- Che le cose
abbiano un solo potenziale ordine già è difficile stabilirlo, in questo schema
complesso in movimento costante... eppure incostante e irregolare, infilarci in
mezzo poi gli esseri umani, le loro smarrite manifestazioni, obbliga a
confrontarsi su vari livelli e interpretazioni, insomma provarci è lecito ma
riuscirci è fantascienza.
- Ma, secondo te, perché la gente parla?
- Ci possono essere molti motivi e poi ci sono anche tanti tipi di
persone...
- Va bene, lo so, ma secondo te non c'è un motivo principale, in generale?
- Forse sì, forse perché c’è un bisogno di comunicare quello che si sente,
quello che si pensa, in un certo senso di confrontarsi.
- Non sarà forse che la gente ha bisogno di conferme?
- Anche, ma non solo, per me la comunicazione è il motivo principale,
almeno come è nata e si è sviluppata...
- Ciò non toglie che per qualcuno diventa poi un meccanismo diverso e
distorto, per alcuni parlare è come respirare... vabbè: non proprio ma quasi.
- D’accordo, per noi è anche autoaffermarsi, guarda gli animali, non stanno
lì a chiacchierare del più e del meno, comunicano solo i concetti necessari.
- È meglio o peggio?
- Non lo so, ma tra gli esseri umani si dicono tante cretinate, uscite
fuori dalla bocca solo per nervosismo o imbarazzo, agli animali questo non
succede. E poi tra noi capita anche che non si sa se si vuole oppure no, un
determinato qualcosa, questo genera confusione negli altri.
Nel teatro le voci dichiarano e poi
smentiscono talvolta quello che gli atti mostrano. Le parole sono anche troppe
e spesso fuorvianti, come nella vita, contano meno dei fatti, eppure la gente
si lascia ingannare dalle chiacchiere.
Insomma ho conosciuto mia moglie a Mlada Boleslav, quaranta chilometri a
nord di Praga, in un commissariato, per via di una rissa in discoteca. Ero in
vacanza e non c’entravo niente con la scazzottata, ma la polizia non ha avuto
problemi a rilasciarmi, quando ha visto che non avevo segni di lotta addosso.
Proviamo a immaginare la relativa scena di una centrale di polizia, fatta
di separè teatrali, volutamente squallida, piena di gente seduta che aspetta,
luci e ombre, discorsi e sigarette, poliziotti che dicono di spegnerle, che lì
non si può fumare.
Identifico la vita un po’ con un grande ma elastico teatro, più che come un
romanzo. L’immaginazione in un libro la deve avere lo scrittore, ma anche il
lettore. Il teatro è diverso, suggerisce di più, ma definisce di meno. Tanti
palchi separati solo dallo spazio e dal tempo.
Dei film e delle finzioni teatrali io ho
sempre apprezzato di più le scene di contorno, come quelle a tavola o in
cucina, non i protagonisti ma i caratteristi, tassisti, camerieri, passanti,
gente che fa da cornice al quadro principale.
Hana era stata in Italia e ammirava
soprattutto la nostra cucina, tanto che nei primi tempi parlavamo piuttosto
spesso di quella. Anche attualmente, in special modo a tavola, frequentemente
l’argomento scivola quasi in automatico per cucine di casa e ristoranti,
confronti e ricordi, piatti apprezzati e ingredienti. In generale parliamo un
po’ di tutto, anche di politica ed ecologia, ma più gastronomia che astronomia,
meno ancora astrologia.
Qui sul palco immaginario della mia
routine c’è una sala da pranzo accogliente, si scorgono una finestra e il
caminetto con sopra dei soprammobili, un paio di quadri. I personaggi parlano e
mangiano, bevono e conversano.
“Non è vero che
fare scarpetta è maleducazione, al contrario, oltre il grande gusto nel farlo,
quando il sugo è buono, l’evidente apprezzamento per chi ha cucinato, si aiuta
anche chi lava i piatti e se chi li deve lavare poi è la stessa persona, meglio
ancora!”
“Hai ragione però. Io lo faccio sempre e
me ne frego.”
“Ma lo facevi anche prima di conoscermi,
anche in Cecoslovacchia e al ristorante?”
“Sì, i miei genitori magari si
vergognavano, ma non dicevano più niente.”
“Brava! E poi
diciamocelo: in Francia si mangia bene, ma a noi non ci legano nemmeno quei
fagiolini lunghi… come si chiamano?”
“Le stringhe?”
“Ecco: non ci legano neppure le
stringhe!”
“Quanto sei stronzo…”
“Stronzo sì, per modo di dire, ma cucino
da Dio e quanto a mangiare non sono secondo a nessuno. Tu segui il mio modesto
ragionamento: noi abbiamo una cultura basata sulla gastronomia casalinga, non
c’è un cacchio da fare.”
“E in Francia no?”
“No, è una cucina molto meno onesta,
assai più grassa, gli piacciono quelle cose improponibili come il fegato d’oca,
ottenuto facendo violenza alle povere bestie, (pare che ultimamente sia
diventato anche fuorilegge,) gli uccelli morti a testa in giù, legati che sono
buoni da mangiare quando si staccano dalle zampe, perché sono mezzi marci.
Danno meno importanza al cibo in funzione della salute, alla culinaria fatta di
prodotti freschi, al mangiar bene quando è sano, e oltretutto se ne fregano
della buona compagnia a tavola… appena finito si alzano, vanno a lavorare… non
stanno lì a conversare come noi per ore.”
“Vabbè, ma non lo fate più nemmeno voi…”
“Dipende, forse è più una cosa da
campagnoli, o da pensionati, certo di giovani ne abbiamo sempre meno, ma la
cultura italiana è improntata su questo stare insieme, bere, mangiare e
parlare-parlare-parlare…”
“Con la bocca e con le braccia?”
“E certo! Gesticolare anche non è
fondamentale per noi peninsulari?”
“Infatti, il generale De Gaulle però,
dalla sua, si lamentava dei troppi formaggi.”
“E secondo te in Francia ce ne sono più
che in Italia?”
“No, non credo, era una frase a effetto,
magari.”
Dicono che noi cerchiamo la madre nella
nostra compagna, e forse hanno ragione, guarda caso Hana poco prima di cena o
di pranzo mi dice di non mangiare per non rovinarmi l’appetito.
Da chi avrà imparato?
Mamma mi diceva sempre di non mangiare
fuori pasto, per non rovinarmi l’appetito.
Io a quel tempo non ci pensavo che
potesse essere una cosa utile, ma ora dico: magari!
L’appetito purtroppo non mi si rovinava
e non mi si rovina neanche ora, mangio troppo e pure troppo velocemente, invece
di smettere quando tutti hanno smesso, io diminuisco in modo progressivo la
velocità, ma continuo.
Anche mio padre mangiava alla svelta,
proprio come faccio io, digeriva male e poi rimaneva ore a girare per la casa
con la mano a massaggiarsi la pancia, tutte le sere.
Quando io e mio fratello Gaudenzio
tornavamo dall’allenamento, l’unico anno che abbiamo giocato nella stessa
squadra, sparivano chili di roba dalla tavola in pochi minuti. Certo, eravamo
giovani e forti, specialmente lui, che forse solo ora comincia ad avere i primi
problemi di digestione.
C’è da dire che i cechi sono tutto il
contrario di spreconi, possono essere anche poveri, ma non buttano via le cose,
forse per ringraziare quelle loro indirette divinità comuniste, non scartano
mai le cose da mangiare e da bere, anche se non gli piacciono. La sorella di
Hana invece no, è una bella ragazza, alquanto distratta, non pulisce mai il
piatto, non fa nessunissima scarpetta, mai. In più lascia sempre un goccio di
qualcosa nel bicchiere o nella tazza, per abitudine.
Ma come si fa?
Stavamo dicendo però che nel teatro, come nella vita, sono i personaggi che
contano, le scene sono di cartone, le luci sapientemente orientate danno
un’atmosfera, si immagina più di quello che si vede. Il teatro è un romanzo in
cui l’autore sparisce, il narratore è una voce che dice e non dice.
Infatti non ho fatto in tempo a vedere
la guerra io, ma indirettamente ne sono ancora influenzato. La bottiglia
dell’olio di oliva, per esempio, che è un bene caro e raro, quando finisce
lascia un goccio difficile da tirar fuori, allora la metto capovolta, la
appoggio a qualcosa e dopo qualche ora il tappo ne viene fuori pieno. La stessa
cosa faccio poi con le bottiglie di yogurt che così prezioso non è.
Forse perché quando ero bambino non si
poteva lasciare niente nel piatto, bisognava mangiare tutto, anche se non ci
andava più. I nostri genitori erano passati attraverso la guerra da giovani e
allora il cibo non si poteva sprecare, ce ne era assai poco, era prezioso.
A casa nostra si parlava solo a tavola,
principalmente la sera, con la TV accesa, a pranzo mio padre non c’era e tutto
si svolgeva più rapidamente, ma la sera, per quanto stanchi e affamati, ci si
stava di più e si conversava, forse nemmeno tanto amabilmente, ma gli argomenti
erano più sviscerati e dibattuti, anche litigando, ma non si scappava subito,
sarebbe stata vigliaccheria.
Certo le cose sono cambiate, ma una
volta anche i pranzi di affari erano la prassi e le cene pure, le ragazze
quando si corteggiavano si portavano a cena, per iniziare un qualcosa che
poteva cominciare oppure no, ma se accettavano era già quasi fatta.
Tutto questo per introdurre un concetto
forse non nuovo ma importante: la nostra cultura italiana è basata molto di più
che delle altre sulla gastronomia, sulla tavola di casa o del ristorante, molte
delle nostre conversazioni sono state fatte tra un boccone l’altro, magari un
sorso di vino.
Siccome le cose sono cambiate e in
peggio, tutto si fa di corsa e i giovani non si incontrano che attraverso
telefonini e computer, abbiamo pensato, visto che qui a Bologna insieme scriviamo
testi e dialoghi per il teatro contemporaneo, con base però su quello greco
antico, di fondare su questa grande differenza dal passato i nostri contenuti,
indirettamente ma non troppo. Le nostre scene e relative commedie si svolgono
tutte a tavola, ristorante, casa propria, invitati da amici, confronti e
dibattiti su buffet in piedi o seduti, cathering per eventi, anche all’aperto,
grigliate, picnic e cose varie.
Oggigiorno le apparenze contano di più dei contenuti, dicono e
rappresentano i nostri personaggi, la risultante e logica simulazione
d’intelligenza può sembrare sinonimo di stupidaggine, ma forse ne è solo la tragica
conseguenza.
La società
moderna per essere da decenni eccessivamente competitiva si basa molto o troppo
sulla ricerca e la deliberata quanto improbabile eliminazione degli errori.
La caccia
agli errori genera ansia, o frustrazione, indirettamente forse anche
depressione. La ricerca di una bellezza romantica, nel vivere di tutti i
giorni, invece ci aiuta a scorgere una meta più immediata ed efficace.
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