domenica 17 gennaio 2021

MARIO LUPORINI RUSPISTA


 

Mario Luporini aveva fatto, senza mai bestemmiare, un lavoro rumoroso per tutta la vita, manovrando camion, ruspe piccole e grandi, scavatrici in genere e numero. Poi finalmente era andato in pensione, con lui la sua passione neanche troppo segreta. Aveva accumulato libri per cinquant’anni aspettando quel momento, tanti generi di letteratura da assaporare in santa pace. Aveva quasi riempito uno scaffale che prendeva tutta una parete.

Quando però si sedette con il primo volumetto in mano improvvisamente si accorse che le macchine passavano fragorosamente sulla strada, che il palazzo era vecchio e i mobili tremavano, che i vicini raramente stavano zitti e più che parlare urlavano, poi ascoltavano musica, copiosi telegiornali alla TV, litigavano e chiacchieravano in quella tipica maniera italiana, anche al telefono, mai sottovoce, spostavano i mobili, forse pure qualche scorreggia, non era affatto da escludersi.

S.Concordio non era proprio il posto adatto per uno che voleva leggere, e magari anche in pace, che pretesa assurda!

Meno male che in tutti quegli anni aveva messo dei soldi da parte, in attesa di vendere il suo vecchio appartamento, nel quale aveva sempre dormito svenendo subito dopo avere guardato la TV mangiando, allora comprò una casettina in campagna, a S.Macario. C’era un bel giardino e il vicino più prossimo era a cinquanta metri. Trasferiti i libri dagli scatoloni, li dispose sullo scaffale in maniera da poter trovare quello che voleva in un tempo ragionevole, non certo in ordine perfetto, quello lo avrebbe fatto dopo con maggior calma. Si sedette sotto la veranda con un tomo di ragguardevole grandezza che da tempo voleva gustarsi. Sospirò soddisfatto e aprì la prima pagina, passata in diagonale l’introduzione, che quella non la leggeva mai, arrivò senza fretta alla numero dieci, dove effettivamente cominciava il romanzo.

Non poteva fare a meno di notare che c’era gente intorno che tagliava l’erba, nei giardini vicini, pareva uno di quei trattorini scoppiettanti. Qualcun altro con una di quelle infernali macchinette con le ruote, e poi un altro ancora faceva la stessa operazione, ma con uno di quei frullini a motore. Le macchine e i camion passavano lì vicino, spesso strombettavano, cambiavano marce, sgassavano all’incrocio, sentivano la musica a tutto volume. Insomma non riuscì a concentrarsi, era la stessa cosa, se non peggio, che a casa sua in periferia.

Pensò che quando aveva iniziato a leggere una cinquantina d’anni prima, il mondo gli si era aperto davanti, con tutte quelle cose da capire e immaginare che trovava sui libri. L’esistenza però a quel tempo era molto meno rumorosa, o forse erano le sue orecchie che, essendo ancora giovani, non ci facevano troppo caso.

In ogni modo ora non riusciva proprio a leggere, come si era erroneamente immaginato, per tutta la sua vita lavorativa. Tutti quei bei libri che aveva accumulato e catalogato con amore, riuscendo a leggere poche frasi durante i fine-settimana, troppo stanco per potersi veramente concentrare, ma sapendo che i giorni passavano, poi i mesi e gli anni e quel sospirato momento sarebbe presto arrivato.

Una fottuta delusione, piuttosto.

Per fortuna un suo caro amico aveva una casetta in montagna che non usava mai, che se ne stava sempre lì triste e abbandonata, si sarebbe irrimediabilmente rovinata con i tarli, i topi, altri animaletti e parassiti che ne avevano già fatto la loro dimora fissa. Angelino fu felice di imprestargliela e a tempo indeterminato, mentre Mario aspettava di vendere le sue due proprietà immobili, magari di comprarsene un’altra lontana da tutto e da tutti. Ogni tanto gli avrebbe fatto qualche visita per bersi insieme un cognac francese o uno scotch invecchiato al sapore di torba, magari aggiornare i vecchi con i nuovi pettegolezzi, chi lo sa? Chiacchierare insomma degli strani casi della vita davanti al caminetto acceso e moderatamente scoppiettante.

Lassù al Melo, in provincia di Pistoia, era una meraviglia, il paesino era di poche case, il turismo era relativamente calmo, in più la casetta era lontana assai dalle altre.

Mario si sentì rinato, c’era un silenzio che spaccava le pietre, l’aria fresca apriva i polmoni. Mise i libri sugli scaffali liberi senza ordinarli troppo, almeno all’inizio, era troppo impaziente. Prese il primo che gli capitò fra le mani, e si sedette sulla poltrona accanto alla finestra aperta. Dopo poche righe poi la chiuse perché gli uccellini sull’albero cinguettavano oltre la comune decenza. La puzza di chiuso non aiutava la concentrazione del ruspista, per fortuna che i vetri erano doppi e il silenzio tornò quasi sovrano… a dire il vero appena incrinato dagli scricchiolii naturali della casa, che purtroppo era di legno, si sa che quello non si ferma mai, non riposa mai definitivamente.

Forse si era immaginato anche una calma interiore libera dai pensieri, ma ora che aveva più energie, anche i pensieri aumentavano, la distrazione pure, le orecchie sentivano di più, magari doveva solo abituarsi a quel nuovo stato di cose.

Il vento fuori fischiava appena-appena e un ramo dell’enorme abete vicino strusciava sull’orlo del tetto, facendo un rumore discontinuo, magari non forte, ma proprio per questo fastidioso. Un po’ più in là c’era la sofferta e ripetuta torsione di un larice, sciancato da una violenta folata di tramontana, lanciava un sinistro lamento. Da lontano ma non troppo qualcuno stava evidentemente segando una serie interminabile di tronchi, un grosso cane abbaiava senza posa, probabilmente un Rottweiler a giudicare dalla voce cavernosa. Ma non dicevano che i Rottweiler non perdevano pelo e soprattutto non avevano il vizio di abbaiare?

Cambiò libro, provò a leggere un giallo, una roba più facile da capire, c’era da ragionarci meno. Niente da fare. Ne prese un altro e dopo un po’ lo sostituì di nuovo con un altro.

 Mario non aveva mai bestemmiato, ma forse stava per cominciare. Non riusciva proprio a leggere, per quanto ci provasse e ci riprovasse, la sua mente si rifiutava di concentrarsi, se ne andava via dalle frasi e dalle parole scritte, automaticamente piuttosto ritornava su cose, situazioni, animali e persone del passato, prossimo e remoto, qualche imperfetto e trapassato prossimo, dei participi passati provvisoriamente quasi dimenticati. Il suo amatissimo gatto Rodolfo schiacciato da un camion, sua moglie Eleonora defunta da sei anni, di cui ricordava l’odore, la voce e soprattutto la calma e la pazienza che aveva con lui, uomo troppo chiuso e riflessivo, quanta ce ne era voluta, per farsi dire finalmente qualche frase gentile, farsi regalare qualche fiore di campo, un unico libretto di poesie con una dedica scritta con la penna stilografica. E poi Rosalba, sua madre malata di alzheimer, nella vecchia casa di famiglia, era tanto tempo che non la visitava, forse un anno, o giù di lì.

Sua sorella Genì gli aveva raccontato che ora mamma non parlava più, con gli occhi sempre chiusi, era praticamente immobile e si cibava attraverso la sonda, solo di liquidi, ma anche di più solide e tangibili carezze, di parole gentili che le sussurravano nelle orecchie, anche se non erano così sicuri che le sentisse o che le sapesse collegare a qualcos’altro di precedente, di utile a farla sentire meno persa e da tutti ancora amata.

Il giorno dopo si decise e l’andò a trovare, sua sorella Genì ne fu contenta, ma dopo un po’ ne approfittò, visto che normalmente non la poteva lasciare da sola, per andare a fare la spesa. Si sedette sulla poltrona accanto al letto di sua madre che respirava rumorosamente, assai irregolarmente, con un viso accigliato, pareva sofferente. Con una serie di soffi il dispositivo antidecubito gonfiava e sgonfiava le cellule del materasso speciale, una macchinetta per pompare attraverso il sondino il cibo liquido ronzava a tempi regolari. Mario pianse un po’, si ricordava di alcune scene del passato, belle e brutte, dolorose o gioiose, che diventavano forse ancor più penose delle altre, a vederla così, ora. Sua madre tremava leggermente ad accarezzarla, muoveva un po’ ciglia e sopracciglia al passare lento della sua mano. Ora sembrava quasi sorridere, ma non ne era sicuro.

C’era un grosso libro sul davanzale della finestra, i libri grandi non gli garbavano affatto, erano poco pratici. In più era anche di Fatima Ghiringhelli, che a sua volta non gli piaceva per niente. C’era un segnalibro di panno variopinto a pagina centoquarantacinque, evidentemente poi la memoria di sua madre era peggiorata e leggere non le serviva più a niente, se non si ricordava cosa aveva letto prima.  Si trattava di Una ciotola piena di cetrioli che era la storia della famiglia della scrittrice attraverso i secoli. Lo prese tra le mani, e senza pensarci iniziò a leggerlo e si sorprese che gli scorreva bene, inspiegabilmente era cambiato qualcosa in lui, certo non nel libro, meno ancora in Fatima Ghiringhelli. Forse la vicinanza della madre, il suo respiro a fare da ritmo, i soffi e i ronzii delle apparecchiature, pensò. Quando tornò sua sorella aveva già finito quelle quasi settecento pagine, le aveva divorate, non gli era piaciuto tutto quello che aveva letto, rifletté, ma ci si era sprofondato gradevolmente e alcune cose gli erano anche garbate.

Tutti i giorni, da quel giorno, Mario andò da sua madre a leggere, Genì ne approfittava per fare le sue cose, senza la fretta di dover ritornare. I medici dicevano che non avevano mai visto tanta resistenza, normalmente in quelle condizioni una malata non va oltre pochi mesi.

Passarono altri due anni così, invece, Mario lesse tutti i libri del suo scaffale e tutti quelli della Ghiringhelli, che nel frattempo era morta e subito dopo morì anche sua madre Rosalba.

Mario pianse a lungo, a più riprese, pensò anche che allora non avrebbe più potuto leggere. Rimase affezionato alla camera della madre, più che alla tomba al cimitero. Venduto il suo appartamento si stabilì nella grande casa, lì poi c’era nato e cresciuto, insieme a sua sorella ora vedova. Pur senza quei rumori sinistri ma allo stesso tempo rassicuranti, Mario riprese a leggere e a farsi piacere i libri usati che comprava dal Cinquini alla Piazzetta del Libro di Lucca.

Non è che lì il silenzio regnasse sovrano, ma era come se il rumore fosse filtrato e giustificato, dai muri spessi e dalla storia della casa, della famiglia, di quella che era stata la sua vita da giovane.

Prese per sé la camera della madre, non cambiò nemmeno i mobili. Ripescò il letto di ferro a rete che avevano messo in cantina, uno specchio girevole tanto vecchio che non specchiava quasi più il presente, ma solo il passato, oltre le macchie di qualcosa simile alla muffa. Rimise a posto come le ricordava quelle statuette e i quadri che avevano a suo tempo tolto per praticità. Una parete intera di libri gli faceva già da sfondo, nel mezzo il letto, l’antica e comoda poltrona di panno verde scuro, dall’altra parte l’ampia finestra. Riuscì poi a vendere anche la casa in campagna.

Genì lo sapeva già, forse era stanca di saperlo, ma saperlo e spiegarlo agli altri sono cose differenti e separate, a volte è difficile anche spiegarsele a sé stessi. Ora l’aveva capito anche lui, a settant’anni suonati, che le situazioni bisogna guardarle in faccia e affrontarle.  Spazzarle sotto il tappeto non serve a niente. Che quelle brutte, anche se in modo diverso, servono quanto quelle belle, per farci capire la misura della differenza, per poi poterle umanamente apprezzare, per non insistere negli errori già fatti e consumati.

La vita è basata sul contrasto eterno e quotidiano tra il bene e il male. La noia è una nebbiolina grigiastra che confonde ulteriormente le idee, riproduce quell’indifferenza che fa male senza farsene accorgere.

È evidente che non esistono solo il bianco e il nero, ma i chiaroscuri di tante intensità di grigio che ad alcuni sembrano tutte uguali, eppure non lo sono. Nel mezzo ci sono poi i colori vivaci, le gioie che sembrano poche, ma dipende anche da noi, farci caso prima di tutto, poi dargli importanza e custodirsele, saperle riprodurre a tempo indeterminato.

 

 

 


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