Quando
ci furono i Mondiali del 1986 in Messico stavo cercando di partire per Berlino,
stavo facendo un corso di tedesco in Piazza Bernardini, poteva cominciare ma
non cominciò una storia con Beate una ragazza di Brema che viveva a Lucca.
Naturalmente tifavo per la Germania che andò in finale ma perse con
l'Argentina.
Dopo
anni di manovre, a Berlino riuscii ad andarci, per vivere, solo nel 1987 e la
storia con Sabine durò a fasi alterne, ma tornai in Italia nel 1989 per
pentirmene già poco dopo.
Passati
pochi mesi il muro cadde e ci fu il mondiale italiano vinto dalla Germania, ma
io mi ero già stancato dei tedeschi e delle tedesche. Oltre a Beate c'era stata
anche un'avventura con Britte di Kiel.
Tutta la passione per la Germania e per Berlino era nata a Barabba, prima era venuto Ossie che al teatro vendeva le bibite, noccioline e cose varie. Poi due sue amiche vennero in Italia e al ristorante dove lavoravo e tra me e una delle due, Sabine, nacque una storia proprio la sera prima del suo ritorno in Germania.
Comunque misi
tutto quel che avevo sulla mia Renault 5, quello che non mi interessava lo
avevo già venduto, o ci avevo almeno provato. Come i dischi in vinile, che non
potevo certo portarmi dietro, erano più di 500 e la maggior parte non mi
garbava più.
Il viaggio fu
difficile, con pioggia battente per un bel pezzo e sono in tutto 1300
chilometri, ma quando arrivai era l’ora del tramonto e c’era il sole.
Telefonai
subito a chi poteva darmi un eventuale aiuto, trovai un posto in una soffitta,
un bugigattolo che non potevo stare nemmeno in piedi, ma per dormirci era
meraviglioso.
Si trattava
di una comunità tutta femminile, conoscevo due delle ragazze, un appartamento
grande, edificio vecchio, Altbau, con i soffitti alti come facevano una volta,
e cinque camere, di cui una si stava per liberare, un mese dopo.
Ovviamente se
quella comunità era tutta femminile un motivo ci doveva essere, la mia
candidatura approvata da tre su quattro signorine, fu rifiutata da quella che
aveva l’ultima parola, cioè l’affittuaria più anziana di quell’appartamento.
Comunque era
già una buona cosa avere una sistemazione provvisoria e rimasì lì finché trovai
il mio appartamento, un monolocale molto concentrato, ma ideale per me.
Cominciai a
lavarmi i panni da solo e a cucinare, cose che non avevo mai fatto e con
riscontri pessimi, almeno all'inizio. Mettevo la roba a mollo con il detersivo,
poi per stanchezza o per pigrizia, finché potevo, la lasciavo lì per settimane
invece di strizzarla e farla asciugare, cambiavo più volte l'acqua. Il
risultato era che gli indumenti se ne uscivano puzzolenti e lavati male. Mi
ricordo un paio di jeans in particolare, che rimasero anche macchiati, perché
c’avevo buttato sopra direttamente il detersivo, senza poi mischiare l'acqua.
Il lavoro al ristorante era senza nessun
giorno di riposo, una settimana turno di mattina, poi una di sera. Le ferie non
erano pagate e l'unico documento necessario era la Carta Rossa sanitaria per
chi lavora con gli alimenti (Die Rote Karte). Naturalmente non ero assicurato,
la legge tedesca su questo non controllava e nemmeno quella italiana era stata
molto rigorosa, tanto che per me i contributi obbligatori veramente erano stati
solo quelli del Caffè Voltaire, che cercai di non pagare, ma li ho dovuti
sborsare dopo con gli interessi.
Il rapporto con le donne anche là fu ripetuto,
fugace e immaturo. Per dire questo mi baso sull’idea comune di maturità, non
che io sia d’accordo su questi criteri.
Senza capirlo
ancora bene non mi piaceva che tante cose, anche in quello, fossero obbligate
come la continuità, importante anche per me, eppure a mio parere esagerata,
comunque non decisa da me o da nessun altro, doveva per forza essere così. Il
mio atteggiamento verso tutte le leggi scritte, orali o tacite era sempre stato
da ribelle.
I nonni morirono mentre io ero là e mi accorsi
che gli avevo voluto molto bene, quando mamma mi mandò il biglietto con le loro
foto e le date di nascita e di morte, per i funerali. Dopo una vita insieme
nonno Pita era sopravvissuto solo pochi giorni alla dipartita di lei, nonna
Mina.
Sul mangiare
le cose furono migliorando lentamente, in fondo un pasto lo facevo sempre al
ristorante, là si mangiava bene e abbondante. A casa i primi sughi per la pasta
erano minestrine liofilizzate con aggiunta di panna. Poi un mio amico di Lucca
venne ad abitare da me, per qualche settimana, finché non avrebbe trovato casa.
Luca mi insegnò a cucinare qualche salsa semplice, come aglio e olio.
Soprattutto mi fece capire che l'olio per cucinare, o a maggior ragione per
condire un’insalata o una patata lessa, doveva essere quello buono italiano e
extravergine. E poi il parmigiano originale e grattato al momento, non quelle
porcherie in bustina.
Il primo
lavoro a Luca glielo trovai io, come barista nel ristorante pizzeria Mariella
in Uhland Strasse, del fratello di Pasquale, uno dei due proprietari de La
Marmora, dove lavoravo io. Gaetano però, suo fratello maggiore, era un solenne
imbecille, prepotente anche in modo inutile e Luca ci resistette poco. Mi pare
che dopo iniziò a fare i massaggi di tipo Rolfing, che credo stia facendo
ancora a Lucca.
FUSSBALL
Una volta
c'era il Tennis Borussia di Uwe Seeler, poi l‘Hertha Berlino, al tempo in cui
io ho vissuto la c'era il Blau-Weiss che veniva dalla serie B e che noi andammo
a vedere perdere in casa quattro a uno con il Kaiserslautern, una squadra del
centro sud della Germania, a quel tempo abbastanza tosta, ora credo che sia
addirittura in terza divisione. Quella volta c’eravamo andati io e Giro ed era
caldo, eravamo alla fine dell'estate.
La seconda
volta ci sono stato con i miei colleghi della Benetton e giocava sempre il
Blau-Weiss contro il Bayern di Monaco. Era abbastanza freddo e il Blau-Weiss
era un po' più forte. C'erano anche dei giocatori stranieri un turco e un
belga, e pareggiarono uno a uno, le squadre si erano abbastanza equivalse alla
fine. Per i tedeschi di Monaco segnò Augenthaler e il mio amico grossetano
prese appunti per alcuni giocatori che potevano essere comprati dal Grosseto,
all’epoca in serie C. C’eravamo fatti anche delle canne in precedenza e poi
c’eravamo anche fermati per bere qualcosa in un bar con i tavoli in un bel
giardino affollato.
Incongruenze
dei ricordi: di questa seconda partita rammento assai bene sulla metropolitana
scontri senza violenza, se non cantando gli inni delle due squadre, ma se
eravamo in macchina come sarebbe stato possibile? Se era freddo poi perché ci
fermammo a bere in un locale all’aperto e aprimmo il tettino della Mercedes?
SABINE
Non era
facile da scuotere né da impressionare, il suo comportamento ricordava molto
quello di chi vive in una dimensione parallela. Tuttavia, le cose non stavano
così. O almeno non del tutto.
Il sesso è
uno dei misteri più intriganti della natura, l’amore non c’entra niente, anzi,
secondo me, marcia al contrario. Non lo sapevo ancora che l’orgasmo era il
migliore inganno che un fantomatico dio avrebbe potuto inventare, solo per
mandare avanti la specie.
Ma a me che
me ne fregava della specie?
La sua
bellezza era causata anche dalla grande quantità di corpo rosa a disposizione.
Lo ammetto, ho visto il cielo in quella stronza e ne ho perfino sentito
l’odore. E poi non lo so se la stronza è stata lei, oppure io.
Magari tutti
e due.
Chissà perché
solo noi italiani immaginiamo qualcosa di angelico nelle donne, che invece sono
di carne ed ossa. Certo, era molto più bionda di ogni ragazza che avevo avuto
prima, ma mi pareva anche irresistibile che fosse totalmente impassibile a
quello che le avveniva intorno. E intorno c’erano più che altro dei ragazzotti
curiosi che ronzavano impazziti. Non mi resi conto di niente, io, finché quella
sera, ubriachi, ci trovammo a flirtare sul divano, in maniera buffa, dopo pochi
minuti eravamo a letto. Sembravamo non avere interessi d'altro genere.
Mai avuti?
Era un
peccato doverci interrompere, ma la sua amica Gunda disse che bisognava farlo.
Era già mattina, dovevano ripartire per Berlino.
Dopo qualche
vacanza passata reciprocamente a farci visita, un giorno partii deciso colla
mia Renault 5, carica di tutto quello che non ero riuscito a regalare o a
vendere e salii verso nord per traslocare in Germania.
PARTICOLARITA’
A Berlino la
cultura occidentale e quella orientale si fondono in una atmosfera remota, eppure
ancora tangibile di guerra e distruzione, di spie e di qualcosa d’intermedio e
segreto, per arrivare al moderno di oggi, qualche annetto dopo la
ricostruzione, a seguito dei bombardamenti. Quello della comunità edilizia
essenziale e funzionale, ma anche artistica della Bauhaus, dei quartieri di
casermoni con un certo futuristico design, costruiti su progetti dei grandi
architetti, come il Gropiusstadt e poi l’Hansa Viertel fatto di edifici ognuno
pensato e disegnato dai nomi importanti dell’avanguardia.
Uno di questi
aspetti del passato che vengono dall’est è la Kachelhofen, che esiste solo in paesi freddi, negli ex paesi
comunisti di oltre cortina, ovviamente nella stessa Russia e consiste in un
enorme parallelepipedo di tre metri di lunghezza, per due metri di altezza, per
uno o più di larghezza. Cioè a dire una monumentale stufa rivestita di mattonelle,
a volte variopinte e stampate, oppure di un unico colore, che scalda un
appartamento e si alimenta di carbone. Nelle comunità di studenti, che
affittano questi grandi appartamenti, ovviamente Altbau, cioè vecchi edifici, ognuno con la sua camera e con i
servizi in comune, spesso ce ne è una. Ne parla lo stesso Bulgakov nel romanzo La guardia bianca e per la prima volta
me lo sono trovato in uno di quei magnifici appartamenti delle case resistite
ai bombardamenti, nei quali si vede ancora quel tipo di architettura sobria e
spartana assai simile a Praga, a Budapest e a Mosca, oltre che a Berlino.
D’estate mi
trovai a passare in macchina dal parco di Tiergarten, di fronte al Reichstag,
palazzo del governo, credo fatto costruire da Hitler. Era notte e vidi delle
luci rotonde e colorate in mezzo agli alberi. Non avevo bevuto né fumato. Mi
fermai e sentii una musica lontana che veniva proprio dalle luci ognuna di un
colore diverso, in mezzo agli alberi. Mi avvicinai seguendo la bellissima
musica strumentale che veniva da enormi casse acustiche, ognuna aveva una luce
colorata rotonda in alto, ognuna di un colore differente. C’era altra gente che
si godeva quella sensazione, mi resi conto che da ogni cassa veniva uno
strumento differente, una qualità di suono incredibile.
Lessi poi
dalla rivista Tip che recensiva o semplicemente annunciava i tanti spettacoli
quotidiani della città di Berlino che quella era una dimostrazione stabile, per
una settimana, della musica dodecafonica, 24 ore su 24.
Come in altre
mie epoche la notte era usata al massimo della sua estensione per divertirsi, a
cominciare dalle discoteche, ma poi anche girando in macchina per le vie della
città e raccattando tutti quelli che si volevano unire alla nostra allegra
brigata. La macchina di là che avevo comprato era una Mercedes, ex taxi, era
abbastanza grande quindi si caricavano su degli ubriachi e si partiva per
incursioni che potevano essere nel parco giochi per adulti, ma anche dovunque
persone un po' alticce potevano divertirsi.
D’inverno mi
è capitato di fumarmi una canna o due in concomitanza con diversi tipi di
alcolici e camminare senza meta per un viale alberato in mezzo a degli edifici
alti e moderni del quartiere di Kreuzberg, in prossimità del Muro, non lontano
dal Checkpoint Charlie. Ero abbastanza cotto ed era anche assai freddo, era
notte tardi, o quasi mattina e in giro non c’era nessuno. A un certo punto vidi
un gigante alla fine della strada, dove si allargava in una piazza.
All'epoca
per me leggere libri di Carlos Castaneda dopo una canna era regolare e
frequente. Le sue allucinazioni guidate, nel suo caso stimolate da vari tipi
di droga, favorirono quella mia del gigante, mi sembra in Prinzen
Strasse, andando verso Moritz platz.
Non mi
preoccupai, nello stato comatoso in cui mi trovavo, di altro se non di andare a
vedere da vicino. Camminavo senza fretta in quella direzione e non mi passò
nemmeno per la testa che fosse una situazione surreale o che potesse in qualche
modo essere pericoloso. Mentre percorrevo quei cento o più metri che mi
separavano dal gigante, dentro di me formulai varie ipotesi, più o meno
improbabili o demenziali, su chi o cosa fosse quel mastodonte. L’illuminazione
era scarsa, la visuale frammentata dagli alberi e oltretutto quella creatura mostruosa
rimaneva immobile, sembrava proprio che mi stesse aspettando. Nel mio stato
fuori di testa mantenevo una certa lucidità per cui pensai che assomigliasse a
un Jeeg Robot di Acciaio o a un Atlas Ufo Robot, però con sembianze meno
meccaniche e più umane, doveva essere altro almeno una decina di metri. Non era
un’allucinazione, anche perché quelle durano poco e quello invece non aveva
nessuna fretta, mi aspettava veramente a piè fermo, là in fondo. Ci volle
qualche minuto per arrivare abbastanza vicino e capire che quella era una
statua enorme, che non avevo mai visto, perché non ero mai passato in quella
piazza. Sentii una specie di sollievo, in senso generale, me ne andai a casa e
poi tranquillamente a letto.
PRIMA E DOPO
Certo
che scrivere era una cosa pratica, perché si capivano cose che solo pensando
non si toccavano mai. Iniziai a rendermi conto, un po’ alla volta, che potevo
farlo ovunque, bastava una penna e un foglio. Scrivevo spesso dopo aver bevuto,
allora mi venivano le idee più bizzarre, solo recentemente mi sono reso conto
che le idee vengono lo stesso e senza bere l’organizzazione del lavoro è
migliore.
All’inizio
scrivevo solo a mano, comprai la mia prima macchina da scrivere a Berlino, al
Floh Markt, il Mercatino delle Pulci, e tornai verso il mio monolocale in
affitto della Tempelherren strasse, fantasticando sul fatto quasi compiuto che
la letteratura italiana, forse allora in decadenza, stava finalmente per
conoscere un nuovo talento.
La
macchina era già un simbolo, la vedevo nei film, gli scrittori ce l’avevano
tutti, l’atto di mitragliare le lettere - anche se per me si realizzò solo
molti anni dopo - era un romantico scorrere di parole e d’immagini, avevo una
fantasia parallela e spesso ben separata dalla realtà.
Non
si può dire che non scrissi proprio niente con quella scassata portatile, che
aveva quel tremendo difetto che quando doveva battere una A entrava invece una
B, e la O invece era un grosso punto nero perfettamente rotondo, che dopo la C
faceva uno spazio automatico e indesiderato, che perdeva il margine ad ogni
riga e più altre numerose cosette di minor conto.
Fu
una di quelle cose che pare che non siano servite a niente, ma invece erano un
piccolo passo avanti, un poco di sbieco, ma verso qualcosa che intravedevo da lontano
e non capivo ancora bene com’era.
Dopo
aver tentato invano, per un po’, di usarlo così com’era, poi di aggiustarlo per
alcuni giorni di lotta furiosa e relative feroci bestemmie, quel simbolico
marchingegno diventò ben presto un autentico ammasso fumante di ferri ricurvi e
inutilizzabili, almeno per scrivere.
La
testardaggine è uno dei miei migliori difetti e certo una delle peggiori virtù
che ho.
Vivevo vicino al Muro, nel quartiere
dei turchi e delle comuni studentesche. La collina da cui prendeva nome il
quartiere, si chiamava così, Kreuzberg, Montagna della Croce, forse perché era
stata fatta con il mucchio delle macerie della guerra, in cui la città era
stata praticamente rasa al suolo.
Entrai nel ristorante La Marmora
pochi giorni dopo essere arrivato a Berlino, c’era stato un annuncio di cercasi
lavapiatti e mi presentai perché sapevo poco la lingua e per lavare i piatti
non è necessario. Fu Pasquale che mi fece il colloquio seduti a un tavolino di
fronte al bar.
Mi disse che aveva bisogno piuttosto
di un barista, che il lavapiatti l'aveva già trovato, io dissi che non sapevo
molto bene la lingua, ma lui disse che non era necessario, perché il barista del
ristorante preparava le bevande, le metteva sul banco in base a dei buoni, che
i camerieri scrivevano alla cassa in italiano. Ero ancora più contento, dissi
io, perché il barista era il mio mestiere, in Italia avevo lasciato il Caffè
Voltaire in gestione, ma ero ancora il proprietario insieme al mio socio.
Al ristorante La Marmora, i due
proprietari-camerieri, un siciliano e un napoletano, pensavano che quello fosse
il nome delle cascate umbre e le avevano fatte disegnare sull’insegna, sui menù
e sui fiammiferi pubblicitari.
La Marmora era un generale, invece, o
magari due, i fratelli Alessandro e Alfonso, riformatori dell’esercito Sabaudo,
il primo dei quali fondò il corpo dei Bersaglieri.
Comunque
fosse, mi ci feci un anno quasi da soldato, alla Marmora, arruolato come
barista, senza neanche un giorno libero, ferie non pagate.
Le
notti le trascorrevo in discoteca. Ero giovane e pieno d’energia, avevo bisogno
di scaricarla e già che c’ero mi ci divertivo anche.
Alcuni
di noi lo chiamavano amichevolmente Cornuto, oppure Cornù, anche se ci risultava che il Commissario, come lo chiamavano
più rispettosamente i tedeschi, non avesse moglie, chissà se ne aveva mai avuta
una.
Alla
Kneipe (taverna) di fronte ci avevano confidato che aveva fatto la guerra, che
era tornato con le rotelle che giravano con difficoltà, o a volte anche troppo
rapide, insomma, che dopo non era più stato lo stesso. Com’era stato in
precedenza, però, non lo sapevano, perché prima della guerra non abitava lì.
Passava
la mattinata camminando, girando, su e giù, avanti e indietro, quando non era
troppo freddo, appoggiandosi con un bastone, che gli serviva anche per trovare
le prove di certi misfatti che gli interessavano.
Sfilava
più volte, davanti alla vetrina del ristorante italiano La Marmora, nel
quartiere berlinese di Britz, con grande lentezza e varietà di espressioni di
faccia, parlava da solo, a volte gridava imprecazioni incomprensibili. Soleva
indagare su infrazioni di vario tipo, ma le prove erano sempre mozziconi di
sigarette e bottiglie di superalcolici vuote, di quell’acquavite tedesca a buon
mercato, o di quelle imitazioni di cognac nazionali.
Portava
un cappotto lungo, allacciato in vita, dalle tasche enormi e rigonfie di prove
di quei misteriosi atti di delinquenza, che erano poi il suo unico argomento,
del quale, ogni tanto, noi camerieri, baristi e personale vario della cucina,
gli chiedevamo informazione.
Uno
dei due padroni del ristorante, quello siciliano, quando lo vedeva lo chiamava
e gli chiedeva le novità, l’altro, il napoletano, sorrideva amaramente e
scuoteva la testa malinconico.
Der
Kommissar era ogni volta ansioso di mostrarci, in sacchettini trasparenti,
quello che aveva trovato, che accompagnava con il suo discorso da poliziotto,
parlando un tedesco magari dialettale, da una bocca assai sdentata. Frasi che
noi capivamo a pezzi, più che altro il senso, ma a volte nemmeno quello. L’evidenza
delle prove era comunque palese per tutti, perfino per gli albanesi lavapiatti
che non capivano il tedesco, né l’italiano.
Si
avvicinava caracollando, ci guardava negli occhi, tornava alla cicca sul marciapiede,
sventrata con il relativo tabacco sparso, ce la indicava con la punta del
bastone, con un’espressione eloquente di tranquillo disgusto, poi faceva una
faccetta furbesca e formulava la sua domanda retorica:
-
E chi è stato?
-
Maier!! Gridavamo tutti noi in coro.
Lui
faceva uno strano gesto tremolante con la mano libera, forse per sottolineare
l’assurdità della vita, la diabolica ripetizione degli efferati eventi.
Quel
Maier era proprio un malvivente, fumava e beveva superalcolici, probabilmente
tutti i giorni, aveva ragione di credere.
Sorrideva
contento ma severo, approvava la nostra perspicacia nell’indovinare, ma
lasciava intendere che non era roba da scherzarci sopra, anzi, proprio al
contrario.
A
quel punto, soddisfatto sì, ma pur sempre in diligente servizio, ci salutava
militarmente e ripartiva, rovistando con il bastone ogni ciuffo d’erba, ogni
anfratto del marciapiede, qualsiasi spazio nascosto pur piccolo.
Era
sempre un certo Maier il colpevole, ci aveva forse già spiegato più volte chi
fosse, questo famigerato Maier, o perché lo teneva d’occhio, magari eravamo noi
che non avevamo capito.
Lavorai
per un anno in quel ristorante, poi un anno alla Benetton, alla fine decisi di
tornarmene in Italia.
Un
giorno, sbrigate finalmente le necessarie pratiche, andai al ristorante La
Marmora per salutare i miei ex compagni di lavoro, prima di scendere verso sud.
Mi
misi a sedere a un tavolo e ordinai una birra, mentre loro lavoravano, ogni
tanto si fermavano a parlare con me, se avevano tempo si sedevano anche per
qualche minuto.
Un
cameriere sardo, assai giovane e simpatico, prima che me ne andassi mi disse
che Der Kommissar era sparito, non si vedeva più in giro, anche alla Kneipe non
ne sapevano niente.
Poi
gli venne in mente una cosa importante, ma prima doveva portare quei piatti
caldi al tavolo dieci, mi intimò di non andarmene. Poi arrivò un sacco di
gente, lui aveva troppo da fare si era fatto tardi per me. Mi raggiunse vicino
alla doppia porta d’uscita e mi confidò alla svelta, carico di piatti caldi, forse
un po’ più tiepidi, chi fosse alla fine quel famigerato Maier.
Noi
c’eravamo chiesti spesso chi fosse stato, c’erano vari ubriaconi che
bazzicavano sia la Kneipe che il ristorante, ci eravamo fatti idee e ipotesi
che ora si confermavano tutte errate.
Lo
aveva saputo anche lui da poco, ma da fonti attendibili, cioè da un grasso
signore che abitava nello stesso palazzo del ristorante e che lavorava per il
municipio di Britz.
Finale
a sorpresa. Pare che Maier fosse proprio lui: il commissario.”
IL
DENTISTA RUSSO
“Eine
secundchen!”
Un
secondino, un piccolo secondo, diceva, e poi tornava dopo un’ora e mezza. Si
chiamava Rifkin ed era russo il dentista consigliatomi da Pasquale, uno dei
proprietari del ristorante. Non che me lo avesse proprio consigliato, aveva
solo detto che c’era un dentista lì vicino.
Da
solo lavorava in tre stanze e con tre poltrone, tre clienti contemporaneamente,
o forse dovrei dire pazienti, perché di pazienza ce ne voleva assai. Un giorno
sono stato là dentro da apertura a chiusura, con la pausa per la minestrina in
brodo. Era il montaggio finale, doveva installare i miei quattro ponti.
Il dentista era di Mosca, secondo le sue
stesse parole, l’odontotecnico si chiamava Roni, era dell’Ucraina, a quel tempo
facevano parte della stessa Unione Sovietica.
L’ambulatorio
era grande e c’erano tre stanze attrezzate per il dentista, più un grande
laboratorio per l’odontecnico.
Eravamo
nel quartiere di Britz, lontano dal centro, abbastanza popolare, ma non trai
più popolari o lontani, c’era di peggio, dipende anche dai gusti.
L’assistente
era carina e turca, qualche volta era venuta al ristorante La Marmora, dove
lavoravo, a prendere cibo da portar via.
Oltre
i dolori e i soliti guai con i denti, da me sempre avuti ciclicamente, avevo saputo
che il governo tedesco pagava a noi gastarbeiter
(lavoratori ospiti) il 75% delle spese che non era poco.
Mi
fece quattro ponti che sono durati una trentina d’anni, l’ultimo rimasto in
alto a destra ne ha trentaquattro e funziona ancora egregiamente. Quello sotto
lo sto cambiando ora, ma il dentista brasiliano per toglierlo ha dovuto
soffrire un po’, era molto robusto, se il dente su cui appoggiava non fosse
andato in carie avrebbe potuto durare ancora.
UN
RAGAZZO DI OSTUNI
Nino
era un cuoco di Ostuni, provincia di Brindisi, che arrivò alla Marmora
all'improvviso e dopo poco eravamo diventati inseparabili. Per via della sua
allegria e dell'ampiezza dei suoi interessi, era una buona compagnia.
All'inizio
sembrava una persona seria, magari perché portava gli occhiali, poi notammo che
le lenti erano sporchissime e come se non bastasse si faceva le canne durante
il servizio, e forse per un cuoco sotto stress l'uso di stupefacenti - anche
leggeri - può essere controproducente, chi ha lavorato in una cucina di
ristorante capirà che ambiente nevrotico sia e come ci sia già - a cose normali
- il rischio di rompere di testa.
Girolamo
a Berlino ha lavorato con un cuoco bresciano, in uno dei più famosi ristoranti
italiani, che si faceva perfino gli acidi durante il servizio ed era piuttosto
pericoloso, non solo per sé stesso.
Comunque
in discoteca ci si divertiva assai e poi a notte fonda, diciamo quasi mattina,
ci si faceva delle mangiate tremende per strada o a casa sua e poi si andava a
letto contenti. Nino era capace di mettersi a cucinare alle cinque di mattina e
in casa aveva ogni ben di dio. Sennò un kebab o due erano il nostro leggero
spuntino, che dopo ci si sognavano inferni di cristallo, la corrida di Pamplona
o cose del genere.
Una volta eravamo una decina, o pochi meno, e
andammo in un posto dove facevano il kebab, ma non era un chiosco, era quasi un
ristorante turco che conosceva Nino e dove fu salutato rispettosamente. Erano
le quattro di mattina ed eravamo tutti abbastanza cotti, dopo varie canne,
birre e danze alla discoteca Abraxas
Lui
prese le ordinazioni, tutti kebab, ma uno senza peperoncino, uno senza cipolla,
uno senza maionese e così via. Il turco aveva preso la comanda sorridendo,
davanti a noi, ma i kebab poi li aveva fatti tutti uguali. Forse aveva perso un
buon cliente come Nino, ma ci aveva fatto divertire assai e sorridendo
rispettosamente. Quando furono pronti Nino fece una faccia delle sue,
esprimendo perplessità e cose limitrofe, ma cosa poteva fare? A quell’ora e
cotti come eravamo, cosa si poteva pretendere da uno che aveva la faccia di
aver lavorato almeno dodici ore?
Quando arrivò al ristorante Nino per fare bella figura
preparò la Crudaiola: fusilli al dente con su una splendida salsa di ortaggi
crudi, parmigiano e olio d’oliva, la quale si lasciava ad amalgamare
ventiquattr’ore, prima di essere servita. Non aveva il tempo di farla macerare,
ma era buona anche così. Sarebbe un sugo crudo, ma cucinato dal tempo, dalla
forza tutta mediterranea del basilico fresco e dell’aglio, una salsa tanto ben
calibrata che si potrebbe mettere anche sulla pizza.
Il clima era di un ben determinato tipo, per il quale,
d'inverno, per mesi, il cielo rimaneva coperto da una cortina grigia. Avevo
fatto conoscere Luca a Nino e si erano trovati bene, scherzavano con i tedeschi
dicendogli, in quella mistura di tedesco, d’italiano e di dialetti del
sud: Ao kino (cinema) dovete andare, se volete vedere ‘o sole!
Quando
comprai la Mercedes, Nino lavorava in un magazzino di prodotti importati
italiani che riforniva i ristoranti. Lui comprò una Volkswagen Passat rossa che
era già mezza distrutta e gli si fermò definitivamente, dopo alcuni mezzi
addii, sull'autostrada.
Lavorando
tutti e due in cose diurne, l'epopea dell’Abraxas era finita, nel fine settimana
non ci si andava lo stesso, avevamo perso il ritmo.
Il capo di Nino nel
deposito di alimentari importati dall’Italia era un fenomeno di stressato
piuttosto stressante. La momentanea impossibilità di sfogare la sua
iperattività sfociava in un fiume di frasi martellanti attaccate l’una
all’altra:
“Metti la chiave,
girala, si è acceso il motore? E che aspetti? E parti! La sai guidare questa
carretta? Non mi far perdere tempo! Che io tempo non ne ho, non ne ho mai avuto
e se ora anche ne avessi non lo vorrei perdere certo qui in un posteggio… che
stai aspettando?
Gira qui, metti la
freccia, c’è il semaforo, al semaforo ricordati che devi fare sempre come me:
puoi anche passare col rosso, non c’è problema, ma prima controlla se c’è una
guardia, non si sa mai. Una volta ho preso una multa, a Brescia, o era a
Bergamo… no, forse a Padova, o a Rovigo? Non ha importanza. Frena! Sei
impazzito?
E stai attento, non
ti distrarre, qui nessuno ti disturba, checché, concentrati nella guida e non
ascoltare la radio… non ascoltare nemmeno me, mi raccomando di non guardare
dalle parti, solo davanti, sempre e solo davanti, come nella vita, non bisogna
mai voltarsi indietro. Siamo arrivati, frena, metti la freccia, gira e
posteggia. Che ore si sono fatte?”
La sua maniera di
elogiare qualcuno era di dire agli altri che erano degli stronzi; più volte,
ammirando alcune sue pensate circa il rivoluzionare l’organizzazione del
servizio, oppure per via di nuove idee sulle decorazioni per la vetrina,
chiamava tutti a raccolta e iniziava a gridargli contro:
“Voi siete dei
coglioni! Mai una volta che vi prendete un’iniziativa, mai una pensata,
guardate qui, è tanto difficile fare lavorare il vostro cervello di gallina una
volta nella vita? Come potrete pretendere un giorno, di avere il vostro
negozio, se lavorate solo per i soldi, se non avete inventiva, se non cercate
di fare bene quello che fate?”
Nei primi giorni
del suo nuovo lavoro Nino, che in precedenza non l’aveva mai guidato, buttò giù
una parete con il muletto.
EMIGRANTI
Berlino
era una città fredda, dicevano, perché popolata principalmente da tedeschi. Il
che era verità, ma c’erano anche tante altre nazionalità e razze, provenienti
da tutte le terre emergenti dal mare, del nostro piccolo, ma formicolante pianeta.
I
miei erano gli ultimi anni del Muro, anche se nessuno lo sospettava, la
metropoli ferveva, aveva tutto il suo bel fascino misterioso. Là il passato
s'incontrava tutti i giorni col futuro... e quello che ne usciva fuori si
chiamava presente, cosa che potrebbe succedere anche altrove, ma non sempre ci
riesce. Forse-forse perché quella Berlino, più che quella di adesso, o quella
di altre epoche, era una città che viveva ventiquattr'ore su ventiquattro,
molti suoi bar e discoteche chiudevano solo un'ora al giorno, per fare le
pulizie, i ristoranti aprivano a mezzogiorno e chiudevano a mezzanotte, alcuni
rimanevano aperti anche fino alla mattina.
A
Berlino tutto era differente per me, forse anche per il fatto singolare di
essere un'isoletta consumista nel bel mezzo del comunismo della Germania Est,
anzi, più vicina alla Polonia che alla sorella occidentale.
Una
grande città che era divisa, più che altro simbolicamente, tra Francia,
Inghilterra e Stati Uniti. Berlino Est era invece, assai meno simbolicamente,
russa. A Berlino Ovest la Germania non poteva avere esercito, visto che era
occupata dagli alleati. Una città riconosciuta come uno splendido paradiso di
tolleranza, cosmopolita e aperta, proprio perché era chiusa, strano ma vero,
un’autentica meraviglia. La presenza di un bell’arcobaleno di cittadini del
mondo, faceva sì che la vita nei locali notturni fosse movimentata e la musica
avesse il suo grande potere di aggregazione. Jazz, latina, elettronica, rock...
e, quello che era il meglio, era proprio che si suonava e pure si ballava ogni
tipo di musica. La città era assai più viva di adesso... strano a dirsi, ciò
che faceva la vivacità del luogo era proprio il muro, o meglio: le sue impreviste
conseguenze.
Un
po’ come il Vesuvio che, dicono, ha reso la mentalità del napoletano
spensierata, visto che da un momento all’altro la sua vita poteva terminare
sotto una colata di lava, allora tanto valeva divertirsi, senza pensarci
troppo.
Una compagnia
mista di sudisti s'incontravano al bar Italia, dove non si perdevano una
partita di calcio italiano, eravamo nel 1988 e non esisteva ancora l'internet,
non so che diavoleria di antenna avevano messo, solo per questo. Giocavano a
carte e commentavano gridando e, all’occorrenza, pure bestemmiando, tutto il
commentabile. Non
potevano starsene sempre al bar, più che altro ci andavano durante la
settimana, la sera o quando c’era qualche avvenimento sportivo importante.
La
domenica, per esempio, la sera era d’obbligo, perché davano i gol delle partite
italiane, pochi mancavano all’appello per vedere la Domenica Sportiva, alle
dieci e trenta, e poi giù commenti infuocati e polemiche.
Erano
perlopiù pensionati che lavoravano, con poco tempo per vivere di nostalgia, ma
di una nostalgia a pancia piena, perché stavano bene, a livello di soldi, anche
se usavano lamentarsi un po’, come tutti gli italiani, forse per una mentalità
da commercianti, o meglio da mercanti, ereditata insieme alle origini del
nostro popolo.
Si
diceva che quelli che si lamentavano meglio di tutti erano gli italiani che
lavoravano veramente come commercianti, perché univano le due forze: quella
della modernità e del presente a quella della tradizione e del passato. Una
malinconia basata sulla mancanza che sentivano del proprio paese, fatta di
storie vere e inventate, esagerate o fedeli solo alla realtà di chi le
raccontava, quella che cambiava, cioè, di volta in volta.
La
domenica si trovavano, verso le tre e mezza, cioè dopo il turno del pranzo dei
rispettivi ristoranti, in piazzetta, dicevano.
È
chiaro: il modo di dire era quello paesano, ma quella era una piazzetta dentro
all'Europa Center, nello shopping, ai primi piani del grattacielo, a lato della
Gedächtnis Kirche, ovvero la Chiesa della Memoria, quella che era
stata restaurata in maniera da poter mostrare ancora i segni dei bombardamenti,
per servire come lezione, in futuro. Se Berlino era stata definita il
centro dell’Europa, quell’edificio ne rappresentava, di nome e di fatto, il
centro del centro. Ciò nonostante la domenica i negozi erano tutti chiusi e
loro dovevano stare in piedi a parlare, appoggiati ai parapetti di legno,
perché non era possibile nemmeno sedersi.
Erano
una decina di italianacci che avevano navigato nello spazio e nel tempo,
attraverso il bene e il male, in povertà e solo dopo in ricchezza eccetera,
eccetera. Nelle domeniche buone erano perfino in quindici, venivano dalle
Puglie, dalla Basilicata, dalla Campania, dagli Abruzzi, dalla Calabria e dalla
Sicilia, qualcuno anche dalla Sardegna.
In
genere gli italiani, là a Berlino, vivevano nel loro mondo all'interno di
quello degli altri, con le loro preferenze e conoscenze, generalmente di stampo
italiano, per non voler dire meridionali.
Nel migliore dei casi usavano
il sowieso nel senso di sicuramente, invece voleva dire in
ogni maniera, ma tra gli italiani dei ristoranti quella parola tedesca, da
loro molto usata, aveva cambiato, come altre, leggermente, il suo significato
originale.
La maggior parte parlava
male perfino l’italiano, figuriamoci il tedesco. Alcuni dopo una vita,
frequentandosi tra di loro, lavorando in cucina, non lo masticavano per niente.
Mi
ricordo un riccioluto e vecchio cuoco di Pacentro, provincia dell’Aquila,
diceva che stava con una polacca e ci
stava pure ‘bbene, ma non la chiamava mai per nome, era solo e sempre La Polacca. Mi chiedevo come
s’intendevano, da trent’anni a Berlino, parlava solo il dialetto e anche io
quasi non lo capivo quando parlava. Un calabrese socio del ristorante
Monsignore, aveva trovato un sistema per vincere alla roulette, però non lo
aveva ancora provato, lo stava perfezionando e intanto lo prendevano tutti in
giro.
Mi
affascinava sentire certe cose strane che non avevo mai udito in Italia, o
anche fuori, cose che non avrei mai avuto occasione di venire a conoscere in
altra maniera, che rappresentavano per me un universo a volte anche volgare,
sì, ma fantastico. La commedia della vita, più scherzosa, paesana e meridionale
di quella che vivevamo al presente, a Berlino, che era invece una metropoli
straniera, fredda e teutonica.
Sia al
ristorante pizzeria La Marmora che alla Benetton io ci stavo bene, essendo una
specie di jolly, stavo in magazzino,
o in un negozio tra i vari che c'erano. Ogni tanto uno apriva e un altro chiudeva,
ma non arrivavano mai alla decina. Io stavo dove c'era bisogno, facevo
spostamenti di merci da uno all'altro e la sera andavo a letto presto. Bevevo
meno e fumavo raramente.
Alla Benetton
erano quasi tutti del nord, i pochi italiani che c’erano, più facilmente del
Veneto, a differenza dei ristoranti che erano appannaggio del sud.
Negli
europei, vinti dall'Olanda mi trovai a fare un tifo indiavolato per l'Italia,
da fuori le si vuole più bene che dentro, anche se poi il calcio è simbolico e
rappresenta ma non troppo una nazione. In quell’epoca successe anche che
vincessimo tutte e tre le coppe europee, cosa mai successa, gli stranieri
migliori erano tutti in Italia, poi si sono spostati in Spagna e dopo in
Inghilterra.
Cominciai a
pensare al relativo patriottismo moderno che questionavo sempre più in maniera
critica, un meccanismo necessario per eventuali guerre. Riflettendo anche più
compiutamente qua in Brasile, se mi avessero richiamato non avrei risposto, per
ovvi motivi e tra gli italiani che perlopiù ho incontrato, sia in Germania che
in Brasile, il parere era lo stesso. La maggior parte era emigrata per mancanza
di opportunità, e per gli stessi motivi, mi sentivo come loro. Se fossimo stati
bene saremmo volentieri rimasti a casa.
I padroni dei
ristoranti sognavano di tornare in Sicilia, in Campania, in Sardegna, in
Calabria e in Abruzzo con i soldi fatti lì, qualcuno c'è anche riuscito, ma
molti si sono abituati alla vita del posto, anche se piuttosto differente da
quella dell’Italia del sud e si sono sistemati con la relativa famiglia, qui o
là, in tanti e diversi luoghi del mondo emerso. La famiglia per me è sempre
sembrata un miraggio che inseguivo con progressiva scarsa convinzione.
KREUZBERG
Passato
da quella ristorazione alla Benetton, a fare il magazziniere, all’occorrenza
stavo in negozio, alla cassa oppure tenevo la contabilità, a volte perfino le
statistiche.
Ero
l’unico che aveva la voglia, la capacità e la necessaria indecisione per
imparare tutti i lavori disponibili. Gli altri, specie le reclute in perenne
arrivo e partenza, non resistevano molto alla musica alta tutto il giorno, a
quel tipo di lavoro ripetitivo. Fare il commesso alla Benetton dava una, magari
poco comune, ma assai tangibile e dolorosa sensazione di inutilità.
Chiaro
che all’inizio tutti adoravano ballare e piegare i vestiti a tempo di musica,
ma la gioia passava in un’ora o due. Non duravano una settimana, alcuni
scappavano terrorizzati, non tornavano nemmeno a prendere i soldi guadagnati.
Io
non solo resistevo, ma tappavo ogni buco che poteva presentarsi e non
protestavo, perché cambiare mi piaceva e mi piace ancora. In un anno di lavoro
mai un’assenza, mai arrivato in ritardo.
Però
quando mio padre si ammalò, anche se pensavo di non amarlo troppo, in un istante
decisi di piantare tutto e di tornarmene a casa.
Nella
società berlinese di quegli anni, la residenza era legata al lavoro, al
permesso di permanenza e tutto si chiudeva in un circolo che bisognava aprire
con una certa pianificazione e non da un momento all’altro. Oltretutto per
portarmi a casa la mia Mercedes diesel, ex taxi, dovevo fissare un’ispezione di
controllo e ottenere i documenti per l’esportazione, che mi sarebbero serviti
in Italia per immatricolarla.
Mi
vergognavo di tornare al lavoro, o anche solo di telefonare per avvisare, o di
desistere semplicemente da quel progetto basato sulla mancanza totale di
effettiva pianificazione. Intanto, mentre mi scervellavo per trovare un modo,
non ero andato a lavorare, non avevo avvisato nessuno, non avevo risposto al
telefono per giorni.
Giorni
passati da solo, tagliando fuori anche gli amici, parlando unicamente altre due
volte al telefono con l'Italia, per sapere le ultime notizie su mio padre.
La
situazione al Quercione non era migliorata.
Intanto
avevo abbandonato anche le fondamentali pratiche di sopravvivenza, stavo
tornando verso casa esausto, dopo ore di ossessivi ed inutili pensieri, senza
mangiare né bere per ore, incapace di capire cosa avrei dovuto fare.
Erano
le sette ed era già buio, mi trascinai verso casa ubriaco di silenzio, di un
eccesso traboccante di parole non dette e di tante, o forse troppe, solo
pensate ad alta voce.
Da
lontano vidi che proprio nella mia strada, la Tempelherren strasse, c’era un
camion dei pompieri che puntava la scaletta verso un punto che pareva assai
vicino al mio edificio.
Passo
dopo passo vidi che era proprio il mio.
Avvicinandomi
incuriosito notai che c’era un sacco di gente che da sotto guardava verso la
scala protesa, sulla quale un pompiere si stava arrampicando in direzione di
una finestra, che pareva proprio all’altezza della mia, unica e grande, del mio
appartamento di una sola stanza, più angolo cottura e bagno.
Il
mio stato di trance m’impedì di vedere la situazione in maniera razionale, ma
ora ero sicuro che fosse la mia finestra... un qualcosa attaccato al soffitto
pendeva, al di là delle tende, illuminato dal faro potente dei pompieri.
Per
qualche secondo vidi il mio corpo impiccato, come se potessi vedermi dal fuori,
effimero ed ultimo privilegio di una vittima del mondo, della società, della
situazione, oppure di me stesso.
Una
cinquantina di persone attorno, faceva commenti che captavo qua e là, a pezzi.
...
non rispondeva alle chiamate...
...
tanto un bravo ragazzo...
...
per questo si sono impensieriti...
...
non era mai mancato al lavoro...
...
da giorni era assente e non aveva telefonato...
A
Berlino la percentuale di suicidi era tra i primi posti nel mondo, specialmente
la domenica, nei giorni di festa la solitudine mieteva più vittime. Io ero uno in
più, col mio spettacolare togliermi di mezzo di nascosto avevo catturato non
solo l’immaginario collettivo, intorno a me, ma anche la mia mente e il mio
cuore ci si erano completamente immedesimati. Quella sagoma appesa oltre la
tenda faceva pensare ad un impiccato col collo reclinato, le gambe rigide e
leggermente allargate.
Qualcuno
ha detto che il tempo si misura con i battiti del cuore, non con l'orologio.
Infatti passarono solo pochi secondi, forse un minuto, dilatato dallo
smarrimento.
Poi
la mia razionalità riemerse di schianto, nell’attimo in cui capii, non che
quello non potevo essere io, perché ero lì sotto in mezzo alla gente... no di
sicuro, ma mi ero ricordato improvvisamente che avevo incassato l’una sopra
l’altra le sedie bianche di plastica da giardino, le avevo appese al posto del
lampadario, che poi non c’era mai stato, solo per guadagnare spazio. Quelle tre
le usavo solo quando ricevevo ospiti, cioè quasi mai, normalmente me ne bastava
una.
Scossi
la testa come per liberarmi definitivamente da quel pensiero morboso e vidi che
proprio accanto a me c’era la sostituta dirigente della Benetton, da pochi
giorni a Berlino per via di una crisi della società. Lei mi guardò, prima senza
riconoscermi, poi rivolse di nuovo lo sguardo verso di me, registrò l'accaduto
o meglio: quello che non era accaduto.
Poi
chiamò i pompieri dicendo:
“Possiamo
sospendere, è qui, è questo qui...”
Dopo
un attimo di smarrimento, la gente, i pompieri stessi e gli altri compagni di
lavoro si dimostrarono contenti, che fossi vivo. Anch’io mi sorpresi a gioirne,
come se me ne fossi accorto in quel momento, che ero ancora vivo, dopo alcuni
minuti di limbo.
Mi
fecero promettere di non farlo mai più, mi spiegarono che normalmente avrei
dovuto pagare una multa, perché tutto ha un costo al mondo, anche un’emergenza
dei pompieri aveva il suo cartellino col prezzo attaccato.
Poi
la folla si disperse.
Il
giorno dopo tornai a lavorare e sbrigate le pratiche necessarie, giacché ero
tornato di nuovo tra i vivi, me ne scesi in Italia dopo qualche mese. Mio padre
stava meglio e la vita mi parve migliore, come se il privilegio di poter
osservare la mia morte dall'esterno mi avesse fatto diventare più saggio,
almeno un po’ meno ingenuo.
Ero
arrivato a Berlino e me ne sono tornato in Italia nello stesso periodo
dell'anno, a giugno. Nel secondo caso, alla fine dell'autunno, il Muro è
caduto.
FILOSOFIA
La
mia vita fuori dal lavoro era piena di ritmo: tutte le sere bevevo, ballavo e
rimorchiavo in discoteca, di solito all’Abraxas, sulla Kant Strasse. Era un
posto piccolo, scuro, pieno di cimeli del passato: strumenti musicali,
fotografie e dischi di vinile attaccati al muro, ma con della musica veramente
bella. Davano anche Take Five di Dave
Brubeck e roba dei Santana, di Pino Daniele e Sergio Caputo. Era sempre pieno
di gente da scoppiare.
Abraxas di cui si parla anche nel libro Il Lupo della Steppa di Hermann Hesse
era un Dio che non separava così nettamente, come il nostro, il bene dal male e
questo mi sembrava più giusto ed efficace per stare al mondo. Inoltre era un
bellissimo disco dei Santana.
«Ciò che Abraxas pronuncia è quella
veneranda e maledetta parola che è vita e morte al tempo stesso. Abraxas dice
verità e menzogna, bene e male, luce e tenebra in una sola parola. Egli è la
Pienezza che si fa uno con il Vuoto. È le Nozze Sante. Dio dimora nel Sole,
il Diavolo nella notte. Ciò che Dio trae dalla luce, il Diavolo lo rigetta
nella notte: ma Abraxas è il mondo, il suo prodursi e il suo svanire.» |
(Carl
Gustav Jung, Sette discorsi ai morti, 1916) |
Abbracciai questa concezione nuova, non la
sposai, poiché ne ero incapace, mi ci fidanzai, perché mi fece inconsciamente
da potenziale manifesto per il futuro.
Ero
scontento della nostra religione cattolica, troppo rigida e anacronistica,
secondo la quale tutto quello che è permesso è obbligatorio e il resto è
proibito. La gente aveva già troppi problemi per sopravvivere dignitosamente,
per accollarsi un’ulteriore matassa di regole inutili se non dannose.
La
nostra vita è - per modo di dire - adagiata su un tapis roulant di cambiamento
continuo, se il cambiamento non c’è invece si arrotola tutto e si sbanda. Un
macello. Mantenersi in movimento è importante e decisivo ma non basta, se non
seguiamo un senso efficace, siamo solo stressati e nervosi.
È
forse come un animale feroce quello che noi cerchiamo di cavalcare, veramente
difficile dirigerlo dove vogliamo e poi bisognerebbe sapere cosa desideriamo
per il nostro oggi che corre, ed è già domani e solo quello è un cimento
proibitivo. Siamo piccoli e pieni di limiti, cerchiamo di imitarci a vicenda,
ma non abbiamo idea di cosa facciamo.
Uno
grande, di cambiamenti, fu quello che Sabine, il mio grande amore tedesco, mi
indusse a considerare il nobile lavorare
meno possibile. Il secondo fu la non competitività appresa in India, ma
solo in seguito. Non a caso due cose che andavano contro la mentalità applicata
dai più, senza mettere mai in discussione che fosse sempre meglio aggiungere e
mai sottrarre, accumulando montagne di cose faticose, inutili e alla fine
negative, per il loro eccessivo andare in un senso unico non scelto, ma solo
subìto.
È
improbabile non farsi distrarre da tutto quello che ci piove addosso, nella
vita riuscire a scegliere è un esercizio difficilotto per tutti, proprio perché
ogni cosa attorno a noi ci spinge o ci frena, quando e dove meno possiamo porci
rimedio.
Siamo troppo spesso in balia della corrente e
quella ci porta dove vuole lei, non dove vogliamo noi. Il libero arbitrio è una
cosa abbastanza ribelle. Sì, è vero che c'è anche il destino, però in cospicua
parte possiamo scegliere, sempre che siamo ragionevolmente sicuri di quello che
stiamo facendo e che la nostra camminata non significhi poi una sola soluzione,
ci possono essere tante variazioni e tanti cambiamenti che non erano
preventivati.
BUONE MACCHINE
Mio padre mi prendeva in giro perché in macchina
accendevo prima l’autoradio e poi il motore. Una volta in marcia mi godevo la
musica più che a casa, o in altre situazioni della giornata. Nell'epoca di
Sabine c'erano i Simple Minds e i Simply Red, gli ABC, Anna Domino, i Roxy
Music. A Berlino i Bap, Ulla Meinecke, gli Spliff, e poi Nina Hagen. Dopo la
mia breve amicizia con Vicky, uno dei pochi berlinesi originali conosciuti, la
canzone Wish You Were Here degli Immaculate Fools.
Il disco Music
for your pleasure, dei Roxy Music, fu colonna sonora di un incontro con
un'amica svedese di Sabine, a casa sua, in particolare la canzone era In every dream home a heartache. Quella
era infermiera fuori di testa e aveva fatto diversi servizi attaccati, per
accumulare giorni liberi. Aveva messo una qualche droga nel caffèllatte e io
credevo di capire il tedesco, cosa impossibile a quell’epoca, per cui mi
convinsi che parlassero male di me e mi arrabbiai con Sabine. Nella confusione
sbagliammo il metrò e passammo nelle spettrali stazioni abbandonate della DDR,
decadenti e popolate solo dalla polizia e poi, quando cominciai a riprendermi, eravamo
seduti sotto la pioggia in un parco, non mi ricordo dove, mi sembra nel
quartiere di Moabit dove abitava la sua amica Gunda.
Con i Tangerine Dream mi garbava guidare, forse perché
la musica accompagnava il ritmo del motore, le cose che passavano rapide oltre
il parabrezza dell'ex taxi beige. Mi ricordo in particolare un viaggio di
andata verso l'Italia in cui, in Germania Est, quella musica sembrava veramente
surreale, fatta a posta.
Se
avere un’automobile per me rappresentò una bandiera di libertà, andare a vivere
a Berlino ne fu un'altra, meno simbolica e assai più concreta. Là potevo essere
aiutato ancora meno dai genitori e dovevo arrangiarmi un po' su tutto.
D’accordo, non bisogna darle troppa importanza, ma
quando sei giovane ti da’ un’idea di libertà che potrà essere facilmente
provata e ripetuta. Forse un’illusione, che si possa andare dovunque e
comunque, dipende da tante altre cose, ma ci vuole anche e soprattutto il
coraggio di fare il primo passo, o il primo giro di ruote.
Con la macchina ci ho fatto dei viaggi di migliaia di
chilometri e spesso anche da solo, magari mi annoiavo, ma avevo la sensazione
di avere una specie di controllo sulla mia rotta, coscienza della mia
destinazione o destino insomma, di sapere dove stavo andando. Qualche volta era
solo apparente, d’accordo, però è importante per poter comprendere e poi
dimostrare a noi stessi che non siamo in una specie di acquario, come a volte
sembra, bello da vedersi, ma con dei vetri in mezzo che c’impediscono di
interferire e se si rompono quelli cade tutto giù, come i pesciolini, si smette
di respirare e si muore.
RITORNO
Quello
che fu importante poi era che avevo provato con relativo successo a vivere
fuori dall'Italia, mi ero destreggiato piuttosto bene e mi ero mantenuto con il
mio lavoro. Le amicizie italiane erano state un po' distanziate, la famiglia
anche. Il mio senso della vita finalmente pareva il mantenersi attivi, in
movimento insomma, non farsi crescere il
muschio sui ginocchi era il motto, e non le ginocchia.
Parlavo
l'inglese e il tedesco, portai a Lucca la Mercedes beige ex taxi che avevo
comprato da Pasquale, napoletano padrone del ristorante La Marmora, dove avevo
lavorato per un anno. Poi avevo fatto il jolly alla Benetton e nel mezzo avevo
consegnato i giornali di notte per il Berliner Morgenpost. Il Caffè Voltaire
era in gestione, ma quando finì dovemmo ritornare a lavorare lì, dopo un po'
liquidai il mio socio e rimasi da solo, nel frattempo c'era stata una storia
importante con Mariana, ma nel 1993 riuscii a vendere a cambiali e feci un giro
per l'Europa con Victorinho, primo brasiliano conosciuto in vacanza in
Portogallo.
Nessun commento:
Posta un commento