venerdì 13 gennaio 2023

UN MAZZONE BRASILIANO


 

Zè era un buon giocatore, niente di fenomenale per essere nato e cresciuto qua, ma ha giocato due volte nella seleção ed è stato uno dei primi brasiliani a essere comprato da una squadra dell’Ucraina.

Può essere fiero di essere stato utilizzato in tutti i ruoli che il calcio prevede, meno che il portiere.

Preferibilmente era attaccante, se la scelta fosse stata sua, però gli allenatori lo vedevano meglio come centrocampista avanzato, perché era altruista e i suoi passaggi erano precisi e imprevedibili.

In una squadra però ci sono sempre esigenze differenti e urgenti, per cui in diverse occasioni ha giocato in difesa e sempre con buoni risultati, che vengono fuori non per caso, ma da una conoscenza istintiva del calcio, per chi lo ha sempre praticato fin da piccolo e magari in spazi angusti o sulla spiaggia, poi da una successiva grande esperienza.

 Ha giocato in Italia e in Spagna, in Germania e poi da allenatore ha cominciato in Brasile per poi viaggiare di nuovo per il mondo.

Naturalmente Zè Banana non è il suo vero nome, quello è dovuto a un episodio che lo rese abbastanza famoso, non solo in Brasile, ma in Ucraina e oltre.

 Il suo vero nome, Josè Edgar Da Cunha Veloso, non se lo ricorda nessuno, vista l'abbondanza dei giocatori fantasiosi e geniali del Brasile, ma viene ricordato ancora oggi per quello che è successo a Donetsk nel lontano 2004.

A quei tempi, non tanto remoti, i giocatori scuri di pelle, non solo brasiliani, erano oggetto di episodi di razzismo, uno dei quali era tirargli addosso delle banane in campo, durante la partita, quando uno come Zè si avvicinava alle gradinate.

Quando a Donetsk un paio di banane furono lanciate verso di lui, che giocava nella Dinamo Kiev e che stava per battere un fallo laterale. Zè con la massima calma e indifferenza, nei pressi della linea laterale, se ne sbucciò una e se la mangiò. Gesto che suscitò un boato di approvazione, anche da parte degli stessi razzisti che furono colti di sorpresa e la scena fu registrata e trasmessa in vari telegiornali di tutto il mondo, oltre che ovviamente nei programmi sportivi.

 Da quel momento è diventato subito Zè Banana e lo è restato anche dopo da allenatore.

 Zè forse non era nulla di eccezionale, anche a livello di allenatore e non ha mai vinto niente. Lo cercavano le squadre che stavano cercando di salvarsi e lui qualche volta le salvava. Insomma non sempre, ma a livello umano era un esempio di simpatia, dava spesso interviste e non ci si dimenticava mai di lui.

 Era uno che voleva bene al calcio e ai giocatori, non si arrabbiava mai, insomma quasi mai, ma quando succedeva poi tutti se lo ricordavano.

 Per ogni cosa che doveva spiegare, ricorreva ai ricordi del passato da giocatore, quando il calcio era ancora uno spettacolo e non un business malamente mascherato.

Nel 2020 ha allenato la squadra del Sudafrica e l'ha portata alla qualificazione che era automatica in quanto paese ospitante, ma nel contratto c'era anche scritto che nel Mondiale poi sarebbe stata condotta da un altro brasiliano più famoso, che aveva già vinto anche i Mondiali del 1994 negli Stati Uniti. Comunque la squadra nazionale del Sudafrica ha passato il primo turno, unica squadra del continente a riuscirci nel 2010 ed è stata eliminata con pieno onore negli ottavi, ai rigori.

Quello che è importante è che nelle interviste Zé Banana parlò in inglese, si fa per dire, una specie di inglese maccheronico ed è stato preso in giro da tutti. Però è stato il suo inizio come attore per la pubblicità video, primo dei quali è stato per la per lo shampoo Head & Shoulders dove parla un misto di inglese brasilianizzato e fa ridere tutti.

Poi fece altre pubblicità e fu chiamato alla tv come ospite al Programa do Jo e altri talk shows considerati più impegnati.

Insomma diventò un protagonista di un innegabile interesse più vasto, la controcultura nel calcio.

Quelli che lo consideravano un sempliciotto si sono ricreduti, è vero che non aveva studiato, ma si era laureato ad honorem nell’università della vita e del calcio internazionale.

Dopo, visto che era così intelligente, simpatico e umano ci si chiese perché in Sudafrica non avesse allenato la squadra locale anche dopo, nel mondiale stesso.

I giornalisti cominciarono a domandare e a domandarsi perché non aveva mai vinto niente da allenatore o perfino da calciatore. La risposta era perché Zé Banana era troppo buono. Ecco qual era il suo difetto, una cosa imperdonabile.

La stampa e l’opinione pubblica del Brasile si divisero in due fazioni, una parte lo ammirava proprio perché era buono e simpatico, una specie di padre per tutti, dicevano i titoli dei giornali. L’altra invece lo attaccava per lo stesso motivo.

Si fecero avanti allora vari testimoni imbranati che cercarono di scagiornarlo da quella colpa, che poi invece sarebbe stata un merito, ma la cultura moderna apprezza i furboni, ovviamente sempre di nascosto, chi si approfitta degli altri.

 Un giocatore disse che Zé Banana scherzosamente chiamava viado tutti i giocatori, per esempio diceva vammi a chiamare quel viado di Marcelinho, quando quella parola originariamente usata per un animale timido come il daino, era poi diventata sinonimo di omosessuale, nella lingua comune brasiliana.

Non era certo il tipo che incitava alla violenza, però in alcuni casi insegnava, con alcuni casi vissuti in prima persona, a reagire in maniera astuta, ma all’occorrenza anche pesante.

“Vedi Calzadão...” Disse un giorno al migliore attaccante che aveva a Recife nella squadra dello Sport (il soprannome significa isola pedonale, per via dei suoi piedi 45).

“Con quelli che ti minacciano di farti del male i casi sono due.”

E poi stette zitto finché qualcun altro non domandò:

“Sì, ma quali?”

“Beh, normalmente chi ha bisogno di minacciarti è perché non ne ha intenzione, o non è capace, ma tu non puoi passare tutta la partita in stato di ansia e di preoccupazione.”

“Perché no?” Chiese qualcuno, tra gli altri giocatori.

“Ma perché così giochi male, non fai gol, insomma è normale che sia così.”

“Allora?” Domandò Calzadão, che non aveva ancora aperto bocca.

“Allora gli fai prima del male te, ma senza farti buttare fuori.”

“Ma come?”

“Ci sono tante maniere, una che ho imparato in Italia è questa: la palla è in mezzo tra i due, siete affiancati quando lui ha l'impressione di avertela già tolta tu fai finta di volerla riprendere stoppandola, ma invece prendi il suo piede come in una morsa... e questo provoca stiramenti, se non strappi, se lo fai bene non ti fischiano neanche punizione.”

“Ma mi faccia vedere mister!” E lui si alzò e mostrò il movimento, usando un altro giocatore come comparsa, poi lo stesso Calzadão.

Non è stata colpa sua se l’attaccante era così forte fisicamente che poi ha messo eccessiva foga in una sua applicazione e il difensore argentino, in una partita della Libertadores di due anni dopo, si è rotto i legamenti. L’arbitro non ha dato nemmeno punizione e il Paysandu, umile squadra di Belem do Parà, ha vinto uno a zero contro il Boca Juniors, nella Bombonera, con gol di Iarley.

Gli argentini recentemente lo hanno saputo gli hanno fatto causa e hanno preteso addirittura un risarcimento in denaro.

Zé Banana ora è in Giappone e quando è stato intervistato a riguardo ha detto, senza remore, quello che pensa, inimicandosi un nazione intera, ma gli sportivi brasiliani hanno dichiarato che ha proprio ragione e successivamente anche tutti gli altri sudamericani.

“Allora: gli arbitri sono spesso impotenti contro un tipo di gioco di intimidazione, che esiste da sempre basta vedere per esempio Pelè nel mondiale del 66 o nel 62 in Cile, come gli è stato letteralmente impedito di giocare a forza di entrate criminali, è stato sistematicamente macellato senza che gli arbitri ci potessero o ci volessero far niente.

Sappiamo che il calcio è un terreno fertilissimo per la corruzione, per questo adesso è più un business che uno sport.

Noi sudamericani tutti conosciamo bene gli argentini e gli argentini sono proprio gli unici che non hanno diritto di protestare.

Sono sempre stati picchiatori e provocatori, non dico che tutti gli argentini siano così, vedi Messi e Di Maria, ma come regola generale non accettano di perdere e in casa ti massacrano di botte e ti provocano per farti perdere la testa, più o meno da sempre.

Le squadre europee rinunciarono a venire in Argentina dopo essere stati più volte malmenate dai giocatori di Buenos Aires e non per caso la coppa intercontinentale ora si gioca da tempo su campi neutrali. Il fatto più eclatante fu tra Milan e Estudiantes, mi pare nel 1969. C’è stata addirittura una squalifica a vita, per il portiere argentino Poletti, che poi è ricomparso, non tanto tempo dopo, a giocare in Grecia, come se non fosse mai successo niente. Giocatori come gli attuali Romero, Otamendi e Acuña,  ma è una pratica orientazione generale e ampiamente dimostrata dai filmati, non perdono mai un viaggio e i pestoni sui piedi sono il minimo che ti può capitare. Poi ci sono le gomitate, i falli criminali cammuffati da interventi sul pallone e le provocazioni verbali, le proteste sistematiche e disoneste con l’arbitro di cui De Paul è un maestro. Ogni tanto calciano addosso al giocatore avversario o alla loro panchina affollata il pallone con tutta la forza che hanno.

Quello che io ho insegnato a Calzadão è solo una reazione a un clima di intimidazione, in guerra non si può certo porgere l'altra guancia, mi pare evidente.

Ora con il Var ci sono più mezzi, però si vede sempre una certa disonestà cammuffata da incapacità e viceversa, due cose che vanno a braccetto, non solo nel mondo del calcio, non solo a livello umano, ma anche tecnico, insomma incompetenza per interpretare certe cose che sono gravi e determinanti in una partita. Forse bisognerebbe conoscerle meglio, cari miei, esistono tecniche vere e proprie e si sfocia nella delinquenza, perché di mezzo poi ci sono gli assessori, gli sponsor, le concessioni televisive e quindi tanti soldi.

Qui in Giappone le cose non sono ancora così esagerate, come in tutti quei paesi dove il calcio è ai primi passi, ma lo diventeranno, è solo una questione di tempo... e soprattutto di soldi.

Ho vissuto e vivo ancora di calcio, lo ammetto, ma voglio tirarmene fuori appena possibile.”

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