Zè era un buon giocatore, niente
di fenomenale per essere nato e cresciuto qua, ma ha giocato due volte nella seleção ed è stato uno dei primi
brasiliani a essere comprato da una squadra dell’Ucraina.
Può essere fiero di essere stato
utilizzato in tutti i ruoli che il calcio prevede, meno che il portiere.
Preferibilmente era attaccante, se
la scelta fosse stata sua, però gli allenatori lo vedevano meglio come
centrocampista avanzato, perché era altruista e i suoi passaggi erano precisi e
imprevedibili.
In una squadra però ci sono sempre
esigenze differenti e urgenti, per cui in diverse occasioni ha giocato in
difesa e sempre con buoni risultati, che vengono fuori non per caso, ma da una
conoscenza istintiva del calcio, per chi lo ha sempre praticato fin da piccolo
e magari in spazi angusti o sulla spiaggia, poi da una successiva grande
esperienza.
Ha giocato in Italia e in Spagna, in Germania e poi da allenatore ha cominciato in Brasile per poi viaggiare di nuovo per il mondo.
Naturalmente Zè Banana non è il
suo vero nome, quello è dovuto a un episodio che lo rese abbastanza famoso, non
solo in Brasile, ma in Ucraina e oltre.
Il suo vero nome, Josè Edgar Da Cunha Veloso,
non se lo ricorda nessuno, vista l'abbondanza dei giocatori fantasiosi e
geniali del Brasile, ma viene ricordato ancora oggi per quello che è successo a
Donetsk nel lontano 2004.
A quei tempi, non tanto remoti, i
giocatori scuri di pelle, non solo brasiliani, erano oggetto di episodi di
razzismo, uno dei quali era tirargli addosso delle banane in campo, durante la
partita, quando uno come Zè si avvicinava alle gradinate.
Quando a Donetsk un paio di banane
furono lanciate verso di lui, che giocava nella Dinamo Kiev e che stava per
battere un fallo laterale. Zè con la massima calma e indifferenza, nei pressi
della linea laterale, se ne sbucciò una e se la mangiò. Gesto che suscitò un
boato di approvazione, anche da parte degli stessi razzisti che furono colti di
sorpresa e la scena fu registrata e trasmessa in vari telegiornali di tutto il mondo,
oltre che ovviamente nei programmi sportivi.
Da quel momento è diventato subito Zè Banana e
lo è restato anche dopo da allenatore.
Zè forse non era nulla di eccezionale, anche a
livello di allenatore e non ha mai vinto niente. Lo cercavano le squadre che
stavano cercando di salvarsi e lui qualche volta le salvava. Insomma non
sempre, ma a livello umano era un esempio di simpatia, dava spesso interviste e
non ci si dimenticava mai di lui.
Era uno che voleva bene al calcio e ai
giocatori, non si arrabbiava mai, insomma quasi mai, ma quando succedeva poi
tutti se lo ricordavano.
Per ogni cosa che doveva spiegare, ricorreva
ai ricordi del passato da giocatore, quando il calcio era ancora uno spettacolo
e non un business malamente mascherato.
Nel 2020 ha allenato la squadra
del Sudafrica e l'ha portata alla qualificazione che era automatica in quanto
paese ospitante, ma nel contratto c'era anche scritto che nel Mondiale poi
sarebbe stata condotta da un altro brasiliano più famoso, che aveva già vinto anche
i Mondiali del 1994 negli Stati Uniti. Comunque la squadra nazionale del
Sudafrica ha passato il primo turno, unica squadra del continente a riuscirci nel 2010 ed è
stata eliminata con pieno onore negli ottavi, ai rigori.
Quello che è importante è che
nelle interviste Zé Banana parlò in inglese, si fa per dire, una specie di
inglese maccheronico ed è stato preso in giro da tutti. Però è stato il suo
inizio come attore per la pubblicità video, primo dei quali è stato per la per
lo shampoo Head & Shoulders dove parla un misto di inglese brasilianizzato
e fa ridere tutti.
Poi fece altre pubblicità e fu
chiamato alla tv come ospite al Programa
do Jo e altri talk shows considerati più impegnati.
Insomma diventò un protagonista di
un innegabile interesse più vasto, la controcultura nel calcio.
Quelli che lo consideravano un
sempliciotto si sono ricreduti, è vero che non aveva studiato, ma si era
laureato ad honorem nell’università della vita e del calcio internazionale.
Dopo, visto che era così
intelligente, simpatico e umano ci si chiese perché in Sudafrica non avesse
allenato la squadra locale anche dopo, nel mondiale stesso.
I giornalisti cominciarono a
domandare e a domandarsi perché non aveva mai vinto niente da allenatore o
perfino da calciatore. La risposta era perché Zé Banana era troppo buono. Ecco
qual era il suo difetto, una cosa imperdonabile.
La stampa e l’opinione pubblica
del Brasile si divisero in due fazioni, una parte lo ammirava proprio perché
era buono e simpatico, una specie di padre per tutti, dicevano i titoli dei
giornali. L’altra invece lo attaccava per lo stesso motivo.
Si fecero avanti allora vari
testimoni imbranati che cercarono di scagiornarlo da quella colpa, che poi
invece sarebbe stata un merito, ma la cultura moderna apprezza i furboni,
ovviamente sempre di nascosto, chi si approfitta degli altri.
Un giocatore disse che Zé Banana
scherzosamente chiamava viado tutti i
giocatori, per esempio diceva vammi a
chiamare quel viado di Marcelinho, quando quella parola originariamente
usata per un animale timido come il daino, era poi diventata sinonimo di
omosessuale, nella lingua comune brasiliana.
Non era certo il tipo che incitava
alla violenza, però in alcuni casi insegnava, con alcuni casi vissuti in prima
persona, a reagire in maniera astuta, ma all’occorrenza anche pesante.
“Vedi Calzadão...” Disse un giorno al migliore attaccante che aveva a Recife nella squadra dello Sport (il soprannome significa isola pedonale, per via dei suoi piedi 45).
“Con quelli che ti minacciano di
farti del male i casi sono due.”
E poi stette zitto finché qualcun
altro non domandò:
“Sì, ma quali?”
“Beh, normalmente chi ha bisogno
di minacciarti è perché non ne ha intenzione, o non è capace, ma tu non puoi
passare tutta la partita in stato di ansia e di preoccupazione.”
“Perché no?” Chiese qualcuno, tra
gli altri giocatori.
“Ma perché così giochi male, non
fai gol, insomma è normale che sia così.”
“Allora?” Domandò Calzadão, che non
aveva ancora aperto bocca.
“Allora gli fai prima del male te,
ma senza farti buttare fuori.”
“Ma come?”
“Ci sono tante maniere, una che ho
imparato in Italia è questa: la palla è in mezzo tra i due, siete affiancati
quando lui ha l'impressione di avertela già tolta tu fai finta di volerla
riprendere stoppandola, ma invece prendi il suo piede come in una morsa... e
questo provoca stiramenti, se non strappi, se lo fai bene non ti fischiano
neanche punizione.”
“Ma mi faccia vedere mister!” E
lui si alzò e mostrò il
movimento, usando un altro giocatore come
comparsa, poi lo stesso Calzadão.
Non è stata colpa sua se
l’attaccante era così forte fisicamente che poi ha messo eccessiva foga in una
sua applicazione e il difensore argentino, in una partita della Libertadores di
due anni dopo, si è rotto i legamenti. L’arbitro non ha dato nemmeno punizione
e il Paysandu, umile squadra di Belem do Parà, ha vinto uno a zero contro il
Boca Juniors, nella Bombonera, con gol di Iarley.
Gli argentini recentemente lo
hanno saputo gli hanno fatto causa e hanno preteso addirittura un risarcimento
in denaro.
Zé Banana ora è in Giappone e
quando è stato intervistato a riguardo ha detto, senza remore, quello che
pensa, inimicandosi un nazione intera, ma gli sportivi brasiliani hanno dichiarato
che ha proprio ragione e successivamente anche tutti gli altri sudamericani.
“Allora: gli arbitri sono spesso
impotenti contro un tipo di gioco di intimidazione, che esiste da sempre basta
vedere per esempio Pelè nel mondiale del 66 o nel 62 in Cile, come gli è stato
letteralmente impedito di giocare a forza di entrate criminali, è stato
sistematicamente macellato senza che gli arbitri ci potessero o ci volessero
far niente.
Sappiamo che il calcio è un
terreno fertilissimo per la corruzione, per questo adesso è più un business che
uno sport.
Noi sudamericani tutti conosciamo
bene gli argentini e gli argentini sono proprio gli unici che non hanno diritto
di protestare.
Sono sempre stati picchiatori e
provocatori, non dico che tutti gli argentini siano così, vedi Messi e Di
Maria, ma come regola generale non accettano di perdere e in casa ti massacrano
di botte e ti provocano per farti perdere la testa, più o meno da sempre.
Le squadre europee rinunciarono a
venire in Argentina dopo essere stati più volte malmenate dai giocatori di
Buenos Aires e non per caso la coppa intercontinentale ora si gioca da tempo su
campi neutrali. Il fatto più eclatante fu tra Milan e Estudiantes, mi pare nel
1969. C’è stata addirittura una squalifica a vita, per il portiere argentino
Poletti, che poi è ricomparso, non tanto tempo dopo, a giocare in Grecia, come
se non fosse mai successo niente. Giocatori come gli attuali Romero, Otamendi e
Acuña, ma è una pratica orientazione generale e ampiamente dimostrata dai
filmati, non perdono mai un viaggio e i pestoni sui piedi sono il minimo che ti
può capitare. Poi ci sono le gomitate, i falli criminali cammuffati da
interventi sul pallone e le provocazioni verbali, le proteste sistematiche e
disoneste con l’arbitro di cui De Paul è un maestro. Ogni tanto calciano
addosso al giocatore avversario o alla loro panchina affollata il pallone con
tutta la forza che hanno.
Quello che io ho insegnato a
Calzadão è solo una reazione a un clima di intimidazione, in guerra non si può
certo porgere l'altra guancia, mi pare evidente.
Ora con il Var ci sono più mezzi,
però si vede sempre una certa disonestà cammuffata da incapacità e viceversa,
due cose che vanno a braccetto, non solo nel mondo del calcio, non solo a
livello umano, ma anche tecnico, insomma incompetenza per interpretare certe
cose che sono gravi e determinanti in una partita. Forse bisognerebbe
conoscerle meglio, cari miei, esistono tecniche vere e proprie e si sfocia
nella delinquenza, perché di mezzo poi ci sono gli assessori, gli sponsor, le
concessioni televisive e quindi tanti soldi.
Qui in Giappone le cose non sono
ancora così esagerate, come in tutti quei paesi dove il calcio è ai primi
passi, ma lo diventeranno, è solo una questione di tempo... e soprattutto di
soldi.
Ho vissuto e vivo ancora di
calcio, lo ammetto, ma voglio tirarmene fuori appena possibile.”
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