1)Per rompere il bianco
Il foglio è bianco quando si comincia.
Poi, scrivendo, le parole disegnano e colorano, col loro significato, la candida superficie che diventa una nebbia in lento movimento, o, forse meglio, delle nuvole, trasportate da un vento che non ha eccessiva fretta.
Ecco che sbuca un grande uccello, ma al rallentatore, che, planando, gira sulla superficie spumosa, prende una direzione e scivola via, a pochi metri sopra quei batuffoli di zucchero filato, che si colorano per via del sole e dei riflessi del mondo, evidentemente là sotto.
È un gigantesco rapace che, invece di sbattere le ali, segue sapientemente immobile le correnti d’aria.
Un mare di onde dai colori pastello tenui, per via di qualche tramonto seminascosto, sembra un oceano in burrasca, ma congelato nel tempo e nello spazio, con i suoi bellissimi schizzi protesi ed immobili, ora, al nostro passaggio.
Ora è come se io fossi dentro quell’enorme albatros di acciaio, li chiamano aerei, comincio ad ammirare tali vaporose evoluzioni dal finestrino, mi pare di essere l’unico a gioire di quello spettacolo, i passeggeri intorno, (tante persone in giacca e cravatta, con espressioni aggressive sulle facce ben curate,) sembrano assuefatti alle manifestazioni della natura, che probabilmente soppesano come ripetitive, mentre il loro tempo prezioso passa, la destinazione è lontana e ci stanno rimettendo dei bei soldi.
Scrivo queste cose, apparentemente uscite dal mio sonno appena terminato, strana appendice del sogno che ho fatto, del quale mi ricordo soprattutto una larga faccia di vecchia donna con gli occhiali che mi guarda dal cielo.
In una tarda mattinata invernale, queste parole se ne escono tutte insieme, in fila, come se fossero state, esse stesse, che avessero acceso il computer, sentendo un grande bisogno di essere scritte da qualcuno.
Una faccia larga di vecchia donna con gli occhiali che mi guardava dal cielo?
Ora quello che succede fuori dal monitor e dalla tastiera non potrebbe interessarmi meno, sto mitragliando lettere, riconosco un rumore alla mia destra che mi suggerisce che il caffè sta traboccando, purtroppo non posso fare niente per salvarlo.
Sono assai occupato a mettere insieme rivoli di parole, che sfociano in fiumi di frasi, che si raccolgono in laghi di periodi... in poco tempo ecco un mare di pagine...
Ho bisogno di mangiare qualcosa, di rifare il caffè, devo disciplinarmi, o almeno dovrei.
Un po’ difficile cominciare a ottant’anni.
Con uno sforzo non indifferente sono riuscito a staccare le dita dai tasti e gli occhi dalla tela, ho messo su un disco, ho acceso la televisione e ho azzerato l’audio, mi pare che ci sia un documentario sugli aztechi.
Ho messo di nuovo l’acqua a bollire per il caffè, ho mangiato dei biscotti, quei cracker con i semi di sesamo, spalmati di burro salato irlandese.
Ecco che ho ricominciato a scrivere, quasi come se le mie dita ben imburrate sulla tastiera del computer stessero suonando queste medesime e magnifiche e cristalline note di pianoforte, che sto ascoltando in una buffa simbiosi con il mondo della musica.
A suo tempo, il piano, ho rinunciato ben presto a imparare a suonarlo, ma è il mio strumento preferito.
E la mattina... senza offesa per gli altri strumenti, niente di meglio che un bella musica suonata da un unico pianoforte, dai suoni nitidi, dalle atmosfere echeggianti di sogni.
Proprio oggi ed esattamente ora, ho cominciato a scrivere la storia della vita di mia zia Ivana, proprietaria di quella faccia larga con gli occhiali che ho sognato e ho già deciso che sarà una di quelle importanti, in base a non so cosa, forse al sogno interrotto, di cui mi ricordo lei con quegli occhi che parevano vuoti ed inutili, che mi guardava, tra le nuvole, mentre passavo io in aereo, viaggiando da solo, insieme a tanti estranei, probabilmente, per una delle mie conferenze per il mondo.
Proprio pensando a questo, ho stabilito che stavolta non sarà una di quelle cose che scrivo per me stesso, da mettere in archivio e rileggere in futuro.
Cose che invece non rileggo mai.
Se la reincarnazione funzionasse come dicono gli induisti... magari, invece che scrittore, rinascerei lettore...
2)Ginnastica cerebrale
Ogni volta che mi vedo allo specchio è uno choc: un vecchio dagli occhi da bambino, capelli spettinati lunghi e bianchi, sommariamente vestito con una - per me – mitica, tuta verde e nera, poi una vecchia coperta scozzese sulle gambe.
Fa freddino.
Sto facendo il mio esercizio di ginnastica cerebrale giornaliero, fino a ieri stavo scrivendo dei racconti brevi, cosa che non avevo mai fatto, solo ieri ho capito perché...
Oggi mi sono svegliato e ho cominciato a battere sui tasti, come un forsennato, la straordinaria avventura di mia zia nel pianeta della sua testa, che non era per niente piccola, una testa tipica per i Baldacci, tutti capoccioni, femmine e maschi, di tutti i tempi, nei secoli dei secoli...
Diciamo la verità, la mia intenzione, da un po’ di tempo, era di scrivere, invece, su me stesso.
La mia lunga storia piena di fatti reali ed altri, non meno importanti, immaginari.
Ultimamente ero giunto alla conclusione che non volevo che la scrivesse qualcun altro, ma ho anche pensato che per scrivere la mia storia dovrei offendere tante persone che poi, magari, mi farebbero causa.
Però, se un giorno muori ed arriva un estraneo che, senza essere invitato, prende in mano la tua traiettoria, la scrive mettendoci del suo, lassù dalle nuvole lo vedi e magari ti senti impotente.
Se non sei sulle nuvole, ma stai arrostendo tra le fiamme, non ci sono problemi e... se sei ancora in un ospedale con una flebo in un braccio, beh, allora è peggio.
Spero che zia Ivana, in questo momento, non stia da qualche parte a scuotere la sua testona, pensando questo di me e della mia improvvisa fissazione di scrivere la sua storia.
3) Una candida superficie di partenza
Per me il bianco esprime il vuoto, immaginando di essere nella steppa innevata, magari in mezzo alla nebbia della Val Padana... però anche il nero è una roba vacua, ecco: il nero è forse un vuoto notturno.
Il quadro del computer è prevalentemente bianco... quando, prima di scrivere, lo guardo cercando un’ispirazione.
O viene subito o non viene più, mi dico, l’ispirazione... ma non è vero, guardando il vuoto, presto o tardi qualcosa se ne esce, dall’immobilità di quella neve o nebbia che sia, un coniglio candido che comincia correre, non sa dove va, ma si è stufato di nascondersi.
Anche un foglio, quando scrivevo a mano, o a macchina, prima di cominciare, era bianco.
È vero, mi piaceva, da bambino, scrivere e disegnare con pastelli bianchi sui cartoncini neri, dalla parte che erano ruvidi, dall’altra erano lisci, ma era proprio quella superficie, aspera, che stimolava ancora di più la mia creatività, come se in quelle rughe si nascondesse già qualcosa.
Il bianco per me rappresenta, indubbiamente, lo stato iniziale, dove generalmente cerco di disegnare le mie idee, poi, successivamente di colorarle, solo con le parole.
Le parole disegnano e riempiono, con il loro significato, la candida superficie che lentamente si trasforma in una nebbiolina in movimento, o forse, poi, nuvole, trasportate da un vento senza eccessiva fretta.
Ma questo l’ho già detto.
Tutto questo era forse per capire da dove partivo, quando a volte cercavo d’immaginare come era il mondo visto dagli occhi di Ivana.
4)Retrospettive e sottofondi
Per me l’immaginazione parte dal bianco, o comunque da qualcosa di chiaro; per lei invece partiva dallo scuro anche se nebbioso, o da qualcosa di sempre meno luminoso... di quello che sarebbe per tutti noi e che diventava sempre più scuro col passare degli anni.
Come lo so?
Non posso dirvelo adesso, prima dovreste incuriosirvi, almeno un poco, non tanto quanto lo sono stato io per tutti questi anni, ma almeno una parte, solo per darvi un’idea.
Per ora posso dirvi che, per esempio, lei non conosceva i colori, i rammendi che faceva ai calzini erano motivo di parole scoppiettanti di rabbia italiana, da parte di sua madre, l’autoritaria nonna Giuseppina.
Quando Ivana è nata, la famiglia era alla sua terza esperienza, in fatto di figli, avevano già un bambino ed una bambina, era appena finita una guerra, alla prossima mancavano ancora venti anni, ma loro non ci pensavano, non potevano saperlo.
Dall’inizio venne subito fuori che lei sarebbe stata ostacolata, ma solo per quanto riguardava la vita comunemente intesa, da due fattori decisivi: la vista era debole ed era, fisicamente, assai bruttarella.
Ho visto le sue foto, quando era bambina aveva una faccia più larga che da adulta, un viso grassoccio, il naso largo, gli occhi sempre nascosti da occhiali dalle lenti spesse, alte quasi un dito.
Gli occhi di zia Ivana erano bellissimi, celesti, grandi e profondi e luminosi, ma nessuno li vedeva mai nudi, al naturale.
Le attenzioni si allontanarono subito da lei e non ci sarebbe nemmeno stato bisogno che nascesse un quarto ed ultimo figlio, mio padre, che in più era un bel ragazzo, perché ci se ne dimenticasse definitivamente.
La fibra della bambina era forte, per fortuna, se la parte esterna era ruvida, dentro anche, ma era robusta e disponibile a lottare.
Sia fisicamente che moralmente, superò prove difficili, dovette battersi per conquistare il suo posto, e, anche se apparentemente non era un granché, lottò ancora di più per abituarcisi.
Ebbene sì, dovette sopportare, perché tutto le era stato da sempre difficile, mai un vento favorevole, sempre tutto, assolutamente tutto, dannatamente controcorrente.
Sviluppò le sue qualità internamente, non erano virtù brillanti, ma piuttosto una resistenza incredibile alla sorte avversa.
Chi parla di sfortuna, generalmente non sa che cosa sia, lei invece sa fin troppo bene cosa significa, va avanti senza dare troppa importanza a quello che non ha mai posseduto... e che non possiederà mai, ma lei non sa nemmeno come certe cose sono fatte.
Forse, dentro di sé, non dà già più importanza a queste cose, che realmente sono piaceri vani, scarsamente durevoli, che fanno diventare le persone altezzose, vanitose.
La grande sorte di gente come Ivana è stata davvero, per assurdo che possa sembrare, il non sapere nemmeno di che cosa sono costituite le situazioni vuote di cui le persone riempiono le loro vite.
Se da una parte le mancano la vista e la bellezza, dall’altra crescono altri attributi, questo è quello che è successo a lei, non senza fatica, ma piuttosto senza alti e bassi, ecco, la sua vita è stata più continua e coerente di tante altre, non tanto per scelta, ma per caso, o per condanna, se vogliamo.
La testardaggine, quella era dono e talento di famiglia, poi, oltretutto, la sua missione sulla terra è stata chiara fin dall’inizio, Ivana viveva per il bene degli altri, dando molta poca importanza a se stessa.
5) Mele cattive
“Com’è cattiva questa mela, la vuoi Ivana?”
“Se è cattiva, la devo mangiare io?”
“Ma non è proprio cattiva, insomma... forse è perché non ho più fame, allora, la vuoi o no?”
E lei la prendeva e la mordeva, più che altro per bontà, più che altro per vocazione, per religiosità... la mangiava, anche se non aveva fame, perché, se non lo faceva, si doveva buttare via... ed era peccato mortale. E lei è sempre stata molto cattolica, ma non solo per mostrarsi fedele alle leggi di Dio, lo era nel profondo, alla lettera.
Questo era un dialogo classico tra la madre Giuseppina e la figlia, secondo le parole di mio padre.
Ivana si sentiva bistrattata, forse, ma solo all’inizio, anche se quell’inizio non è stato breve e facile, poi si è abituata, visto che questo succedeva con regolarità, è diventato il suo stato permanente, si vedeva trattare diversamente da tutti, mentre, per esempio, sua sorella Ada era coccolata e lo meritava forse meno di lei.
Si è adattata, non senza soffrire, ma si è conformata, forse capendo anche bene il motivo di tutto quello che accadeva, - o meglio di quello che non le accadeva - più di quello che dava a vedere.
La vista da bambina era poca, ma è andata peggiorando col tempo, se prima poteva leggere accostando le parole agli occhi, se poteva uscire e camminare, con una certa prudenza e cadendo, a volte, malamente… col passare degli anni, tutto è progressivamente degenerato, finché in vecchiaia non leggeva più per niente e camminava sempre meno.
Usava la televisione come se fosse una radio, la radio meno male che la usava come gli altri, ma non poteva più uscire di casa da sola senza troncarsi una gamba o fratturarsi un braccio.
Bene non ci ha mai visto, i colori non sapeva nemmeno come si presentano agli occhi di chi li può vedere, sapeva che esistevano e se li immaginava sicuramente diversi, da come erano per gli altri.
Non valeva, come consolazione, dirle che anche per noi erano il frutto dell’impressione dei nostri bulbi oculari, più o meno ne ricavavamo impressioni simili ma diverse, come appartenenti alla schiera degli esseri umani, però un cane, una mosca, una balena e un bradipo avevano sensazioni visive differenti, l’uno dall’altro e ancor più dall’uomo.
L’educazione di Ivana era cattolica, un po’ puritano il suo modo di vedere le cose, non c’è da sorprendersene, è necessario dire anche che non ha mai avuto un uomo in vita sua, non conosce il sesso, o l’amore per una persona che non sia quello per qualcuno della famiglia, o per qualche amica.
6) Visita: Aldina, una figlia di un’amica
Ho smesso di scrivere, stamattina, perché ho visto che non mi muovevo dal posto, avevo bisogno di testimonianze, qualche cosa di fresco per partire magari con i miei ricordi, ho creduto che fosse meglio mettere a fuoco meglio i fatti e separare la parte che invece era realtà solo per lei.
Sono convinto che con le sue menomazioni lei avesse creato un suo mondo a parte, mi ricordo anche che una volta, nel cimitero di Marila, mi aveva detto che parlava con i morti, ma non le avevo dato molto peso.
Sono andato allora a parlare con la figlia di una sua amica sperando di trovare qualcosa di nuovo, un’ispirazione pratica. Da Pineta, dove abito, a Marila ci sono forse una decina di chilometri, che si fanno in mezz’ora, se non c’è molto traffico.
La figlia di Lena, (quest’ultima già morta, e molto prima di Ivana,) era una persona molto gradevole, così mi è parso all’inizio.
Mi ha accolto come un grande amico e mi ha offerto il vino buono, che è voluta andare ad ogni costo a prendere in cantina.
La televisione là dentro gridava in maniera orribile, ho dovuto spegnerla, ma quando è tornata lei la ha riaccesa automaticamente, come se fosse la cosa che si doveva fare di regola, entrando in quella stanza.
Allora le ho fatto abbassare un po’ il volume, ma anche così era insopportabile, probabilmente per il tipo di programma che stava guardando, con uno di quei presentatori eternamente sorridenti che ricevono ospiti umili e poi cominciano, in maniera solidale, affabile e simpatica, a lamentarsi delle ingiustizie del mondo in generale, poi di quelle italiane più in particolare, per finire in bellezza mischiandole e confrontandole con quelle personali degli ospiti in sala.
Aldina, così si chiamava, ha accettato allora, su mio suggerimento, di trasferirci nella stanza attigua, dato che lì era più caldo, perché c’era il caminetto acceso, che è una cosa che mi è sempre piaciuta.
Allora abbiamo cominciato la conversazione e le ho cominciato a domandare di sua madre e di mia zia e si ricordava alcune cose, ma non poche di queste mi pareva che concidessero scarsamente con il carattere e lo stile di vita di mia zia.
Nel frattempo non avevo potuto evitare di fare caso ad alcuni segnali di instabilità, in Aldina, per esempio che continuava a alzarsi e a sedersi, facendomi sentire nervoso.
Mi riempiva a ripetizione il bicchiere, sebbene io gli dicessi che amavo sorseggiare con calma un buon vino, al che lei argomentava che quello non era molto buono - il che, forse, l’autorizzava a forzare la mia studiata lentezza nel berlo - che dovevo sentire piuttosto quello che aveva finito qualche giorno prima... ma per me proprio quel vino lì era ottimo, anche se ho pensato che fosse meglio non insistere nel farglielo notare.
Per farla breve sono dovuto scappare, dopo non più di venti minuti, perché stavo bevendo come un dannato e gli occhi mi ballavano.
Negli ultimi istanti, prima della mia ordinata fuga, vedevo la sua bocca che si apriva e si chiudeva come se stesse parlando, ma non sentivo cosa mi diceva.
La conferma della scarsa affidabilità della signora Tocci mi è arrivata all’uscita, mi ha salutato molto gentilmente e mi ha soavemente chiamato ‘signor Melani’, che non solo non è il mio nome, ma di un uomo che non mi piace, che conosco solo di vista, ma già quella da sola, mi fa capire che tipo di persona sia, alla quale mi vanto di non assomigliare per niente e che abita lì vicino.
Tutto questo mi ha profondamente scosso.
Ho fatto il viaggio di ritorno guidando un po’ al rallentatore e a zig-zag, irritando gli altri automobilisti e in una occasione quasi mettendo sotto un pedone che si era nascosto, chissà come, dietro al montante sinistro della porta della mia vecchia Lancia.
7) “Che cosa è la vita e quale è il suo senso?”
Mi è venuto in mente, seduto di fronte al computer. Questa fissazione di trovare un senso alle cose è una mania tipicamente umana e non andrebbe presa troppo sul serio, ma a volte il vino o le circostanze avverse ci obbligano a fermarci in una palude densa di riflessioni stagnanti...
Qualcuno si chiederà che cosa ha a che fare questo con la visita alla figlia della vecchia amica di mia zia, se qualcuno se lo domandasse risponderei chiedendo: come è possibile che alcune persone a cinquantanni siano già rincoglionite ed altre a ottanta come me e Ivana quando morì, siano ancora lucide?
Risposta: perché hanno esercitato il cervello, non sono rimasti lì davanti alla televisione a farsi rincretinire.
Tanto per fare un esempio.
Poi, passata questa malinconica riflessione, concludendo che forse così lucido non sono più, se mi perdo così facilmente in mari di tristezza altrimenti evitabili, sorseggiando tè alla menta da una tazzona gigante con il mio nome scritto in caratteri gotici, tanto per cambiare... non so come andare avanti con lo scrivere.
La notte fuori brilla del suo buio migliore, l’autunno della mia vita è già diventato inverno, in questo momento rappresentato degnamente dal tempo atmosferico stagionale... non ho più molto tempo per finire i miei progetti. Devo sbrigarmi.
Allora, potrei dire che Ivana era mia zia e le ho voluto un gran bene, forse perché era diversa da tutti gli altri, sebbene a volte fosse noiosa, ogni tanto parlasse a vanvera, ho sempre sentito un contatto buono con lei, qualcosa di confortante.
Non è per questo che devo scrivere la sua avventura sugli altopiani del pensiero... porco cane, forse anche per questo, sì, ma è una storia che varrebbe la pena di essere scritta lo stesso.
Per tutto questo tempo, in cui sono stato scrittore, ho lasciato perdere, ho preso i temi più facili, più gradevoli, più immediati, l’immagine di zia Ivana forse mi faceva un po’ paura, mi faceva tornare bambino, adolescente, meno padrone di me stesso.
Non perché lei si sia comportata una unica volta male con me, al contrario, ma perché era differente da tutto quello la vita mi ha abituato, in seguito, a vedere, a sentire, a conoscere o a credere di conoscere.
O forse semplicemente non era ancora il momento, il momento che sta arrivando ora come conseguenza del mio sogno, del quale mi ricordo poco o niente, solo la sua faccia, come sempre, apparentemente inespressiva.
Ma era un messaggio, quello, qualcosa di forte.
Generalmente, mi dimentico subito dei sogni fatti a letto la notte, appena fatta la pipì in bagno la mattina; ma questo invece no, era come se lei mi avesse parlato in silenzio, guardandomi con quegli occhi che pareva che non vedessero, ma che alla loro maniera vedevano più di quelli degli altri.
Domanda del giorno: perché vivo la mia vita del cervello ad un tempo differente da quella del corpo? A volte mi pare che le due parti siano indipendenti.
C’è una specie d’interruttore che forse è il cuore?
Ecco che penso a zia Ivana, che la sua vita interna e quella esterna erano collegate ma erano diventate anche indipendenti...
Sì. Devo sforzarmi di scrivere qualcosa su di lei, so anche che ne uscirà una bella storia.
Ora devo solo aspettare che passino... quelle nuvole di prima, quell’aereo pieno di facce accigliate, attraverso il mio arzillo cervello di ottantenne momentaneamente stanco.
8)Psicologia di una zia
È il giorno dopo. Scrivo ascoltando musica tibetana, mangiucchiando un panino al formaggio.
Diciamo che sto solo tentando di scrivere, tento di trovare, come ieri, una traccia, qualcosa da cui partire, ma non ce la faccio.
Proviamo a ritornare alla psicologia della zia, che era schiacciata un po’ da tutti i lati e per questo ha dovuto svilupparsi all’interno di se stessa, ha dovuto trovare lo spazio per correre, se fuori non poteva, almeno dentro di sé.
Zia Ivana è morta tanti anni fa e per me è ancora viva, credo di sapere il perché: abbiamo sempre comunicato aldifuori delle parole, forse perché lei non poteva guardarmi bene e mi vedeva sempre peggio, ma la sua idea di me era una cosa che non aveva bisogno di apparenze... e questo mi piace.
Diciamo la verità, la maggior parte delle persone non arriva mai ad avere un’idea generale delle cose, ma si concentra sui particolari, che presi singolarmente non valgono un bel niente, che messi insieme senza la necessaria competenza, spesso confondono solo le idee.
Cerchiamo però di essere più concreti: mi ricordo zia Ivana tutta rugosa e con quel naso largo, i suoi incredibili labbroni, pareva una negra, una negra bianca, d’accordo, ma anche come persona, pareva più una cosa che l’altra, di questo me ne accorgo ora, quasi alla fine della mia vita, conosciute razze e particolarità, prese le misure e fatti i debiti confronti.
I suoi occhiali dalle lenti spesse le ingrandivano gli occhi, e ne evidenziavano la vacuità, la quasi inutilità.
I suoi modi non erano particolarmente gentili, ma nemmeno scortesi, non faceva tante cerimonie, ma manteneva sempre la calma, o quasi sempre.
Per esempio, una volta venne fuori una voce che mio padre aveva un’amante, allora lei cosa fece? Telefonò arrabbiatissima a mia madre, perché la colpa era di lei, secondo Ivana, che lo trascurava, che lo aveva obbligato a fare una cosa del genere.
Mia madre non riuscì nemmeno a dire una frase, fu investita da un treno di parole che finì solo quando mia zia riattaccò il ricevitore dall’altra parte.
Non ho mai saputo se era vero o no, dell’amante di mio padre, ma ricordo che zia Ivana e quell’episodio furono oggetto di conversazione per un bel po’ di tempo a casa mia.
Mi rendo conto adesso che mi piaceva, proprio perché il contatto con lei era differente, non aveva a che fare con le apparenze, tanto importanti allora ed ancora di più oggigiorno.
Era capace di parlare molto, di persone del paese di Marila, che noi non conoscevamo, che pure mio padre, spesso, non ricordava.
Era normale allora che andassimo in giro con la mente quando lei partiva per tutta quella serie di ragionamenti, che, anche quando, ma raramente, c’impegnavamo a farlo, avevamo difficoltà a seguire.
Il fatto è che pareva tutto slegato, sia i fatti che i commenti tra di loro, interrotti e ripresi senza ordine in un monologo impenetrabile, sia tutte quelle notizie di quell’esercito di persone morte o malate, che noi non avevamo mai conosciuto, divergeva troppo dal nostro mondo, che anche se fisicamente non troppo lontano dal suo, non si toccavano mai.
Anche nella maniera di esporre le cose era tutto annebbiato, come la sua vista, come la maniera tecnica di zia Ivana di vedere il mondo e oltre tutto, l’ambiente reale che la circondava era quello di una paese dove lei e mio padre erano nati e cresciuti, ma completamente differente dal nostro, cioè dove eravamo nati io e i miei fratelli, sebbene fosse a non più di venti chilometri di distanza.
Zia Ivana era grassoccia, almeno da adulta, camminava con passi incerti, usava il bastone bianco dei ciechi, negli ultimi tempi.
Bene, anzi male, non lo so... il fatto è che ora sono qui e non riesco minimamente ad esprimere qualcosa di lei che non sia teoria, vorrei avere qualche episodio pratico da raccontare...
Vado in cucina e mi faccio un toast, è finito il prosciutto e insieme al formaggio ci metto delle foglie di basilico e un po’ di prezzemolo.
Poi prendo anche una birra.
Stappando la birra è come se il cervello anche si sia improvvisamente stappato, mi viene in mente in un lampo l’episodio dei dinosauri, che sembra sorgere proprio a proposito... lascio il tostapane a fare il suo lavoro e mi precipito a scrivere... per fortuna è uno di quegli apparecchi automatici ed espelle il suo bel risultato caldo quando è il momento, prima di bruciare, ma nel mio caso rimane ad aspettarmi per un bel po’, poi, quando ritorno, non mi interessa più.
Dopo lo dò a Adorno, il mio cucciolo di pastore tedesco.
9) Ritornando indietro nel tempo
Il fatto era avvenuto quando io ero piccolo, me ne ero momentaneamente dimenticato e ora mentre lo vedevo confuso e frammentato davanti ai miei occhi, mi mancavano i particolari, il contorno della storia.
Ho abbassato le palpebre e ho cercato di immedesimarmi nella cornice storica che era rappresentata dalla casa dell’ospedale di Magliano, dove mio padre era medico, poi le visite di zia Ivana, che duravano sempre almeno quattro, cinque giorni o più.
Per quanto mi sforzassi, però, non ricordavo bene, avevo bisogno di qualcosa che stimolasse la ricerca nella mia mente polverosa, qualche odore (sia vicino alla casa di Marila che nei dintorni di quella del manicomio di Magliano, c’erano degli alberi di alloro, quello era un odore forte che ricordo bene e mi porta al passato di quei tempi), qualche suono... sì, magari qualche musica del passato...
Ho pensato allora a quelle cassette che le avevo fatto perché potesse passare il tempo, con vecchie canzoni popolari italiane e musica classica, musica di organo da chiesa eccetera... cose che avevo inciso seguendo anche i miei gusti, ci avevo messo un sacco di tempo, ma erano delle belle cassette.
Il fatto completo era questo: proprio negli ultimi tempi, della sua lunga vita, le avevo regalato un registratore, visto che se non poteva vedere, almeno era capace di ascoltare, avevo pensato, musica, poesia, preghiere... zia Ivana era molto religiosa.
Insieme all’apparecchio, le avevo dato quelle cassette che ho già detto prima: musica mista, canzoni e pezzi strumentali, ed alcune di essi, potevano fissare l’epoca, delineare atmosfere e ricordi.
Dopo qualche anno, quando morì, lei mi aveva lasciato un po’ di soldi ed alcuni oggetti che mi piacevano, come uno specchio grande con una bella cornice di legno e... mi restituiva il registratore, ancora funzionante, con le tre cassette da novanta minuti l’una.
A quel tempo avevo già quasi cinquant’anni, ero ancora molto occupato a lottare come un ossesso nel mondo della letteratura, per occupare uno spazio che era già mio, ma non lo sapevo.
Ricordo che piansi e rimasi per un bel po’ di tempo, in camera mia, rigirandomi per le mani, quel registratore, e quelle tre cassette, senza nemmeno farmi arrivare al cervello l’idea di ascoltare una di quelle tre incisioni, che potevano, in qualche modo, essere la colonna sonora della mia tristezza per la morte della zia, ma anche il ricordo della sua vita.
Sì, io e il giardiniere Antonio, dicevamo che la morte l’aveva colta impreparata, anche se aveva cento anni, ma invece era noi che aveva sorpreso, noi che ormai pensavamo che fosse eterna, inconsciamente, eravamo abituati all’idea di vedere tutti morire intorno a lei, ma lei no, lei non poteva, porco cane.
Da alcuni anni viveva con me, aveva avuto tutto il suo spazio a disposizione, me lo aveva chiesto la moglie di mio cugino, con la cui famiglia stava vivendo, nella stessa grande e vecchia casa Baldacci, di tre piani, a Marila.
Le avevo aperto volentieri la porta ed il cuore, in quell’epoca ero rimasto solo, di nuovo, dopo la fuga di Gianna con il suo musicista jazz, dopo la morte di un ennesimo cane lupo, Schopenhauer, uno dei migliori di tutti i tempi.
Parlavo molto con lei, ma più che altro lei con me, anche se quello che diceva non mi pareva avere senso, mi piaceva chiacchierarci, non tanto per la bellezza della conversazione, ma più per una questione di vibrazioni, a quel tempo sapevo già che il contatto più autentico tra le persone è fatto più di energia che di parole.
Mi faceva compagnia, anche solo vederla là vicino alla vetrata, seduta sulla sua poltrona e con quella coperta scozzese sulle gambe che ora uso io, guardare aldilà degli occhiali quello che non poteva vedere, ma sembrava sempre che guardasse qualcosa, chissà cosa?
Insomma ho preso allora il registratore e ho messo su una delle tre cassette che le avevo preparato, c’era Domenico Modugno che cantava una canzone che mi era sempre piaciuta e piaceva molto anche a lei, parlava di notti di luna calante e mentre l’ascoltavo, come avevo sperato, ho cominciato a ricordare con più precisione e a prendere appunti su un quaderno.
10) Dinosauri!
Dovevo avere avuto quattro cinque anni, una volta, nel salotto di casa, a quel tempo la mia famiglia abitata nella vecchia casa dentro l’Ospedale Psichiatrico, dove mio padre lavorava come ‘medico dei pazzi’.
Ivana era seduta sulla poltrona davanti alla televisione spenta, io stavo giocando a soldatini lì vicino, a un certo punto l’ho sentita masticare frasi confuse e credevo che dormisse e sognasse, magari un incubo.
Poi, avvicinatomi, ho visto che aveva gli occhi aperti, ma fissi nel vuoto, dopo mi sono accorto però che c’era qualcosa di strano, perché parlandole, lei mi rispondeva come se fossi un altro, un chissà quale fantasma del passato, mi sono spaventato, all’inizio... ma visto che ero cresciuto in un manicomio... ero abituato a certe cose strane, così dopo essere fuggito fuori, sono ritornato e lentamente è cominciato il dialogo, ecco come è stato, più o meno:
“Ivana, mi leggi un giornalino?”
“Chi sei?”
“Come chi sono? Sono Graziano!”
“Che cosa fai qui?”
“Io abito qui. Sei tu, invece, che sei un’ospite.”
Una strana maniera di fare, ora parlava con gli occhi chiusi, ma io non avevo più timore, senza bisogno di nessun ragionamento logico, prerogativa delle persone adulte, sentivo istintivamente che non c’era ostilità, che se la sua personalità era momentaneamente cambiata, non era molto diversa da quella normale. In più ero incuriosito e volevo capire cosa stava succedendo.
Avrei potuto farle tante domande di molti tipi differenti, ma in quell’epoca, per me, l’interrogativo più importante era questo:
“Allora, mi dici come erano i dinosauri, zia Ivana, te li ricordi o no?”
Il silenzio che seguì, mi spaventò un poco, di nuovo, lei respirava più affannosamente, ora penso che era come se facesse fatica a ricordare, magari stava ricaricando la memoria, ma in quel momento mi disorientò, perché durò un bel po’.
Eravamo nella semioscurità fresca di una vecchia e grande casa in un pomeriggio d’estate, nella campagna toscana, tutto fuori era luce accecante, calore e canti di cicale.
Stavo quasi per scappare, ma alla fine lei parlò, la sua voce pareva diversa, più maschile, come se un’altra entità raccontasse al suo posto, un uomo forse, un vecchio:
“Erano grandi, ma non grandi che te li puoi immaginare, perché ora non c’è più niente di simile, erano dei bestioni proporzionati per la loro epoca e per quello che succedeva allora nel mondo.”
Questo discordava con la sua maniera di esprimersi normale e con un altro fatto che mi ero dimenticato e mi sono ricordato ora, che era successo pochi giorni prima e che è meglio raccontare sommariamente.
Antefatto: Avendo visto nell’enciclopedia i dinosauri, ne ero rimasto impressionato e avevo pensato di chiedere a mio padre come esattamente si comportavano sul nostro stesso pianeta: gli uomini come potevano convivere con questi autentici mostri?
Mio padre aveva riso di gusto e aveva detto che lui non era ancora nato, ma che avrei dovuto chiedere a sua sorella maggiore, cioè zia Ivana.
Ero andato da lei ansioso di avere una risposta. Anche lei aveva riso, dicendo che non era tanto vecchia, non c’era rimasta male, non c’era niente in lei di vanitoso, per fortuna.
E poi, anche se lo sembrava fisicamente, dal punto di vista socio-culturale non era nemmeno una donna, era più una persona, diciamo un qualcosa di neutro.
Comunque non aveva soddisfatto la mia curiosità, al momento io non avevo capito il perché.
Ritornando a quel pomeriggio estivo più recente, invece, ricaricata la batteria del tempo e dello spazio con profonde respirazioni, che forse allora considerai fisicamente affannose, cominciò a rispondere alle mie domande, che erano tante e strane, come solo i bambini sanno fare, perché non hanno vergogna di dimostrare la loro ignoranza ed hanno una sensibilità molto più aperta e diretta degli adulti.
Stimolata per bene, zia Ivana non smetteva più di descrivere le loro caratteristiche, cose che alcuni giorni prima non aveva saputo dire, anche perché forse sorpresa dalla mia ingenuità e dal fatto che mio padre mi aveva mandato da lei per scherzo.
Anzitutto, secondo lei, ora con gli occhi semichiusi, i vari tipi di dinosauri avevano una personalità differente l’uno dall’altro, oltre alle caratteristiche fisiche molto contrastanti.
“C’era il Brachiosauro, era erbivoro, dai suoi occhi si capiva che era buono, aveva gli occhi tipo quelli della mucca... il Diplodoco era enorme e anche erbivoro, certo non dovevi rimanere sotto le sue zampe quando passeggiava, sennò ti spiaccicava...
Poi c’erano quelli che volavano e sembravano dei pipistrelli enormi, erano dei maestri nello scegliere le correnti d’aria, seguivano i movimenti del vento per stancarsi meno...”
“E che mangiavano?”
“Quest’ultimi, gli Pteranodonti, mangiavano insetti e piccoli animaletti, erano carnivori ma non troppo, insomma quasi onnivori, gli altri mangiavano erbe e piante, qualcuni mangiavano le carogne, i resti dei carnivori e naturalmente i carnivori si cibavano di carne, come l’Allosauro e il Tirannosauro...”
“Erano scemissimi come le galline o intelligenti come le volpi?”
“Di tutti i tipi, come anche gli uomini: alcuni erano carnivori solitari, altri, i più grandi, infilavano le teste sott’acqua e tiravano su le alghe delle lagune, sempre in gruppo, questi non avevano bisogno di sviluppare molto la loro intelligenza, altri invece si organizzavano, come i Velociraptor, per esempio, che erano abbastanza piccoli, ma erano cacciatori astuti e agivano in comunità, come altri animali hanno imparato a fare più avanti, i lupi per esempio...”
“Ma puzzavano?”
“E certo che puzzavano, più di tutto quello che hai mai sentito puzzare!”
“E perché, poi, puzzavano così tanto?”
“Perché erano grandi, mangiavano enormi quantità di cose, quindi anche i loro bisogni erano giganteschi, poi erano pieni di parassiti e sudavano anche a fiumi.”
“Facevano anche le scorregge?”
“Per forza! Come potevano controllare tutto quel gas? Figurati che esplosioni...”
“Forse questa è la ragione della loro estinzione!!! Ma... le lucertole e i coccodrilli non sudano, lo ha detto papà, non sono i loro parenti moderni? E poi che cosa significa estinzione?"
“Estinzione? Ah, questo non lo sai? E meno male che c’è qualcosa che non sai!
Però... ora come te lo spiego?
Lasciamo perdere questa parte per il momento... d’accordo?
E l’altra questione qual era? Ah sì, certo sudavano, sì, ma non si sa bene quali sono i discendenti attuali, o i più prossimi, alcuni dicono che sono gli uccelli, invece, i loro cugini di ora; guarda il Tirannosauro, non ha la forma di un uccellone?”
“Sì, ma non ha le ali.”
“E che ce ne interessa a noi? Allora anche gli Pteranodonti non ce le avevano, le ali, le hanno sviluppate per causa di necessità, devi calcolare che cambiare certe caratteristiche fisiche, (cioè quelle del corpo,) è un processo lento, dura migliaia di anni, ma nella natura ci sono tanti esempi, tra i quali noi stessi esseri umani...”
11) Riflettendoci un po’ su...
Da dove aveva tirato fuori tutte queste cose zia Ivana, che in stato normale aveva una maniera di esprimersi tutta sua e confusa?
Non che fosse analfabeta, ma la sua capacità di leggere era terminata presto, quando i suoi occhi non glielo permisero più, forse proprio quando stava diventando una passione.
Anche quella cosa le era stata negata, e i suoi meccanismi di difesa, successivamente avevano lavorato certo per assorbire sapienza e stimolare creatività, per uscire da un mondo che diventava una scatola sempre più stretta... e buia.
Sforzandomi di ricordare, tornando a quel giorno, vedo che allora, quando le mie domande diventarono sempre più profonde e difficili, lei si dimostrò più pronta a rispondermi.
Ora la mia memoria ha sorpreso anche me, ho rammentato anche che sentivo dire da mio madre e da altri adulti, che a volte lei si estraneava e pareva non essere più presente, talvolta per alcuni minuti o anche per ore.
Mio padre era un medico del cervello e pensava che lei fosse un poco pazza, ma sapeva - anche se non lo diceva, almeno a quel tempo - che ognuno lo è, alla sua maniera, che la normalità è uno stato artificiale al quale più o meno tutti cercano di conformarsi.
Naturalmente io capivo poco questi discorsi da adulti, ma m’incuriosivano.
Scrivendo e ascoltando la musica non molto alta della cassetta che avevo messo su, ad un certo punto ho notato che le canzoni erano state sostituite da una specie di lento ronzio di bassa tonalità, e, alzando il volume, ho scoperto che era una persona che parlava e che era una voce che conoscevo.
12) Frammenti piuttosto storici
Una voce registrata, quasi incomprensibile. Era zia Ivana in persona che parlava, ho preso la cassetta e l’ho fatta suonare nel registratore stereo grande, quello buono. Si capiva meglio, con il filtro del fruscio inserito, la sua voce ora diceva abbastanza chiaramente:
“... il nonno Guglielmo mi ha raccontato la sua storia, seduto qui sul letto, anche se nessuno lo vedeva era qui e ha cominciato a raccontare della guerra e dei tedeschi, io gli ho chiesto però di prima della guerra, che quello che mi stava dicendo lo sapevo già, perché c’ero anch’io, anche se ero cieca o quasi... insomma, volevo sapere le storie di quando lui era bambino, più di tutto mi sono sempre piaciute le storie che raccontano i bambini, perché loro vedono le cose veramente alla maniera giusta... e lui si è sentito bene, se prima quando diceva di guerra e morti, la sua fronte era tutta corrugata, dopo, invece sorrideva tutto il tempo, quando descriveva la campagna sulle colline di Marila, dove vivevano, vicino alla Specola, l’osservatorio fatto costruire dalla sorella di Napoleone, che ha governato Lucca per un po’ di tempo... come si chiamava? Ah, ecco: Elisa Baciocchi...”
La voce di Ivana continuava, come stesse riferendo a qualcuno, quello che Guglielmo aveva raccontato a lei, cosa che lei in vita non faceva mai in quella maniera, confusa, sì, con il suo stile inconfondibile, ma lì stava parlando di sensazioni visive, con parole che non aveva usato mai o quasi, forse solo quella volta dei dinosauri... e poi a chi era diretto quel documento sonoro?
Mandai avanti il nastro per vedere se quella era solo una parte incisa per caso, o qualcosa del genere...
“ ... la spiaggia era lunghissima e la sabbia dorata, ma più chiara, riluceva tanto che mi faceva fatica guardarla, era un paesaggio da sogno, solo che era tutto vero, anche se stavo seduta in camera aspettando che mia madre morisse... per riposarmi un poco, per uscire da quella situazione di dolore, per estranearmi dal freddo umido di quella notte d’autunno, mi ero trasferita in quel mondo, i mari del sud: Polinesia, un nome che fa scorrere da solo immagini stupefacenti sul telone dietro ai miei occhi dimenticati, ma senza la mia grande capacità di viaggiare senza muovermi, non avrei mai potuto assaporare... spero che niente mi faccia perdere questo mio strano ma grande potere.”
Sorpreso e curioso mandavo avanti e indietro il nastro, il cuore mi batteva fortissimo, volevo conoscere tutto quello che c’era su quella cassetta di novanta minuti... e anche nelle altre!
Qualche pezzo di musica, le canzoni che avevo inciso io, ma interrotte e spezzate, a volte intere, intercalavano le testimonianze, senza nessun ordine, mi pareva.
“ ... le scimmie saltellavano sulle rovine del tempio dedicato alla dea indù, si trattava di Kali, dalle innumerevoli braccia e relative mani, erano trentadue?
La statua stessa era ricoperta da quelle straordinarie creature agili e acrobatiche, in un formicolante movimento continuo, era difficile anche sapere quante mani aveva quella benedetta dea Kali, ma forse invece era maledetta: l’espressione del suo viso era malignità pura.
L’esploratore indiano mi fece entrare per vedere le incisioni sulle pareti, c’era anche quel simbolo dei tedeschi, la svastica, che però non aveva niente a che fare con il resto, apparentemente, ma il nostro fido Nuantenji mi spiegò che era in verità un simbolo solare di energia, inventato dal popolo degli Arii, simbolo che poi era stato copiato dai nazisti e mi fece notare che questo aveva il senso di rotazione contrario di quell’altro... che aveva simbolizzato il terrore nell’ultima guerra mondiale... in tempi, comunque, assai più recenti.”
13) Primo spostamento al di là del buio
Le altre cassette erano tutte incise in quel modo, allora mi misi a cercare un ordine storico, per vedere se ce ne fosse uno qualsiasi... ma invece era tutto fatto a caso, si passava al tempo dei tempi e si ritornava all’attualità in ogni momento.
Per avere un’idea delle cose, feci io un ordine e ri-registrai le cassette con la sequenza che mi pareva più logica.
Ma non funzionava, perché il tempo non era stato considerato da lei e come potevo io farlo risorgere da una dimensione dove anche lo spazio non valeva più niente?
Ascoltai tutto varie volte, prendendo appunti, cercando di capire come era stato possibile tutto ciò, chiedendomi sempre, senza potermi rispondere: perché non aveva mai raccontato a nessuno della sua capacità di correre dentro al suo mondo, creando a suo gusto ambienti e personaggi?
La prima parte, dopo un lavoro frenetico e convulso di qualche giorno, ho deciso, ieri, che doveva essere questa:
“La prima volta che è successo è stata una mattinata d’inverno, sentendo quel freddo tremendo, camminando per strada, mi sono immaginata il caldo, un passo dopo l’altro, andando verso la bottega per fare la spesa per mia madre, per la nostra famiglia, ci sono arrivata con una sensazione di piacevole calore, di spiaggia assolata, non ho fatto alcun sforzo per immaginrmi il mare ed i gabbiani, le palme e una barca a vela rudimentale.
Alla mia maniera ho vissuto tutto per qualche minuto, finché la campanella della porta mi ha riportata al freddo e al paese, dentro quell’alimentari e deposito annesso, pieno di odori, ma tra i quali i baccalà, sagome indistinte e penzolanti come macabre decorazioni, vincevano sugli altri.
Giovanni mi ha chiesto che cosa volevo e io per un po’ sono stata zitta, per riambientarmi, anche per me era stato shoccante.
Poi ho cominciato a recitare la lista della spesa, inalando boccate di sale di mare e odore di pesce secco, declamando molto più allegramente di altre volte, la breve poesia contemporanea, scritta dalla mamma su un pezzo di carta gialla grezza, con la quale Giovanni stesso imballava le sue più diverse merci secche.
All’epoca riuscivo a leggere solo appoggiando quasi gli occhi al foglio scritto.
Mancavano pochi anni alla guerra, anche se nessuno lo sapeva, ed io forse avevo già e finalmente scoperto come combattere il mio nemico, che per me non era rappresentato dai bombardamenti o dalla fame, che ancora non conoscevo, ma che era stato forse più feroce, fino ad allora, nella mia vita.
Tornando a casa ho fatto il bagno in quel mare caldo, pieno di pesci colorati, dove il corallo tesseva ricami variopinti e dalle molteplici forme.
Alcune sere dopo, a letto, ho cominciato ad immaginarmi come era mia madre quando era piccola. Ecco che per mia sorpresa mi sono ritrovata nel paese di S.Andrea di Compito, davanti alla chiesa, in un pomeriggio primaverile, a giudicare dai fiori degli alberi e delle pianticine delle aiuole.
A quel punto io non sapevo che la scelta del paesaggio, della stagione, ero io stessa che la decidevo, ma mi sono rallegrata per la gioia della situazione ed ho riconosciuto subito, non per caso, la piccola Giuseppina, mia madre, che arrivata correndo con una bambola di pezza mi ha detto:
“Giochiamo a bambole?”
“Ma io non ho nessuna bambola…”
“Va bene, ti lascio giocare, giochiamo con la mia… io sono il papà e te la mamma, va bene?”
Abituata all’autorità della madre, anche da coetanea non ho fatto obiezioni, mi sono calata nel gioco, un po’ come facevo nella realtà, mentre il ‘papà’ parlava della sua giornata di lavoro, ho finto di cucinare, cosa che nella realtà non ho imparato mai a fare. Ma nei miei viaggi nello spazio e nel tempo sì, ho sempre cucinato… e benissimo!”
Una lacrima scorreva a questo punto sul mio vecchio viso di uomo che si illudeva di averle viste tutte, nella sua lunga permanenza sulla terra… ma, sentite, forse non ancora.
Mia zia Ivana che parlava di spazio e di tempo era più di quello potevo sopportare, ridevo e piangevo, ero allegro e triste, contemporaneamente.
Non la credevo capace di riflessioni del genere, sapevo che la sua saggezza era grande, ma non sapevo che la poteva esprimere a parole, ho pensato che se l’era goduta la vita, dentro di sé, questo mi faceva sentire bene, ero contento per lei...
Adesso intendo che quello non era solo un chiudersi in se stessa, era la sua maniera di fare un giretto intorno... magari e pure di manipolare l’orologio, del quale già a quel tempo, nel mondo, si era cominciato ad essere schiavi.
In un certo senso era una meraviglia: se si annoiava era capace di andarsene un po’ nel Pleistocene, o a dare un’occhiata da vicino alla Rivoluzione Francese, oppure una passeggiata per le vie di Atene, cosa c’è di più interessante dell’antica Grecia? E le piramidi Azteche? Non c’erano problemi, era tutto come se fosse vero e sempre a disposizione!
Da quello che ho capito, quando lei pigiava quel bottone magico, i suoi occhi vedevano più di tutti gli altri, ma non quello che stava avvenendo lì e in quel momento.
E a volte, forse, era meglio così.
Se voleva, sceglieva i personaggi, sennò lasciava al caso, non rischiava niente, bastava schioccare le dita e tornava al presente, noioso e ripetitivo, senza soddisfazioni, ma un rifugio utile quando era stanca di girare.
Era un mondo falso e solo immaginario?
No, quello che raccontava zia Ivana con parole sue, dei dinosauri, risaliva ad una realtà, quella scritta sui libri, che lei non leggeva, erano proprio le ipotesi formulate dagli scienziati sulla base di pochi ossi e tanta fantasia.
Corrispondevano a quello che si diceva all’epoca, alcune teorie sono state riviste, ma lei aveva certamente comunicato, dentro alla sua macchina del tempo e dello spazio, con qualcuno che aveva personalmente fatto degli studi; visto che qualche giorno prima le avevo chiesto dei mostri preistorici e lei non aveva saputo rispondere, poi si era informata.
Se i limiti dell’uomo sono esattamente lo spazio il tempo, lei, proprio per essere stata meno dotata dalla natura, a livello di standards umani, godeva, di nascosto di questo straordinario potere.
Ci sono tante definizioni, alcune che possono sembrare ironici per una persona come lei, tipo: chiaroveggente, altri definiti con altre parole che si adattano meglio alla situazione, come per esempio: parapsicologa.
Una cosa era sicura: la maggior parte di noi non comunica, come lei faceva, con cose e persone, entità e altri mondi, ma è una cosa che si sviluppa con il tempo e la continuitá giornaliera e c’è magari bisogno di avere qualche menomazione per farlo, sennò non ne abbiamo necessità, come alcuni animali che erano acquatici e sono diventati terrestri, altri terrestri e sono diventati uccelli, la mancanza di qualcosa sviluppa altre capacità, che sennò rimarrebbero nascoste.
Dicono anche che l’uomo deve la sua maggior intelligenza al fatto che fisicamente era meno dotato degli altri animali, per la sopravvivenza al tipo di vita della preistoria.
Intanto il suo racconto continuava:
“Mi sono addormentata poi, stanchissima, quando marito e moglie, nella finzione del gioco, messa a letto la bambola, si sono coricati, abbracciati, ho stretto a me mia madre, cosa che nella vita reale non succedeva mai... mi sono svegliata con il cuscino tra le braccia, contenta, cominciavo a capire...
“E anch’io comincio a capire... comincio a capire perché lei non aveva mai raccontato niente a nessuno.”
“I miei pensieri su questa capacità concreta di sognare, ad occhi aperti o chiusi, hanno cominciato ad impegnarmi la testa, ho iniziato ad usare quella pratica in momenti diversi della giornata, specie quando mi annoiavo o c’era qualcosa che mi disturbava, non chiedendomi nemmeno più se era normale o no, che questo succedesse, poi cominciando a domandarmi se agli altri capitava la stessa cosa.
Era così importante per me che non volevo domandarmi nulla che potesse causare qualche variazione del presente, che finalmente era pieno di colori e di vita!
Quando l’ho detto a mia sorella, Ada, con la quale non andavo molto d’accordo, lei mi ha preso in giro, cantilenando come fanno spesso i bambini, finché non me ne sono andata via, irritata, quasi fuggendo:
“Bu-giardona, bu-giardona, bu-giardona… ”
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