Mario Luporini aveva fatto, senza mai bestemmiare, un lavoro rumoroso per tutta la vita, manovrando camion, ruspe piccole e grandi, scavatrici in genere e numero. Poi finalmente era andato in pensione, con lui la sua passione neanche troppo segreta. Aveva accumulato libri per cinquant’anni aspettando quel momento, tanti generi di letteratura da assaporare in santa pace. Aveva quasi riempito uno scaffale che prendeva tutta una parete.
Quando
però si sedette con il primo volumetto in mano improvvisamente si accorse che le
macchine passavano fragorosamente sulla strada, che il palazzo era vecchio e i
mobili tremavano, che i vicini raramente stavano zitti e più che parlare
urlavano, poi ascoltavano musica, copiosi telegiornali alla TV, litigavano e
chiacchieravano in quella tipica maniera italiana, anche al telefono, mai
sottovoce, spostavano i mobili, forse pure qualche scorreggia, non era affatto da
escludersi.
S.Concordio
non era proprio il posto adatto per uno che voleva leggere, e magari anche in
pace, che pretesa assurda!
Meno
male che in tutti quegli anni aveva messo dei soldi da parte, in attesa di
vendere il suo vecchio appartamento, nel quale aveva sempre dormito svenendo
subito dopo avere guardato la TV mangiando, allora comprò una casettina in
campagna, a S.Macario. C’era un bel giardino e il vicino più prossimo era a
cinquanta metri. Trasferiti i libri dagli scatoloni, li dispose sullo scaffale
in maniera da poter trovare quello che voleva in un tempo ragionevole, non
certo in ordine perfetto, quello lo avrebbe fatto dopo con maggior calma. Si
sedette sotto la veranda con un tomo di ragguardevole grandezza che da tempo
voleva gustarsi. Sospirò soddisfatto e aprì la prima pagina, passata in
diagonale l’introduzione, che quella non la leggeva mai, arrivò senza fretta alla
numero dieci, dove effettivamente cominciava il romanzo.
Non
poteva fare a meno di notare che c’era gente intorno che tagliava l’erba, nei
giardini vicini, pareva uno di quei trattorini scoppiettanti. Qualcun altro con
una di quelle infernali macchinette con le ruote, e poi un altro ancora faceva
la stessa operazione, ma con uno di quei frullini a motore. Le macchine e i
camion passavano lì vicino, spesso strombettavano, cambiavano marce, sgassavano
all’incrocio, sentivano la musica a tutto volume. Insomma non riuscì a
concentrarsi, era la stessa cosa, se non peggio, che a casa sua in periferia.
Pensò
che quando aveva iniziato a leggere una cinquantina d’anni prima, il mondo gli
si era aperto davanti, con tutte quelle cose da capire e immaginare che trovava
sui libri. L’esistenza però a quel tempo era molto meno rumorosa, o forse erano
le sue orecchie che, essendo ancora giovani, non ci facevano troppo caso.
In
ogni modo ora non riusciva proprio a leggere, come si era erroneamente immaginato,
per tutta la sua vita lavorativa. Tutti quei bei libri che aveva accumulato e
catalogato con amore, riuscendo a leggere poche frasi durante i fine-settimana,
troppo stanco per potersi veramente concentrare, ma sapendo che i giorni
passavano, poi i mesi e gli anni e quel sospirato momento sarebbe presto
arrivato.
Una
fottuta delusione, piuttosto.
Per
fortuna un suo caro amico aveva una casetta in montagna che non usava mai, che
se ne stava sempre lì triste e abbandonata, si sarebbe irrimediabilmente rovinata
con i tarli, i topi, altri animaletti e parassiti che ne avevano già fatto la
loro dimora fissa. Angelino fu felice di imprestargliela e a tempo indeterminato,
mentre Mario aspettava di vendere le sue due proprietà immobili, magari di
comprarsene un’altra lontana da tutto e da tutti. Ogni tanto gli avrebbe fatto
qualche visita per bersi insieme un cognac francese o uno scotch invecchiato al
sapore di torba, magari aggiornare i vecchi con i nuovi pettegolezzi, chi lo
sa? Chiacchierare insomma degli strani casi della vita davanti al caminetto
acceso e moderatamente scoppiettante.
Lassù
al Melo, in provincia di Pistoia, era una meraviglia, il paesino era di poche
case, il turismo era relativamente calmo, in più la casetta era lontana assai
dalle altre.
Mario
si sentì rinato, c’era un silenzio che spaccava le pietre, l’aria fresca apriva
i polmoni. Mise i libri sugli scaffali liberi senza ordinarli troppo, almeno
all’inizio, era troppo impaziente. Prese il primo che gli capitò fra le mani, e
si sedette sulla poltrona accanto alla finestra aperta. Dopo poche righe poi la
chiuse perché gli uccellini sull’albero cinguettavano oltre la comune decenza.
La puzza di chiuso non aiutava la concentrazione del ruspista, per fortuna che
i vetri erano doppi e il silenzio tornò quasi sovrano… a dire il vero appena
incrinato dagli scricchiolii naturali della casa, che purtroppo era di legno,
si sa che quello non si ferma mai, non riposa mai definitivamente.
Forse
si era immaginato anche una calma interiore libera dai pensieri, ma ora che
aveva più energie, anche i pensieri aumentavano, la distrazione pure, le
orecchie sentivano di più, magari doveva solo abituarsi a quel nuovo stato di
cose.
Il
vento fuori fischiava appena-appena e un ramo dell’enorme abete vicino
strusciava sull’orlo del tetto, facendo un rumore discontinuo, magari non
forte, ma proprio per questo fastidioso. Un po’ più in là c’era la sofferta e
ripetuta torsione di un larice, sciancato da una violenta folata di tramontana,
lanciava un sinistro lamento. Da lontano ma non troppo qualcuno stava
evidentemente segando una serie interminabile di tronchi, un grosso cane
abbaiava senza posa, probabilmente un Rottweiler a giudicare dalla voce
cavernosa. Ma non dicevano che i Rottweiler non perdevano pelo e soprattutto
non avevano il vizio di abbaiare?
Cambiò
libro, provò a leggere un giallo, una roba più facile da capire, c’era da
ragionarci meno. Niente da fare. Ne prese un altro e dopo un po’ lo sostituì di
nuovo con un altro.
Mario non aveva mai bestemmiato, ma forse stava
per cominciare. Non riusciva proprio a leggere, per quanto ci provasse e ci
riprovasse, la sua mente si rifiutava di concentrarsi, se ne andava via dalle
frasi e dalle parole scritte, automaticamente piuttosto ritornava su cose,
situazioni, animali e persone del passato, prossimo e remoto, qualche
imperfetto e trapassato prossimo, dei participi passati provvisoriamente quasi
dimenticati. Il suo amatissimo gatto Rodolfo schiacciato da un camion, sua
moglie Eleonora defunta da sei anni, di cui ricordava l’odore, la voce e
soprattutto la calma e la pazienza che aveva con lui, uomo troppo chiuso e
riflessivo, quanta ce ne era voluta, per farsi dire finalmente qualche frase
gentile, farsi regalare qualche fiore di campo, un unico libretto di poesie con
una dedica scritta con la penna stilografica. E poi Rosalba, sua madre malata
di alzheimer, nella vecchia casa di famiglia, era tanto tempo che non la
visitava, forse un anno, o giù di lì.
Sua
sorella Genì gli aveva raccontato che ora mamma non parlava più, con gli occhi
sempre chiusi, era praticamente immobile e si cibava attraverso la sonda, solo
di liquidi, ma anche di più solide e tangibili carezze, di parole gentili che
le sussurravano nelle orecchie, anche se non erano così sicuri che le sentisse
o che le sapesse collegare a qualcos’altro di precedente, di utile a farla
sentire meno persa e da tutti ancora amata.
Il
giorno dopo si decise e l’andò a trovare, sua sorella Genì ne fu contenta, ma
dopo un po’ ne approfittò, visto che normalmente non la poteva lasciare da
sola, per andare a fare la spesa. Si sedette sulla poltrona accanto al letto di
sua madre che respirava rumorosamente, assai irregolarmente, con un viso
accigliato, pareva sofferente. Con una serie di soffi il dispositivo
antidecubito gonfiava e sgonfiava le cellule del materasso speciale, una
macchinetta per pompare attraverso il sondino il cibo liquido ronzava a tempi
regolari. Mario pianse un po’, si ricordava di alcune scene del passato, belle
e brutte, dolorose o gioiose, che diventavano forse ancor più penose delle
altre, a vederla così, ora. Sua madre tremava leggermente ad accarezzarla,
muoveva un po’ ciglia e sopracciglia al passare lento della sua mano. Ora
sembrava quasi sorridere, ma non ne era sicuro.
C’era
un grosso libro sul davanzale della finestra, i libri grandi non gli garbavano
affatto, erano poco pratici. In più era anche di Fatima Ghiringhelli, che a sua
volta non gli piaceva per niente. C’era un segnalibro di panno variopinto a
pagina centoquarantacinque, evidentemente poi la memoria di sua madre era
peggiorata e leggere non le serviva più a niente, se non si ricordava cosa
aveva letto prima. Si trattava di Una ciotola piena di cetrioli che era la
storia della famiglia della scrittrice attraverso i secoli. Lo prese tra le
mani, e senza pensarci iniziò a leggerlo e si sorprese che gli scorreva bene,
inspiegabilmente era cambiato qualcosa in lui, certo non nel libro, meno ancora
in Fatima Ghiringhelli. Forse la vicinanza della madre, il suo respiro a fare
da ritmo, i soffi e i ronzii delle apparecchiature, pensò. Quando tornò sua sorella
aveva già finito quelle quasi settecento pagine, le aveva divorate, non gli era
piaciuto tutto quello che aveva letto, rifletté, ma ci si era sprofondato
gradevolmente e alcune cose gli erano anche garbate.
Tutti
i giorni, da quel giorno, Mario andò da sua madre a leggere, Genì ne
approfittava per fare le sue cose, senza la fretta di dover ritornare. I medici
dicevano che non avevano mai visto tanta resistenza, normalmente in quelle
condizioni una malata non va oltre pochi mesi.
Passarono
altri due anni così, invece, Mario lesse tutti i libri del suo scaffale e tutti
quelli della Ghiringhelli, che nel frattempo era morta e subito dopo morì anche
sua madre Rosalba.
Mario
pianse a lungo, a più riprese, pensò anche che allora non avrebbe più potuto
leggere. Rimase affezionato alla camera della madre, più che alla tomba al
cimitero. Venduto il suo appartamento si stabilì nella grande casa, lì poi
c’era nato e cresciuto, insieme a sua sorella ora vedova. Pur senza quei rumori
sinistri ma allo stesso tempo rassicuranti, Mario riprese a leggere e a farsi
piacere i libri usati che comprava dal Cinquini alla Piazzetta del Libro di
Lucca.
Non
è che lì il silenzio regnasse sovrano, ma era come se il rumore fosse filtrato
e giustificato, dai muri spessi e dalla storia della casa, della famiglia, di
quella che era stata la sua vita da giovane.
Prese
per sé la camera della madre, non cambiò nemmeno i mobili. Ripescò il letto di
ferro a rete che avevano messo in cantina, uno specchio girevole tanto vecchio
che non specchiava quasi più il presente, ma solo il passato, oltre le macchie
di qualcosa simile alla muffa. Rimise a posto come le ricordava quelle
statuette e i quadri che avevano a suo tempo tolto per praticità. Una parete
intera di libri gli faceva già da sfondo, nel mezzo il letto, l’antica e comoda
poltrona di panno verde scuro, dall’altra parte l’ampia finestra. Riuscì poi a
vendere anche la casa in campagna.
Genì
lo sapeva già, forse era stanca di saperlo, ma saperlo e spiegarlo agli altri
sono cose differenti e separate, a volte è difficile anche spiegarsele a sé
stessi. Ora l’aveva capito anche lui, a settant’anni suonati, che le situazioni
bisogna guardarle in faccia e affrontarle.
Spazzarle sotto il tappeto non serve a niente. Che quelle brutte, anche
se in modo diverso, servono quanto quelle belle, per farci capire la misura
della differenza, per poi poterle umanamente apprezzare, per non insistere
negli errori già fatti e consumati.
La
vita è basata sul contrasto eterno e quotidiano tra il bene e il male. La noia
è una nebbiolina grigiastra che confonde ulteriormente le idee, riproduce quell’indifferenza
che fa male senza farsene accorgere.
È
evidente che non esistono solo il bianco e il nero, ma i chiaroscuri di tante
intensità di grigio che ad alcuni sembrano tutte uguali, eppure non lo sono. Nel
mezzo ci sono poi i colori vivaci, le gioie che sembrano poche, ma dipende
anche da noi, farci caso prima di tutto, poi dargli importanza e custodirsele,
saperle riprodurre a tempo indeterminato.
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