domenica 2 luglio 2023

MILITE NOTO



La seconda emigrazione, dopo quella periodica di Valbona, più lunga, stavolta e più lontano da casa.

Il CAR significava Centro Addestramento Reclute ed era una specie di preparazione per i nuovi militari che poi, dopo il giuramento, erano distribuiti nelle varie caserme di tutta Italia.

Senza raccomandazione venivi mandato lontano da casa, considerato che la mia destinazione era Milano, ho pensato che poteva andare anche peggio, in mezzo c’erano solo 277 chilometri.

Ad Albenga sono stati i miei a portarmici, mio padre ha anche pianto e io l’ho abbracciato, una delle poche volte, se non l’unica. Abbiamo fatto un giro insieme in centro, ma non mi sentivo bene, avevo già i capelli cortissimi e mi pareva di essere prigioniero in anticipo.

Non so se si può chiamare città, quel paesone mi è sembrato subito squallido e pieno di militari, eppure la Liguria ha tanti bei posti, piena di gente che lì ci abita, insomma gente civile, nei due sensi.

Non che i turisti e i giovani militari non lo siano, forse è la vita e la routine che rendono i villeggianti simili a orde barbariche e la mimetica addosso che ti cambia un po’, anche psicologicamente ti senti un altro, non so come, forse come se tu stessi già in guerra.

La caserma Aldo Turinetto era enorme e c’erano migliaia di reclute. Ho saputo che è stata demolita, non so quando, allora eravamo ancora nel 1980. Dalle foto ho notato che anche Albenga è aumentata, pare assai più grande, è una città.

La sera era tutto chiuso, c’era solo una pizzeria-ristorante e là dentro oltre a chi ci lavorava c’erano solo militari. In uno dei pochi posti quasi pianeggianti della Liguria, un ristorante che sembrava la fotocopia di simil-legno di tutti i ristoranti brutti, ma con la svogliata pretesa di essere accoglienti.

Il giuramento non l’ho fatto, avevo fregato dei permessini all’infermeria dove il medico militare, dalla firma scarabocchiata, mi dispensava per bolle ai piedi le esercitazioni e le marce. Cosa per altro vera, ma comune a tutti gli altri compagni di sventura che dovevano usare anfibi nuovi.

Di conseguenza ho fatto Corvè Mensa Ufficiali, a lavare pentole e piatti insieme a un avvocato napoletano, tale Sorrentino, anche lui piuttosto critico sui giuramenti e sull’utilità in generale di un esercito, in special modo in Italia.

Ho conosciuto subito tante reclute più o meno della mia età o spesso più giovani, considerato che avevo fatto diversi rinvii, visto che stavo studiando, insomma facevo finta.

Ce n’era uno calabrese che somigliava assai al sergente Garcia di Zorro, un po’ meno grasso, ma con gli stessi baffetti e i capelli neri lisci e untuosi, che tutti prendevano in giro per la sua dabbenaggine. Non ricordo come si chiamava. Un suo pietoso paesano, che dormiva nella nostra stessa campata, cercò inutilmente di spiegargli che a un matrimonio non si doveva augurare cento di questi giorni, non che portasse sfortuna, ma non era appropriato, insomma.

Tale altro calabrese, mi pare si chiamasse De Bernardis, era uno che aveva studiato ed era assai allegro e scherzoso, prendeva in giro tutti, all’inizio anche me, che invece ero timido e me ne stavo da parte. Improvvisamente poi ha cambiato atteggiamento nei miei confronti, siamo diventati amici e mi ha presentato addirittura la sua famiglia, una volta che ci siamo incontrati in libera uscita, e io la mia a lui.

Ogni campata era doppia e nel mezzo il corridoio, dalla nostra parte gli armadietti facevano parete divisoria e c’erano otto letti di cui uno occupato da un caporale istruttore, nel nostro caso un sardo duro come le sue montagne, di nome Gavino, non ricordo il cognome. C’era anche uno di Lucca che conoscevo di vista, piuttosto snob e un abruzzese grande e grosso, Sebastianelli, assai borioso e sempre di malumore.

Ricordo anche un terzo calabrese, Morelli, magro e con la barba, che si divertiva ad ammazzare le vespe in volo con una paletta. Poi l’ho ritrovato a Milano, ma non era nella mia stessa batteria.

Il servizio militare, dall’agosto 1980 al 1981, è stato una lezione di vita, servito a capire meglio chi ero e soprattutto a conoscere meglio gli italiani. Sì, perché c’era gente di tutto lo stivale e anche se di alcune regioni non ho incontrato nessuno, direi che la maggior parte ce l’ho avuta a disposizione, a livello antropologico amatoriale, per comprendere già quanti stereotipi erano sbagliati o parziali e quanti corrispondevano a verità. Ben pochi.

Ho avuto amici di tutte le parti d’Italia e forse soprattutto con quelli del sud mi sono trovato bene, sia da Napoli, dalla Sicilia che dalla Puglia, meno con i Calabresi e non ho conosciuto nessun Lucano.

Il più grande compagno è stato però Lombardo, Emilio Morettini di Lodi del quarto scaglione, un ragazzone veramente di cuore, un vero amico. Ho visitato e conosciuto la sua famiglia, bravissima gente.

Per mangiare si mangiava piuttosto male e poi dopo aver fatto la Corvè Cucina e visto come si pulivano i pentoloni, con quei mocio schifosi che si usavano per pulire in terra, non è che l’appetito fosse aumentato. In compenso si rubava facilmente il vino, le porte della mensa di notte erano aperte. Il rosso era solo cattivo, ma il bianco era pessimo, volendo però ci si ubriacava tutte le sere. Penso che l’iniezione che ti facevano alla visita di entrata al CAR fosse potentissima, tanto che alcuni subito dopo svenivano ed era programmata per dare una certa resistenza alle potenziali future infezioni, forse anche per poter resistere a quei vinacci.

Tutti i giorni, dopo le normali attività si giocava anche a pallone e in una partita, in un polverosissimo campetto, con una ventina di gladiatori per parte, senza volerlo, detti una solenne testata al gigante Golia delle reclute. In realtà nell’azione in questione io ero saltato e lui era rimasto fermo. Era un romano scuro e mostruoso che s’incazzò abbestia, io naturalmente mi scusai dicendo che volevo prendere il pallone, ma quello rimase con un occhio nero e dopo tutti mi guardavano con reverenza e timore. Questa fama si sparse anche a Milano perché un suo amico giunto in loco era piuttosto pettegolo e raccontava la storia con un sensazionalismo esagerato, come se lo avessi fatto di proposito per sfidare quel fenomenale corpaccione, cosa che non mi era passata assolutamente per la testa, né per la mia né per la sua da gigante.

C’era un altro lucchese di Bozzano che giocava bene a pallone, anni e anni dopo lo portai a giocare nel San Macario, visto che era venuto lì dalle nostre parti a lavorare come benzinaio. Se ai tempi del CAR giocava bene e faceva un sacco di gol, dopo invece era ingrassato ed era diventato un lumacone e l’allenatore, Josy Matteoli, mi prese in giro per mesi, ironicamente ringraziandomi per avergli portato un siffatto campione.

La caserma Perrucchetti di Milano era di un corpo raro in Italia, cioè quello degli Artiglieri a Cavallo. A noi soldati di leva, arrivati lì per caso, scelti chissà come, non ce ne fregava niente, ma per loro: i generali, i colonnelli e magari qualcun’altro, forse era motivo di orgoglio e vanto.

Dopo un mese di CAR ad Albenga, sotto il sole di agosto, giungemmo a Milano, accolti da decine di nonni con le albe sul basco esibite con arroganza.

Il trasferimento a Milano fu in treno, alla stazione centrale i nonni con i camion c’erano venuti a prendere, la tradizione diceva che dovevano essere loro ad accoglierci, visto che gli portavamo il congedo. Poi guidavano in maniera da sballottarci per bene con l’intento di farci vomitare. Il nonnismo è un fenomeno tollerato e perfino appoggiato dagli ufficiali, perché porta un ulteriore controllo sugli altri soldati.

Lo scherzo che facevano alle reclute la sera stessa dell’arrivo era un falso e burbero sergente, interpretato da un altro soldato semplice di solito abbastanza anziano, che faceva l’imitazione di un sergente buffo, ma duro, tipo il nostro Carbone, che andava dai nuovi per fargli fare esercizi di ginnastica in mutande e farli abituare subito all’assurdità del clima che c’era trai soldati e i superiori.

Maestri era un milanese che lo imitava alla perfezione e diceva delle frasi incredibili di sua invenzione, esagerate ma simili alle castronerie che l’altro diceva seriamente. Mentre faceva quel ridicolo addestramento alle undici di sera, con le reclute con i mutandoni di lana, un artigliere tra le decine di spettatori scorreggiò e il falso Carbone lo mise in punizione gridando con quanto fiato aveva in corpo per una molesta e non regolamentare sinusite al culo. Il vero Carbone non era presente, ma gli raccontavano sempre delle imitazioni dell’artigliere Maestri, tanto che quando quello si congedò, gli uscì addirittura una lacrimuccia e disse che anche i migliori, prima o poi, purtroppo, se ne dovevano tornare a casa. Il Carbone autentico non credo che abbia mai punito nessuno, non rideva mai, il suo atteggiamento da duro era solo una maschera.

Se ad Albenga si doveva salutare ogni superiore di passaggio, invece al corpo, cioè a Milano, gli ufficiali capivano subito che eri appena arrivato se li salutavi portandoti la mano destra al berretto, li mettevi quasi in imbarazzo. Là si salutavano solo dal capitano in su, ma si vedeva che se li ignoravi gli facevi un piacere, così non avevano bisogno di rispondere al saluto e del resto giustamente se ne fregavano.

I nonni mostravano l’alba cucita sul rovescio del basco nero degli artiglieri e alcuni erano tremendi, secondo il gergo erano scoppiati, specialmente quelli del sud che erano mesi che non andavano a casa in licenza.

Contavano da approssimativamente 365 giorni quanti ne mancavano all’alba in cui se ne sarebbero tornati a casa, negli armadietti vedevi dei grafici elementari e piuttosto chiari, con le caselle e le croci. Oppure solo con bastoncini che venivano spuntati a blocchi di settimane.

La caserma si chiamava Santa Barbara, ma siccome è sinonimo di polveriera, il nome più usato volentieri era Perrucchetti, in via delle Forze Armate, vicino allo stadio di S.Siro e al quartiere malfamato di Baggio, dove c’era anche l’ospedale militare. Era ancora più grande di quella di Albenga, pare che ci fossero sempre più di duemila soldati.

Aveva una grande tradizione di coraggio e valore in guerra, una delle poche esistenti in Italia di artiglieria a cavallo. Proprio l’anno seguente ci sarebbe stata una grande competizione di equitazione per cavalieri militari con il percorso a ostacoli per festeggiare i 150 anni dalla fondazione del corpo. Da qualche parte a casa ho un libro intitolato con il loro grido di battaglia: caricat voloire!  Il corpo degli Artiglieri a Cavallo è stato soppresso, non so da quando, ma era già un anacronismo a quei tempi. Anche quel libro lo devo aver buttato via.

Mi sono fatto subito un amico di Pistoia, Alessandro Capecchi che disgraziatamente si stava congedando, ma perlomeno mi ha protetto dagli altri nonni. Presi singolarmente erano bravi ragazzi, ma qualcuno l’ho dovuto minacciare, non davanti a tutti, sennò era la guerra, ma un faccia a faccia alle latrine a volte evitava guai peggiori.

Il campo lo avevamo fatto proprio all’inizio, doveva essere ancora agosto perché Capecchi era con noi e la domenica qualcuno andava a prendere il sole e a fare il bagno al fiume Sesia. Un bel paesone quel Borgosesia, che aveva delle parti antiche non indifferenti. Noi però eravamo un po’ fuori, non lontano dal fiume. Si dormiva in una antica fabbrica dei tessuti di lana. Mi presero poi alla mensa ufficiali e lì era meglio, in una vecchia palazzina di legno, che davanti, sulla strada poco frequentata, aveva un giardino d’inverno grande e romantico.

Baiocchi al campo era il gestore dello spaccio, era un piccoletto simpatico del mio scaglione, che vendeva souvenirs in piazza del Vaticano, sembrava un irlandese, c’aveva una lingua che tagliava e cuciva. In romanesco s’incazzava sempre con gli ebrei, per via della concorrenza sul lavoro. Una volta siamo andati al lago di Como insieme anche ad altri, fuori dall’ambiente della caserma e delle divise militari diventava assai più spocchioso e arrogante, sembrava comunque uno ricco e spendeva e spandeva.

In seguito Borgosesia si è allargato assai, ora è considerato una città giacché ha oltre 12 mila abitanti. La fabbrica è sopravvissuta, l’ho vista su delle foto, la devono aver usata ancora, la palazzina invece no. Dietro era tutto campagna, ora è pieno di palazzoni.

Alle “Lane Borgosesia” sono state realizzate le camicie rosse della Spedizione dei Mille di Garibaldi, uno dei più importanti centri manufatturieri della regione, settore ancora oggi molto importante per l’economia della città.

Il servizio militare non è vero che è inutile, si impara a imboscarsi e si conosce meglio il genere umano, se mai ti dovesse preparare a combattere penso che riesce proprio nell’opposto, un si salvi chi può a oltranza, un eterno quando i gatti dormono i topi ballano.

All’inizio avevo un incarico di autista e ho iniziato il corso che era una solenne pagliacciata, al quale il sergente maggiore Carbone si presentava raramente e non volendo ci faceva morire dal ridere. Portava il basco come se fosse una pizza in bilico sulla testa, qualcuno diceva che lo stirava di nascosto, doveva essere un calabrese anche lui. Sapeva a malapena mettere due parole insieme in una frase maccheronica, era un burbero benefico, dopo due secondi capivi che invece aveva un cuore grande e ti faceva divertire con tutte le cazzate che diceva. Mi ha sempre chiamato Monzani, gliel’ho spiegato più volte, che oltre a essere uno dei più brutti soldati in giro, secondo me non mi assomigliava per niente. Quando mi ci chiamava tutti mi prendevano in giro e dicevano che Monzani ed io eravamo veramente due gocce d’acqua, era per quello che Carbone si sbagliava.

A guidare il camion ero negato, perché bisognava fare la doppietta e sgranavo sempre. Non mi ricordo quando e perché mi hanno chiamato a fare il magazziniere e quella è stata la mia fortuna. Insieme a me c’erano due artiglieri quasi congendanti: Dal Maggioni che era un grassoccio ma tosto simpaticone involontario, per niente stupido di Bergamo. Anche lui non rideva mai, ma faceva schiantare gli altri con le sue battute, non tutte di proposito, dalle quali si intuivano le sue origini modeste di lavoratore di campagna, ma si trattava di un contadinotto con il cervello fino. Poi c’era Ferrero, antipaticissimo e vigliacco, magrolino di Torino. Il primo si congedò quasi subito, per questo avevano preso me, per imparare il mestiere di magazziniere. Il sergente Cicala, nostro diretto superiore, Ferrero non lo sopportava e quando mi mettevano di guardia tante volte sostituiva il mio nome con il suo, che soffriva anche psicologicamente perché era un anziano, un quasi congedante, piangeva e diceva che si sarebbe vendicato su di me, ma aveva paura della sua stessa ombra e non aveva amici. Anche lui si se ne andò presto e diventai il più anziano del magazzino, cosa che dava diversi vantaggi teorici e pratici. L’adunata per esempio non la facevo già dal primo giorno, ma poi imboscarsi nel magazzino degli zaini era una bellezza, perché si poteva dormire fino a tardi e lì ho anche cominciato a scrivere qualcosa che non fossero poesie.

Il sergente Cicala era un personaggio da film tragicomici sul meridione dell’Italia. Se Carbone portava il basco come un piatto pari stile pizza, lui lo teneva invece inclinato in maniera esagerata che da quel lato gli tappava un occhio. Fisicamente ricordava un arabo, ma con la faccia più su giallo che sul marroncino, parlava un italiano mezzo dialettale e credo che fosse della regione Campania, ma non sono sicuro perché era parecchio tempo che viveva a Milano e aveva mischiato un po’ di dialetti sudisti e di parole milanesi. Il suo più grande talento era la flessibilità, se qualcuno gli diceva qualcosa che doveva fare, magari un superiore, la sua frase seguente iniziava sempre con vabbè, che lui diceva ‘abbè, e poi partiva con le alternative, che di solito venivano drasticamente bocciate, ma non per questo lui ci rinunciava. Con noi soldati semplici non faceva valere il suo grado, solo quando era estremamente necessario, sennò si metteva al nostro livello e anzi lo prendevamo spesso in giro, ma lui non se la pigliava, scherzava un po’ su tutto e perfino su sé stesso che normalmente è già un segno di intelligenza non indifferente, specialmente in quell’ambiente dove i gradi sull’uniforme sono così importanti.

Averlo incontrato è stato determinante per me, perché mi aiutava e anch’io aiutavo lui, come per esempio per fare i buoni falsi per le riparazioni delle scarpe e delle mimetiche o altri indumenti di ordinanza, che lui non sapeva fare e io glieli facevo una volta al mese. I sarti e i calzolai, che non erano militari, mi premiavano con riparazioni e modifiche dei miei vestiti civili. Anche perché ero ingrassato più o meno sedici chili e i miei calzoni non mi entravano più.

Chissà se ha fatto carriera Cicala, che sarebbe potuto diventare un maresciallone di quelli che a volte si vedevano passare, tutti bassi e grassi, o forse solo sembravano bassi, ma grassi con certezza erano tutti.

Il suo superiore era il sergente maggiore Montaquila, un abruzzese piccolo e magro che nel quasi anno in cui sono rimasto a Milano è diventato maresciallo, a ingrassare ci avrà pensato dopo con calma. Credo ci fossero tre livelli di marescialli ed erano tutti addetti a incarichi commerciali, se non mi sbaglio rimangono sempre sottufficiali, mentre gli ufficiali partono da sottotenente fino a generale di armata. Sono due carriere parallele, ma penso che per fare quella degli ufficiali devi essere laureato.

Di conseguenza anch’io ero purtroppo sotto Montaquila, il quale mi aveva preso di punta e la stima era reciproca, o forse dovrei dire la sua mancanza. Non ricordo che cosa era successo in precedenza, ma mi ostacolava come poteva, alla fine consigliato da un milanese che lavorava nel suo ufficio, Santambrogio, ruffiano e intelligente, gli chiesi scusa, anche se forse avrebbe dovuto essere il contrario e lui se ne dichiarò soddisfatto, interruppe le ostilità e da quel momento io avevo capito come funzionava, non ci furono più problemi.

A proposito di assurdità militaresche a un certo punto fui trasferito nella batteria a cavallo, insieme a Sirigu e Gualtieri che erano contadini e volontari, i cavalli a loro gli garbavano. Secondo i superiori, che erano sempre troppi e rompiscatole, la batteria in questione, che si occupava degli equini, delle relative stalle e doveva prepararsi per sopracitato giubileo, aveva bisogno di rinforzi. Alla fine a me non piaceva per niente e in più starnutivo continuamente per via della paglia. Ci sono rimasto un giorno o due, poi sono andato a parlare con il maggior Ricasoli, che mi ha dato più volte del cretino, che se avevo l’allergia da fieno lo avrei dovuto dire subito, invece di fargli perdere il loro prezioso tempo, ma in cambio sono potuto tornare alla mia Batteria Comando e Servizi, dove avevo ormai tanti amici.

La sera uscivo con Morettini, Salvatori e altri milanesi, perlopiù. Morettini era di Lodi ed è stato l’amico più duraturo, tanto che dopo qualche anno dal congedo sono andato anche al suo matrimonio, è l’unico che ho incontrato dopo la naia. Diverse volte ero stato a casa sua a mangiare o anche a dormire e ho conosciuto i suoi genitori, bravissima gente. La sua ragazza: Maristella, con la quale poi si è sposato, l’ha conosciuta durante quel periodo.

Salvatori era di Tirano, in provincia di Sondrio ed era un rompiscatole di una non trascurabile simpatia. Al cinema portava sempre dei sacchettoni rumorosi di popcorn o altro, con l’intento di disturbare la gente. Ci riusciva immancabilmente e c’era sempre qualcuno che si arrabbiava. Anche lui sarei contento di vedere dove è andato a finire, che tipo di vita ha fatto, se si è sposato e ha educato i figli a essere dei rompicoglioni come lui o se invece è diventato un tipo serio, ma non credo proprio.

La vita macina la gente e la fa cambiare a volte, mi è capitato di trovare Angelo Schettino su Facebook e di scrivergli. Era uno di Castellamare di Stabia, arzillo e cagacazzo anche lui, gli ultimi miei mesi li abbiamo passati insieme, uscendo anche la sera, pure con Longobucco, di Bari.

D’inverno per le camerate c’era una puzza non indifferente, tanto che hanno reso obbligatorio un bagno alla settimana per tutti. Schettino si sentiva responsabile dei meridionali che non si lavavano e li portava personalmente al bagno. Una delle sue frasi ricorrenti e gridate, indicando il meridione dell’artigliere in questione, era:

“Lavate i piédi!”

Bene anzi male, Schettino non mi ha riconosciuto, non si è ricordato di me, si è quasi arrabbiato che gli abbia scritto. Non ho capito a dir la verità, non mi ha dato spiegazioni.

Un altro che è cambiato durante il quasi anno insieme è stato Bodei, bresciano di Nuvolera, barista nel senso che faceva le bare di legno, insomma scolpiva anche altre cose, perlopiù sacre. Eravamo dello stesso scaglione, c’eravamo conosciuti ad Albenga, dopo tutto quello che avevamo vissuto insieme credevo di conoscerlo, ma quando è diventato nonno sembrava impazzito. Probabilmente quando era recluta aveva sofferto, più di me, il nonnismo di quei tempi, ma non avrei creduto che sarebbe diventato così l’ultimo mese della sua naia.

Nel nostro lunghissimo magazzino si teneva tutto quello che di solido serviva al soldato, eccetto le armi. C’erano pile di coperte stese in terra con dentro ogni cinque uno strato di naftalina, montagne di scarpe più o meno rotte e magliette, camice, mimetiche, divise da libera uscita. Prima di congedarsi ogni soldato doveva restituire tutto quello che gli avevano dato di vestiario e le calzature, quello che mancava si doveva pagare. Le reclute di solito venivano depredate dai nonni, poi durante quegli undici mesi restanti, troppe erano le cose rubate e rotte o perdute. Da magazziniere avevo facilmente capito il funzionamento delle cose, quindi quelli che venivano da me per elemosinare articoli da consegnare prima di congedarsi, li ricevevano di nascosto, nessuno se ne accorgeva. Massimo dell’affluenza con il mio cosiddetto ottavo scaglione, ho fatto risparmiare soldi a tanti.

I soldati ricevevano uno stipendio ridicolo di circa mille lire al giorno, che a quel tempo non bastava nemmeno per le sigarette, per fortuna io non fumavo ancora.

Il magazzino degli zaini, il mio nascondiglio preferito, era una storia a parte. Lì si tenevano gli zaini con le cose di chi andava in convalescenza o di chi partiva magari per una licenza e non tornava più. C’era una montagna di zaini di gente che si era congedata a casa, che stavano lì a prendere polvere. Insomma era raro che arrivasse qualcuno a rompere e in mezzo a questi due grandi scaffali avevo messo la mia branda e lì dormivo, facendo vita privata e ho iniziato anche a scrivere in maniera più sistematica. Insomma ormai ero il boss e a lavorare ci andavano gli altri due magazzinieri.

Per imboscarmi meglio e di più c’è stata poi la lunga preparazione fisica per la marcia internazionale non competitiva, una “maratona” solo a passo di marcia con invito alla partecipazione di gruppo. Era la Pre Nimega, manifestazione che diede ampia risonanza nazionale al CAI di Malnate. Eravamo una ventina di volontari con precedente allenamento che io avevo per via del calcio. Vivemmo due mesi in ritiro, dentro una stanzona solo per noi, sempre vestiti con la tuta da ginnastica e ci andavamo ad allenare proprio a Malnate, su e giù per le colline.

C’era anche un campo sportivo grande ma senza erba, alla fine del pomeriggio una bella partita di calcio e la squadra che perdeva pagava la pizza all’altra. Avendo giocato in una squadra dilettanti per diversi anni io ero l’unico con una certa capacità e facevo gol a grappoli. Nella competizione poi riuscimmo ad arrivare con il gruppo quasi intero, se si ritirava tanta gente si veniva squalificati. Insomma fu un successo e ci premiarono anche. Ma quello che conta è che riuscimmo a scamparcela dal grande concorso di equitazione e dal giubileo, che per noi sarebbe stato solo lavoro. E poi da tutte le altre attività di lavoro incluse le guardie che erano la cosa più noiosa e assurda. Ce ne erano di diversi tipi tra cui quella della caserma, si faceva nei pressi dell’ospedale e lì c’erano gli autobus parcheggiati, io mi mettevo dentro uno di questi e dormivo.

In polveriera invece si stava una settimana e si facevano guardie tutti i giorni. Era abbastanza divertente perché non c’era molto da fare e non c’era controllo, oltre alle guardie che si facevano lungo un percorso ed era un luogo tranquillo e in mezzo al verde. La Canavesa era il deposito carburante e lì si stava 24 ore, alternandosi alla guardia.

Una volta siamo stati sorteggiati per partecipare a un pranzo con i vecchi veterani del corpo. Vestiti com’era tradizione con il Kepì, un cappello rigido che sembrava da capostazione o magari da generale della Mongolia. Con il ridicolo pennacchio lunghissimo che se non l’avessimo tolto subito sul camion, si doveva tenere agganciato alla parte di dietro del cappello e scendeva giù sulle spalle per cinquanta centimetri. Come se non bastasse l’impermeabile imbottito che insieme ti davano un’andatura rigida come uno struzzo con la sciatica, anche per sedersi era un problema. Sotto avevamo la divisa da libera uscita invernale, che per fortuna ai nostri tempi effettivamente per la libera uscita non si doveva più usare.

Le misure di ogni capo militare sono state studiate per non combinare mai con il corpo di un essere umano, o sono troppo larghe e fino a lì pazienza, ma spesso sono strette e ci si muove male. In alcuni casi pur essendo larghe in alcuni punti, sono strette in altri e ci si sente piuttosto ingessati.

Quel giorno era freddo e pioveva, mi pare che fosse febbraio. Da mangiare c’erano delle robe classiche, brodino incluso, con o senza tortellini dentro, arrosto di manzo, vitella e maiale, patate arrosto o lesse, perché quelli erano dei vecchi veramente anziani e per arrivare lì in quell’associazione antica, tutta foderata di legno scolpito, doveva essere già stato difficile. Per il resto abbiamo parlato un po’ con i reduci, ma non tutti ce la facevano e dopo ci hanno riportato in caserma che era quasi buio. Tutto sommato un’esperienza interessante.

Il guaio era che la vita militare mi risultava un po’ noiosa, ripetitiva, era magari per l’ansia che mangiavo come un maiale, forse facevo anche poca attività fisica.

La mattina in mensa colazione robusta a base di tutto, poi verso le dieci allo spaccio a sbafarsi qualche merendina, ma quelle si pagavano. Il pranzo a mezzogiorno, poi merenda, cena e dopo uscita libera a mangiare dei buoni panini con i wurstel vicino al duomo, in una piazzetta dietro San Babila.

Dimenticavo che quando avevamo Figliolini da Napoli alle cucine spesso lo andavamo a trovare, nel pomeriggio specialmente, io e Longobucco da Bari. Tanto per scambiare quattro chiacchiere, ma colla bocca piena era difficile parlare, l’unica cosa che dicevamo era:

“Figliolì famme nu panino.”

“Figliolì, famme nat’panino…”

Se non c’era in giro il maresciallo, lui non diceva mai di no. Manco a dirlo un chiattone anche quello, che sembrava che i vestiti gli dovessero scoppiare addosso. Di solito nei panini ci metteva la mortadella, ma tant’assai. Lì alla mensa della Perucchetti di Milano si mangiava abbastanza bene, anche se una volta tirando su con il mestolo una zuppa odorosa ho visto venire fuori una pallina da tennis.

Figliolini era il classico scugnizzo, sempre allegro e sorridente, rosso di capelli, con la frangetta impeccabile e con le lentiggini, ma con una voce come Barry White, una volta l’ho visto fare a botte e metteva paura, ma sempre con il sorriso sulle labbra, si vedeva che si divertiva.

Il romagnolo Galli era un gigante ciccione, sempre con la sigaretta in bocca, nella vita civile faceva il fornaio. La sua mimetica a forza di sudare aveva cambiato colore, da verde scuro era diventata nera, della sua taglia non era nemmeno facile trovarne un’altra. Una volta dovevano far abbassare la punta di un cannone e non sapevano come farlo, ci piazzarono sopra Galli che era sui centoventi chili, quello scricchiolò un po’ e si sbloccò.

La sera qualche volta, per abbuffarci ancora siamo stati all’ATM, che sarebbe stato un locale grande e popolare gestito dalla società dei mezzi pubblici milanesi. C’erano le panchine fuori, si spendeva poco e ci si mangiava bene. Era abbastanza vicino alla nostra zona, che all’epoca era piena di caserme e per strada si vedevano più che altro teste rapate. So che ci sono ancora questi centri a Milano ma sono diventati dei posti più cari ed esclusivi, forse non tutti.

In un’epoca intermedia per mesi non sono andato a casa perché ero troppo grasso e non mi entravano più gli abiti civili e poi mi vergognavo. Ho una fotografia in giacca a vento blu e bianca, con il Duomo alle spalle che riesco quasi completamente a nascondere, nella quale sembro Oliver Hardy di Stanlio e Ollio, anche perché mi ero fatto crescere dei baffetti veramente ridicoli.

Negli ultimi tempi a casa ci sono andato più spesso, con lo sport ero dimagrito e si facevano licenze false che tra di noi si chiamavano fughe. Ho avuto anche una convalescenza di dieci giorni per un incidente fortuito fatto con un cacciavite che stavo usando per vedere il funzionamento di un’autoradio.

Quando sono arrivato ad Albenga ero un ragazzone piuttosto ingenuo, ma uscito da Milano, un anno dopo, ero quasi un mezzo animale, un lontano prototipo predecessore di un tre quarti di quello che sono diventato dopo in Brasile.

Alla fine non si è mai completi e non si cambia molto in fondo, dall’infanzia alla vecchiaia, almeno dentro di noi. Il percorso è così lungo e tortuoso che si perdono perfino le proprie tracce, ci sono ricordi e situazioni romantiche e talvolta anche utili, ma non si sa ancora per cosa.

Al ritorno a casa non dico di aver apprezzato appieno la vita, ma un pizzico di saggezza in più lo avevo accumulato, la quasi prigionia di un anno scarso mi ha dato un bagaglio tecnico più completo e pratico.

Quando tornai a Lucca dopo il congedo le cose sembravano cambiate però per una certa difficoltà a riprendere la vita di prima, anche perché mi sembrava come se fossi uscito di prigione e la vita di prima non è che fosse molto fluida e che scorresse troppo in maniera continua, ripresi comunque il mio lavoro alla pasticceria Smeraldo.

In questa fase della mia vita ho cominciato a capire diverse cose di me e dell'ambiente che mi circondava, spesso mio malgrado. L’esperienza del militare ha avuto l’effetto di comprendere due cose contrastanti tra di loro:

 1) a conti fatti avevo capito che a casa si stava meglio, ma ho potuto ricordare e rendermi conto, più dopo che durante, di quanto mi sia anche potuto divertire e quanto avessi realizzato, su diversi livelli pratici e teorici, da quel periodo passato finalmente senza la protezione della famiglia.

2) potevo, dovevo e quindi volevo staccarmi dalla famiglia e da tutta quella protezione ipotetica e simbolica, eppure anche troppo pesante e indesiderata.

 

 

 

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