domenica 5 febbraio 2023

UGOLINO DELLA FAGGIOLA


M“Guarda qui! C’ha opportunamente avvertito il navigatore satellitare turistico e storico del mio smartphone megagalattico: percorrendo l’Aurelia vicino al comune di Castagneto Carducci, in provincia di Livorno, per un largo tratto della costa si possono ammirare i resti della Torre di Donoratico.

D“Eh? Un c’ho capito nulla.””

M”Te pensa a guidare, poi ti spiego, ma entra qui a destra alla rotonda, fammi il favore.”

Due amici piuttosto attempati fanno un giro per la Toscana, con una Panda 4x4 leggermente arrugginita. Dopo Campiglia, Suvereto, Sassetta si ritrovano appunto in provincia di Livorno vicino a Donoratico. Il primo è più informatizzato, il secondo piuttosto contrario.

M“Ma te un te lo ricordi Ugolino?” Chiede il Macchi.

D“Ugolino della Faggiola?” Risponde domandando Delfo.

M“No, quello era Uguccione, io dicevo il cantautore.”

D“Ah, sì, o un’era quello che cantava: Ma che bella giornata?”

M “Sì, ma te lo sai perché mi è venuto in mente?”

D“No, perché?”

Il Macchi ci pensa un po’, poi canta:

M “Mi sveglio al mattino e sento gridare, / qualcuno mi dice: "Ti devi sbrigare!", / in sette minuti mi lavo la faccia / e prendo il caffè con un po’ di focaccia... / Ma che bella giornata, ma che bella giornata!»

D “Era piuttosto buffo.”

M “Infatti, quella era l’idea, eppoi c’era il discorso sociale. Ugolino, in qualche modo sinistro pseudonimo di Guido Lamberti (Paola24 febbraio 1940), era un cantautore  che è stato piuttosto attivo negli anni sessanta e settanta. Considerato uno dei padri del rock demenziale, aveva uno stile in anticipo sui tempi, in un certo modo ricollegabile a quello di artisti come Enzo Jannacci e Rino Gaetano. Insomma era un precursore, forse troppo avanti per i suoi tempi.”

D“Ma anche per i miei, guarda.”

M“Un ti garbava?”

D“Sì… insomma… non era tra le mie priorità di ascolto, ma mi ricordo la faccia scura e scavata, la frangia ai capelli scuri.”

M“Eri bimbetto, per forza, ti fece impressione. Non bisogna estrapolarlo da quel contesto, però.”

D“Cioè dal nostro Festival di Sanremo che c’invidiano per mari e per terra?”

M“Ecco. Ma di che epoca stiamo parlando secondo te?”

D“Boh? Anni sessanta, dopo la metà direi. Ma perché hai detto sinistro?”

M“Sinistro, perché proprio qui vicino, Delfo, ci sarebbe la famosa Torre del Conte Ugolino!”

D“Ah, Ugolino, quello della Faggiola!”

M“Ehiii… ariganga! Quello era sempre Uguccione, sempre stato della Faggiola fin dalla nascita. No, io dicevo quello che mangiò la testa del figlio…”

D“Siee, la testa un’era quella del Vescovo Ruggieri?!”

M“Sì, hai ragione, ora mi ricordo: Dante lo descrisse nell'inferno che mordeva la testa del nemico che lo aveva fatto rinchiudere e morire di fame con i figli.”

D“Piuttosto interessante abbestia.”

M“O andiamoci allora!”

D“Orsù!”

La torre torreggia là in alto a destra, basta farne da bussola i vestigi che spuntano dalla boscaglia. Attraverso strade sterrate e polverose, dopo vari tentativi riescono ad arrivarci.

Arriva un baffuto con due cani da caccia, sembrano dei Bretoni che corrono come matti, girano e annusano. L’ometto ha un paio d’occhi sfavillanti e proprio con quelli li vede interessarsi alle rovine della torre, che sembra tagliata nel senso della lunghezza. Egli sornione intanto si avvicina, a passettini corti, come Poirot e ride:

A“Delusione? O vi aspettavate qualcos’altro? Nooo, ma il fatto è che non è quello che pensavate voi.”

D“O bella! O come fa a sapere cosa pensavamo noi?”

A“Facile. Perché io abito qui vicino e di gente a vedere le rovine qua ce ne vengono poche, è vero, non ci sono nemmeno indicazioni, come mai? Ma il fatto è che tutti pensano che fu qui che il conte Ugolino…”

M“Fu rinchiuso e si mangiò i figli per la fame…”

A“Noooo.”

D“O come no?!”

A“Allora… andiamo per ordine: Dante incontra Ugolino all’Inferno (XXXIII canto) nel girone dei traditori della patria, condannato a stare immerso in acque gelate e mordere il cranio del suo nemico, l’arcivescovo Ruggeri. Il passo dantesco ha confermato la leggenda già tramandata dalla credenza popolare sulla sua terribile fine.

Accusato di avere tradito Pisa contro Genova nella disfatta navale della Meloria, il Conte fu rinchiuso insieme a figli e nipoti nella Torre della Muda (allora utilizzata per tenervi le aquile allevate nel periodo di cosiddetta muta del piumaggio).

La loro tragica fine cambiò il nome dell’edificio in Torre della Fame. Qui si intreccia la realtà con la leggenda: si narra che morti di fame i figli e i nipoti, il conte Ugolino si sarebbe nutrito delle loro carni. Di questo epilogo non vi sono prove certe, anzi pare proprio che non fu così.”

D“Toh! E allora?”

A“Tanto per cominciare la suddetta torre un’è qui, ma a Pisa!”

M“O questa allora?”

A“Approposito: io mi chiamo Andolfo.

Venite. Ora vi spiego e vi faccio vedere ammodino: questi qui sono i frammenti di un antico castello medievale dei conti Della Gherardesca. La prima volta che si è menzionato risale al lontano 1176, ma già prima ci sono alcuni documenti che parlano o citano “domini de Donoratico”.

Sorge su una piccola altura di m. 179 di altitudine, come potete constatare, ma con le pendici particolarmente ripide. Intorno al XII sembra che il castello appartenesse a un ramo dei conti Gherardeschi ed al monastero di S.Pietro in Palazzuolo. Nel XV secolo, il castello di Donoratico passa sotto il dominio fiorentino e per l’insediamento inizia la decadenza, a causa di una contesa tra i Della Gherardesca e Firenze. Fu distrutto definitivamente nel 1433 dal Re di Napoli Alfonso D’Aragona per porre sotto assedio Campiglia e Piombino.”

D“Scusi, ma lei è di qui?”

A“Sono un mezzo pisano importato, a dì la verità, ma da tanti anni ormai, ero appena sposato e felice come un passerotto a primavera, ora sono vedovo… ma allegro, però, come potete facilmente constatare, nell’autunno quasi inverno della mia vita, appassionato di storia sì e per fortuna anche di tante altre cose vecchie e dimenticate dagli altri.

Il castello era munito di una duplice cinta di mura che racchiudeva un ripiano. Sopravvivono alcuni ruderi delle mura esterne (tra cui la porta a sud ovest) e della torre, eccoli lì, nascosti trai cespugli poi ce ne sono altri. Di quest’ultima torre che vedete qui davanti a voi, si conservano ancora il lato ovest (con due finestre), parte del lato nord (dove rimane traccia del quadruplo ordine di aperture ad arco) ed il lato sud, addossato ad una torre più bassa e di epoca più recente.

La più alta aveva quattro piani ed una cisterna, non pare avesse una porta di ingresso, ma all’altezza di circa tre metri dal piano, si trovava un’apertura a cui si accedeva da una scala mobile che, in caso di necessità, veniva ritirata. Sul fronte ovest della torre, nelle mura superstiti, si apre una porta ad arco a tutto sesto, sormontata dai resti di una scala, a sud est di nuovo i resti di una porta di accesso al castello.”

M“Ah, bello… insomma, ora è piuttosto sinistro a dilla tutta.”

A“Già, specialmente se uno ci si immedesima e lavora di fantasia.

Ma se avete tempo e voglia si va a fare una bevutella qui vicino, così vi racconto tutta la storia. Fanno dei cocktails con le bandierine dentro e gli ombrellini ammodo, qui a poche centinaia di chilometri, non di più!”

D“Allora è vicino! Ma i cani?”

A“Quelli li porto a casa, che hanno già ruzzato delle ore. Si piglia su anche le nostre rispettive Lamborghini, ovviamente. Però ve lo dico subito che pago io, non protestate nemmeno, che un c’è niente da fare. Il barista, cameriere e proprietario è un mio complice.

Ma di dove siete voi?”

D“Di Picciorana, ma più verso il confine con Lunata.”

A“O dov’è? Insomma dove sono? A me figurarsi che mi sembravate guasi toscani…”

D“Toscanissimi e con molto orgoglio! E ci mancherebbe altro! Toscana del norde, però! Nei pressi di Lucca, vale a dire, andando verso Pistoia, sulla via Pesciatina...”

A“Per esempio per andà a Montecarlo?”

D“Ecco, ma per quello si va piuttosto in diagonale, poi verso destra, si monta sulle colline e via.”

A“Bello, ci sono stato in viaggio di nozze…”

D“O un s’era allontanato un po’ troppo?”

A“Sono sempre stato audace, è vero, ci siamo spinti in una terra irta di nemici e lucchesi per di più! Ma alla mi’ moglie un’n’ho mia detto nulla! Sennò un ci veniva mia…”

Lasciata la Panda sulla strada e scesi i cani dall’Apecar celestino in un giardino assai alberato, al bar ci vanno a piedi e si siedono fuori.

Un bel barino antico di giallastre pietre a vista, per di più con la pergola. Siamo a maggio e tutt’intorno è uno stormire di rondini. La torre minacciosa ma non troppo, alla loro vista leggermente sulla sinistra e poi oltre di là il mare.

Al barbuto cameriere-barista e proprietario il signore in questione, che si chiama Andolfo Pretini, ordina della roba shakerata a scelta dell’artistama tre differenti, mi raccomando e appena toccata con il cul l’impagliata sedia, ecco che riparte al volo:

A“La torre fu ampiamente ristrutturata da Walfredo della Gherardesca, nel 1929. In quell’occasione il conte fece asportare alcune pietre dal castello di Donoratico per costruire la torre campanaria a fianco della chiesa di S. Lorenzo, a Castagneto Carducci. Circa 400 metri sotto la torre, lungo la strada di accesso, si trovano i resti di tombe etrusche scavate nella roccia e di più recenti necropoli. Se volete andarci vi ci porto io.

Attorno a questi ruderi sinistri però aleggia la figura del Conte Ugolino della Gherardesca, nobile e politico italiano ghibellino (patteggiò per i guelfi) e comandante navale del XIII secolo.

Proprio qui aveva il suo feudo. Dante nella sua Divina Commedia, speculando sui fatti storici che videro Ugolino Podestà di Pisa, ne parla nel canto XXXIII dell’inferno, collocandolo nell’Antenora, ovvero il secondo girone dell’ultimo cerchio dell’Inferno, tra i traditori.

Qui il Conte sconta la colpa di essere fuggito nella battaglia della Meloria che vide la sconfitta della flotta pisana. Secondo la storia, in realtà Ugolino non tradì Pisa, ma fu solo colpevole di errori militari manovrando le sue navi a difesa della bocca d’Arno, dove i genovesi ebbero la meglio facendo uscire allo scoperto una seconda flotta, inizialmente tenuta nascosta.

Questi fatti sono confermati dal fatto che il Conte Ugolino della Gherardesca continuò a esercitare i suoi poteri ancora per 5 anni dopo la Meloria. Fu una guerra politica, di potere tra le fazioni guelfe e ghibelline che portò Ugolino a morire di stenti nella torre dei Gualandi a Pisa.”

M“Dunque eccoci al punto dolente.”

A“Infatti. Anche l’episodio di Dante che lo descrive cannibale, cibandosi dei suoi figli per non morire di fame non ha basi storiche. Eppure, Dante, ci racconta dei prigionieri, di come morirono per inedia lentamente e tra atroci sofferenze, e prima di morire i figli di Ugolino lo pregarono di cibarsi delle loro carni. Nel poema, Ugolino afferma che più che il dolor poté il digiuno, con una doppia, ambigua interpretazione: in un caso, il conte ormai impazzito si ciba della progenie; nell’altro, resiste alla fame e lascia che sia la fame a dare il colpo di grazia a un uomo già distrutto dal dolore per la perdita dei figli.”

M“Quindi?”

A“Ognuno sceglie la versione che più preferisce, ma non v’è sicurezza alcuna che poi non sia stata una terza o una quarta, oppure qualche cosa di ibrido.”

Scolati i cocktail Andolfo ne ordina degli altri, però diversi da quelli di prima e delle ciotoline un po’ più grosse di salatini misti e noccioline.

A“La prima conclusione, la più terrificante e raccapricciante, fu quella che convinse maggiormente l’ampio pubblico della Commedia, almeno inizialmente: per questa ragione Ugolino è passato alla storia come il conte cannibale e viene spesso rappresentato con le dita delle mani strappate a morsi (“ambo le man per lo dolor mi morsi”, Inf XXXIII, 57). Studi più recenti, però, hanno portato gli studiosi ad optare per la seconda scelta, cioè quella secondo la quale il Conte sia morto per la fame che lo opprimeva da quasi una settimana. E gli studi delle ossa dei prigionieri, possono far pensare che il cannibalismo non sia mai accaduto. Ugolino appare nell’Inferno sia come un dannato che come un demone vendicatore, che affonda i denti per l’eternità nel capo dell’arcivescovo Ruggeri:

 

“La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
La bocca alzò da quel pasto feroce
quel peccatore, e la pulì con i capelli
del capo che aveva roso nella parte posteriore.”

 

Le scene raccontate da Andolfo sono vissute nelle fertili menti dei due amici, ma soprattutto lo stesso narratore pare identificarsi assai. Le misture di liquori e frutta hanno fatto il loro lavoro di guastatrici nei cervelli già vetusti e anche le gambe sotto risultano molli.

 

“Secondo Dante, Ugolino aveva tramato contro la sua città e il suo partito, aiutando il genero Giovanni Visconti a instaurare a Pisa un governo guelfo. Dopo alterne vicende, nel 1288 il Conte Ugolino fu esiliato e accusato di tradimento dall’Arcivescovo Ruggieri, capo dei ghibellini pisani e a sua volta intrallazzatore politico senza scrupoli, e fu in seguito imprigionato nella Torre dei Gualandi con due figli e due nipoti, vittime innocenti; lì furono lasciati morire di fame.

 

“Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.
Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non mi aiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ‘l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
Ché se ‘l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ‘l Brigata
e li altri due che ‘l canto suso appella.”

 

Andolfo si alza e recita con grande serietà, senza economia di voce, né lesina in ampi gesti teatrali. Chi passa lo guarda appena, evidentemente lo conoscono a sufficienza. Solo i turisti ci fanno caso e alcuni lo fotografano pure, ma lui non si scompone.

A“Oltre cinque secoli dopo, nel 1867 sulla fine di Ugolino si aprì una disputa letteraria scatenata da un “maggio” popolare drammatico che riprende l’oscura vicenda:


Vi consiglia a Gherardesca
Render tutti i suoi domini,
perché i popol Fiorentini
renda il vostro e via se n’esca.

 

Renato Fucini ribattè però, in difesa, con i seguenti versi perché non condivideva la figura del Conte così com’era stata descritta da Dante:

 

Ho letto anco la storia d’Ugolino.
Lì, poi, si butta a fa ‘troppo ‘r saccente
E da’ bottate all’uso fiorentino.
Tu sentissi che robba ‘mpeltinente!
O che ‘un s’è messo a di’, questo lecchino,
che Pisa é’r vituperio delle gente!
(omissis)

Dovevan dinni:-Voi siete un tegame:
levatevi di ‘vi, potete andare………-
e stiaffallo ‘n esiglio dar reame.
Ma una strage ‘osì, nun c’è memoria!
Che si ‘ ogliona! Un povero cristiano,
per avenne buscate alla Meloria,
giustizziallo a quer modo!

 

Giosuè Carducci, particolarmente legato ai territori maremmani, citò la Torre di Donoratico, possedimento del conte Ugolino, presso la quale si sarebbe rifugiato dopo la sconfitta. In modo più decoroso, anche se storicamente dubbio scrive nei versi della poesia Avanti! Avanti! dando credito alla leggenda:

 

“Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
Torre di Donoratico a la cui porta nera
Conte Ugolin bussò
Con lo scudo e con l’aquile a la Meloria infrante,
Il grand’elmo togliendosi da la fronte che Dante
Ne l’inferno ammirò?”
(Giosuè Carducci, Avanti! Avanti!)

 

Il conte, quindi, secondo Carducci, pur perdendo i tratti cannibaleschi, si ritrovò però accentuati quelli di traditore della patria che gli avevano causato la tristissima fine nella torre della Muta.

A parte il fatto che il conte sarebbe stato troppo incauto a fuggire proprio a Donoratico (da dove risultava assente da almeno venti anni), in questi versi è la torre stessa a ricomparire in veste tragica.

L’immagine della torre e delle orde saracene che vi si avventavano dal mare, avidi di preda e di strage, fu ripresa da Antonino-Tringalli Casanuova, prima ancora della grande guerra, con questa cantata epica:

 

 

Al fitto rintoccar della Gherarda,
la campana maggior della gran torre,
le corti del castello in breve d’ora
rigurgitar di popolo minuto.
In mezzo a questo si fè strada il duce
Antonel Casanuova capitano
dell’armata di Pisa e così disse:
-Di farvi cuore no, non v’ha bisogno
ché il Genovese non vi fa paura
e noi ‘l ricaccerem,s’ei pure sbarchi,
di la dal mare alle sue strette valli:
Sassetta per stasera avrà mandato
settanta lance e artiglieria da corda,
San Vincenzo altrettanto e due galere.
Prima di sera tutti nel castello
Dentro la cinta con le vostre robe
Ché giù nel borgo solo le muraglie
Han da restare al sacco genovese.
Donoratico è forte e le sue mura
non cadranno se non per la vecchiaia
signori Genovesi e lo vedrete!-
Gran guardia in su la torre:i balestrieri
preparavan quadrella e manganetti
il torrigiano preparava i fuochi
che scagliarsi dovean sopra il nemico
(omissis)

La voce s’era sparsa pel castello
e dì là pel paese:un orror muto
teneva i cuori ed Antonello duce
chiamava all’armi tutti della terra.
Nel giorno istesso venner di Saletro,
di Bolgheri, Fontana e Segalari
armi ed armato: Donoratico era
irto di lame e preparato all’urto.

 

Nei movimenti artistici il dramma del Conte Ugolino venne rappresentato in sculture di apprezzata fattura, tra le quali il gruppo fatto eseguire nel 1922 dal Conte Walfredo e collocato nel cortile posteriore del Castello di Castagneto.”

D“Pittoresco!” Tartaglia Delfo con la bocca impastata e gli occhi annebbiati.

A“Il nome "della Muda" deriva dal fatto che, in passato, qui venivano rinchiuse le aquile allevate dal comune di Pisa durante il periodo della muta delle penne.

L'episodio della morte del conte Ugolino della Gherardesca, in questa torre, fu citato da Dante Alighieri nel XXXIII canto dell'Inferno. Dopo i drammatici fatti di Ugolino, ben noti all'epoca anche prima che venissero citati da Dante, essendo il conte un personaggio conosciuto e di grande peso politico, la torre venne soprannominata "della Fame".

La torre si trovava in piazza delle Sette Vie, ora piazza dei Cavalieri di Santo Stefano, e fu inglobata nel palazzo dell'Orologio, dove risiedeva il capitano del popolo almeno dal 1357.”

D“E Uguccione della Faggiola?”

M“Ma sei fissato te con Uguccione della Faggiola, che te ne frega?”

D“O mi garba il nome! Che ci posso fà? In un certo senso è un nome rustico che è un po’ come un manifesto del medioevo, non è forse vero?”

“Infatti, bravo, gli è onomatopeico. Beh, quella però è un’altra storia, sempre a che fare con il nostro nasone di Dante però: Uguccione della Faggiola (o Faggiuola) (Casteldelci1250 circa – Vicenza1º novembre 1319), capitano di ventura, signore di Massa Trabaria, ArezzoLuccaLugoPisa e Sansepolcro. Tra i protagonisti della vita politica e militare del Medioevo, in particolare all'interno delle vicende che contrassegnarono lo scontro tra lo Stato Pontificio e il Sacro Romano Impero.

Fu amico di Dante Alighieri. Il sommo poeta riponeva molte speranze nella figura di Enrico VII di Lussemburgo, il quale chiamato da più parti, discese in Italia nel 1310 con lo scopo di pacificare la penisola, ma mentre muoveva all'attacco di Firenze, morì forse di malaria. In quell'anno pare che Dante profondamente deluso sia andato a Lucca presso Uguccione della Faggiola.”

D“Hai visto?”

M “O cosa? Te lo sapevi?”

D“No, confesso, ma mi sono sempre immaginato qualche coinvolgimento del genere.”

M“Toh! O un altro qualsiasi?”

A “Fate i bravi, non litigate. Alcuni commentatori della Divina Commedia ipotizzano che a lui alluda Dante quando afferma che verrà il Veltro, il quale disperderà la cupidigia dominante nel mondo (Inferno - Canto primo, vv. 101-102). La tesi venne espressa nel 1828 da Carlo Troya nel saggio Del veltro allegorico di Dante e successivamente nel Del veltro allegorico de' Ghibellini (1856). La tesi fu però confutata da Niccolò Tommaseo, ma ispirò Cesare Balbo per la sua Vita di Dante.”

“Ma la Massa Tramviaria o che rob’era? Un c’erano mia già i Tramme a quei tempi, o no??”

“Ahahahah!

La Massa Trabaria fu un territorio situato nell'Appennino centrale di cui si hanno testimonianze storiche dal XIII al XV secolo. La Massa Trabaria era ricompresa tra le odierne regioni della Toscana e delle Marche. Il nome deriva dal fatto che da questa massa (insieme di fondi agricoli con una chiesa parrocchiale) si prelevavano ingenti quantità di tronchi per farne travi, spesso trasportate a Roma lungo il fiume Tevere.”

Dopo tre giri di discorsi e intrugli colorati e buoni assai, in cui la frutta nasconde egregiamente l’alcool, amplifica ed esagera, nel bene e nel male, le relative recitazioni e rappresentazioni di Andolfo, la comitiva si scioglie, è il caso di dire, come neve al sole di maggio, che come possono facilmente constatare, secondo il narratore purtroppo si è fatto tardi.

Per gli altri due è un’avventura tornare alla Panda, la quale per fortuna è 4x4, perché a loro gli pare guasi di camminare a gattoni, come da neonati bambini.

D“Che palle però, questo sant’uomo ci poteva fare un riassuntino un po’ più sintetico...”

M“Che ingratitudine Delfo mio! Andolfo c’ha fatto una signora lezione di storia aggratisse, davanti alle rovine, poi al bar sembrava teatro contemporaneo abbestia di que’ tempi e c’ha pagato anche da beve. Ha speso un patrimonio e non solo di energie! O te lo ringrazi così?”

D“Magari c’hai ragione, o guasi via… però ora si può andà a cantà la befana, anche se siamo fuori stagione è l’unica, un so se ti rendi conto, ma siamo ridotti come cenci.”

M“Intanto ora si va a mangiare e vedrai che ci si ripiglia.”

D“Hahaha! Un hai visto che or’è? Alle tre e mezzo i ristoranti sono bell’e chiusi! Gli alimentari sono in pausa siesta pomeridiana e noi ci s’ha al massimo qualche biscotto vecchio nel cofano!

Guarda: personalmente io un c’ho niente contro i tuttologi, per carità, è gente di cultura, ci mancherebbe… magari anche troppa però.

Il tale Andolfo era anche simpatiho, magari preso a piccole dosi, ma se solo ti desse maniera di scappà via… ma neanche, mi basterebbe solo avergli potuto diminuire appena-appena il ritmo. Nooo, ma così ti annichilisce!”

Il Macchi sorride, non approva del tutto, ma si adegua. Il rumore della macchina li fa quasi addormentare, dietro gli suonano perché vanno troppo piano, si fermano a mangiare i biscotti sciosci, bevono minerale gassata e calda.

D“O un ci si va a Bolgheri?” Chiede Delfo al Macchi.

M“Ormai è come un presepio di plastiha, o che ci si va a fare?”

D“E poi siamo in uno stato pietoso. C’è da vergognassi.”

I due si avviano lemmi-lemmi verso Picciorana, al confine con Lunata, sull’autostrada li sorpassano anche le libellule. Ora sono ammutoliti e pensierosi, il rumore della Panda gli pare un vespaio in tumulto. Arrivati al Grillo scendono per un tramezzino o due, tre o quattro caffè doppi, una brioscia e un cornetto.

Le rispettive e arzille mogli gli chiedono invano com’è andata la gita, ma loro come automi vanno diretti al bagno e poi a nanna.

Il giorno dopo a cena a casa di Delfo si fanno quattro risate a raccontare, ma ridono soprattutto le signore che ascoltano e in coro dichiarano che la storia e la geografia sono importanti e romantiche, ma che la prossima volta vogliono assolutamente partecipare anche loro.

 


 

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