnolo e rustico alle cui mangiate il Citti era stato invitato più volte. Il Citti era un gestore di un banchetto stabile di giocattoli dietro il coro di San Michele a Lucca, esiste ancora gestito dalla moglie e dal figlio, molto somigliante al padre fisicamente, ma poco di carattere.

Al Barino di Sant’Agata avevano una squadra per i tornei estivi che annoverava degli assi del calcio lucchese e vinceva sempre troppo facilmente, 6 a 0, 5 a 0, 7 a 1 e così via... il Citti, non per caso il loro CT, inventò allora uno stratagemma per rendere le cose più interessanti: con il megafono gridava: CONGELAMENTO!! E tutti rimanevano immobili come statue, intanto la squadra avversaria, anche se incredula, faceva gol indisturbata.

Dopo facevano qualche gol loro, del Barino e, quando gli altri parevano un po’ giù, facevano un altro congelamento o due... allora i risultati diventavano 7 a 5, 6 a 4, 8 a 3 e così via, anche per loro era più stimolante, perché poi dovevano impegnarsi di più per non essere raggiunti o superati...

Ma gli avversari non si arrabbiavano?

A volte sì, altre volte la prendevano sul ridere. Succedeva anche che, punti nell’orgoglio, iniziavano a giocare meglio e a fare gol anche senza l’aiuto dei congelamenti.

L’Ondulato S.Marchino, era una squadra forte, anche fisicamente e forse erano stati informati del trucco. In finale, dall’inizio della partita, come mossa tattica presero a picchiare negli stinchi. Come un tutt’uno, l’Ondulato, come se il pallone non gli fosse mai interessato, botte su botte. Comunque, dopo il secondo congelamento, stavano 4 a 2 per il Barino. Quelli si infuriarono come tori, si sentivano umiliati. In pochi minuti, di prepotenza, ribaltarono la partita e alla fine vinsero 5 a 4.

Il Citti e il Ferrara, un suo amico conosciuto anche per essere un altro tremendo, antiquario di Sant'Agata, andavano spesso a pescare al lago di Massaciuccoli, ma non avevano il permesso e mettevano le canne dei puntali, come si usa fare per la pesca alla carpa e alla tinca, nella quale ci vuole una grande pazienza, come dicono i manuali.

Quando arrivarono le guardie della Venatoria loro dissero che le canne non erano di loro proprietà, al che una delle guardie disse:

“Se non sono vostre allora non vi dispiacerà se le prendiamo noi.”

“Ma veramente s’erano viste prima noi…”

Il Citti è morto già da qualche anno. Ceccotti ha venduto il negozio di cornici, scrive e canta ancora belle canzoni, doveva partecipare a Sanremo, a suo tempo, ma pare che fisicamente sia stato giudicato insufficiente. Antonio Marchetti credo faccia ancora i servizi fotografici dei matrimoni, ma ha chiuso il negozio, per fare dei corsi di fotografia. Per causa di un incidente automobilistico in Inghilterra è rimasto deformato in faccia e piuttosto sordo. Questo non gli impedisce di continuare a fare il tecnico del suono ai concerti del Ceccotti, che attualmente fa un repertorio di Fabrizio De André. Da Antonio indirettamente ho lavorato anch'io, facendo le foto nelle scuole. Ho abitato qualche settimana a casa sua a Sant'Agata portandoci addirittura mio fratello Umberto per un giorno o due. Siamo stati anche con Alberto Ceccotti in vacanza ad Hammamet e una volta siamo stati insieme, sempre noi tre, a Montalcino per un'escursione enogastronomica. Ultimamente sono stato invitato a una cena, che loro fanno regolarmente, del gruppo dei Diversamente Giovani di cui fa parte anche Girolamo e poi anche Pedro, un altro amico di piazza San Gennaro, con il quale però ho perso un po' i contatti e recentemente si è sposato per la seconda volta, a 65 anni.

 

 

CALCIO

 

Lo sport dovrebbe essere un veicolo di salute e un indirizzo più sano per il giovane che si affaccia alla vita dell’adulto. In gioventù si ha l’occasione di rinunciare alla droga e all’alcool, di mantenere sano il corpo e magari anche la mente. Questo non sempre avviene, naturalmente, né si può fare a meno di notare che sono proprio i più talentosi che s’imbenzinano per bene il giorno prima della partita, che vengono all’allenamento dopo essersi fatti una bella canna.

Io ho iniziato un po’ tardi, rispetto ad altri, ero già al liceo. A cominciare dal G.S. Nove, Falco di Santa Agata, Buonsuolo, S.Mario e Flotta. Ho giocato per anni, a fasi alterne, ma anche con buoni risultati, con un altro cervello avrei potuto diventare un professionista, o forse anche se avessi avuto qualche allenatore con i debiti coglioni quadrati, che ne ho sempre visti da lontano. Mi allenavo e avevo un fisico sano, anche se, una volta incominciato a bere, da una parte smaltivo le tossine, da quell’altra le accumulavo.

Ricordo che una volta un massaggiatore, visto che non recuperavo da un infortunio, mi chiese se per caso bevevo, ed io risposi di sì, ma che forse non era per caso.

 

 

VEICOLI DI LIBERTA’

 

La 126 beige era di mamma e ho iniziato a usarla di nascosto rubandola di notte per imparare a guidare. Una volta ho fatto diversi chilometri con il freno a mano tirato e non riuscivo a capire perché quella macchinetta fosse diventata tanto pigra. Per riportarla a casa, al cancello di entrata la spingevo e in un’occasione quando uscii per aprire, la macchina spenta in folle partì nella discesa e fu fermata sull'orlo del precipizio da un abetino provvidenziale.

Dopo l'incidente a Vorno mio padre decise di prendere una Fiesta e dare alla Ford la 126 appena uscita dalla carrozzeria. Solo che alla carrozzeria, dove c'era lo zio di Marzio, io avevo detto di fare un lavoro economico che tanto si sarebbe data via in pochi giorni. Il lavoretto in effetti fu così a risparmio che il parafango toccava la ruota e camminando portava via strisce di gomma. Appena tornati a casa con la Fiesta nuova, dalla Ford telefonarono e gli toccò a pagare la riparazione ben fatta, a mio padre che non sapeva niente ed era l'onestà in persona. La Fiesta la prese mamma e io ereditai la Renault 5 blu che era una meraviglia.

Però la 126 era stata un trattorino non indifferente, mi ricordo una spedizione domenicale in montagna, al Casone, con un'altra 126 blu e un gruppo di ragazze tra cui il mio primo grande amore Valeria che mi mandò a quel paese non molto tempo dopo, nella festa dell'ultimo dell'anno a casa di Giampaolo a Buonsuolo.

Il gruppo di tal paese a me introdotto da Martino, era composto di una masnada di giovinotti molesti e assai uniti nel bene e nel male, ma specialmente nel male, che d'estate facevano gavettoni a chi se ne stava seduto a parlare fuori dalle case. Le feste a casa di Giampaolo erano belle perché aveva uno spazio a disposizione tipo discoteca e uno stereo con i controcazzi, dischi e volontà eccetera.

 Martino aveva una bellissima Alfetta che sapeva guidare bene assai, ricordo in Piazza Grande scendeva con la macchina in prima e come se la presentasse al pubblico la teneva per lo sportello camminando e docilmente girando alla tonda come si farebbe con un cavallo o con un animale da esposizione.

Con la 126 d'estate io e Umberto andammo sotto il ponte dell'autostrada tra Nove e Buonsuolo per fregare un manifesto di una donna nuda che faceva il surf su una tavola fatta a cuore. Il poster era appena attaccato sul cemento armato del pilone e se ne venne via subito, proprio mentre stavo aprendo lo sportello e Umberto saltava giù lasciando parte delle palle e relative bestemmie verso di me e sullo sportello in questione.

 

 

SEDICENTE SCRITTORE

 

Se non avessero inventato i computer, probabilmente avrei smesso di scrivere, ero troppo arruffone e discontinuo, in più facevo una vita assai sregolata. Con la macchina da scrivere dovevo lottare per dei giorni con la stessa pagina, prima di poterla vedere scritta, senza troppe modifiche, pasticci e cancellature, come volevo io.

Poi, quando era pronta, dopo essermi azzuffato fino a diventare esausto, con grammatica, sintassi e stile, la guardavo per qualche istante e poi la dovevo scrivere di nuovo. In quel momento l’avevo finalmente vista bene, così come non la potevo immaginare prima e allora sorgevano subito ulteriori miglioramenti da fare.

Il processo si ripeteva anche con la seguente stesura, e quella dopo, che magari poteva sembrare definitiva, ma non lo era, fino a darmi l’impressione quasi tangibile di essere una storia infinita...

E si trattava solo di una pagina.

Il computer è una meraviglia, perché permette di correggere, per un numero infinito di volte, i nostri errori e le cretinate che diciamo.

Per carità, si stampa solo quando va tutto bene.

O quando ci siamo veramente stufati.

 

 

 

 


Nessun commento:

Posta un commento