A Berlino la cultura occidentale e quella orientale si fondono in una atmosfera remota, ma ancora tangibile di guerra e distruzione, di spie e di qualcosa d’intermedio e segreto, per arrivare al moderno di oggi, a seguito della ricostruzione, dopo i bombardamenti. Quello della comunità edilizia essenziale e funzionale, ma anche artistica della Bauhaus, dei quartieri di casermoni con un certo futuristico design costruiti su progetti dei grandi architetti come Gropiusstadt e poi l’Hansa Viertel fatto di edifici ognuno pensato e disegnato dai nomi importanti dell’avanguardia.
Uno di questi aspetti del passato
che vengono dall’oriente è la Kachelhofen,
che esiste solo in paesi freddi, negli ex paesi comunisti di ex oltre cortina,
ovviamente nella stessa Russia e consiste in un enorme parallelepipedo di tre
metri di lunghezza, per due metri di altezza, per uno o più di larghezza. Cioè
a dire una monumentale stufa rivestita di mattonelle, a volte variopinte e
stampate, oppure di un unico colore, che scalda un grande appartamento e si
alimenta di carbone. Nelle comunità di studenti, che affittano questi grandi
appartamenti, ovviamente Altbau, cioè
vecchi edifici, ognuno con la sua camera e con i servizi in comune, spesso ce
ne è una. Ne parla lo stesso Bulgakov nel romanzo La guardia bianca e per la prima volta me lo sono trovato in uno di
quei magnifici appartamenti delle case resistite ai bombardamenti, nei quali si
vede ancora quel tipo di architettura sobria e spartana assai simile a Praga, a
Budapest e a Mosca, oltre che a Berlino.
D’estate mi trovai a passare in
macchina dal parco di Tiergarten, di fronte al Reichstag, palazzo del governo,
credo fatto costruire da Hitler. Era notte e vidi delle luci rotonde e colorate
in mezzo agli alberi. Non avevo bevuto né fumato. Mi fermai e sentii una musica
lontana che veniva proprio dalle luci ognuna di un colore diverso, in mezzo
agli alberi. Mi avvicinai seguendo la bellissima musica strumentale che veniva
da enormi casse acustiche, ognuna aveva una luce colorata rotonda in alto,
ognuna di un colore differente. C’era altra gente che si godeva quella
sensazione, mi resi conto che da ogni cassa veniva uno strumento differente,
una qualità di suono incredibile.
Lessi poi dalla rivista Tip che
recensiva o semplicemente annunciava i tanti spettacoli quotidiani della città
di Berlino, che quella era una dimostrazione stabile, per una settimana, della
musica dodecafonica, 24 ore su 24.
D’inverno mi è capitato di fumarmi
una canna o due in concomitanza con diversi tipi di alcolici e camminare senza
meta per un viale alberato in mezzo a degli edifici alti e moderni del quartiere
di Kreuzberg, in prossimità del Muro, non lontano dal Checkpoint Charlie. Ero
abbastanza cotto ed era anche assai freddo, era notte tardi, o quasi mattina e
in giro non c’era nessuno. A un certo punto vidi un gigante alla fine della
strada, dove si allargava in una piazza. Non mi preoccupai, nello stato
comatoso in cui mi trovavo, di altro se non di andare a vedere da vicino.
Camminavo senza fretta in quella direzione e non mi passò nemmeno per la testa
che fosse una situazione surreale o che potesse in qualche modo essere
pericoloso. Mentre percorrevo quei cento o più metri che mi separavano dal
gigante, dentro di me formulai varie ipotesi, più o meno improbabili o
demenziali, su chi o cosa fosse quel mastodonte. L’illuminazione era scarsa, la
visuale frammentata dagli alberi e oltretutto quella creatura mostruosa
rimaneva immobile, sembrava proprio che mi stesse aspettando. Nel mio stato
fuori di testa mantenevo una certa lucidità per cui pensai che assomigliasse a
un Jeeg Robot di Acciaio o a un Atlas Ufo Robot, però con sembianze meno
meccaniche e più umane, doveva essere altro almeno una decina di metri. Non era
un’allucinazione, anche perché quelle durano poco e quello invece non aveva
nessuna fretta, mi aspettava veramente a piè fermo, là in fondo. Ci volle
qualche minuto per arrivare abbastanza vicino da capire che quella era una
statua enorme, che non avevo mai visto, perché non ero mai passato da quella strada.
Sentii una specie di sollievo, in senso generale e me ne andai a casa e poi
tranquillamente a letto.
Me ne ero andato da casa perché
l’Italia mi aveva stancato, ora mi accorgo che non avevo la più pallida idea di
che cosa fosse, per la piccola parte che ne conoscevo. C’è un’Italia nascosta
che non entra che per caso nella televisione, magari in caso di terremoti o
calamità naturali, un’Italia piena di brava gente, specialmente quella dei
piccoli centri, dei paesi.
Mi vergogno a dire che pure la
compagnia dei nonni non mi sembrava più tanto bella, e anche qui parlo al
passato. Forse avevo solo bisogno di capire cosa c’era intorno, per apprezzare
di più quello che avevo dentro.
Ho lavorato in un ristorante
italiano a Berlino, per un anno e più, poi sono passato alla Benetton, dove ho
conosciuto Nando e lì è cominciata la storia della droga, sempre più pesante,
sia la storia che la droga.
Tanto
per rendersi conto di chi avevo intorno, questo è stato un dialogo indicativo
tra Nando detto Pappo e Grzegorz, detto Gregorioski.
“Scusami tanto Grzegorz, ma tutti voi siete un
po' troppo lacchi!”
“Lacchi?
E che significoski?”
“Vuoi
forse negare le tue cazze di origini?”
“No,
ma che c'entra?”
“C'entra,
c'entra... tanto per cominciare avete abolito le vocali e i vostri nomi, come
il tuo, come cazzo si pronunciano?”
“Grzergorz.
Così. Magari tu spiegati meglioski!”
“Te
l'ho detto e ridetto: per i miei gusti sei un po' lacco!”
“Ti
piace giocare con le parole e già che ci sei approfittare della mia scarsa
conoscenza dell’italianoski?”
“No,
sei un po' troppo lacco per i miei gusti e questo non ha niente a che fare con
la lingua italiana! Avrei preferito che tu fossi un po' meno lacco.”
Grzegorz
torna con un elenco telefonico e fingendo che sia un dizionario, legge:
“lacco s.
m. [lat. tardo dei glossarî laccus,
che è dal gr. λάκκος «cavità,
fossa»]
(pl. -chi).
– Voce dei dialetti merid. per indicare un avvallamento di terreno. Compare
anche in toponimi, per es. Lacco
Ameno nell’isola d’Ischia.”
“Un po’ troppe sigle e abbreviazioni per i miei
gusti, ma dimentichi che ci sono anche i gerghi, i dialetti, i modi di dire!”
“Allora che significa LACCO?”
“Hai presente la lacca?”
“Quella per i capelli?”
“No, quella rossa, dura, usata spesso come sinonimo
di gommalacca.”
“Allora vuoi dire rigido?”
“In un certo senso, ma lacco rende meglio l’idea e
si sposa meglio con il testo della frase un po’ lacco per me è meglio di
un po’ rigido, non ti pare?”
“No, e vaffanculo!”
“Allora non sei un poco, ma molto lacco!”
Grzegorz
era di Minoga, una cittadina vicino a Cracovia (Krakow), ma aveva vissuto in
Italia. Nando era di Grado, un’isola di laguna, tra Venezia e Trieste. Lavorava
anche lui da poco alla Benetton, era vetrinista e io una specie di jolly, nel
senso che riempivo i vuoti nei negozi, ma lavoravo perlopiù in magazzino,
facevo gli spostamenti della merce, a volte le statistiche, altre volte
lavoravo addirittura alla cassa.
Era
un grande vetrinista, Nando, le sue erano vere e proprio opere di arte, solo
che ci metteva delle settimane e quando lo cercavi era sempre in bagno e là
dentro sembrava immancabilmente un po' nebbioso e puzzolente.
Aveva
sempre dietro i capi a fargli una pressione forsennata, che però lui non
sentiva, anzi, ogni tanto, se insistevano troppo, in quel loro per lui assurdo
tipo di ragionamento, li mandava anche affanculo.
Non
ci misero troppo tempo a mandarlo affanculo loro, cioè a licenziarlo, ma ormai
eravamo amiconi, lui era di una simpatia fenomenale quanto involontaria, quello
era il suo difetto maggiore e la sua più grande virtù.
Di
nome sarebbe stato Fernando poi diventato Nando, poi Pappo, così si era
autonominato quando da piccolo non riusciva a pronunciare bene le parole, in
genere a quell’età si parla di sé stessi alla terza persona.
Era
grassoccio, vestiva jeans larghi, i suoi liquidissimi occhi neri erano costantemente
nascosti dalla zazzera ondulata. Li scopriva solo in situazioni straordinarie,
come di sorpresa, come quando qualcuno faceva qualche dichiarazione per lui
sorprendente. Senza nemmeno capire la situazione, non avendo ascoltato quello
che si era detto prima, glieli faceva strabuzzare. Oppure quando perdeva il
nostro gruppo, nella confusione combinata di gente del centro notturno di
Berlino e di luci stroboscopiche nella sua testa. Allora ci correva dietro, a
tutta velocità, con tutte e due le mani a tenere su la frangia e gridando come
una signorina isterica. Tutti si giravano a guardare increduli.
Il
punto debole del suo carattere erano le canne, almeno inizialmente, di cui: la
prima se la faceva ancora a letto, appena sveglio; l'ultima sempre prima di
andare a letto, o molto prima, il materiale terminava in genere prima di quello
che avrebbe voluto. Piuttosto non mangiava, ma doveva sempre avere della
robetta in tasca di quei jeans larghi, che dopo, poi, ci rimaneva pochissimo.
Bisogna
dire che in quell'epoca, a Berlino, non ho conosciuto nessuno, ma proprio
nessuno, che non fumasse e/o bevesse a ruota libera. Pappo però era esagerato,
anche per quelle esagerate longitudini.
Una
volta, di notte, dentro la mia macchina perse un pezzetto di hashish, secondo
lui più piccolo che un’unghia di mignolo di bambina. L’automobile quasi me la
smontò, senza risultato, continuando a ripetere che non c’erano problemi, a lui
non gliene fregava proprio niente, ma non riuscivamo a farlo smettere e a
venire via.
Strano
a dirsi, ma forse per via della malinconia del nord, o del centro umido dell’Europa,
insomma della guerra fredda… mi attaccai a Nando e al suo gruppo di amici
sballati, come mai mi era successo in Italia e quella fu la mia rovina.
Cercai anche di scappare, ma lui
mi venne dietro, a Praga cercai di ribellarmi debolmente, non durò molto tempo
nemmeno, poi passammo a cose anche peggiori delle precedenti, se possibile, perdendo
il senso dello spazio e del tempo.
Ricordo però il freddo e la neve
sul Ponte Carlo (in ceco Karlův Most) e
che birra in Ceco si dice Pivo, che il plurale ha una terminazione differente
della parola dopo due.
Vicino a Praga, e attorno nella
Repubblica Ceca, sulla nuda terra d’inverno si notano delle lugubri strutture
fatte di pali tre metri e di lunghi fili di ferro che li collegano e scendono
poi fino al suolo, per chilometri salgono e scendono lungo la strada e non si
sa a cosa servono. D’estate però vengono completamente nascosti dalle piante
rampicanti di luppolo che servono per produrre la birra, indubbiamente tra le
migliori del mondo, anche per la ottima qualità dell’acqua del luogo.
Del viaggio verso l’India, sei
mesi dopo circa, non ricordo niente o quasi. Con quali soldi ce lo siamo pagato
poi, meno ancora, forse erano soldi di Nando e quindi di suo padre. Non so
quanto tempo ci siamo rimasti. Ci hanno ripescato e riportato a casa di forza,
gente del padre di Nando, uno pieno di soldi, che appena si conosce si capisce
perché Nando è diventato Pappo.
La
fase del recupero in comunità mi è servita forse per dissociarmi, ne avrei
anche fatto a meno, se me lo avessero chiesto, ma è stata utile per capire che
ero solo stato fesso e che non era troppo tardi.
Tecnicamente
non sono mai stato un drogato, non me l’hanno detto direttamente, ma io l’ho
capito dai loro discorsi, quelli la verità direttamente non sanno come si fa a
dirla. Però, secondo i medici e gli psicologi, ho letto tra le righe orali. Insomma
ho solo seguito gli amici e se invece di tossicodipendenti fossero stati
appassionati di ornitologia, di tiro con l’arco o manovratori di aquiloni lo
sarei diventato anch’io.
Madre
di Mologno e padre di Gallicano, sono ancora giovane e anche se non Garfagnino
del tutto, lo sono almeno a metà. Non avendo più genitori utili, nel senso che
nessuno dei due teoricamente a disposizione, meno ancora in pratica, separati e
divorziati che fossero, avesse capacità o voglia, in sufficienti dosi, per
occuparsi di me, hanno pensato bene di spedirmi dai nonni materni a Solignana,
dove ero cresciuto fino ai dodici anni e mi hanno fatto un gradito favore. Quella
era la parte sana di me, la montagna e la compagnia di quei due che già oltre i
novant’anni se ne fottevano della vecchiaia e del mondo, si arrangiavano ancora
da soli ed egregiamente direi.
Loro
sì che hanno fatto una vita sana, altro che droghe, tutto il contrario di me, certo
un po’ di senilità ce l’hanno anche nonno e nonna, non si scappa, ma la loro
compagnia è un antidoto per me, per farmi capire meglio di come si potrebbe
ancora vivere, se tu non fossi un debole, o se attorno te lo lasciassero fare.
Se non insistessero per farti stare di male in peggio, come loro stessi insomma,
ci siamo capiti. Al mondo bisogna avere la capacità di cambiare marcia, di
voltare pagina, ma non te lo insegna nessuno, devi imparare da solo.
Comunque
la psicologa Martina Setti viene a farmi fare un po’ di sedute da quando sono
qua, e mi rendo conto meglio di come sono e di quello che faccio, quando parlo
con lei. Credo di aver inteso che voglia capire se sono pronto a ricascarci e quello
anch’io vorrei saperlo. Con il tempo lei mi pare anche sempre più bella, strano
che all’inizio mi sembrasse scialba, forse perché non usa trucco, neanche il
rossetto.
“Chi
sta pagando per tirarmi fuori dai guai?” Le ho chiesto il primo giorno.
“Beh…”
Non ha risposto lei.
“Com’è
che tutt’a un tratto c’è qualcuno interessato a me? Non mi pare di essere così
importante per nessuno. E poi questo ha un costo, no?”
“Effettivamente…”
“Un
qualcuno che mi conosce bene, che sa che con i nonni, visto che è qui che sono
cresciuto, sarebbe la mia via più libera e facile.”
“In
effetti…”
“Ci
sarà un prezzo da pagare, dopo, immagino…”
“No,
questo no.”
“È
il vecchio di Pappo, mi sbaglio?”
“L’unico
con i soldi.” Ha finalmente ammesso Martina.
“E
allora perché non è uscito anche Pappo?”
“Non
è ancora pronto.”
“Ah,
e secondo voi, un giorno lo potrà mai essere?”
“Forse.”
Mi
piace fare il duro, ma lei ha capito subito che invece sono molle e mi guarda
come se mi domandasse fino a quando dovrò continuare a fare questa sceneggiata,
che intanto lei non s’impressiona di sicuro, il suo mestiere consiste anche in
questo.
Mi
chiede le dannate riflessioni libere, certi rapporti informali, a voce, su
quello che ho fatto in quei giorni e i miei pensieri conseguenti. Mi piace quando,
dopo un po’ che sono partito, mi pare che sia un altro a parlare e non io, non
mi era mai successo. E lei che mi ascolta e mi guarda negli occhi ogni tanto,
perché se mi guardasse sempre m’influenzerebbe, credo di aver inteso, magari in
quello che sto per dire. Martina è bravissima, senza mai perdere la pazienza,
mi fa parlare per un’ora, non ce l’ha mai fatta nessuno, e per due volte alla
settimana, che mi sembra che quelle cose, che racconto e commento, prendano un
senso solo poi, solo dopo averle dette. Ci ripenso, le riascolto dentro di me e
mi garbano quasi.
“Non
mi piace la modernità, sono contento di sentire il campanile della chiesa che
suona le ore e le mezzore, mi fa sentire umano, romantico, attaccato al
passato, alla mia storia, per brutta che sia non è stata sempre così. Vado nel
bosco a fare camminate lunghe, in mountain-bike su per i viottoli di montagna,
fare delle docce dopo e stendermi sul letto, sto facendo un po’ di pulizia, di
mente locale insomma.
Se
l’avessi fatto prima non mi sarei trovato in queste condizioni.
Il
nonno non dice niente, ci sediamo a tavola, con la televisione accesa e la
nonna, che cucina, ogni tanto dice qualcosa, ma lo fa tanto per riempire quel
silenzio pieno di TV e di pensieracci di noi tre, non dice niente d’importante,
parla di cavoli, lenticchie, pulcini, vacche e capre, ma è bello che dica
quelle cose lì. Il nonno quasi non apre bocca, se non per succhiare la zuppa
senza denti o quasi, ma dagli occhi ogni tanto escono faville.”
“Il
vino lo bevi?”
“Sì,
un po’, non devo?”
“No,
no, bevi pure, basta non esagerare.”
“No,
non voglio neanch’io, un bicchierotto ogni tanto, per far piacere a nonno
Michele.”
“Bravo,
ma te ci ripensi spesso a quando eri piccolo qua?”
“Certo,
continuamente, mi ricordo l’estate con i grilli che ci assordavano. L’inverno
con un freddo che non si sapeva se era peggio fuori o dentro.”
“Andavate
giù al fiume?”
“Sempre,
si pescavano anche i pesci con le mani in estate.”
“E
come si fa?”
“È
facile: i pesci vanno sotto i sassi grossi, in estate, specialmente quelli che
emergono e si scaldano al sole, allora si mettono le mani sotto e si sente al
contatto la pelle del pesce, quindi - tenendolo appoggiato alla pietra - si
tira fuori dall’acqua piano-piano fino a mantenerlo tutto in mano, o in due
mani, ma si tratta sempre di pesci piccoli, o medi, mai grossi. L’inconveniente
potrebbe essere quando invece del pesce c’è una biscia d’acqua, ma capita
raramente.”
“Roba
da brividi.”
“A
me non è mai successo. Comunque.”
“Se
te lo domandassero, diresti che hai avuto un’infanzia felice?”
“No,
non lo so. Forse sì, di sicuro scorrazzavamo come matti fino a notte, io e i
ragazzetti che abitavano qua attorno, ora tutti perduti lontano da qui. Di
limiti ce ne erano pochi. E questo è bello. Anche se i miei non c’erano quasi
mai, i nonni sono i miei veri genitori.”
“Perché
poi sei venuto via?”
“Si
erano sentiti in colpa forse, l’idea era di mia madre, penso di aver inteso, volevano
giocare a fare i genitori, avere una seconda occasione, robe del genere, dicevano
che le cose erano cambiate, ma forse era in peggio. Non è mica facile dirlo e
iniziare a essere come non si è mai stati prima…”
“Almeno
tu hai i nonni…”
“Certo,
sono fortunato e lo so, Pappo invece ha tutti e tutto, eppure non ha nessuno, sua
madre parla e parla, senza dire mai niente, suo padre è solo capace di tirare
fuori retorica e bigliettoni…”
“Ma
li ha tirati fuori e li sta tirando anche per te…”
“Lei
quello non lo conosce, c’ha un suo piano, per niente non fa niente. Ma io lo so
perché mi ha tirato fuori.”
“Ah
sì?”
“Ovvio,
vuole che faccia da calamita per Pappo, che ne so, fargli fare, per me, quello
che Pappo non ha nessuna intenzione di fare per sé stesso…”
“E
tu hai intenzione di farlo?”
“No.
Non lo so. Forse. Vediamo.”
Non
le dico che prima pensavo di tradire loro, gli amici, se non mi facevo come
loro. Ora invece sono sicuro che ho tradito me stesso, o a rotazione che loro
hanno tradito me a farmi prendere quella roba. Ma lei lo capisce da sola, mi
chiede delle cose per capirne altre. E io sono sincero con Martina perché lei
lo è con me, e non fa certo parte del suo mestiere, ma forse è la sua maniera
di lavorare, o di esistere, senza falsità e allora mi garba. In questi anni
l’unica cosa che ho imparato è come si scopre quando qualcuno mente e perché.
D’accordo, se lo dovessi insegnare a qualcun’altro non so come glielo
spiegherei, ma lo so fare, istintivamente ed è questo che conta.
“Un
ricordo in particolare che ti viene in mente?”
“La
casa dei nonni è un museo vivente, lo vede da sola, da quando sono nato io a
ora qui dentro non è cambiato niente, sì, ci sarà qualche soprammobile in più o
in meno, ma i mobili sono quelli e la stufa e le tende, la cucina economica
eccetera…”
“Raccontami
qualcosa allora, una giornata particolare del passato remoto.”
“Una
volta io e il nonno siamo andati a pescare, me lo ricordo bene perché è stata
la prima volta, a un certo punto lui ha deciso che era ora di insegnarmi e
siamo andati lì sotto, dove il torrente fa una pozza più grande, alcuni lo
chiamano il fiume ma secondo me
diventa un fiume assai dopo, entrano altri affluenti e allora sì, ma qui di
acqua ce n’è poca, quindi siamo scesi giù con tutta l’attrezzatura che erano
due canne di bambù e due lenze, i vermi mi ha insegnato a trovarli sotto le
pietre che sotto erano bagnate…”
“Avete
pescato delle trote?”
“No.
Niente.”
“Perché?
Non ce ne erano di trote qui?”
“Troppe
non ce n’erano, ma c’erano e ci sono ancora. Il nonno mi ha spiegato che le
trote vedevano noi e noi vedevamo loro, quindi non era una cosa buona, le
mettevamo in allarme e quelli sono pesci intelligenti.”
“Allora
come si fa a pescarle?”
“Ci
sono tanti trucchi.”
“Per
esempio?”
“C’è
un allevamento qui vicino, sono amici del nonno e quando le portavamo a casa ancora
vive la nonna si sorprendeva, cioè faceva finta, ma lo sapeva benissimo, le
trote di allevamento sono diverse…”
“Cioè?”
“Sono
Trote Iridee, importate dagli Stati Uniti, sono più grosse e più sceme. Che
sono sceme non si vede a occhio nudo, va bene, ma sono anche più tozze e
colorate, nei fiumi di qua non ci sono. Le trotelle del torrente invece sono di
marca Fario.”
“Ma
allora dov’era il divertimento?”
“Il
divertimento era stare qualche ora seduti a guardare il galleggiante, che a
volte sembrava che andava sotto e invece era la corrente, o l’amo si era
incagliato sul fondo, c’era un ramo sommerso attaccato o qualche altra
porcheria…”
“Bello.”
“Sì.
Insomma, il fatto è che stare con il nonno era bello, come è ancora se riesco a
farmi passare lo stress, la vergogna, non lo so, ma so solo che sarà bello di
nuovo, basta fare un po’ di rodaggio insomma. Una cosa è stare seduti a un
tavolo e guardarsi in faccia, ma con lo sguardo sul galleggiante vengono fuori
delle storie migliori. Ci si sente più a nostro agio, reciproco, voglio dire.”
Martina ha sorriso e ha chiesto:
“Otello
mi devi dire una cosa sola: perché prima hai rifiutato, poi tutto a un tratto
hai accettato il soccorso e ti sei gettato nelle nostre braccia, come se fosse
stata la cosa che avevi sempre sognato?" Ci ho pensato un attimo, forse poi
mi sono vergognato di essermi vergognato e ho confessato.
“Perché
ho letto quell’articolo sul giornale, quello di Coso e Cosa, lei non l’ha letto? Sul giornale di Fornacette.”
“No,
eppure lo leggo spesso, quale articolo?”
“Glielo
vado a prendere. Tanto i nonni sono giù nel pollaio… non vorrei che lo
vedessero sa…”
Con
poche ore di differenza, lo scorso giovedì sono morti Coso e Cosa, i veri nomi
se li erano dimenticati qualche anno fa, negli ultimi tempi non parlavano
neanche più, in una fase di transizione si chiamavano a vicenda anche Mamma,
Babbo, Mammo e Babba, come capitava.
L’alzheimer
è una malattia che complica altre malattie per cui anche la più innocente
manifestazione corporale come la saliva prodotta in superflua abbondanza
diventa un pericolo, che può soffocare i poveri impazienti e va aspirata con un
apposito apparecchio, che si prende a noleggio in farmacia, a un euro al
giorno. Bisogna vegliare la notte per combattere attacchi improvvisi di saliva
molesta, che diventa anche solida e gialla, minacciosa e quasi marroncina.
Ottenere
l’invalidità è stato un provvedimento lungo e difficile, sia per la burocrazia
insensata che per l’ignoranza dei figli, per la strana attitudine che hanno
certe famiglie a lavare i panni sporchi di nascosto, anche quando non hanno più
detersivi, pannoloni, forza fisica, né determinazione.
Sono andati avanti così per anni e anni, sembrava che
andassero indietro, abbrutendosi progressivamente fino a tornare all’età della
pietra. Per imparare a vivere non c’è niente che valga come la vita stessa, che
ci propone sempre nuovi quesiti e decisioni, difficilmente efficaci risposte e
soluzioni. Le lezioni quelle magari servirebbero, se i prossimi ostacoli
assomigliassero almeno un poco ai precedenti.
Se non ci si metteva di mezzo una vicina volenterosa sarebbero arrivati
alla fine pagando le medicine e le cure da soli, anche così la famiglia è
andata in bancarotta, forse perché i corpi e i cervelli non vanno di pari
passo, tante volte si dimenticano
piuttosto gli uni degli altri.
“Ti
sei preoccupato per i nonni eh?”
“Per
forza. Non hanno nessuno loro, solo me.”
“Ma
i tuoi genitori?”
“Peggio
che andar di notte! Mio nonno dice che ci sono persone che non nascono per fare
i genitori, noi abbiamo avuto sfortuna, purtroppo quei due si sono incontrati e
hanno avuto l’idea sbagliata al momento sbagliato. Non sanno fare nemmeno a
fare i figli loro, che sarebbe più facile, relativamente, ma non in maniera
assoluta. E poi il mondo attorno diventa sempre più ostile, quando ero bambino
era molto più umano e romantico.”
“Dici?”
“Dico.”
Ci
fermiamo un po’ a pensare, ma io continuo quasi subito.
“Quando
ero bambino avevo le lentiggini, ero quasi biondo, ora sono cambiato, non so
cosa sia stato, sono assai scurito e senza pallini in faccia, ma non è stata la
droga, dicono che sia una roba normale.”
“Raccontami
una tua giornata da piccolo lentigginoso.”
“La
giornata di quando avevo cinque anni, per esempio, poteva essere così: mi
alzavo non tanto tardi perché il rumore di nonna che faceva le pulizie della
casa era martellante di botte e di strusciate. Se era inverno ad alzarmi ci
mettevo di più, fuori era freddo e in casa pure, mia nonna apriva sempre porte
e finestre appena alzata, solo se pioveva o nevicava poteva rinunciarci. Se
resistevo un po’, passata la fase delle pulizie giornaliere, potevo arrivare
anche alle undici, orario massimo consentito da nonna Adamina che a quell’ora
doveva buttarmi giù dal letto, ma sempre con gentilezza Garfagnina o della
Mediavalle. In genere era raro che mi alzassi dopo le dieci. D’estate invece
ero più mattiniero e la colazione a base di caffellatte e pane casalingo
imburrato era veloce, perché là fuori di solito mi aspettavano già, il cane
anche abbaiava furiosamente, Girolamo, un bastardo un po’ troppo ansioso che
ora dicono meticcio, ma mi pare una ruffianata. A proposito ora i nonni me ne
hanno preso uno che gli somiglia, ma si chiama Matteo, in omaggio ai due grandi
statisti contemporanei di cui lei avrà sentito parlare, forse tristemente e
dorme anche lui nella rimessa, che è una specie di garage, dove il nonno tiene
il motorino e gli attrezzi. Con l’ultima fetta di pane in mano scendevo già a
fare lo scavezzacollo, come diceva mio nonno, figurarsi che lo dice ancora che
sono diventato tossicodipendente, cose da ragazzi, insomma, per lui. Nonno Michele
è un uomo buono come pochi ce ne erano e meno ancora ce ne sono al giorno
d’oggi. No, è il più buono che conosco. Nonna Adamina è più incazzereccia,
specialmente con lui e quando gli dice che è scemo da morire, lui sorride come
se gli avesse fatto il miglior complimento.”
“Con
l’età non sono cambiati?”
“Non
molto mi pare, anche se si dimenticano un po’ di più le cose, ma è normale,
vorrei che fossero eterni, ma non lo sono, mi devo adattare a questa semplice ma
crudele verità.”
“Quanti
bambini c’erano qui attorno?”
“C’erano
due bambini e una bambina, più o meno della mia stessa età, non so dove sono
andati a finire, magari devo chiedere.”
“Che
giochi facevate?”
“Di
solito inscenavamo i film o i telefilm della televisione, tipo Rintintin
approfittando che avevamo il cane, o Zorro e allora mi mettevo una maschera
fatta da noi al momento con uno straccio bucato e puzzolente di morca. Il
sergente Garcia ovviamente era Robertino che è sempre stato una bomba alla cioccolata.”
Manco
a farlo apposta dopo due giorni Roberto è arrivato a trovarmi, magro e
irriconoscibile, ora poteva fare lui la parte di Zorro, i baffetti erano
uguali. Era stato a lavorare a Lucca, faceva il cameriere al ristorante della
Casina Rossa, che intanto aveva chiuso, era tornato per provare a trovare
qualcosa qua più vicino ai genitori vecchi, ma ancora attivi, forse un po’
ubriaconi, ma non troppo.
Parlando
dei vecchi tempi è venuto fuori che Jenny è andata a lavorare per il tribunale
a Pisa, ma torna tutte le sere a casa, io non l’avevo ancora vista. Un tipo
serio. Patrizio è diventato poliziotto, ora è a Bergamo. Lo avrei visto meglio
come bandito. Roberto vorrebbe fare la guardia forestale, ha già fatto domanda.
I nonni e io gli abbiamo dato la nostra approvazione entusiastica e
incondizionata.
L’uscita
di Pappo la temevo un po’, confesso. Appena ha potuto è venuto a trovarmi e mio
nonno lo ha accolto gentile, sorridente, ma freddo, come non l’ho mai visto
fare con nessuno.
Pappo
è un bugiardo cronico, uno che non sa cosa è la verità, se mai esistesse e fa
bene attenzione a non sfiorarla nemmeno con il pensiero. Gli sembra una roba
limitata, rigida, assurda. Il suo è uno di quei rari casi in cui i genitori
sono anche troppo presenti, è proprio per evitare le loro cure e la loro
protezione che lui è diventato così. Il guaio è che è buffo e a volte ti
trascina, anche se spesso verso il fondo, ma lui quello non lo conosce e non lo
vuole conoscere, continua a scavare.
Pappo
ha detto che Grzegorz ha avuto il suo primo ruolo come attore di un film
tedesco girato a Varsavia, lo dicevo io che non era vero che era un po’ troppo
lacco, anzi.
Abbiamo
bevuto vino, detto un sacco di cretinate, soprattutto lui e a un certo punto, quando
pensava che fossi distratto, mi ha messo una pasticchina delle sue dentro il
mio bicchiere, uno dei soliti allucinogeni, credo. Si sente sempre il più
intelligente di tutti e lo forse lo è anche, ma lo è tanto e se ne approfitta
troppo, fino a diventare il più stupido.
Nonno
Michele ci stava spiando dalla saletta, si era seduto in un punto strategico a
far finta di leggere l’Eco di Fornacette e aveva visto quel movimento furtivo
con la coda dell’occhio, forse lo aveva addirittura previsto, se lo conosco
bene. Pappo confidava che nessuno lo avesse veduto, pensa che sono tutti fessi
ed il fesso invece è proprio lui; ma io ho smesso di bere e da quel momento il
nonno è venuto a sedere con noi, a parlare del più e del meno. Insomma, guardandolo
fisso lo ha progressivamente convinto ad andarsene, senza dirgli niente, ma
facendoglielo capire, sorridendo e dicendo cose di nessuna importanza se non
simbolica o forse simbiotica, magari semiotica, in un certo senso.
Con
Martina ho iniziato a parlare degli oggetti della casa, me lo ha chiesto lei,
ma senza dirmelo, guardandosi intorno, la loro storia, a partire dalle foto
incorniciate sui muri della cucina-sala da pranzo. Otello il lentigginoso
appare più volte, qualche volta anche i miei genitori, però mai insieme,
qualche volta sorridenti a mezza bocca.
La
padella bucata per le castagne è sempre lì accanto al caminetto, si nota subito.
“Quando avevo una decina di anni ci piaceva
sempre andare ai funghi, specialmente in autunno alternavamo la raccolta delle
castagne oppure passeggiate con i cani nel bosco. A quel tempo di cani ce ne
erano tre, che stavano fuori, più due gatti in casa, da una sedia all’altra.
Il
nonno era molto paziente con me perché in un certo senso gli ricordavo mia
madre, ne parlava sempre come se fosse ancora una bambina, in un certo senso
non era mai cresciuta, nell’altro senso anche troppo. Lasciava cadere il
discorso a metà.
La
cosa più bella era quando facevamo le mondine, cioè il nonno le arrostiva e noi
le mangiavamo, ma lui, anche se alla fine ne mangiava poche, ne sbucciava tante
per noi.
In
questa foto si riconosce mio padre, una volta che ci fece un grande onore e mangiò
con noi le mondine, si bevve anche qualche bicchierotto di vino.
Si
nota anche questo tavolo di legno massiccio e lo sfondo della combinazione
troppo fitta di quadri e foto, il colore della parete, sulla quale gli sgraffi
sono rimasti uguali. Le facce ovviamente erano più giovani e le lentiggini sulla
mia ci sono tutte, io sorrido contento, i nonni sono più tristi, ma cercano di
sembrare tranquilli, compare il gatto Birillo in braccio a nonna, un ciccione
che mangiava di tutto, meno che i topi.”
“E
chi ha fatto la foto? La mamma?”
“No,
la mamma non c’era. È un autoscatto.”
Un
po’ mi mancano Praga e Berlino, se non avessi incontrato Pappo, poteva anche
andare a finire bene. Comunque quella mi pare che sia gente un po’ più seria, forse
anche perché là non ero condannato a guardare la televisione, come qui, la
televisione passiva è inevitabile. E non posso fare a meno di notare che è
tutto un Cencio che dice a Straccio, Straccio che dice a Cencio, andata e
ritorno e di nuovo andata, e di nuovo ritorno. E tutti lì a guardare i
telegiornali ansiosi di sapere le ultime bugie…
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