Il mio primo libro fu pubblicato a mie spese, ci dovevano essere cinque racconti, poi diventarono tre... più che altro perché io credevo che le mie pagine fossero molto più piccole di quello che effettivamente erano, ma anche per altri motivi.
Avendo saltato ogni pur ipotetico editore, sia per risparmiare i soldoni che loro pretendevano, che per essere indipendente e non dover dar soddisfazione a nessuno, dovetti, in compenso, incaricarmi personalmente di condurre questo passaggio dal sistema di scrittura Word al Page-Maker.
La tipografia Saudades, che mi aveva dato il preventivo più economico, mandava a fare, questo tipo di trasferimento informatico, da un certo signor Iraq, che per via della loro pronuncia pensavo che si scrivesse Iraqui o qualcosa di questo genere, il quale viveva e aveva il suo piccolo laboratorio, non molto lontano dalla loro sede, in Rua Felizardo Furtado 402.
Questo nome mi pareva di cattivo auspicio, corrispondendo all’italiano: Felice Derubato... ma era un autentico nome di persona, mi avevano spiegato, con il suo conseguente riferimento storico, del quale, però, ora non ricordo più.
Era l’epoca dell’attentato alle due Torri Gemelle a New York, ogni nome arabo era guardato con sospetto, anche qui nel sud del Brasile.
Al nostro secondo incontro, il primo da soli, chiesi a Iraq se era di origine musulmana e lui si affrettò a dire di no, a raccontarmi la storia della sua famiglia, gli dissi che stavo scherzando, che non c’era bisogno che mi spiegasse niente, ma notai che per lui quella non era una cosa comica.
La mia era stata una domanda fuori luogo e si poteva anche constatare dal fatto che Iraq ostentava cristianità in ogni sua frase iniziando ogni sua frase con ‘grazie a Dio’, ‘se Dio vuole’, o, qualche volta, ‘con l’aiuto di Dio’.
Il nostro lavoro era a botta e risposta, cioè lui faceva il passaggio da un sistema all’altro ed io andavo, praticamente tutti i giorni, (senza sabati e domeniche che potessero infilarsi in mezzo,) a correggere eventuali errori e a vedere, successivamente, se erano stati veramente tolti.
Mi sembrò subito evidente che Iraq era un affabile ragazzone di cinquant’anni, che viveva ancora con la mamma, la quale ci accompagnava spesso con il suo sguardo protettore, nel dirci qualche parola d’incorraggiamento, insomma, ci dava il suo apporto morale.
Sostava in silenzio dentro il suo ufficetto per ore, sbucciando e tagliando frutta e verdura, effettuando tutte le opere culinarie e di cura della casa, che non avessero bisogno di fornelli o altri aggeggi non presenti là dentro...
Notai ben presto che Iraq era un irriducibile testardo, come me. Mi rimase subito simpatico.
Purtroppo dal punto di vista della sua efficacia, mi resi conto che le cose andavano avanti tanto lentamente che pareva che tornassero indietro.
Il lavoro di Iraq non era semplice, né poteva essere rapido, come avevo pensato prima, sennò lo avrebbero fatto nella tipografia stessa, ma aldilà delle difficoltà oggettive, mi pareva che non lui non avesse affatto le condizioni minime e fondamentali per poter lavorare in quell’ambito, che per me erano, prima di tutto, un’attrezzatura valida.
Fin dal primo giorno mi abituai a dover correggere e ricorreggere le stesse cose, ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a considerare naturale, che dovessi fare e rifare le medesime correzioni per poi vederle apparire di nuovo sul testo.
Ci avvicinavamo alla Festa del Libro di Porto Alegre e temevo, sempre di più, che sarei rimasto senza il mio agognato primo volumetto, da lanciare alla fine di ottobre, o agli inizi di novembre del 2001, per approfittare in pieno di quelle due settimane più propizie, durante le quali si comprano più avidamente che mai, ai prezzi migliori, prodotti cartacei rilegati e, a volte, anche letterari.
In gran parte dei casi, non sarebbero mai stati letti, ma avrebbero fatto bella figura negli scaffali delle case portoalegrensi.
Per tutto questo, si precipitavano a frotte in Praça da Alfandega (Piazza della Dogana), seguendo gli sconti e la moda del momento.
Il consumista non compra perché ha bisogno di una cosa, ma compra per comprare e, per quanto sia difficile crederci, per risparmiare.
Ubara, amico del mio amico Karl Brady, che aveva già pubblicato varie opere non sue, suggeriva come tattica opportuna e addirittura fondamentale, per vendere subito un buon numero di copie e coprirmi le spese, di partecipare alla Fiera del Libro.
Non tutti sanno che un manoscritto deve essere passato attraverso un programma di computer chiamato Page-Maker, per farne poi pellicole trasparenti che servono in seguito per stampare dei foglioni con decine di pagine, successivamente tagliate a coppie, che poi sono cucite e incollate.
Si fa la copertina, che richiede un lavoro abbastanza simile... ma separato e, tutto questo, messo finalmente insieme, si chiama libro.
Le pagine sono sempre a coppie, perché la dimensione dei fogli, normalmente usati dalle tipografie, è del doppio di una pagina.
Quindi il lavoro di Iraq era anche accoppiare le pagine, in modo che la prima fosse a lato dell’ultima, la seconda con la penultima e così via, per poterle cucire poi una sopra l’altra, come si usa fare in questi casi e per arrivare poi alla coppia centrale, nel centro del libro, che finalmente è composta di due pagine che sono numericamente in sequenza.
Iraq era un uomo simpatico e ottimista fino al limite dell’incredibile, cosa che in Brasile ho trovato spesso, a vari fenomenali livelli, ma sempre e comunque in contrapposizione con la mia cultura italiana, europea e globalizzata, fatta di pessimismo come regola di vita, inframezzato dallo stagnante immobilismo, spesso alternato a depressioni profonde.
Iraq era una persona che credeva fermamente in Dio, per me era un esempio di stile e anche di contenuto.
Per quanto riguarda quello stesso contenuto, però, per quello che ne capivo io, almeno nella stesura della impaginazione, Dio non lo aiutava con piacere.
Anche se devo riconoscere che non sapevo cosa sarebbe successo senza l’aiuto misericordioso del Signore, magari stava già facendo miracoli ed io non me ne rendevo conto.
Fatto sta che mi pareva di tornare a rifare tutto ogni giorno, mi sembrava che, per quanti sforzi facessimo, non riuscissimo ad tirarci fuori dalle sabbie mobili di lettere, frasi, spazi e inizi di pagina che ci aveva imprigionato.
Il computer di Iraq era vecchio e ingiallito, era una evidente verità, anche per me, che non m’intendevo per niente d’informatica, che il suo principale attrezzo di lavoro era antiquato e perciò obsoleto, ma oltre a questo era chiara evidenza che i suoi programmi erano copiati e perciò difettosi.
Insomma la nostra era da considerarsi un’impresa disperata, visto che quella di Iraq pareva una lotta con il computer, che abbastanza spesso veniva persa e vergognosamente.
Per esempio: all’inizio di una pagina si profilava spesso il finale di un periodo, due o tre parole e poi il punto, che non stavano bene come prima riga, non erano, formalmente, una bellezza.
Facendo complicati giochi di prestigio con le parole e cambiando a volte il significato stesso del testo, aggiustavamo da una parte... mentre si guastava dall’altra.
Mi pareva impossibile che il programma non avesse un automatismo in questi casi, ma Iraq assicurava che non era previsto un caso del genere ed io lo guardavo cercando di dissimulare il fumo che mi usciva dalle narici.
Di positivo c’era che ad ogni seduta mi dava utilissime lezioni d’ottimismo incrollabile, pur se, ogni volta, lasciandoci e dandoci appuntamento al giorno seguente o a due giorni dopo, la sua immancabile frase, che diceva che grazie a Dio noi ce l’avremmo fatta, mi pareva di un’ironia esagerata e, in quei momenti, crudele.
Un altro fatto nuovo e spiacevole venne fuori in seguito, attraverso una delle sue alchimie computeristiche, causate dall’inefficenza della sua attrezzatura hardware e software, il cui meccanismo cercò varie volte, invano, di spiegarmi.
Qui constatai anche e purtroppo che i limiti della sua dialettica si scontravano ad ogni occasione con il mio portoghese, frettolosamente imparato e maccheronico, che era così diverso e lontano dal suo che non trovavano punti in comune.
Attraverso uno dei suoi passaggi, per me sempre più incomprensibili e misteriosi, una parte di testo era stata perduta totalmente, non erano più di due pagine e me ne ero accorto dalle decine di errori che erano comparsi d’incanto, in quel tratto di prosa, più volte passato a correzione.
Lui confessò, quasi piangendo, che dopo averlo perso... aveva cercato di ricopiarlo, dalle prove già stampate in precedenza, ma visto che era in italiano ci aveva aggiunto del suo, cioè una caterva di sbagli.
Iraq ammise anche, forse con l’intento di farmi arrabbiare violentemente, che l’atto del ricopiare era stato effettuato alle due di notte e che i suoi occhi, a quell’ora non ci vedevano più bene.
Dopo aver lavorato tutto il giorno al computer, gli si verificava un interessante fenomeno di sdoppiamento dell’immagine, che, messo insieme alla sua comprensibile ignoranza della lingua italiana, dava, come logico esito, quel massacro.
Segreti tentativi di scrivere a mano in italiano di Iraq erano ripetuti e penosi nei risultati, ogni volta cercava di non dirmelo, ma il testo, nell’arco di poche pagine, diventava improvvisamente così pieno di errori che non potevano non saltarmi subito all’occhio.
Una volta scoperto il misfatto, lui riscriveva il tutto su mia dettatura, a testa bassa, lettera per lettera, poi ricorreggevamo il testo intero.
Ci mettevamo delle ore, ma alla fine eravamo soddisfatti e più volte, quando stavo per andarmene, stanco, ma quasi felice, perché forse finalmente potevamo dare l’inizio al procedimento di tipografia vero e proprio... ecco che mancava la luce.
La luce in Brasile salta spesso, non c’è bisogno né di temporali, né di catastrofi naturali... è solo per rendere le cose più imprevedibili ed interessanti.
Contemporaneamente, infatti, nella vecchia Europa non succede mai niente, i giorni passano seguendo la logica già pronta di copioni scritti nei cervelli della gente.
Non è solo il fatto che non manca più la luce, ma anche altre cose impreviste non accadono più e la vita è un arido video-game, razionale e solitario, in cui lo sviluppo della giornata sembra uno stanco manovrare i tasti in qualche maniera, i risultati, quelli veri, non cambieranno.
Niente a che fare con le emozioni, le persone non rischiano più, vivono vite virtuali
Un’equazione i cui termini e il cui ordine si presentano sempre uguali e gli effetti sempre i medesimi, dove la più vibrante Teoria del Caos è immeritatamente ed inspiegabilmente accantonata...
Comunque sia, ogni computer che si rispetti salva automaticamente le cose mentre si fanno, in intervalli che l’operatore può programmare, che possono essere anche brevi come un minuto o due.
Credo che Iraq si vergognasse a dirmelo e passò un po’ di tempo, ma un giorno confessò che, per un difetto del programma, il suo non lo faceva più.
Con lui non protestavo perché pensavo che fosse inutile, vedevo che si sforzava al massimo, anche se la sua mancanza di attrezzatura faceva parte della sua incompetenza, pensavo anche che i miei sguardi irosi o rassegnati, a seconda dell’occasione, erano eloquenti e migliori di parole pesanti e conseguenti sensi di colpa.
Quella faccenda era già abbastanza complicata ed era troppo tardi per tornare indietro.
Diciamocelo: quello non era un computer meritevole di considerazione e rispetto, forse nemmeno Iraq lo era, dal punto di vista professionale, ma che cosa avrei potuto fare, per togliermi da quella situazione?
Lo zenit della disperazione lo raggiungemmo in un pomeriggio afoso di venerdì, quando arrivai là, già stanco, dopo il lavoro e lo vidi subito dai suoi occhi, mentre mi apriva il cancello di entrata della villetta, che la situazione si era ulteriormente deteriorata.
Trovai Iraq meno ottimista e più stanco, si vedeva che aveva dormito male, la sua fede era stata gravemente incrinata e mi spiegò subito perché.
Il problema era che, a partire dal capitolo intitolato ‘Don Gaspare’, il programma si rifiutava di collaborare, forse per una mancanza di coesione con quella specifica parte del testo, magari considerata antipatica dal suo programma Page-Maker, che pareva avere una volontà propria e più forte e persistente che le nostre due messe insieme.
Iraq mi raccontò, in seguito, che Don Gaspare, personaggio del libro che lui non conosceva, gli era apparso in sogno... ma non era stato proprio un sogno, più che altro un incubo...
“Il capitolo intero di Don Gaspare non entra, non ci sono santi, ho provato in tutte le maniere...”
“Come non entra? Non è un capitolo come tutti gli altri? Perché non dovrebbe entrare?”
“Non lo so, se lo sapessi potrei fare qualcosa, semplicemente il programma lo rifiuta, io ce lo metto e dopo sparisce... nel senso che non so nemmeno dove vada a finire... dopo bisogna fare tutto di nuovo e il risultato è sempre lo stesso.
Giuro che non l’aveva mai fatto, ma ieri ho tentato per ore e sono riuscito solo ad ossessionarmi e stanotte ho avuto anche un incubo con Don Gaspare che mi inseguiva con una spada enorme, vestito rinascimentale e con l’elmo col pennacchio, ma i ricami della sua camicia bianca erano tutte lettere dell’alfabeto, parole e frasi che si incrociavano e.... pareva che fossero tutte fuori posto.”
“Perché erano fuori posto?”
“Perché non ci capivo niente!”
“Ma lei non capisce l’italiano, perciò è normale che non capisse niente...”
“No, ma non era solo questo, il fatto è che erano anche storte, non erano in riga, alcune erano in altre lingue, o con maiuscole troppo grandi, non proporzionate, insomma... i caratteri differenti da quelli del mio programma, poi si muovevano, non volevano stare ferme...”
“Ma come faceva lei a vedere che le lettere non andavano bene, che c’erano degli errori... come faceva ad avere il tempo di leggere con Don Gaspare che la inseguiva con lo spadone sguainato?”
“Non lo so, è strano, ma mi facevano più paura le frasi incrociate e sbagliate che lo spadone di Don Gaspare... era un incubo... e i sogni sono sempre simbolici, no?”
Iraq aveva ragione, in un certo senso, dentro al suo tipo di logica, almeno in quella determinata situazione onirica... ma l’ossessione di quelle pagine che non riusciva a far rimanere nel luogo dove dovevano stare, comunque, era una cosa assurda, e, per quanto possa parere comica ora, in quel momento, nessuno di noi due la considerò divertente.
Ci guardammo in faccia per un po’ , senza parlare, quella situazione cominciava a stressarci.
Forse sarebbe servito semplicemente spiegargli che Don Gaspare, il personaggio del libro non era un pazzo furioso e rinascimentale, ma un personaggio a noi contemporaneo e di animo bonaccione.
Ci rimettemmo al lavoro, il caldo e il malumore ci avevano contagiato, riuscimmo comunque a correggere tutto di nuovo e, dopo un lavoro di quasi tre ore... mancò di nuovo la luce.
Gli chiesi se aveva salvato le modifiche e lui rispose che era inutile, il programma era difettoso e un black-out faceva perdere tutto quello che si era scritto dall’ultima volta che si era acceso il computer... il suo sguardo esausto e rassegnato m’impedì qualsiasi reazione, me ne andai sentendomi un completo idiota ad essermi fidato di Iraq e della grafica Saudades.
I giorni passavano e Don Gaspare faceva ammattire Iraq, il quale, di conseguenza, mandava fuori di testa me.
Bisogna dire che la volontà incrollabile di quell’uomo, molto religioso, era già stata assai provata, per quanto fiducioso nel bene, sembrava evidente che il male, ora attraverso questo Don Gaspare, lo stesse esasperando.
In un secondo incubo, il Don gli aveva detto puntandogli un lungo e grosso dito contro, che si opponeva alla pubblicazione del libro perché rivelava particolari pericolosi, per lui che era un capo mafioso.
Gli spiegai che il personaggio del libro non era mafioso e che nel suo incubo ci doveva essere un errore. Ma Iraq non sorrise, né mi parve meno agitato.
Poi gli chiesi come era vestito e lui disse che era agghindato come la volta precedente, gli spiegai allora che un mafioso non poteva avere un vestito rinascimentale, con elmo e pennacchio, la mafia era nata dopo, poi, definitivamente, la loro divisa era senza lettere dell’alfabeto sulla camicia.
Gli parlai anche del personaggio del quinto racconto, Don Gaspare, un signore di mezza età, che abitava a Berlino e al quale piaceva raccontare storie agli amici emigranti riuniti.
Iraq, però, anche dopo le mie parole, che avevo sperato fossero state chiarificatrici, non mi parve per niente tranquillizzato.
Nel frattempo era sorto un altro problema, come avevo accennato all’inizio del racconto, le pagine erano molte di più di quelle che avevo stabilito con il responsabile della tipografia.
Insieme ad altre componenti come tipo di carta e di copertina, della tiratura delle copie, questo numero aveva determinato il prezzo, che, per quanto basso, era già più di quello che potevo spendere.
Ne parlai con Iraq, appena mi resi conto che, per una fortuna insperata, un problema risolveva l’altro.
“Va bene, va bene, non si preoccupi Iraq, ho fatto il conto delle pagine, sono troppe, il libro mi viene a costare molto di più del preventivato, allora tiriamo via la storia della Commedia, sì, quella di Don Gaspare...”
Iraq non credeva alle sue orecchie e mi chiese se veramente si doveva fare così o era solo perché lui non era riuscito a mettere Don Gaspare nel programma.
Si sentiva colpevole, non ci credeva che quella non fosse una mia mossa per risolvere i suoi problemi tecnologici e tecnici.
Lo convinsi che era una cosa necessaria, i racconti erano cinque, ma ne dovevamo scartare due corti o uno grande.
Allora, visto che in totale erano tre corti e due lunghi, che la ‘Commedia’ di Don Gaspare e il ‘Punto di vista di un pastore tedesco’ non solo erano corti, ma erano anche gli ultimi due scritti, mi pareva logico di doverli togliere e magari, chi lo sa, metterli nel prossimo libro.
Mancavano meno di venti giorni alla Fiera del Libro di Porto Alegre e tutto il resto del lavoro, (pellicole, stampa e rilegatura), aspettava la fine di questa nostra prima e sofferta fase, per essere cominciato.
Senza contare che dovevo organizzare un cocktail e mandare inviti ad almeno quattrocento persone, per riceverne, diceva Ubara, forse meno della metà.
Per non dire che stavo lavorando tutti i giorni come professore d’italiano ed eravamo alla fine del secondo semestre, epoca di terrore e di compiti in classe e correzioni senza fine dei medesimi.
Ci decidemmo comunque a fare questo passo, anche se Iraq insisteva che sarebbe riuscito a farlo entrare, quel capitolo e non c’era bisogno di accantonare la storia intera.
Non ho ancora capito perché i brasiliani non credono mai a quello che gli si dice, forse sarà per colpa della loro storia corta ma densa d’intrighi, della sfacciata politica di queste parti, ma quando qualcuno dice una cosa, quella sarà l’unica versione dei fatti automaticamente scartata nelle loro menti.
Forse la vita li ha abituati a credere che ci sia sempre una bugia a mascherare i fatti e a diffidare delle verità qualsiasi esse siano?
Anche quando sono verità piacevoli?
Mettemmo comunque da parte i due racconti in questione ed i problemi con Don Gaspare, ripassammo le correzioni, dimenticando per il momento la stanchezza e il resto del mondo in agitazione attorno a noi.
Pareva che finalmente tutto stesse marciando meglio, dopo venti giorni di sforzi sudati e ad un certo punto dissi ad Iraq che andava bene così, si stampava e basta.
Naturalmente alcune cose non ci pensavo nemmeno più a correggerle, come i maledetti inizi di pagina con una frase che terminava a metà riga con un punto.
Dichiarai con la mano sudata sul cuore, di fronte a Iraq e a sua madre come testimoni, che ora non me ne fregava più niente, i lettori si sarebbero dovuti adattare a questa mancanza di forma, mi sarei scusato personalmente con loro.
Sia lui che sua madre non erano d’accordo con me, dicevano che bastava solo un poco di pazienza in più e tutto sarebbe stato messo a punto perfettamente.
Una volta ancora la loro fede cieca era fonte di imprecazioni dentro di me.
Avrei dovuto essere io ad insistere per correggere tutto per bene, invece era lui, che, anche se il suo guadagno era lo stesso, sia con una settimana che con due di lavoro, si preoccupava, più di me, che tutto fosse perfetto, prima di stampare.
Qualche volta la loro fede cieca era fonte di imprecazioni dentro di me.
L’arte della diplomazia era quello che stavo imparando meglio in Brasile... ed era veramente una scuola efficace perché, ora che ci riuscivo meglio, vedevo che era più pratico che perdere la calma e dire tutto quello che mi passava per la testa al momento, offendendo gente in giro e peggiorando il mio rapporto con loro.
Ci lasciammo e salutai prima sua madre, che sembrava che fosse stata per ore impegnata a scegliere i fagioli sul tavolino delle riunioni... alzò la testa e mi guardò caritatevole, come per augurarmi buona fortuna, che ne avrei avuto bisogno... ma anche e soprattutto dell’aiuto di Dio.
Al cancello strinsi la mano ad Iraq mentre concludeva sorridendo che se Dio avesse voluto ci saremmo riusciti, a pubblicare quel libretto indiavolato.
Gli promisi che un giorno sarei passato di lì per bere quella birretta, della quale avevano parlato qualche volta, ma che non avevamo ancora potuto scolarci insieme.
Se Dio vuole, disse lui.
Dentro di me pensai se era stata una maniera che il Dio di Iraq e sua madre, che forse era il mio stesso, aveva inventato per testare i miei nervi, la mia determinazione, per vedere se veramente meritavo qualche tipo di successo, ma non sapevo ancora se avevo superato la prova.
La birretta con Iraq non la ho mai bevuta, non l’ho più incontrato.
La sfida, qua a bordo del globo terracqueo, credo che sia giornaliera.
Dobbiamo sempre provare, a noi stessi e poi agli altri, che siamo disposti ad affrontare la bufera e la bonaccia, l’ironia pungente e, a volte violenta, della vita.
Non so se sarò creduto, ma lo dico lo stesso: anche in questi giorni, nei quali sto scrivendo questo racconto, forse non per caso, sono stato vittima della maledizione di Don Gaspare.
Per due volte, una ieri ed una oggi, ho toccato qualche bottone sbagliato della mia tastiera ed ho perso ore di lavoro, tutto quello che avevo scritto...
Ho dovuto fare tutto di nuovo.
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