mercoledì 13 luglio 2022

MONTAGNE A PALLINI

 


Mio marito è uno scrittore di gialli in lingua francese abbastanza famoso non solo in Canada. Io scrivo in inglese, mi riesce meglio, il mio genere è un altro però, dei racconti cambiandone spesso e volentieri il tipo. Non sono roba sentimentale tipo Liala, piuttosto direi sul grottesco, talvolta confinante con lo psicologico, qua e là.

Il poliziesco mi piacerebbe anche, ma non ne ho ancora digerito bene la struttura. Ormai sono vecchietta e non credo che ci riuscirò mai, eppure ne ho letti tanti, ma scriverne uno non mi riesce, ci ho provato più volte invano.

È l’apposito telaio che mi manca, lo scheletro della ciccia in questione insomma. Direi soprattutto perché la mia immaginazione non se ne può andare libera sul testo come vorrebbe, ha bisogno di un tracciato prestabilito, con il quale presto o tardi bisogna fare i conti.

Allora perché li leggo, e perché ci penso tanto? Mi chiedete: perché rimpiango questa mia incapacità specifica?

 

(in senso generale farsi i cazzi propri anche è buona e sana norma.)

 

Forse perché sono un po’ capricciosa, ma spero anche perché nella vita abbiamo sempre tanti interrogativi da risolvere, si cerca sempre di trovare un responsabile, un colpevole, anche dove e quando responsabilità e colpevolezza non sarebbero la parola giusta. In sintesi dobbiamo spesso immaginarci i meccanismi delle azioni degli altri, ma anche capire le nostre, qualche volta pure per noi sono altrettanto misteriose, per arrivare a una verità, finalmente, se e quando fosse possibile, ma infelicemente non sempre lo è.

Insomma dopo tanti anni di vita fuori dall’Italia e dalla mia famiglia fui risucchiata verso il passato, sia prossimo che remoto, imperfetto e trapassato inclusi. Tutto per via di un libro che era rimasto trai miei e non era mio. Mi sono trovata tra le mani una copia del Lupo della Steppa di Herman Hesse, che da sempre possedevo, ma lo avevo aperto l’ultima volta, forse, quando abitavo ancora con i miei. La copertina rigida era la stessa, il colore combinava, anche quelle specie di arazzi del Club degli Editori, ma decisamente quella non era la mia copia.

Dalla dedica sul primo foglio bianco, ormai ingiallito dal tempo e dagli agenti atmosferici, capii che era di mia sorella Cosima, già morta da due anni. Mi colpì perché era allusiva ad una omosessualità che io non sapevo nemmeno fosse in gioco e non potevo confermarne la veridicità dopo tutto quel tempo andato e soprattutto da lì, dal Canada, quando noi in precedenza avevamo vissuto in Italia, in Veneto e per giunta a Vicenza.

Al volo mi venne in mente di scriverci un racconto, mentre la storia si sviluppava, mio marito Pierre mi suggerì allora di seguire le famose regole di Vance nell’esposizione di questo misterioso caso, per affrontare l’indagine in maniera completa e capillare, stavolta, per darle una funzione di giallo, secondo lui. Una solenne idiozia alla quale distrattamente acconsentii.

 

LE REGOLE DI UN FILM/ROMANZO POLIZIESCO

 

di Philo Vance

 

1. Il lettore deve avere le stesse possibilità del poliziotto di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce debbono essere chiaramente elencati e descritti.

2. Non devono essere esercitati sul lettore altri sotterfugi e inganni oltre quelli che legittimamente il criminale mette in opera contro lo stesso investigatore.

3. Non ci deve essere una storia d'amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all'altare.

4. Né l'investigatore né alcun altro dei poliziotti ufficiali deve mai risultare colpevole. Questo non è buon gioco: è come offrire a qualcuno un soldone lucido per un marengo; è una falsa testimonianza.

5. Il colpevole deve essere scoperto attraverso logiche deduzioni: non per caso, o coincidenza, o non motivata confessione. Risolvere un problema criminale a codesto modo è come spedire determinatamente il lettore sopra una falsa traccia, per dirgli poi che tenevate nascosto voi in una manica l'oggetto delle ricerche. Un autore che si comporti così è un semplice burlone di cattivo gusto.

6. In un romanzo poliziesco ci deve essere un poliziotto, e un poliziotto non é tale se non indaga e deduce. Il suo compito é quello di riunire gli indizi che possono condurre alla cattura di chi è colpevole del misfatto commesso nel capitolo I. Se il poliziotto non raggiunge il suo scopo attraverso un simile lavorìo non ha risolto veramente il problema, come non lo ha risolto lo scolaro che va a copiare nel testo di matematica il risultato finale del problema.

7. Ci deve essere almeno un morto in un romanzo poliziesco e più il morto é morto, meglio é. Nessun delitto minore dell'assassinio è sufficiente. Trecento pagine sono troppe per una colpa minore. Il dispendio di energie del lettore dev'essere remunerato!

8. Il problema del delitto deve essere risolto con metodi strettamente naturalistici. Apprendere la verità per mezzo di scritture medianiche, sedute spiritiche, la lettura del pensiero, suggestione e magie, è assolutamente proibito. Un lettore può gareggiare con un poliziotto che ricorre a metodi razionali: se deve competere anche con il mondo degli spiriti e con la metafisica, è battuto ab initio.

9. Ci deve essere nel romanzo un poliziotto, un solo "deduttore", un solo deus ex machina. Mettere in scena tre, quattro, o addirittura una banda di segugi per risolvere il problema significa non soltanto disperdere l'interesse, spezzare il filo della logica, ma anche attribuirsi un antipatico vantaggio sul lettore. Se c'è più di un poliziotto il lettore non sa più con chi stia gareggiando: sarebbe come farlo partecipare da solo a una corsa contro una staffetta.

10. Il colpevole deve essere una persona che ha avuto una parte più o meno importante nella storia, una persona, cioè, che sia divenuta familiare al lettore, e lo abbia interessato.

11. I servitori non devono essere, in genere, scelti come colpevoli: si prestano a soluzioni troppo facili. Il colpevole deve essere decisamente una persona di fiducia, uno di cui non si dovrebbe mai sospettare.

12. Ci deve essere un colpevole e uno soltanto, qualunque sia il numero dei delitti commessi. Il colpevole può aver naturalmente qualche complice o aiutante minore: ma l'intera responsabilità e l'intera indignazione del lettore devono gravare sopra un unico capro espiatorio.

13. Società segrete associazioni a delinquere et similia non trovano posto in un vero romanzo poliziesco. Un delitto interessante è irrimediabilmente sciupato da una colpa collegiale. Certo, anche al colpevole deve essere concessa una chance: ma accordargli addirittura una società segreta é troppo. Nessun delinquente di classe accetterebbe.

14. I metodi del delinquente e i sistemi di indagine devono essere razionali e scientifici. Vanno cioè senz'altro escluse la pseudo-scienza e le astuzie puramente fantastiche, alla maniera di Giulio Verne. Quando un autore ricorre a simili metodi può considerarsi evaso, dai limiti del romanzo poliziesco, negli incontrollati domini del romanzo d'avventure.

15. La soluzione del problema deve essere sempre evidente, ammesso che vi sia un lettore sufficientemente astuto per vederla subito. Se il lettore, dopo aver raggiunto il capitolo finale e la spiegazione, ripercorre il libro a ritroso, deve constatare che in un certo senso la soluzione stava davanti ai suoi occhi fin dall'inizio, che tutti gli indizi designavano il colpevole e che, s'egli fosse stato acuto come il poliziotto, avrebbe potuto risolvere il mistero da sé, senza leggere il libro sino alla fine. Il che - inutile dirlo - capita spesso al lettore ricco d'istruzione.

16. Un romanzo poliziesco non deve contenere descrizioni troppo diffuse, pezzi di bravura letteraria, analisi psicologiche troppo insistenti, presentazioni di "atmosfera": tutte cose che non hanno vitale importanza in un romanzo di indagine poliziesca. Esse rallentano l'azione, distraggono dallo scopo principale che è: porre un problema, analizzarlo, condurlo a una conclusione positiva. Si capisce che ci deve essere quel tanto di descrizione e di studio di carattere che é necessario per dar verosimiglianza alla narrazione.

17. Un delinquente di professione non deve mai essere preso come colpevole in un romanzo poliziesco. I delitti dei banditi riguardano la polizia, non gli scrittori e i brillanti investigatori dilettanti. Un delitto veramente affascinante non può essere commesso che da un personaggio molto pio, o da una zitellona nota per le sue opere di beneficenza.

18. Il delitto, in un romanzo poliziesco, non deve mai essere avvenuto per accidente: né deve scoprirsi che si tratta di suicidio. Terminare una odissea di indagini con una soluzione così irrisoria significa truffare bellamente il fiducioso e gentile lettore.

19. I delitti nei romanzi polizieschi devono essere provocati da motivi puramente personali. Congiure internazionali ecc. appartengono a un altro genere narrativo. Una storia poliziesca deve riflettere le esperienze quotidiane del lettore, costituisce una valvola di sicurezza delle sue stesse emozioni.

20. Ed ecco infine, per concludere degnamente questo "credo", una serie di espedienti che nessuno scrittore poliziesco che si rispetti vorrà più impiegare; perché già troppo usati e ormai familiari a ogni amatore di libri polizieschi. Valersene ancora é come confessare inettitudine e mancanza di originalità: A. scoprire il colpevole grazie al confronto di un mozzicone di sigaretta lasciata sul luogo del delitto con le sigarette fumate da uno dei sospettati; B. il trucco della seduta spiritica contraffatta che atterrisca il colpevole e lo induce a tradirsi; C. impronte digitali falsificate; D. alibi creato grazie a un fantoccio;

 

 

La nostra era una famiglia numerosa, di origine pugliese, cinque fratelli e tre sorelle, alcuni se n’erano andati via da Vicenza, partiti in epoche differenti, due di loro anche all’estero e ci sono pure rimasti, come me.

Cosima, per l’appunto non se ne era mai andata. Quella delinquente se mai era stata lesbica non me lo aveva detto ed eravamo le più unite, io e lei, forse dalla scarsa differenza di età, forse dagli interessi comuni, forse anche dal caso, oppure dall’ironia della sorte. Era sicuramente quella che mi piaceva di più, anche se parlava poco, anzi proprio per questo mi assomigliava e fino a che sono rimasta in famiglia avevamo interessi e progetti simili, spesso anche comuni.

Che differenza farebbe adesso? Mi chiese mio marito, ormai non aveva più alcuna importanza. Ne discutemmo assai, il suo punto di vista certo era più spassionato, per lui era facile vedere le cose da lontano. Pierre è fatto così, quando le faccende non lo riguardano direttamente riesce a fare il filosofo in maniera ammirevole, caso contrario si trasforma in pochi secondi in un avvocato dei telefilm americani e vuole lavare ogni onta in tribunale.

Non nego che questa sua caratteristica lo metta in ottima luce nei miei confronti, in senso generale. Anche mio padre Celso era così.

In alcuni momenti particolari però lo strozzerei volentieri, naturalmente poi quelle situazioni passano e dopo sono piuttosto contenta di non averlo fatto.

Quel giorno lo trattai con sorridente e fredda sufficienza, lui si distanziò in fretta dalla questione, come fa di solito in certe scomode situazioni.

Per me quello era un mistero da risolvere con relativa priorità di urgenza, soprattutto per un motivo e il seguente interrogativo: possibile che non avessi capito niente di lei? Mi sentivo in qualche maniera offesa e ingannata.

Andiamo per ordine piuttosto.

 

Intanto il libro di Herman Hesse racconta la storia d'una profonda sofferenza psicologica che coglie il protagonista alla soglia della mezza età (la stessa età dell'autore nel periodo in cui scrive il romanzo). Harry soffre d'un forte conflitto inerente alla propria personalità; il percorso di guarigione è la riconciliazione delle due parti antitetiche e contrapposte che ha dentro sé tramite l'umorismo, la risata cioè anche nei confronti di sé stessi e davanti all'inadeguatezza della società e dell'intera cultura umana.

Solo considerando la realtà dal punto di vista ironico Harry percorrerà i passi necessari per condurlo lungo la direzione della perfezione artistica.

 

Non è un caso che si sia trattato di questo libro e di quello che racconta, soprattutto questo ultimo suo periodo, secondo Pierre le regole di Vance ci servivano soprattutto per sdrammatizzare la situazione e sorriderci un po’. Un po’ di sana ironia in un giallo non guastava affatto. Le norme spesso erano inadeguate e queste qua parevano anche un po’ datate, come la società e l’intera cultura umana, che pur invecchiando non rinsavivano, anzi diventavano sempre più nevrotiche e imbizzarrite.

 

1. Il lettore deve avere le stesse possibilità del poliziotto di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce debbono essere chiaramente elencati e descritti.

 

Per cominciare questo era un punto difficile perché io stessa tante cose non le sapevo, tante o troppe me ne ero dimenticate ed erano trenta anni che vivevo qui al nord, con pochi viaggi in Italia e piuttosto lontani nel tempo, lo spazio di mezzo aveva fatto il resto.

La prima cosa che mi saltò in mente fu di parlarne con i fratelli e le sorelle, ovviamente. Ne erano rimasti quattro in tutto, di otto che eravamo, tre avevano desistito, per cause differenti ma simili, giacevano in cimiteri vari.

Ero in contatto di e-mail con due di quelli vivi e quindi da Ottawa in Canada a Sidney in Australia e a Cordoba in Argentina, gliele avevo mandati subito, due copie uguali.

 

 

 

Caro Mario/Giovanna

Ho trovato un libro con una dedica a Cosima, rimasto per sbaglio tra i miei, il Lupo della Steppa di Hesse e si tratta di una dedica strana, che lascia intendere che le due femmine in questione fossero innamorate.

 

A Cosima

Se potessimo rivelare i sentimenti

Senza doverci nascondere

Vivere in mezzo alla natura

Senza seguire i pregiudizi altrui

Le regole di questa cazzo di società

Accidenti a chi l’ha inventata

Semplicemente vivere e goderci la vita!

Non si può?

 

Marcellabbella

 

Tu lo sapevi? Che cosa ne pensi?

Conoscevi questa Marcella?

 

 

La stessa lettera elettronica ma di Whatsapp la mandai a quattro mie amiche di Vicenza, che potrebbero essere state più facilmente informate dal principio di vicinanza geografica, pur magari difficoltate dalla lontananza del tempo e dei sentimenti.

Lo stesso testo, in due lettere di carta, in mezzo ad altre frasi, propositi, auguri e questioni, poi per i fratelli che non avevano mai amato né praticato l’informatica e a scuola anche c’erano andati poco.

 

Cara Marzia

io non mi sono mai accorto di niente certo che spiegherebbe anche il perché è rimasta sempre da sola, si è presa cura dei nostri genitori fino in fondo eccetera, per aiutarti in questo tuo tardivo quesito ci penserò, per quello che posso, chiederò in giro, con molta discrezione naturalmente.

 

Questo il succo delle lettere di risposta e di vario tipo, ma concordanti quasi su tutto, cioè niente.

L'unica che la pensava diversamente fu la mia amica Giannina che io interpellai per pura curiosità e spasso, per vedere se avrebbe detto come al solito che se l'era sempre immaginato, che aveva visto delle cose abbastanza equivoche e insomma anche se non ne aveva le prove ci aveva pensato più di una volta. Lo fece puntualmente.

Una regola intermedia che mi immaginai e annotai subito dopo è che prima di reagire alle risposte bisogna pensare a chi te le ha date, che per quanto ovvia spesso non ci si dà peso, se siamo infervorate in qualcosa che in qualche modo ci preme, come succedeva a me in quei giorni.

Era più che normale, trattandosi di Giannina, che pensasse male un po' di tutti, insomma che si facesse delle idee piuttosto balorde della gente. Quella è sempre stata una delle sue caratteristiche, quindi non bisognava darle eccessiva retta.

Naturalmente, per puro scrupolo, le chiesi per whatsapp quali fossero gli episodi in questione e capii che erano le consuete proiezioni sue estemporanee. Tentativi di farsi interessante, anche agli occhi di Pierre, che le piaceva non solo perché era un uomo, che avrebbe rappresentato già un motivo più che sufficiente, ma anche perché era mio marito, poiché era in costante competizione con ogni altra donna, ma con me in particolare e così via. Quella ci provava da sempre con tutti, insomma ci siamo capiti.

Il fatto di non aver mai visto Cosima con un uomo e che avesse seppur poche, solo amiche femmine, di per sé non rappresentavano alcuna prova, in nessun tribunale, se non in quello delle intenzioni, o magari della loro mancanza.

Lo stesso Pierre, che non solo per deformazione professionale ha una mentalità piuttosto investigativa, disse che quando si cercava di capire la verità bisognava stare attenti, come regola generale, a non voler forzare le ipotesi, interpretando affrettatamente i fatti o le testimonianze. Saltare cioè alle conclusioni seguendo troppo quello che preferiamo, in maniera da soddisfare la nostra volontà insieme alla curiosità, confermando quello che avevamo pensato, sentendoci piuttosto prematuramente molto intelligenti e perspicaci. È bene seguire anche la nostra immaginazione, come no, ma la ricerca della verità risiede anche poi nell'opposto del meccanismo, se si intravedono delle potenziali situazioni, in seguito bisogna anche vagliare i punti deboli alle nostre previe ipotesi.

Insomma dopo tutto quello che poteva essere letto su queste lettere, seppur di vario tipo, eravamo al punto di partenza, cioè non si sapeva nulla.

Di positivo c'era un viaggio in Italia vagamente programmato da me nel prossimo futuro, mio marito non si era opposto, magari per i soliti impegni di lavoro o altro e l'avevo anticipato, sarebbe stato nel giro di meno di un mese.

Arrivammo che era primavera, anche se era freddino e pioveva tutti i giorni, il calendario insisteva nell’affermare che l’inverno era ormai passato.

La casa materna, dopo la morte di Cosima, era occupata da mio fratello Guglielmo e da Guaglio’, un nero e attempato Terranova. Ci ospitarono con piacere, anche se il cagnone avrebbe potuto protestare da noi disturbato nelle sue lunghe dormite quotidiane sul peloso tappeto del soggiorno e Gugliè aveva tanto o troppo da fare, visto che faceva un mestiere, quello di ristoratore, che lo teneva lontano da casa, specialmente nella buona stagione, per buona parte della giornata.

Guglielmo anche era arrivato alla vecchiaia da solo, dopo aver avuto diverse storie con donne di diverso tipo, e non me ne era mai piaciuta una, per poco che le avessi conosciute, mi era bastato e avanzato. Anche in quel periodo aveva una specie di innamorata rugosa e truccatissima, piuttosto rompiscatole, per fortuna non abitava ancora a casa sua, ma ce la dovevamo sorbire lo stesso. Fu lei che fece e rifece diverse ipotesi balzane su quello che era stato il motore principale del nostro viaggio, Cosima, senza esserne stata giammai invitata, per di più avendola appena conosciuta, ma per fortuna mio marito la sopportava placidamente e quindi io me la scappavo appena potevo. Quando ero da sola mi sentivo più tranquilla per fare domande in giro e di cercare la verità su mia sorella, lo scoprii subito.

Di ritorno, la domanda alla quale io dovevo più volte rispondere, era che caspita me ne fregasse a me, dopo tutto quel tempo, di sapere se Cosima era quello che era, oppure no. Io chiedevo allora che cosa cazzo gliene fregasse a loro di quello che me ne fregava a me, ma con squisita cortesia.

Confesso che non possedevo più la linea snella di quando avevo quattordici anni, magari fino ai trenta c’ero arrivata abbastanza bene, ma anche ora confronto alle mie amiche direi che mi salvo abbastanza tranquillamente. Quattro di loro se le mettevi insieme sembravano quelle divinità indù sovrappeso dei dipinti, di origini sudiste scure come erano e vestite di floreali stampati, non erano delle vere e proprie Botere, ma Pierre diceva che era solo questione di tempo. Per fortuna in Canada non si mangiava così bene, aggiungeva con un velo di rimpianto invece, a mio modesto parere.

Mio marito si divertiva assai con loro, capiva fischi per fiaschi e rideva come uno scemo, ma di quelli francofoni e canadesi però, che erano piuttosto diversi dai nostri vicentini, se ben me li ricordavo. In più codeste fanciulle erano anche troppo disponibili e affabili con lui, che se non fossi stata quella che ero, e dovevo rammentarmelo più volte, avrei potuto anche sentirmi gelosa. Ma andiamo avanti.

 

2. Non devono essere esercitati sul lettore altri sotterfugi e inganni oltre quelli che legittimamente il criminale mette in opera contro lo stesso investigatore.

 

Io non ne faccio mai e mia sorella non mi pareva il tipo da fare sotterfugi, sebbene le volessi molto bene, devo ammettere che a venticinque anni, grazie a dio, ero già fuori casa e la mia attenzione era tutta rivolta altrove. A lei però ci ho pensato spesso, anche se da lontano e solo allora, dopo quella dedica sul libro, temevo di averne avuta un’immagine diversa dalla realtà.

Le descrizioni che sentivo in giro su Cosima, attraverso le persone che la conoscevano più o meno bene, combaciavano abbastanza con la mia opinione, ma stentavo sensibilmente ad avere ancora di lei. Quella filastrocca di Marcellabbella ci diceva che ci eravamo sbagliati tutti, per quanto la mia resistenza pareva ancora intenzionata a trincerarsi strenuamente.

Pur se nessuno, come pareva, se ne fosse mai accorto, la sua doveva ben essere stata una vita di nascosto, e anche questo non combinava certo con l’idea che avevo di lei, un’idea che stava quasi per crollare, d’accordo, ma per ora non veniva sostituita da un niente di nulla. Un vuoto doloroso bisognava constatare, con qualche bestemmia da me bisbigliata e masticata ogni tanto.

Un'altra cosa che mi veniva domandata è se io in qualche maniera avessi dei preconcetti nei confronti degli omosessuali, il che d’acchito mi sorprese e poi mi indusse a chiedermelo io stessa, dentro di me… e naturalmente mi risposi di no. O perlomeno era questo che avevo pensato fino a pochi giorni prima. Siamo d’accordo che in attualità sono situazioni viste con molta meno ferocia rispetto al passato, sono accettate giustamente in maniera migliore e maggiore. Uno dei pochi veri progressi che ha fatto l’umanità sui temi veramente importanti, direi.

Allora perché era così importante per me sapere fino in fondo la verità su questo ben determinato argomento? Non lo sapevo, o non lo volevo ammettere?

Ci stavo lavorando però e forse la maniera giusta era quella, di svolgere tale sporco, ma anche affascinante lavoro proprio lì, dove avevo passato i miei primi venticinque anni di vita, dove mia sorella aveva passato tutta la sua esistenza terrena e dove la sua omosessualità era stata evidentemente nascosta a tutti per quella sua, che avevamo da poco scoperto, improvvisamente misteriosa vita.

La seguente regola era piuttosto difficile da realizzare, l’idea di mio marito qui cominciava già a fare acqua, proprio per quello che questa dice, ma non ci si addice: 

 

3 Non ci deve essere una storia d'amore troppo interessante lo scopo è di condurre un criminale davanti alla giustizia non due innamorati all'altare. 

 

Bene, anzi male, invece l'amore era interessante perché ci doveva essere stata una storia d'amore o anche più di una e poi il nostro scopo non era trovare un assassino ma proprio una soluzione a questo dubbio. Un dubbio che era quasi una certezza, però quello che era strano, almeno fino a questo punto, era pure che mia sorella Cosima avesse agito sotto la superficie e, sebbene con il periscopio fuori, nessuno lo avesse mai notato e avesse così portato avanti la sua storia d'amore in maniera segreta, senza che nessuno se ne fosse accorto, perché fino a quel momento nessuno aveva ammesso di avere avuto sentore, né qualche minima prova tangibile di questa cosa. 

A questo punto Pierre, con la mente assai più analitica della mia, mi disse due robe, distrattamente, non so se per aiutarmi o per complicarmi la vita.

Primo: non era detto affatto che i desideri amorosi di Cosima si fossero a suo tempo realizzati in pratica, potevano benissimo essere rimasti delle fantasie.

Secondo: non era per niente scontato che chi sapesse della storia o delle storie di Cosima, o solo delle sue attitudini segrete, fosse disposto a confessarcele, per i motivi più diversi. No, poteva darsi benissimo di no.

E io Pierre quel giorno non l’ho mandato affanculo per un unico motivo: aveva ragione.

 

4. Né l'investigatore né alcun altro dei poliziotti ufficiali deve mai risultare colpevole. Questo non è buon gioco: è come offrire a qualcuno un soldone lucido per un marengo; è una falsa testimonianza.

 

E qui non c'era niente da dire. Se io e mio marito eravamo i poliziotti, ci pareva evidente che di quel tipo di peccato noi non potessimo essere colpevoli. Almeno lo speravo ardentemente.

 

5. Il colpevole deve essere scoperto attraverso logiche deduzioni: non per caso, o coincidenza, o non motivata confessione. Risolvere un problema criminale a codesto modo è come spedire determinatamente il lettore sopra una falsa traccia, per dirgli poi che tenevate nascosto voi in una manica l'oggetto delle ricerche. Un autore che si comporti così è un semplice burlone di cattivo gusto.

 

Essere burloni o di cattivo gusto? Sì, lo ero magari, perché il finale avrebbe potuto risultare a sorpresa e da qualcuno contestabile, ma ora non lo posso rivelare. Le false tracce ci sono sempre (porcodio) e non saranno mio marito né Philo Vance che potranno eliminarle dalla vita. Se gli esseri umani fossero incapaci di mentire non esisterebbe nemmeno il giallo, perfino il poliziesco e il nostro poliziottesco non avrebbero senso. Sta al pubblico lettore avere la necessaria malizia per comprendere che un’indagine come questa, forse come tutte le altre, si basa proprio sulle false tracce.

Sta di fatto che mio marito lo mandai affanculo come era la normale prassi, sia per quelle regole stronze di Philo Vance che avevo interrotto con estremo piacere, ma anche per il dettaglio che ne aveva approfittato per tradirmi con Giannina, e li avevo scoperti personalmente in schifosa flagranza di reato. Avrei potuto dire senza timore di essere smentita che si meritavano a Vicenza, ma lei era di Schio.

Li lasciai là e me ne tornai a Ottawa.

All’aeroporto mi ci portarono Gugliè e Guaglio’, il quale però era un po’ stanco di tutta quella turbolenza in casa e sul sedile di dietro all’andata dormì tutto il tempo, probabilmente anche al ritorno.

Mentre Gugliè e io facevamo il check-in si avvicinò un tipo belloccio, scuro come un africano brizzolato e vestito da comandante di volo. Era Marcello, un conoscente di Guglielmo e notai che gli aveva fatto una certa impressione vederselo arrivare davanti. Dopo qualche frase rapida salutò e se ne andò. Mio fratello mi confessò di esserselo dimenticato, ma quando era giovane quello aveva in testa un cespuglio di capelli neri rotondo, stile Black Power. A quei tempi c’era una cantante siciliana assai popolare in Italia, con i capelli così. Per questo Marcello era stato stupidamente soprannominato Marcella Bella. Siccome aveva qualche addentellato con la piccola delinquenza, in più si faceva le canne, in una famiglia come la nostra avere qualcosa a che fare con lui avrebbe potuto essere considerato sconveniente. Cosa era successo dopo io non lo volevo nemmeno più sapere.

A Ottawa ci arrivai di sera, il giorno seguente avevo messo la radio sveglia alle dieci, manco a farlo apposta c’era questa canzone di Marcella Bella.

 

Mi ricordo montagne verdi e le corse di una bambina
Con l'amico mio più sincero, un coniglio dal muso nero
Poi un giorno mi prese il treno
L'erba, il prato e quello che era mio
Scomparivano piano, piano e piangendo parlai con Dio

Quante volte ho cercato il sole
Quante volte ho mangiato sale
La città aveva mille sguardi
Io sognavo montagne verdi

Il mio destino è di stare accanto a te
Con te vicino più paura non avrò
E un po' bambina tornerò

Mi ricordo montagne verdi quella sera negli occhi tuoi
Quando hai detto, "Si è fatto tardi
Ti accompagno se tu lo vuoi"
Nella nebbia le tue parole
La tua storia e la mia storia
Poi nel buio senza parlare ho dormito con te sul cuore

Io ti amo mio grande amore
Io ti amo mio primo amore
Quante volte ho cercato il sole
Quante volte ho cercato il sole

Il mio destino è di stare accanto a te
Con te vicino più paura non avrò
E un po' più donna io sarò
Montagne verdi nei tuoi occhi rivedrò

 

Quando tornò mio marito, per introdurre un civile dialogo, gli spaccai un manico di scopa sul groppone e poi passammo qualche tempo in casa senza parlarci. Mi aveva portato però una lettera di mio fratello Guglielmo che mi raccontava per sommi capi la storia di Cosima, che a sua volta aveva appreso da Marcello, mentre io ero già in Canada. L'amore era nato quando lui era un giovincello e lei già un po' sulla trentina, era stata una cosa piuttosto clandestina, perché lui aveva problemi con la giustizia e la droga.

È stata una cosa intensa perché amavano le stesse cose, erano due sognatori che volevano svicolare via dalla loro condizione, ma lei non poteva confessare certo in famiglia che cosa stava succedendo e dopo un po' era già finita, cioè momentaneamente, perché poi più tardi lui era diventato un pilota di aeroplano e lei era ormai indirizzata verso la cinquantina, stava in casa con i nostri genitori cercando di aiutarli, di stare con loro, perché non c'era nessun altro che l'avrebbe fatto, allora era cominciata di nuovo questa storia più o meno di nascosto. Dopo lui si era sposato con un'altra e dopo aver sfornato copiosa prole aveva ripreso a frequentare Cosima. Quindi era stata una storia in tre tempi, fatta d’incompetenza e ingenuità, ma anche di ardente passione, secondo Marcello Bello e quando lei era morta stavano ancora insieme, ma lui non si era affatto lasciato con la moglie.

Appresa questa storia di alti e bassi, di lasciarsi e di riprendersi, di età differenti e forse per altri incompatibili, sono riuscita a capire che tra di loro c'era stato del sentimento forte e autentico.

Perdonai, anche se a denti stretti, il mio Pierre per il suo tradimento, considerando anche che era stato l'unico che mi aveva sopportato per tutti quegli anni. Il mio carattere era piuttosto impossibile, avevo ragione di credere che non fosse facile trovare un altro fesso.

Del resto mi ero già vendicata abbastanza, nel mio primo racconto giallo, scritto e pubblicato prima del suo ritorno, lo avevo accoppato con un’ascia, ma poi ne sentivo la mancanza, e inconsolabile piangevo a cascata. Questo solo in quel libretto antologico pieno di sangue e sbudellamenti gratuiti, in cui però riuscivo, anche involontariamente, a fare il contrario di tutte le regole di Philo Vance in una botta sola e in poco più di dieci pagine. Una specie di record.

Manco a dirlo ha avuto un fottuto successo, anche se è stato catalogato come splatter, pure un po’ sul gotico. Non avevo capito, a dir la verità, ma era una raccolta di vari autori di quel genere o due. Per fortuna ho usato uno pseudonimo, Marcella Brutta e secondo il mio nuovo editore avrei addirittura un luminoso futuro in questi campi di cui ignoravo l’esistenza, ma pare che acchiappino parecchiotto, specie tra i giovani.

In teoria non mi piacciono assolutamente queste cose, a Pierre ancora meno, all’inizio mi sentivo perfino in colpa, non solo con lui. In pratica è evidente che mi riescono bene, e poi mi fanno sfogare e sentire meglio. Secondo mio marito la dovrei prendere come una specie di terapia e in più, secondo Jules Pizzichinì, l’editore della collana Superspazzatura (Supertrashy), della casa editrice Polka Dot Mountains (Montagne a Pallini) ci potrei guadagnare anche dei bei soldoni.

Pierre suggerisce di fare finta di crederci. 


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