L’ambientazione del sogno doveva
essere della Patagonia secondo lui, un pomeriggio buio, freddo e ventoso, J scoprì
una balena arenata in una piccola spiaggetta, lì il vento non c’era e il mare
era sorprendentemente calmo. J mi fece anche un disegno. Secondo lui, siccome
la moglie era diventata grossa e scura era sempre stata, e soprattutto rompiscatole,
Adonai lo stava punendo e premiando allo stesso tempo, lei sarebbe morta, ma
per lui la vita non sarebbe stata semplice, nemmeno dopo.
Incubo ricorrente di quest’uomo
sempre sorridente eppure minaccioso, in qualche modo che io non capivo.
Non capire è normale.
Un massiccio ebreo del negozio di
confezioni sul Kurfürstendamm, angolo con Joachimsthaler strasse. Più largo che
alto, saranno stati i denti gialli, il suo volto lungo e squadrato, i capelli
biondi striati, quasi beige, il suo modo di vestire, che paradossalmente gli
davano quasi un aspetto da colonnello nazista.
Narrava Joseph Roth nel libro L’ebreo errante:
“Solo l’ebreo orientale onesto – che non è onesto
soltanto, è anche pavido – si presenta all’ufficio di polizia. Questo in
Prussia è assai più difficile che in Austria. La polizia criminale di Berlino
ha la particolarità di effettuare controlli casa per casa. Controlla i
documenti anche per la strada. Nel periodo dell’inflazione lo faceva sovente.
Il commercio di vestiti usati non è vietato, ma neppure permesso. Chi non ha
una licenza d’esercizio non può comprarsi i miei calzoni vecchi. E neanche li
può vendere. Eppure c’è chi li compra. E c’è anche chi li vende. Il primo si
mette nella Joachimsthaler strasse oppure all’angolo della Joachimsthaler
strasse con il Kurfürstendamm e si comporta come se non stesse facendo
assolutamente nulla. Deve osservare i passanti e vedere, innanzitutto, se hanno
vestiti vecchi da vendere e, in secondo luogo, se hanno bisogno di soldi. I
vestiti che hanno acquistato li rivendono poi l’indomani mattina alla borsa dei
vestiti.”
Meglio non fare nomi.
Il cinese lo studiò poco, era
intelligente però distratto, chissà perché dopo poco iniziò a raccontarmi i
suoi sogni in yiddish, che assomiglia assai al tedesco, diventai per la prima
volta una specie di analista, direi mio malgrado, passata la sorpresa però mi piaceva
anche e non mi ribellai, anche perché si poteva guadagnare assai meglio.
Il cinese
mandarino o cinese settentrionale, talvolta indicato anche come lingua
mandarina, è una famiglia di parlate locali originarie del nord-est della Cina
e appartenenti al più ampio ceppo delle lingue cinesi.
Imparare il cinese è cosa da
pazzi, almeno per noi occidentali, lo ammetto, ma è di pazzia latente che qui stiamo
parlando, la gente cerca di ignorare questo argomento scomodo, ma è proprio inutile,
quella coinvolge un po’ tutti. E poi io là ci avevo vissuto e ci avevo lavorato
per anni, mi ci ero anche sposato, che Dio conservi la Cina là dov’è. Non credo
comunque che abbia intenzione di spostarla, anche per uno come lui è piuttosto
pesante. Per quanto riguarda mia moglie al contrario di quanto si dice dei
cinesi, è una donna con un caratterino non indifferente, ma ha i suoi lati
positivi che non starò qui a lodare, è di altro che vorrei parlare.
Non dimentichiamoci inoltre che
ogni avventura del mondo degli uomini vale la pena di essere raccontata, oltre
l’interpretazione c’è la personale classificazione secondo i criteri e la
sensibilità di chi ascolta. E poi le esagerazioni, e poi le necessarie e
inevitabili bugie. Oltre le evanescenti parole i più solidi fatti, lo studio conseguente
degli esseri umani, che Dio ci aiuti a comprendere e a distinguere, tra il bene
e il male, tra quello che è buono e quello che è cattivo.
Perché è tutto così
incredibilmente mischiato?
La risposta è nella storia, oltre
che nella geografia.
La maggior parte dei miei pazienti
parlava e io non dicevo niente, o quasi. L’importante era la faccia tranquilla
ma attenta, senza il proverbiale lettino e l’analista appisolato alle loro spalle.
Ai più sarebbe sembrato un lavoro agevole,
ma non lo era. Siccome costavo molto meno e ottenere un appuntamento con me era
cosa assai più rapida, la voce si è sparsa e nel giro di qualche mese ho intrapreso
la nuova strada. Con l’approvazione di mia moglie L, che quanto
all’attaccamento ai soldi non è inferiore a nessuna donna ebrea, ho iniziato a
diventare sempre meno insegnante di cinese e sempre più psicoterapeuta
clandestino. Inoltre andavo a casa del paziente e i miei concorrenti invece no,
e certo non immaginavano nemmeno quanti punti perdessero a ogni colpo.
Il mio prodotto, sebbene involontariamente
falsificato, ebbe particolare successo con gli ebrei, per i noti motivi, anche
troppo stereotipati di avarizia, più altri che si aggiunsero progressivamente e
differenti da persona a persona.
Se Vienna è storicamente la città
della psicanalisi, che Iddio la mantenga ben in alto sul suo lontano pulpito, Berlino
è indubbiamente dove viene usata di più. Dicono che Vienna è una città morta,
ma Berlino grazie a Dio si sta ribellando, con qualche singulto ogni tanto,
strilla e scalcia contro il proprio destino, in quel miscuglio di razze e
religioni, in un futuro che cozza ogni giorno contro un passato. Ma il presente
non ci appare mai, lo aspettiamo ma lui si nasconde, eppure è lì che ci studia,
ironico sorride e non dice nulla di niente.
Una volta ogni professionista
aveva la sua benedetta sala di attesa. Nella dannata modernità ci sono sempre
più frequenti queste sale piene di seggiole e riviste, spesso vecchie e senza
più nemmeno le copertine, dove diverse persone aspettano insieme di essere
ricevute dai diversi tipi di professionisti non necessariamente professionali
come dichiarano.
Almeno io ho il buongusto di non
scrivere su una porta qualifiche inventate con belle lettere dorate.
Accanto a noi troviamo gente che
va dallo psicanalista, altra gente che va da un consultore di qualsiasi cosa, o
anche da un callista o un massaggiatore, corsi di cucito, di fotografia e cose
varie. Però il tipo di comportamento normale che io osservo e che quasi tutti hanno
è abbastanza simile, cioè si vergognano anche quelli che non vanno dallo
psicanalista, perché pensano che gli altri possano pensare che loro ci vadano.
In più ci sono io, stavamo
dicendo, che non sono un paziente né un cliente, ma un insegnante curioso, piuttosto
osservatore e vado dai miei allievi a domicilio, o sul posto di lavoro, dove vogliono
loro insomma. Sono uno dei pochi che lo fanno e così guadagno punti preziosi
sulla concorrenza.
Allora, come si stava accennando, a
Berlino negli uffici con tali ampie sale di attesa, con dei quadri alle pareti
che si stenta a capire dove se li possono essere procurati, si incontrano
persone sedute che altrimenti non si potrebbero conoscere neppure in piedi,
anche così dichiarare un giorno di averle conosciute sarebbe una bugia, perché
non è certo facile, né scontato. Loro per primi non ci tengono e io devo
parimenti fare finta, che Dio mi conservi sveglio e astuto oltre la media. La
cosa più difficile, tanto che nessuno ci crede, è che mi immagino o mi auspico
al di sopra delle parti, come se avessi una missione in terra di aiutare gli
altri, proprio come se anch’io avessi fatto il giuramento dell’Ippopotamo, come
dice mia moglie L, che ha alcune difficoltà con il tedesco, sia orale che
scritto, che come me non ha mai studiato medicina, nemmeno in cinese.
Devo dire che è piuttosto interessante
a livello antropologico dare lezioni bilaterali alle persone di più disparata
origine e occupazione nel mondo del lavoro.
Gli psichiatri e gli psicologi
sono i più fottuti casi umani, spesso sono assai più pazzi dei loro pazienti,
dai quali assorbono manie e difetti, in più li sommano ai propri, che poi sono
proprio quelli che li hanno condotti su quel cammino arduo. Chi glielo ha fatto
fare?
Chi sarebbe così pazzo da stare a
sentire litanie e lamentele dalla gente, tutto il giorno, tutti i giorni? Se
uno non è pazzo lo diventa e soprattutto non se ne accorge.
D’accordo, è gente colta e
interessata a tutto, ma proprio a tutto quello che esiste, questo mi piace. In
più nelle sale di aspetto ci si può cimentare nella nostra personale versione
dell'analisi ed è un giochino interessante.
Il signor M lo trovavo sempre seduto nella sala di aspetto di un gruppo
di psicanalisti, congiunto con massaggiatori Rolfing e callisti sulla Kant Strasse, vicino a Savigny Platz, a
uno dei quali strizzacervelli davo lezione di mandarino una volta alla
settimana.
Queste sale sono come un mondo a
parte di cui solo pochi anni fa non conoscevo nemmeno l’esistenza.
Figurarsi che al piano di sotto
c’erano istruttori di clavicembalo e quelli che insegnavano a fare degli
animali con i palloncini, lezioni di origami e a mazzi gruppi di lingue
orientali, tra cui alcune già sufficientemente defunte, eppure non si davano
per vinte.
Il signor M di cui dicevo prima era
un tipo grassoccio e apparentemente calmo, la faccia resa verdognola dal tempo
e chissà da quali malattie. Ogni tanto, se non c'era troppa gente, scambiavamo
sommariamente quattro chiacchiere, pochi e rapidi stereotipi sul tempo e sulla
disgraziata politica berlinese, tedesca, europea o mondiale. Qualche rapido
accenno all’auspicabile vita su altri pianeti, ma non sempre e comunque con il
necessario tacito ma comune accordo di rispettare gli altrui silenzi. Di tempo
non ce n’era tanto, tutti sembravano imbarazzati di essere lì, lui non faceva certo
eccezione, io forse ancora sì.
Evidentemente soffriva di uno
sdoppiamento di personalità, tra le altre cose, perché ogni volta che lo
incontravo si comportava in maniera strana e differente. Secondo me soffriva
assai, ma con un sorriso stampato sulle labbra, che avevano lo stesso strano colorito
della faccia.
Passarono i mesi e R, il mio
allievo psichiatra diventò il più anziano dei miei ibridi allievi-pazienti, i
suoi progressi erano quasi inconsistenti e bilaterali, ma lui non si
rassegnava. Si era affezionato a me, alla mia silenziosa pazienza. Di punto in
bianco capii che aveva bisogno di tutte altre cose, quel giorno in cui davanti
a me si mise a piangere e confessò i suoi peccati. Glieli perdonai tutti
magnanimamente, senza distinzione e lui me ne fu grato, mi attribuiva evidentemente
un’autorità che io almeno formalmente non avevo, ma che mi ero in qualche modo
conquistata, se non fosse altro per la mia calma e la mia compostezza.
Difficilmente uno psichiatra ha la
pazienza necessaria per essere paziente di un altro psichiatra, giacché conosce
in anticipo le domande, le relative risposte e le conseguenti riflessioni. Certo
che le neutralizza e le esclude, se solo disgraziatamente riguardano lui
stesso. A chi potrebbe rivolgersi, allora, un ipotetico medico, professionista
della psiche, che finalmente riconoscesse di aver bisogno di un massiccio quanto
continuo aiuto del genere? A uno psicologo, naturalmente, se solo non ci fosse
una specie di concorrenza, tra le due categorie e una serpeggiante mancanza di
fiducia reciproca. Tutti sapevano che gli psichiatri accusavano gli psicologi
di non sapere abbastanza del funzionamento del corpo.
Tutti sanno che tutto è collegato
e indivisibile, anche se assai complesso, dentro un essere umano: gli psicologi
non dicono di no, ma si concentrano sulla parte più alta. A loro volta, gli
psicologi invece tacciano gli psichiatri di distribuire male la loro
attenzione, tra cui su quelle cose che influiscono poco, come organi e membra,
che con la psiche non si conoscono nemmeno di vista. Dicono che gli psichiatri
tendono a riempire di medicine i loro pazienti, tentando di risolvere solo i
sintomi e non agendo sulle radici dei problemi.
Allora? Forse hanno ragione tutte
e due, le categorie. Però chi potrebbe essere l’appoggio per lo psichiatra? O
per l’eventuale psicologo? Chi potrebbe essere la loro necessaria bussola, per
le fin troppo disumane tempeste nella nevosa taiga dell’intelletto umano? Chi
li aiuterà in caso di bisogno, se saranno, per esempio, troppo o troppo poco
coinvolti con le faccende del mondo?
Il signor M era sempre là quando
io arrivavo, in vestito scuro e cravatta, sguardo perso nello spazio siderale, se
stimolate ecco le sue frasi vuote e simboliche. Altre volte invece affabile e
comunicativo, conversazione semplice ma piena di significati concreti e
fondamentali. Aveva sempre una borsa con sé, che non aprì mai, in tutti quei
mesi. Non ho mai capito che diavolo ci tenesse là dentro.
Intanto io mi ero fatto una lista
di relative malattie mentali per tutti gli altri che trovavo lì ad aspettare,
era stato facile, dalla loro maniera di comportarsi capivo al volo quale era il
loro problema.
La signora G era una maniaca
dell'alimentazione, ossessiva, ansiosa e obesa.
Il Capitano N un’ostrica chiusa in
sé stessa e barricata su tutto e per tutti, non salutava nemmeno, leggeva le consunte
riviste della sala d'aspetto, ma ogni tanto si guardava intorno per capire se
qualcuno potesse vedere cosa stava leggendo.
La piccola signorina K una
chiacchierona insopportabile, non stava zitta un secondo e non diceva mai
niente che valesse la pena, poi lo ripeteva all’infinito.
Per il signor M avevo pensato a
diverse ipotesi, non che l'una escludesse l'altra, ma era difficile trovare
tante anomalie in una sola persona, che finivano per disturbarsi e confondersi
l'una con l'altra.
Comunque non avevo dubbi sul fatto
che tra tutti il suo era il caso più grave, più complesso, ricco di
sfaccettature, sicuramente una persona profondamente falsa che mentiva a sé
stessa, e perché no, anche al suo stesso terapeuta.
Finché un giorno non resistetti
più e chiesi al mio allievo, psichiatra che là dentro curava il signor M.
Disse che non poteva parlarmene,
segreto professionale e cose di questo genere occulto, ma dalla faccia che fece
capii tutto.
Era un caso grave?
Non poteva dirmelo, ma da anni era
il professore di spagnolo del dottor S, un suo amico e collega.
Va bene che io sono uno che
assorbe troppo poco quello che c’è intorno, grazie a Dio misericordioso, che
non si ossessiona con quei fantasmi inutili che non sempre ritraggono relative
figure della realtà propriamente detta. Magari ho troppa fantasia e a volte mi
scappa di mano, va contro di me e allora sto cercando d’imparare a usarla a mio
vantaggio, con risultati alterni, forse da sempre.
Ai soldi ci penso troppo poco,
secondo mia moglie L e un’altra ventina di persone a me vicine, alcuni
debitori, più altri creditori, non ricordo bene.
In questo caso la curiosità mi
spinse a diventare allievo di spagnolo del professor M. Non era troppo caro, secondo
me, anche se mia moglie L non era d’accordo. In più era un bravo insegnante,
bastava non farsi distrarre dalle sue manie, ma io ero lì proprio per quelle, approssimativamente
per uno studio approfondito sugli esseri umani e sulle loro piaghe nascoste.
Forse perché mio padre era psichiatra, magari perché era una faccenda quella
che mi incuriosiva. Alla fine decidemmo di fare uno scambio, lui m’insegnava lo
spagnolo e io a lui il cinese mandarino.
M però del cinese se ne fregava e
voleva piuttosto sfogare le sue ansie i suoi timori ingiustificati, le sue
fobie. Mi disse che più andava dal suo terapeuta e peggio si sentiva. Cominciammo
a discutere sull’argomento. Lui aveva bisogno non solo di sfogarsi, perché se
io non gli costavo niente, con gli altri invece erano delle botte memorabili a
fine mese. Notai subito che a casa sua il discontinuo M diventava più lineare, spigliato
e assai loquace.
“Istintivamente daremmo più
fiducia agli psichiatri, perché la logica dice Mens sana in corpore sano,
perciò, come si può pensare al corpo slegato dal cervello e dal cuore, se tutto
ha sede là dentro? Lo so che in molti casi le varie parti tentano d’ignorarsi, o
fanno a botte, o si snobbano, fanno la guerra fredda… ma queste sono appunto le
anomalie, le malattie che si dovrebbero curare…” Disse scortecciando e poi
sbucciando a coltellate un ananas da condire al Maraschino. Cercavo di seguirlo
nei movimenti e nei ragionamenti. Manualmente piuttosto sull’imbranato, gli
schizzi arrivavano a un metro di distanza.
“Certo riempire un disgraziato di
medicine non risolve, ma rimanda il punto della questione, a essere affrontato
progressivamente o in un tempo posteriore. Forse sono però più realisti e
pratici degli psicologi, perché non ritengono di poter agire solo a parole, a
tattiche, a livello teorico per raggiungere risultati pratici.” Dissi e lui
approvò con un cenno appena… accennato.
Successe solo dopo diverse sedute
che lui confessò di essere uno psichiatra, solo che faceva anche altre cose tra
cui insegnare spagnolo e lezioni di origami, ma quest’ultime sempre meno. Aveva
aiutato maggiormente però i suoi allievi di spagnolo, nessuna sorpresa, come
lui stesso si trovava meglio con me che con quanti altri avesse provato, tutti
professionisti cari e rinomati. Secondo lui l’origami era per imparare a starsene
un po’ zitti e a far muovere le dita e le mani al posto della bocca, per far
respirare meglio anche il cervello, sempre oberato di funzioni, certo non tutte
fondamentali.
Passò poco tempo e le nostre due
ore erano già una conversazione scambievolmente gratis sul vago argomento del
più e del meno.
Dopo qualche mese, mettendosi la
mano sul cuore, M dichiarò che era ebreo, come se fosse quasi una colpa, allora
io contraccambiai e dichiarai che non solo non ero psicologo, e questo lui lo
sapeva già, ma andavo almeno da un anno da suo cugino, psichiatra e ugualmente
ebreo D, ogni due lezioni di cinese lui mi faceva una sessione scontatissima di
psicoterapia. Lui sorrise e disse che D era piuttosto avaro, ma che in sintesi quella
era una notizia irrilevante e poi aggiunse:
“Secondo me la vita non è da
interpretarsi come una battaglia, perché sennò lo diventa veramente e magari pure
quotidianamente, questo potrebbe anche risultarci sgradevole. Perciò dovremmo
renderci conto se quello che facciamo non sia per dimostrare qualcosa a
qualcuno, e anche se fosse per dimostrarlo solo a noi stessi, è meglio farci
una qualche attenzione. Dobbiamo capire se quello che facciamo non va oltre lo
scopo, cioè l’autostima è buona, ma certi deliri di onnipotenza oltre che
ridicoli sono negativi, prima di tutto per noi stessi, poi per chi ci
circonda.”
Strano ma vero: M rispettava anche
le feste comandate non ebree, per non irritare noi tedeschi. Alla vigilia di
Pasqua e prima di farci i reciproci auguri, prima di lasciarci, mi disse che il
signor J, del negozio all’angolo tra la Joachimsthaler e il Kurfusterdamm era
suo fratellastro. Unico suo parente europeo in vita, in America ne aveva di
lontani, a Tampa, ma non li conosceva o quasi. Non gli dissi che avevo dato
lezioni anche a lui, non molto tempo prima. Ora in negozio non c’era più e J si
era dedicato al giardinaggio in serra.
In seguito, magari una settimana
dopo, probabilmente parlando di lui mi disse:
“La parola
autismo deriva dal greco, il suo significato letterale è stare soli con sé
stessi. L’autismo non è un disturbo definito con certezza, ma un insieme di
alterazioni dello sviluppo cerebrale: per cui è preferibile usare la
definizione di disturbi dello spettro autistico.
I disturbi dello spettro autistico sono variabili da un
soggetto all’altro, tanto che si può dire che ogni bambino autistico è un caso
a sé.”
A questo punto avrei dovuto chiedergli conferma di cosa e di
chi parlasse, ma pensai che in seguito si sarebbe risposto da solo.
“Io e J lo sappiamo per
esperienza, che Adonai lo conservi diverso da me, forse io ne sono persino
ossessionato: la gente tende a ingannarsi, specialmente su sé stessa,
principalmente quando c’è bisogno di cambiare, soprattutto quando è veramente
importante fare il punto della propria situazione, magari chiamiamola vita, per
poter partire per una nuova e imprevedibile avventura sul globo terrestre.”
“Quello che si impara prima è a
ingannare noi stessi, di conseguenza gli altri. Sennò non funziona.” Dissi io.
Lui annuì pensoso.
“Ecco che quando il mio impaziente
e più anziano paziente dice che sta cambiando e che il suo livello di stress si
sta abbassando, fingo di crederci, ma vedo, nella sua pratica giornaliera, nel
poco tempo che passiamo insieme, che non è vero. Lo capisco benissimo, a quarant’anni
mi sentivo anch’io un po’ così, so perché si comporta con sé stesso esattamente
nella stessa maniera in cui dice di non comportarsi ai suoi pazienti.”
“Un altro professionista del
solito tipo?” Chiesi quasi affermando.
“In effetti. Secondo me è una roba
ciclica e che si morde continuamente e quotidianamente la coda. L’uomo è
l’animale con la maggior diversità tra individuo e individuo, ma finisce per
comportarsi come gli altri umani, del suo stesso ambiente o anche dove ha la fisiologica
tendenza ad arrivare. Abbiamo un istinto di imitazione assai sviluppato che
spesso si confonde un poco troppo con quello di sopravvivenza. Ma sarà vero che
facendo come gli altri ci si garantisce e ci si protegge di più per non
soccombere nella guerra di tutti i giorni? Sarà poi vero che imitando gli altri
e correndo dietro ai soldi come affermazione della nostra intelligenza e
capacità, non diventiamo completi imbecilli persi dietro a una luce del tunnel
che poi risulta più vicina a noi stessi, magari troppo, perché è proprio alle
nostre spalle, cioè da dove siamo entrati?”
Qui non sapevo che dire e non dissi
niente. Mantenni però lo sguardo fermo, tranquillo ma deciso, in una
riflessione simulata. Una tattica che avevo imparato da lui e da altri del
ramo.
“J ha un’incosciente paura di
finire troppo presto la sua vita e allora la velocizza, vuole approfittarne al
massimo, fa tutto rapidamente, riempie ogni spazio di iniziative secondo lui goderecce,
ma sempre da solo. Il lavoro gli succhia la maggior parte della sua giornata,
la sua ansia lo rende schiavo del tempo e dello spazio, perde molta qualità per
avere molta più quantità. Non è mai soddisfatto e quando stremato cade su un
letto, sviene.”
M spiegò che attualmente J
produceva e vendeva orchidee, alcune costavano un occhio della testa, altre la
testa intera.
“Senza riceverne compenso in
denaro, come io da lui non ne guadagno, anche lui m’interroga, tanto per
testare un tipo di sintassi della lingua che vuole imparare da me, ma in realtà
per controllare se io non presenti sintomi simili ai suoi o qualsiasi altra
cosa di carattere negativo o poco efficace, in generale, per una vita
politicamente corretta.
Figuriamoci!
A me pare che invece il mio atteggiamento sia
esattamente il contrario del suo, ma, forse e purtroppo, esagerato dall’altra
parte.”
Che io non ero ebreo lui lo aveva
già capito, ma io glielo confessai dopo qualche settimana ancora e lui annuì
sorridendo enigmatico, forse anche emblematico.
“Bravo. Apprezzo la sua onestà. La
mia tendenza degli ultimi anni è di attutire più possibile tutti i movimenti
violenti, le passioni forti, le emozioni che fanno battere il cuore oltre la
sua marcia normale. Perché sto vivendo così, ora, che so dominare meglio i miei
impulsi in maniera più cosciente ed efficace?
O forse sto solo controllando
meglio la mia parte nervosa perché non accetto più di porla sotto pressione?
Certo è che mi sono stancato della
mia vita di prima, troppo impulsiva e sregolata, troppo e sempre alla ricerca
di qualcosa che, in definitiva, esisteva solo se forzato dal mio ritmo di quei
tempi e doloroso poi nelle sue manifestazioni peggiori, ma purtroppo frequenti.
È sicuro che la mia vita di ora mi
piace di più, anche se la voglia di cambiare e di ricominciare tutto da capo,
ogni tanto, si fa viva.”
“Effettivamente…”
“Per esempio quando iniziava un
nuovo rapporto con una donna era stupendo, ma durava poco e poi il dolore di
perderla era forte, anche se non mi piaceva più ed ero io a lasciarla, perché
sono troppo sensibile per fare il gioco pesante, che poi assurdamente mi
piacerebbe più di quello leggero… questa è la verità, ma mi sento assai più in
colpa del necessario… e poi non ho più l’età adatta per ubriacarmi e fare a
cazzotti col primo che mi guarda negli occhi.”
“….”
“La misura ideale della colpa è
zero, la responsabilità è già una cosa completamente differente. D’altro canto,
vivere in maniera perfetta è un esercizio di disciplina fine a sé stesso, sia
perché la perfezione è cosa molto poco umana, sia perché si finisce per perdere
di vista il punto più importante, cioè il nostro piacere.”
“E poi - conclusi io - l’eccessivo
controllo nella vita, o meglio il suo sistematico ma vano tentativo, porta alla
pazzia.”
“Senza alcun dubbio. Il nostro
popolo però è complicato, aggiungerei se me lo chiedesse, più degli altri,
voglio dire.”
Non glielo
chiesi, ma non potei resistere e gli domandai piuttosto la differenza tra
giudei, ebrei e israeliti.
“Il
termine “ebreo”, di origine biblica, è fatto derivare dal nome di Eber,
discendente di Sem, antenato del popolo ebraico (Genesi 10, 21-25). La parola
ebreo significava “regione posta al di là”: gli ebrei provennero da un
territorio posto oltre l’Eufrate. La prima persona, nella Scrittura, a cui
venga riferito il termine ebreo inteso come appartenente al popolo, è Abramo,
in Genesi 14, 13: «Ma uno degli scampati venne a dirlo ad Abramo l’Ebreo,
che abitava alle querce di Mamre». Il termine “ebreo” può dunque riferirsi
a tutti gli appartenenti al popolo d’Israele dall’epoca patriarcale fino ai
nostri giorni.
Il
termine “giudeo” richiede un discorso più articolato. Innanzitutto è giudeo chi
anticamente abitava la regione della Giudea, con capitale Gerusalemme. Vi è
inoltre un significato più ampio, legato al suo corrispettivo astratto,
“giudaismo”, con cui s’intende la forma assunta dalla religione ebraica
successivamente alla conquista babilonese del territorio del Regno di Giuda e
la conseguente distruzione del primo Tempio (586 a.C.). I giudei delle tribù di
Giuda e Beniamino furono in gran parte deportati in Babilonia. Qui svilupparono
una forma di culto forzatamente nuova. I sacrifici, attuabili solo nel Tempio
di Gerusalemme, furono infatti sostituiti con una forma di culto più legata
alla parola e grande peso assunse l’osservanza del sabato. Queste scelte furono
mantenute anche con il ritorno degli esuli in terra d’Israele e con la
riedificazione del Tempio (536 a.C.). Con la distruzione del secondo Tempio si
rafforzò il giudaismo rabbinico. In questo senso, tutti gli ebrei vissuti dopo
l’epoca biblica sono, religiosamente parlando, giudei. Il termine
ebraico yehudì (giudeo) deriva dalla radice yadà (hodà) che
significa ringraziare.
Il
termine “israelita” innanzitutto significa, figlio d’Israele (Giacobbe), cioè
tutti i discendenti dei dodici figli del patriarca Giacobbe, chiamato anche
Israele (Genesi 32, 29). In secondo luogo “israelita” è un abitante del regno
d’Israele, costituitosi con la frattura del regno unitario avvenuta dopo la
morte di Salomone (ca. 922 a.C.) dove risiedevano dieci delle dodici tribù, escluse
Giuda e Beniamino. Con la conquista del Regno d’Israele ad opera degli assiri
nel 722 a.C., i suoi abitanti furono deportati o assimilati. Dal periodo
dell’emancipazione (XIX sec.), il termine “israelita” fu impiegato come
sostituto di “ebreo”. Oggi, per esempio, le comunità ebraiche locali sono
chiamate anche “Comunità Israelitiche”.
Il
termine “israeliano” indica esclusivamente un cittadino dello Stato d’Israele,
la cui fondazione risale al 1948.
Non
tutti gli ebrei sono perciò israeliani, né tutti gli israeliani sono ebrei.
Esiste infatti oltre un milione di israeliani (cittadini dello Stato d’Israele,
appunto) di religione musulmana e, in misura molto minore, israeliani
appartenenti a varie denominazioni cristiane e ad altre religioni.”
“Che Iddio li
abbia in gloria.” Dissi io a conclusione delle sue parole e lui mi guardò con
sospetto. Era una ruffianata e forse aveva ragione lui a guardarmi in quella
maniera.
Ma questo lo portò a un altro ragionamento, fece una lunga pausa, come se
volesse valutarmi per bene.
Solo dopo un minuto o due di
silenzio M chiese se il nostro rapporto di affari, cioè con suo fratellastro J,
era stato buono, se io avessi avuto con lui problemi o altro. Io pensavo che
non lo sapesse, che avevo dato lezioni anche a lui, gli spiegai che era stato
tutto ottimo e abbondante, dal mio punto di vista, probabilmente anche dal suo.
Mi domandò perché allora era stato interrotto e io glielo dissi, cioè che J non
mi aveva dato spiegazioni, all’epoca, ma questo era normale. Lui annuì e dichiarò,
quasi come se parlasse a sé stesso, che le lezioni di cinese si possono
concludere quando l’allievo non ne ha più voglia, se si trattasse di
psicanalisi sarebbe stato differente.
“J aveva smesso in pratica di
imparare il cinese, bisogna specificare, però mi raccontava i suoi sogni.”
“Tipo quello della balena arenata
nella spiaggetta in Patagonia?”
“Sì.”
“Lo sa, allora, che la storia
della balena riconducibile secondo lui alla moglie grossa e scura, che in
seguito sarebbe morta è un po’ più complessa di quello che sembra?”
“No, non lo sapevo, tra l’altro lui
diceva che poi lei sarebbe morta, sì, ma le cose non sarebbero migliorate.”
“Le cose non sono migliorate,
questo corrisponde a verità, ma la moglie non solo non è morta, ma non è mai
esistita.”
Allora M disse che era stato lui a
dirgli di sospendere le lezioni di cinese, che a quel tempo non mi conosceva
ancora, che gli avrebbe insegnato lui personalmente lo spagnolo, come se il
cinese e lo spagnolo fossero la stessa cosa. Intendeva dire che lui avrebbe
ascoltato i suoi sogni e le sue ripetizioni di proiezioni e intrinseche fobie,
avrebbe cercato di capire insieme a lui, senza che J dovesse spendere soldi e
mettersi in mano a una persona non qualificata. Però non aveva funzionato,
probabilmente perché era il suo fratellastro.
Poi disse che mi stimava e che gli
piaceva il mio metodo, se era frutto di esperienza e non di studi per lui era
meglio ancora. Ero una persona calma, intelligente e così via, dovevamo fare
delle sedute a pagamento con J, sarebbe stato intenso e proficuo. Propose un
prezzo, ragionevolmente alto, io accettai e fissammo la data e l’ora.
Prima che io uscissi mi raccomandò
più volte di non nominare mai la moglie e la storia della balena, dovevo
fingere che fosse la prima volta che la sentivo. Naturalmente io non ero
d’accordo, mi pareva che il problema andasse affrontato, prima o poi, lui disse
che avevo ragione, ma non subito, me lo avrebbe detto lui quando, io concordai.
Naturalmente come affrontarlo io non lo sapevo, M sapeva che io non lo sapevo,
questo gli dava un vantaggio che io al momento non seppi come valutare.
Chi pagava in denaro sarebbe stato
M, perché il contatto era nato in quella maniera e magari sarebbe continuato
anche così. M però aveva intenzione di andare a vivere in Spagna e si stava
anche preparando per svolgere il suo lavoro, trasferendo il tutto in lingua
spagnola, che lui parlava benissimo. La loro famiglia veniva di là, erano
Sefarditi.
Mi
spiegò che Sefarditi (Sĕfardīm,
dall'ebr. Sĕfārād, toponimo
biblico che nella tradizione giudaica è considerato equivalente a Spagna) era
una denominazione con cui si includono gli ebrei che dimoravano nella penisola
iberica fino alle espulsioni della fine del secolo XV, e i loro discendenti
fino a oggi. Attualmente i più notevoli gruppi sefarditi sono quelli della
penisola balcanica, in gran parte conservanti tuttora lo spagnolo come lingua
d'uso (che essi designano, specialmente nella sua forma letteraria antica, col
nome di ladino). Contrariamente gli ebrei
aschenaziti, detti anche ashkenazim, sono i discendenti, tradizionalmente di
lingua e cultura yiddish, delle comunità ebraiche stanziatesi nel medioevo
nella valle del Reno e successivamente anche in Europa centrale e orientale.
J in mezzo alle nostre sedute ci
si era trovato in mezzo senza nemmeno accorgersene, almeno così pareva, fidandosi
ciecamente del fratellastro, ma poi gli era piaciuto. Questo secondo le parole
di M, l’idea era di lasciare J in buone mani e sentire poi per telefono o per
email che cosa stava succedendo e come, da Tarragona.
Tutto si doveva svolgere a casa di
J.
Un appartamento enorme in un
vecchio palazzo sulla Gneisenau Strasse, quinto piano, senza ascensore, quartiere
di Kreuzberg 36, quello meno popolare e meno esotico. Le stanze erano grandi,
arredate in maniera spartana, con rari mobili e senza quadri alle pareti,
qualche soprammobile, forse di valore storico e vi regnava un ordine rigoroso. Lo
studio, che sembrava un’esatta copia di quello di M, anche nelle dimensioni. Era
piuttosto buio, arredato con mobili antichi e scuri, migliaia di libri, anche edizioni
antiche e poi due ampie finestre, però oscurate da pesanti tende verde marcio.
J era diventato pelato, la sua
bocca piena di regolari ma sproporzionati denti mi intimoriva, un po’ come se
mi avesse potuto mordere da un momento all’altro. Sorrideva ancora
costantemente, ma i suoi occhi non avevano alcuna luce. Sembrava che non mi
avesse affatto riconosciuto. O meglio, sembrava che fosse incapace di
variazioni di rilievo su quella sua maschera, che forse un giorno era stata una
faccia.
Durante la prima conversazione, metaforicamente
mi chiese di presentare il mio prodotto, da parte mia ignorai la domanda e non
gli risposi. In seguito mi sembrò che la mia omissione lo avesse completamente
soddisfatto, oppure che se la fosse subito dimenticata.
M esordì così:
“In
sintesi, se noi ne ricaviamo piacere, anche vivere come il mio fratellastro J è
bello e giusto, perché è qualcosa di assai fedele al suo carattere come è
attualmente, forse fra vent’anni sarà differente, si sarà stancato di girare
come una trottola, o forse no, ma l’importante è che ora gli piaccia veramente
di vivere come sta vivendo.
Le critiche possibili al mio e al suo
comportamento sono più o meno le stesse, eppure opposte: sarà che lui non sia
un poco schiavo, ora, di un modo di essere non scelto, ma conseguenza di un
altro precedente, o più di uno, nella sua agitata storia personale?
O per via del fatto che il suo
lavoro lo stressa e deve rifarsi da qualche parte di tutta la negatività che
inevitabilmente assorbe dai suoi pazienti, aggiunta poi all’ansia e
l’impazienza che ne derivano?
In più a questo, visto che lui sta
guadagnando tanti soldi, mi pare che allora non gli piaccia spenderli, che li
conservi Dio solo sa per cosa.”
J disse subito dopo, non come se
rispondesse a quello che aveva detto M, piuttosto come se parlasse tra sé e sé:
“Ed io, dall’altra parte, non sarà
mica che sto fuggendo dai pericoli, visto che quando vivevo in maniera molto
più agitata, c’erano diversi e contingenti problemi di uguale intensità, ma di
verso contrario, che mi facevano vivere in un costante allerta e non mi
riusciva di godere mai dei buoni momenti, temendo il peggio che stava
inevitabilmente per arrivare?
I soldi anche sono stati spesso un
fattore ambiguo: lavoro poco per guadagnarne altrettanto pochi, in ricordo di
quando guadagnavo di più e lavoravo di più, ero infelice ed incapace di godermi
quello che mi potevo permettere, perché ero più stressato?”
“Bene.” Dissi io, tanto per
mostrare che stavo attento.
“Con l’impazienza sto imparando a
conviverci, la sento, è sempre presente, ma bisogna saperla gestire, direi che,
da qualche annetto, sono più cosciente di quanto mi succede e mi piloto un po’
meglio, insomma.
L’ansia è una roba comune a tutti
gli esseri umani, non si può lasciarla indietro, o scioccamente pensare di
averla sconfitta definitivamente… ma certo si può controllare, se si vuole,
considerandola per quello che è, cioè un determinante dettaglio che ci viene
imposto dal nostro limite di tempo, siamo mortali e un giorno, magari non
troppo lontano ce ne usciremo di qua, più o meno come ci siamo arrivati.”
Aggiunse J.
Di nascosto registravo le loro
parole, un piccolo apparecchio nel taschino me lo permetteva con una certa
sensibilità, solo che quando parlavo io il volume era molto più alto. Per
fortuna parlavo poco. Pensai a quel discorso sull’autismo che un giorno M mi
aveva accennato, dicendo che ci sono vari gradi e classificazioni.
“Tutti abbiamo una scadenza sul
nostro pianeta e sugli altri anche, probabilmente, succede la stessa cosa. L’immortalità,
o forse solo un suo scambievole surrogato, si può anche raggiungere, magari con
l’arte, ma certo non è - e non sarà mai - come vivere per sempre.” Dichiarò M e
poi subito dopo una pausa ripartì.
“Per la reincarnazione, poi, è tutta un’altra
storia. Però, se i miei ragionamenti filano giusti, sarebbe la cura adatta per J,
se riuscissi a fargli credere alla reincarnazione, anche la sua ansia sparirebbe
come per incanto…
Ma per farlo, prima dovrei
crederci anch’io.
(io qui sospirai e si voltarono a
guardarmi)
Purtroppo, o per fortuna, se c’è
qualcosa che io e J abbiamo in comune, è il fatto di avere i piedi saldamente
per terra. Come faremo, allora, a credere alla reincarnazione?
J dice che per mentire, bisogna
avere la capacità di credere fermamente che quello che diremo sia la verità.
Qualcun altro, prima di lui, ha
detto: Il segreto del successo è la
sincerità. Quando hai imparato a fingerla, è fatta!
Io, invece, dico che qui sopra la
palla rotante nello spazio e nel tempo, non si può bleffare, tutto quello che
fai e anche quello che non fai, diventa parte di te stesso.”
Si poteva dire che la presenza di
M intimorisse J, lo bloccasse abbastanza, se confidarsi gli avrebbe certo fatto
bene, non lo avrebbe mai fatto con lui lì presente, parlante e rompente le
relative scatole di noialtri due.
Per fortuna, dopo dodici sessioni
più o meno simili, noiose e irritanti, a mio modesto parere più dannose che
utili, M partì. Nessuno si era offerto, ma non volle assolutamente essere
accompagnato all’aeroporto.
Alla prima seduta da soli io però ero piuttosto
nervoso, invece J parve molto più rilassato del solito. Mi guardava in maniera
strana e mi sentivo in difficoltà, in quella maniera per la prima volta con lui.
“Non sono
omosessuale, se è quello che sta pensando.” Mi scappò da dire. Rise e si sedette, tentai di sorridergli ma i suoi denti mi sembrarono particolarmente gialli e aggressivi.
Stavamo di nuovo
partendo con il piede sbagliato?
“Aha! Lo dicono
anche le scritture: l’intelligente ha gli occhi sulla testa! Vuol dire che
quello che si può far capire a un intelligente con un cenno, a uno stupido
bisogna farglielo sapere col bastone. Purtroppo o per fortuna neanche io lo
sono.” Minimizzò allegramente J, probabilmente rallegrandosi per la mia supposta perspicacia. Ma le sue parole mi suonarono false o strane.
“Pare una serie
di frasi che io abbia già udito, o forse solo letto da qualche parte. Sono
parole sue?” Gli dissi.
“Nooo! Magari!
Forse lei conosce Shalom Aleichem?”
“Non
personalmente, ma ne ho sentito parlare.”
Era una battuta, ma lui non la prese,
giacché quello era morto dal 1916. Non ce n’era bisogno, in quel contesto, ma J
partì con una presentazione formale dell’autore al quale era evidente che
teneva in particolar modo.
“Shalom Aleichem, o anche
scritto Alechem, pseudonimo di Shalom Rabinovic (1859-1916), fu per qualche
tempo rabbino, poi commerciante senza fortuna, prima di dedicarsi alla
letteratura. Cominciò a scrivere in ebraico ma passò ben presto allo yiddish,
lingua allora disprezzata, sotto lo pseudonimo di Shalom Aleichem (che in
ebraico significa “la pace sia con voi”). Shalom Aleichem è una canzone
tradizionale cantata dagli ebrei ogni venerdì sera al ritorno a casa dalla
preghiera della sinagoga. Segnala l'arrivo del Sabbath ebraico, accogliendo gli
angeli che accompagnano una persona a casa alla vigilia del Sabbath.
Scrisse racconti, articoli,
recensioni, opere teatrali e poesie in yiddish, ebraico e russo. In seguito a
un pogrom nel 1905, Alei000000chem si trasferì negli Stati Uniti. Iniziò poi a
girovagare per America e Europa e a riscuotere popolarità nel mondo. La storia di Tewje il lattivendolo ha
avuto una versione teatrale ed è diventato prima un musical, poi un film col
titolo Il violinista sul tetto del
1971.”
“Il film mi è piaciuto assai. E
anche la commedia con Zero Mostel.” Commentai e lui se ne rallegrò
visibilmente. Quel giorno parlammo di teatro, di cinema, di letteratura, di
giardinaggio, insomma in maniera piuttosto informale e gaia di tutto meno che
di lui e di suo fratello, del loro passato e questa, con il senno di poi, fu
esattamente la cosa giusta da fare, in quel determinato momento della storia.
Alla quarta seduta da soli però venne
fuori che anche J era psichiatra. Mi sentii rivoltare dentro, di questo non se
ne era parlato. Oltre al negozio che aveva dato in gestione, oltre alle
orchidee, che secondo M gli rendevano già assai, faceva quel mestiere da una
ventina di anni, a fasi alterne. Sia lui che il fratellastro ricevevano da ricevuti,
come me cioè andavano a casa dei loro pazienti.
Non mi potevo più tirare indietro,
ma alla prima occasione, cioè una videoconferenza riempii di indaganti questioni
e malcelati improperi il fratellastro. M se li assorbì tutti in silenzio, senza
reagire come temevo, poi si scusò, mi pregò di perdonarlo, ma se avesse detto
la verità io non avrei accettato e non c’era nessun altro a cui chiedere.
Avrebbe duplicato il compenso,
bastava dire una parola. Mia moglie L non me lo perdonò mai, ma io quella
parola non la dissi mai. Lei aggiunse poi, con calma, che M i suoi coglioncelli
se li sapeva scegliere bene assai. Ma
aveva torto, cioè non aveva affatto ragione e la storia non era ancora
terminata, i fatti mi avrebbero prima o poi dato retta.
J intanto si era
già trasformato, qualcosa si era risvegliato in lui e qualcosa intanto si era
assopito. Era diventato scherzoso e rideva in maniera contagiosa.
Da lui ispirato
ho inventato una terapia di relax di gruppo nei bar berlinesi, una volta alla
settimana per i pazienti asociali che non uscivano mai. J era il più brillante,
gli altri fingevano di ignorarlo, forse perché pareva l’unico a non aver alcun
bisogno della terapia, ma ogni tanto non potevano resistere e si scompisciavano
dalle risate.
Di solito andavamo al Marabù della Reichemberger Strasse, nel
quartiere di Kreuzberg 61, cioè quello più vicino al Muro, all’epoca pieno di
turchi e di comuni studentesche. Un localino piccolo e con sapienti luci
soffuse e giallognole, con degli enormi specchi, dentro spesse cornici scolpite
e dorate che non creavano riflettendosi delle ripetizioni di immagini delle
persone e degli oggetti all’infinito, giacché erano inclinati verso il basso. L’effetto
era di vedere sé stessi come in immagini di vecchi film.
Avevamo ottenuto degli sconti del
10 per cento per via che lo frequentavamo per tre giovedì al mese. L’altro
giovedì veniva scelto un locale su suggerimento di uno dei pazienti. La sera
alle 21, quando ci arrivavamo, il Marabù
era quasi tutto per noi, il giro vero cominciava quando noi ce ne andavamo,
verso le 11. Una caratteristica tutta sua era che si ascoltava solo musica di
Leonard Cohen, che essendo ebreo veniva accolta bene dal nostro tipo di
ambiente.
Quando J raccontava la sua vita risultava
così tragica da sembrare inventata e suo malgrado comica. Più cercavamo di non
ridere e più ridevamo. Lui alzava la voce e diceva cose ancora più tragiche e
perciò per noialtri più comiche. Ogni tanto interrompeva quando parlava qualcun
altro, si alzava e diceva la sua frase lapidaria a riguardo. Per esempio una
volta che C aveva dichiarato di essere l’individuo più buono del mondo, o
almeno il più generoso e altruista tra tutti quelli che avesse conosciuto, J si
alzò improvvisamente e disse: “L’uomo è
il primo prossimo di sé stesso - dice un proverbio ebraico - quando si è buoni con gli altri, si è
cattivi con sé stessi.” Guardandomi in faccia si rimise a sedere e tutti
risero, tutti meno C.
Un giorno J mi ha anche pregato di avvisarlo
se e quando avesse ecceduto nelle sue chiacchiere, che Iddio mi salvasse e mi conservasse sano e intelligente come pochi
altri o anche nessuno. Al che pensai che fosse meglio che non conoscesse
mia moglie.
Qualcuno
si metteva a parlare di denaro, di investimenti, di gioco in borsa ed ecco J di
nuovo e per niente a sproposito: Coloro
che investono monete sonanti su realtà incerte se non truffaldine, un giorno ci
porteranno via i nostri risparmi sudati e guadagnati con il lavoro onesto di
una vita, vecchio detto Polacco. Intorno, all’unisono, lo hanno piuttosto ignorato,
ridendo ma senza farsi notare.
Z
era una donna ricca, avara e altrettanto ebrea, ma amava il gioco e ogni tanto
perdeva delle cifre considerevoli e dopo si disperava per settimane. Una sera
che sedevamo all’aperto in una vecchia birreria del quartiere del quartiere di
Moabit, J si è alzato e ha detto una cosa che aveva a che fare con le precedenti
parole di Z, seppur indirettamente: L’uomo
che scommette i suoi soldi, dovrà sentirsi pronto anche a perderli tutti in una
botta sola, detto Lettone, ha fatto una pausa e poi ha aggiunto quasi
gridando: E ANCHE LA DONNA!! Poi si è seduto di nuovo circondato dalle
risate più indifferenti che mai.
V
parlava spesso di sua madre, una donna che si toglieva il pane di bocca per
darlo ai figli e cucinava così bene che il cibo sembrava sempre troppo poco. J una
volta si è alzato per interromperla e ha detto: Se la famiglia è come una pentola, la mamma è come il coperchio,
antico detto Giudeo.
In seguito ha pubblicamente
confessato di essere un esemplare vivente, forse unico al mondo, di autismo
logorroico, che tendeva ad allontanare gli altri proprio mostrando di volersi
insistentemente avvicinare parlando e parlando.
Le solite interiezioni e locuzioni avverbiali
tipiche ebraiche abbondavano nella bocca di J, solo che le faceva terminare
spesso in maniera imprevedibile, talvolta sfociando nel paradosso, rimanendo
serio come solo i grandi comici riescono a fare.
Per lui era facile, se non quasi fisiologico,
scherzava in maniera spesso involontaria e lo faceva parlando con la massima
serietà. Come per esempio quando gli arrivavano le lettere dei lontani parenti
che ha in America, a Duluth, che ogni tanto minacciavano di fare una capatina
in Europa, non solo per visitarlo. “Che Adonai
li conservasse prosperi e puri, nella sua personale e divina considerazione,
nell’alto dei cieli o dove volesse Lui, ma non qui.”
Non ama affatto
le armi, ma ha dovuto imparare a sparare decentemente, obbligato dal suo
fratellastro M, nella vita non si sa mai, la morte è sempre in agguato e un
ladruncolo qualsiasi può sempre approfittare della tua nobiltà d’animo, che a
volte si chiama anche ingenuità.
Sta tentando insistentemente
d’insegnarmi l’ebraico con risultati deludenti, almeno per ora, ma mi sto
impegnando, anche perché ha dei libri antichi che mi sembrano intriganti, non
solo a livello storico.
Impara a memoria
frasi di scrittori famosi o filosofi, spesso cita Joseph Roth, anche se talvolta
a sproposito, la sera quando mangiamo o quando prendiamo il tè in giardino. Il
suo libro preferito è L’ebreo errante:
Anche fra i
venditori ambulanti esistono differenze di rango. Vi sono ricchi e potenti venditori
ambulanti, di fronte ai quali i piccoli levano lo sguardo con grande umiltà.
Quanto più è ricco un venditore ambulante, tanto più guadagna. Non va in giro
per le strade. Non ne ha bisogno. Non so nemmeno se posso veramente definirlo
«venditore ambulante». In realtà ha un negozio di vestiti usati e una licenza
d’esercizio. E se la licenza d’esercizio non è sua, sarà di un residente, di un
cittadino berlinese che del commercio dei vestiti usati non capisce niente, ma
ha in compenso una percentuale sugli affari.
Mio
figlio Y, il famigerato hacker di Charlottenburg, privo di ogni tipo di paura,
come anche di scrupoli on-line, ha scoperto dopo un anno di mie sedute da solo
e in compagnia con J, che M in Spagna non c’era mai andato, aveva solo cambiato
casa e viveva a Wannsee, quartiere altamente residenziale di Berlino.
Mia moglie L, oltre a ripetere la sua solfa,
cioè che ero il solito imbecille, ha anche commentato più volte che era chiaro
che M lo aveva fatto per il bene di J, che finalmente non sentendosi più
protetto, ma anche tarpato dalla sua ingombrante presenza, era uscito da quel
suo stato di autismo logorroico e ora è solo logorroico.
Ce
ne è voluto per capirlo, ma la balena era proprio M, ingombrante e scuro,
arenato in una spiaggetta calma, intorno quel mare che continuava a essere in
tempesta. La profetica Patagonia ora evidentemente era rappresentata da Wannsee,
la sua casa proprio in riva al maggior lago di Berlino.
Quando M è morto a J non gliel’ho
detto, ho cercato di farcelo arrivare per gradi, ma lui al volo mi ha fregato e
lo ha sentito subito. Dopo però ha avuto grosse difficoltà per parlare, è
rimasto pressoché muto per qualche tempo, facendomi temere il peggio, naturalmente
io non sapevo cosa fare e ho ricominciato a insegnargli il cinese. Non si
interessava molto, si manteneva su un mutismo quasi assoluto, ma almeno così
non storpiava la pronuncia come al suo solito.
Mia moglie L però, quando ha saputo
che una bella fetta di eredità l’avevo ricevuta io, ha smesso di dirmi che ero
un cretino, comunque solo provvisoriamente. È
vero che sbagliando si impara, ma non sempre e tutti ci riescono
immancabilmente. L spesso dice che io sono la debita eccezione alla regola. Confesso
che in qualche frangente ho perfino ammesso di fronte a lei di aver fatto un grave
errore invitando J a vivere da noi, anche se poi, dopo qualche necessario mese
di laborioso assestamento, alla fine siamo andati noi ad abitare da lui a
Wannsee.
Non avevo nessun
dovere, in questo senso, ma dal canto suo J ha saputo farsi benvolere, è dotato
di una grande pazienza, parla volentieri e a lungo con mia moglie e con i miei
figli, forse più di me.
Anzitutto nel
suo servizio agricolo ha preso in poco tempo tutto il lavoro in mano sua, in
linea di massima lasciando a me le altre cose, l’ordinario bricolage, salvo
aiutarci a vicenda in caso di bisogno. Naturalmente anche tutta l’alimentazione
delle bestiole domestiche, o da noi addomesticate, era ben presto passata a suo
carico. Ha venduto il negozio e mandato a quel paese le orchidee, secondo lui
dei vegetali piuttosto animaleschi. Fare lo psichiatra non gli era mai piaciuto,
era stata un’idea di M. Inoltre ha nominato mia moglie amministratrice unica
dei suoi beni, conquistandosela definitivamente.
Nonostante l’età
avanzata J ha imparato presto a fare i lavori necessari per la nostra
sopravvivenza da vecchietti nel nostro grande parco botanico e orto biologico di
Wannsee. Gli è stato facile, fisicamente sta bene, anche se la terra è bassa,
per lui stare curvato non è un problema come per me.
L’ebreo classico
di Roth è errante non solo perché vaga per il mondo, ma anche perché erra, nel
senso che sbaglia, e sbagliando con una certa abbondanza impara anche assai. A
sbagliare sono bravo anch’io, secondo L, mia moglie, a imparare invece sono
piuttosto duro. Piuttosto il mio grande talento è che so ascoltare quando uno
parla e non fingo, come fanno in tanti, m’interessa veramente e accetto i consigli
di chiunque a patto che me ne diano con garbo.
Si è scritto e parlato tanto
sull’interpretazione dei sogni, ma secondo me nessuno ci ha ancora capito
niente, tirano solo a indovinare, fanno di tutta l’erba un fascio.
Sognando o meno, sfoltita
all’estremo, però la lezione di Freud e Jung è che la gente ha bisogno di
parlare, di confidarsi, di sfogarsi.
La solitudine non consiste nella fisica
mancanza di qualcuno al tuo fianco, ma spesso è l'impossibilità di comunicare
veramente con qualcuno, e magari anche che quel qualcuno non può essere
chiunque.
Secondo J anche nelle sacre
scritture la vita è rappresentata come una lunga ricerca, pur se talvolta o
anche spesso, noi non sappiamo di cosa.
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