Ho un cervello
che non si ferma mai, non si riposa che quando dormo, ma anche lì i sogni a
volte sono turbolenti, o simbolici, insomma poco tranquilli. Non sono mai veri
e propri incubi però, ma sono premonitori e soprattutto enigmatici.
Il mio vero nome è Shulamit e significa pacifica, nel Cantico dei
Cantici (7:1) era il nome che alludeva al popolo d'Israele: un popolo di pace o
quasi, almeno a quei tempi.
«Ah!», penso fra me, «e io, non giaccio io in
fondo alla terra, nella polvere? Mentre gli altri, quelli di Jehupez, per
esempio, se ne stanno tutta l’estate a Boiberik, mangiano e bevono bene e
nuotano nell’abbondanza. Ah, Creatore del mondo, che cos’ho fatto per meritarmi
questo? Eppure io sono un ebreo uguale agli altri ebrei! Dio, sii un po’ ragionevole!»
Guarda la
nostra miseria – continuo a
cantare – guarda come noi soffriamo e abbi pietà dei poveri. Perché, chi
dovrebbe aver pietà di loro se non tu?
Risanaci,
perché noi possiamo guarire, e mandaci
soltanto le medicine, perché tanto le piaghe ci vengono da sé...
(da Tewje il lattaio
di Sholem Aleichem)
Quando e se
la realtà circostante fosse piuttosto stretta, ecco che l’essere umano, quindi
anche un’anziana come me, differentemente dalle bestie, può riuscire ad
ingannarsi ed entrare in un’altra dimensione, non più falsa di quella che è la
nostra vita, in questa cosiddetta società, da qualche parte, su questo mondo,
dunque anche dove una volta c’era la Galizia, ora divisa tra varie nazioni.
Documentarsi
sull’occultismo quindi sarebbe una maniera di occultare a sé stessi le proprie
magagne nella purtroppo umana situazione di tutti i giorni, quella routine che
ruota e ruota instancabile, però rimani sempre lì, guarda che combinazione.
(in ebraico: קַבָּלָה, letteralmente 'sapere ricevuto', 'tradizione') …
Praticando la Tradizione Primordiale ho bevuto alla fonte di tutte le
spiritualità autentiche, infrangendo le catene dogmatiche dell'esclusivismo
religioso. Da qui la congiura del silenzio, che per lungo tempo ha cercato di
soffocare la mia opera nel cui cuore è celato un segreto: quello degli iniziati
della “via di sinistra”, cioè di coloro che, sistematicamente perseguitati nel
corso dei secoli, consideravano e considerano la cosiddetta Creazione come una
prigione cosmica in cui siamo rinchiusi dal Demiurgo, colui che costruisce coi
numeri. Per uscirne esiste uno stratagemma, cioè l’usare le forze ritenute
inferiori e caotiche - il "potere nero" - il cui controllo libera
l'energia necessaria al fine di ritrovare la luce. Se il rito non sortisce tale
positività il buio, in sé, inghiotte il Tutto e il Nulla. Questo il pericolo
per il vero mistico: la Gnosi Controversa… cioè ciò che ogni religione e ogni
dottrina propone come verità pur già sapendo che è sterco del Demonio. (René
Guénon 1909)
Che
cosa significa tutto questo? Non lo so, però con il semplice artificio di
leggerlo, io me ne vado via, leggendolo io mi tiro fuori da questa stanza e
parto, entro in un mondo parallelo, forse anche perpendicolare, non lo so, nel
passato ma anche nel futuro, via dal presente insomma.
Questa
mia fervida immaginazione la gente non la sopporta, dicono che sono bugiarda,
un po’ come tutti, ma in una maniera esagerata... Come mio padre e mia madre,
il nonno e la nonna, i miei cugini e i relativi zii, però in una maniera
diversa. Non gli piace neppure che quando mi chiamano io non risponda e se
rispondo ci sono solo con il corpo, fisicamente cioè, ma chissà dove sono con
la mente? E la cosa che si tollera meno è che se racconto qualcosa, magari
anche nei minimi particolari, poi si scopre immancabilmente che non è andata
davvero così e la realtà mi ha solo ispirato, sono partita per la tangente, per
gli spazi siderali o che ne so io quali.
Lo
sanno tutti che gli esseri umani sono in perenne fuga dalle varie situazioni,
spesso fuggono anche e soprattutto da sé stessi, dalla verità, dalla loro
condizione.
Un’eco di questo
disprezzo razionalista si coglie nella descrizione dell’incontro tra Scholem e
Philip Bloch, un erudito ormai ottantaduenne che si era fatto un nome per
alcuni studi bibliografici sui cabbalisti.
Accolto con grande cordialità
dall’anziano professore, Scholem era rimasto ammirato di fronte alla sua
splendida biblioteca, l’unica raccolta privata allora esistente in Germania di
manoscritti e libri a stampa di argomento cabbalistico. All’ingenua
osservazione del giovane Gershom: «Che bello, professore, che lei abbia
studiato tutto questo!», il vecchio erudito aveva risposto: «Cosa? Dovrei anche
leggerle, queste frottole?» Il commento tardivo di Scholem suona a un tempo
ironico e polemico: «Fu un grande momento della mia biografia».
All’estremo opposto
di questi ambienti scientifici ostili al misticismo, vi erano a quel tempo
circoli esoterici in cui la qabbalah ebraica era una sorta di malcompreso feticcio intellettuale.
Gershom Scholem - Da
Berlino a Gerusalemme (Einaudi, 2018)
Letture che io scovo di qua e di là, sotto o sopra, quello
che conta magari è solo la mia mente, che se ne va e torna quando vuole, o
forse no, torna quando c’è un rumore più forte, qualcosa che mi scuote e mi
obbliga a deconcentrarmi, dal mio proposito di dedicarmi allo sproposito.
La mia avventura immaginaria però a volte mi porta dove non
voglio, come l’altro giorno che ho preso il treno per Uikel e invece sono
arrivata fino a Yon, cento chilometri più avanti e sono scesa perché era il
capolinea e mi hanno costretta a farlo.
Una volta qui c’era la Galizia, che tanti pensano che sia in
Spagna. Una confusione nei nomi, le relative traduzioni dalle varie lingue.
D’accordo, anche là c’è una Galizia, completamente differente dalla nostra.
Dov’è
la Galizia?
Prima
di proseguire in questa nostra indagine e riflessione, (o vogliamo chiamarlo
sfogo?) sarebbe giusto chiarire a tutti coloro che non condividono questa
storia personale dove fosse questa regione, svanita nella polvere della
dissoluzione dell’impero austro-ungarico.
Credo
che questo nome trasmetta ancora una sensazione particolare, quasi di mistero
irrisolto, in qualsiasi nipote o pronipote di coloro che, cittadini austriaci
fino al 1918, sono stati mandati a combattere contro i russi in quella che era
la Galizia austriaca a partire dall’estate 1914.
Si
tratta... o meglio si trattava di una zona assai povera che attualmente
comprende la parte meridionale della Polonia (quella quindi attorno a Cracovia)
e l’Ucraina occidentale (che fa capo a Leopoli), passate all’impero asburgico
in seguito alla prima spartizione della Polonia nel 1772.
Per
una serie di ragioni storiche quella lontana regione ricevette il nome di regno di Galizia e Lodomiria e fin da subito fu terreno di una notevole
politica di integrazione linguistica, sociale ed economica e di sperimentazione
delle più moderne tendenze del tempo.
La
lingua ufficiale (e quella di prestigio) divenne ovviamente il tedesco nella
sua variante austriaca, ma le due grandi minoranze linguistiche (polacchi ed
ucraini) videro riconosciuti tutti i loro diritti. Circa il 10% della
popolazione era formato da ebrei che, tra il 1848 e il 1867, furono
completamente equiparati agli altri cittadini.
Leopoli
(Lemberg, Lviv), la capitale, era la quarta città dell’impero per numero di
abitanti, dopo Vienna, Budapest e Praga, superando Trieste per appena una
manciata di persone.
“Ogni tanto un
emigrato manda una lettera in cui descrive a chi è rimasto a casa i vantaggi
dell’estero. Gli emigranti ebrei hanno perlopiù l’orgoglio di non scrivere
finché se la passano male, e tendono a esaltare la nuova patria rispetto alla
vecchia. Hanno l’ingenua smania del provinciale che vuole far colpo sui compaesani.
In una cittadina orientale la lettera di un emigrato costituisce un fatto
sensazionale.”
Dal romanzo “Ebrei
Erranti” di Joseph Roth
Questi galiziani hanno perpetuato nella diaspora la memoria
della loro "piccola patria", a volte idealizzata cantando il
multiculturalismo prima della lettera, il pluralismo religioso, culturale ed
etnico, visto attraverso il prisma della loro comunità scomparsa, e talvolta
traumatico ricordando le intolleranze religiose incrociate , la
strumentalizzazione politica e il conseguente odio di classe o razziale, i
conseguenti massacri.
Molti ritornano indietro. In numero
ancora più grande rimangono per strada. Gli ebrei orientali non hanno patria in
nessun luogo, ma tombe in ogni cimitero. Molti diventano ricchi. Molti
diventano importanti. Molti diventano attivi in una cultura straniera. Molti
smarriscono se stessi e il mondo. Molti rimangono nel ghetto e solo i loro
figli lo lasceranno. La maggior parte di essi dà all’Occidente almeno tanto
quanto questo gli toglie. Alcuni gli danno più di quel che ricevono.
Dal romanzo “Ebrei
Erranti” di Joseph Roth
Lo shtetl ebraico, l’aristocrazia
polacca e la relativa grande proprietà fondiaria, lo splendore
remoto nel tempo delle metropoli regionali di Leopoli e Cracovia appena
rammentano un' Arcadia perduta dall'infanzia o
un' Atlantide sommersa da un'ondata di disumanità più recente, fatta di guerre,
nazismo, stalinismo e i loro relativi quanto fisiologici crimini.
La
Galizia era una terra di frontiera, al suo posto ora ci sono dei confini tra
nazioni che a quei tempi erano ancora impensabili.
Arrivo a sera a casa di Yechayahou, che poi sarebbe
Isaia, è freddo e la neve sciolta sui bordi della strada è diventata marrone, grigia,
a tratti perfino nera.
Dentro è freddo e in penombra. Non ci sono
mobili, perciò mi siedo su un ciocco di abete. Il vecchio invece si siede sulla
cassa che usa come tavolo da lavoro. Puzza di fumo e muffa mischiate. Per come
la luce entra non riesco a vederlo in faccia e la sua tunica vecchia e larga lo
fa sembrare allo stesso tempo magro e senza forma, come se si fosse perso
dentro ai vestiti. La gente non lo sa che è mio marito, o almeno lo è stato, la
vita ci ha separato, ma non vogliamo darle la colpa, o il merito, o quello che
è… che non lo sappiamo nemmeno. Abbiamo la stessa età, ma non si direbbe. Parliamo
in yiddish, la lingua più diffusa, non per numero, ma per la sua distribuzione
sulle terre emerse. La gente non vuole parlare del passato, o chi lo fa è
catatonico e non ci ragiona, ripete meccanicamente le stesse cose, invece con
lui è diverso.
Mi dice: vieni, andiamo di là.
Ha riprodotto una minuscola stanzetta tutta
foderata di legno come se la casa intera lo fosse, invece è un cubo dentro un magazzino
in muratura, dove si è scavato nella mente il suo passato, forse anche il
nostro e lo ha ricopiato. È povero ma accogliente, ordinato e confuso, come il
suo ricordo, diciamo il nostro, preciso e dolente quanto basta. Anche romantico,
alla sua maniera, forse alla nostra.
Mi prepara il tè in silenzio, accende un
bastoncino d’incenso, magari per coprire l’odore di muffa e mi guarda
intensamente, mi pare, ma non mi vede o forse mi vede com’ero allora, qualche
secolo fa. Non importa.
La vecchia stufa di ghisa e muratura, coperta di
mattonelle verdi, scoppietta e c’è un caldo quasi soffocante, in quei pochi metri
cubi di passato, senza futuro, tantomeno presente.
Per l’uomo della strada
di inizio Novecento era una specie di Far West e, per un militare di carriera,
essere di stanza in una guarnigione di quella regione era decisamente
demoralizzante. La Galizia era infatti una zona estremamente importante per la
strategia militare austriaca, essendo situata al confine con la Russia. Cracovia
e Przemysl divennero città fortezza e lungo il confine le linee ferroviarie
vennero potenziate per poter trasportare il maggior numero di soldati
possibile.
Durante la prima guerra mondiale l’Austria
sofferse enormi perdite in questa zona: l’enorme fortezza di Przemysl venne
conquistata e i russi giunsero fino quasi Cracovia.
Ciò significa enormi perdite di vite umane (infatti oggi questa zona pullula di
cimiteri e monumenti ed esiste pure un "First World War’s Eastern Front
Trail" (risparmio al lettore la versione polacca), un lunghissimo percorso
che ricorda gli incredibili spostamenti del fronte e l’enorme numero di caduti.
Entrambi i miei nonni sono stati presi
prigionieri dai russi nel primo periodo delle ostilità. Si sono trovati quindi
a perdere il senso dell’orientamento che dava loro l’esercito austriaco. I
superiori generalmente si occupavano del benessere della truppa, e si sono
visti catapultati in una realtà completamente estranea per lingua
(ucraino/russo), usi e costumi.
Ho potuto finalmente arrivare in questa zona
nello scorso giugno, per conoscere la Galizia e la Bucovina, appunto regioni
tutt’ora poco conosciute, anche se hanno un posto ben chiaro nella storia
austriaca. Se in Polonia si può parlare tranquillamente in inglese e il mio
piccolo bagaglio di polacco funziona ancora, l’Ucraina era per me (proprio come
per i nonni) un paese del tutto sconosciuto per usi, costumi e lingua d’uso,
quindi ho scelto per la prima volta nella mia vita un viaggio organizzato, il
cui scopo principale non era nemmeno il mio. È stata però un’esperienza
liberatoria: poter entrare nel mondo che non trova posto nella storia italiana,
ma è parte della mia storia, mi ha consentito di vedere il passato recente del
Goriziano con occhi diversi. Certamente partire da Vienna alle 8.15 del mattino
con un pullman distante 10 minuti di tram dal mio alloggio e con un programma
dettagliato tra le mani non ha nulla a che vedere con il viaggio dei nonni,
iniziato in treno a Trieste verso un est sconosciuto, per una guerra che
avrebbe dovuto durare qualche mese e che invece ha sconvolto completamente il
mondo per quattro anni con una violenza inimmaginabile precedentemente.
Mio nonno materno ha
vissuto due anni di prigionia russa (1914-1916) optando poi per la cittadinanza
italiana, visto che la sua famiglia, residente a Capriva, la linea del fronte
quindi, era stata evacuata dagli italiani in Emilia a Mirandola (Modena). Per
inciso, i due anni trascorsi nella profuganza mirandolese sono stati ricordati
sempre con grande positività e riconoscenza dai caprivesi che avevano vissuto
quest’esperienza.
Durante la prigionia
russa "nono Toni" ha arrotondato la diaria di prigioniero lavorando
come giardiniere e quindi aiutando un barbiere ebreo a Kiev.
Suscita immensa
meraviglia per me, abituata fin da bambina a spostarmi tra lingue diverse, come
questo nonno praticamente esclusivamente friulanofono sia riuscito ad
organizzarsi così bene in un mondo che non aveva alcun addentellato con il suo,
immagino però che l’istinto di sopravvivenza abbia potuto fare miracoli! Nono
Toni ha fatto parte di coloro che hanno scelto l’offerta dei funzionari
italiani di opzione per l’Italia e quindi ha potuto rivedere la sua famiglia
già nel 1916, partendo dal porto di Arcangelo sul Mar Bianco, costeggiando la
penisola scandinava, attraversando poi la Gran Bretagna e la Francia.
Alla fine della guerra i miei nonni materni
sono tornati a Capriva e alla cura dei loro campi.
Diverso è stato il
destino di mio nonno paterno, Rodolfo Alt, che vedete in foto. La prigionia
(come nel caso di tutti gli austriaci del Litorale) nel suo caso è durata
quattro anni, attraversando non solo la Russia e la Cina e tornando via Stati
Uniti, ma anche i rivolgimenti politici e sociali che hanno cambiato
completamente la storia di quei due enormi paesi e del mondo.
I miei nonni paterni si
erano sposati nel 1914: il loro piano di vita era quello di rimanere a Gorizia
(questo nonno era tranviere).
Non so come abbiano potuto rimanere fedeli a
questo proposito, tornati in una città devastata dalle cannonate italiane e
snaturata dalla violenza del Fascismo di frontiera, dove hanno dovuto cambiare
persino l’identità - come tantissimi altri - per evitare, nel loro caso,
semplicemente ripercussioni sul lavoro, essenziale per rimanere a Gorizia.
Mio padre è cresciuto però serenamente in via Goldoni, trovandovi gli amici di
una vita e passando a me, indirettamente, lo stimolo ad indagare sulla storia
dei loro dirimpettai, la famiglia di Attilio Morpurgo, l’ultimo presidente
della comunità ebraica di Gorizia.
Andrea Morpurgo,
pronipote di Attilio, architetto a Madrid, mi ha cercata per ringraziarmi per
tutto quanto ho fatto per la storia della comunità ebraica goriziana.
Buona parte della famiglia Alt-Altieri è invece emigrata tra gli anni Venti e
Trenta, scegliendo la Francia o l’Argentina.
Un fratello di mia nonna materna, Luigi Tirel, partito ventiduenne per la Galizia,
è tornato entusiasta degli ideali della rivoluzione comunista e quindi ha
trovato ovvio aderire al partito comunista.
Nel 1928 il podestà di
Capriva lo ha invitato caldamente ad andarsene il più lontano possibile,
procurandogli, come allora consuetudine per gli tutti gli indesiderati
politici, il passaporto e visto per l’Australia.
È morto in tarda età a
Brisbane dove, finalmente in pensione, ha voluto rinfrescare il suo tedesco,
avvalendosi dell’offerta "life long learning" ovvia per i paesi del Commonwealth.
"But why, Mr.Tirel, lei è italiano e parla il tedesco?" Gli ha
chiesto la sua sbalorditissima insegnante.
Il museo della guerra della città di Przemysl
non si occupa solo della cronaca delle due guerre mondiali che hanno sconvolto
quella bella città, ma cerca di avvicinare i bambini e i ragazzi alla sua
storia con una (per quanto ho potuto sapere) simpatica attività creativa per
far loro conoscere il passato multinazionale, multietnico e multireligioso
della città in cui ora vivono, e tutto ciò in modo decisamente oggettivo.
È un’ottima idea che potrebbe essere utile
anche nelle "province redente" perché senza un’identità chiara e
salda non si può costruire il futuro.”
“Siamo di nuovo a due passi dalla guerra?” Chiede al
soffitto basso Isaia affermando.
“Gli esseri umani non
imparano mai.” Rispondo quasi domandando.
“Mai.” Ripete lui
distrattamente, sorseggiando il suo tè.
Ho preso questa testimonianza autentica da questo sito
https://www.voceisontina.eu/Cultura/Viaggio-nella-Galizia-dei-nonni
, settimanale dell’Arcidiocesi di Gorizia e l’ho romanzato, c’ho infilato anche
pezzi di altra roba, per commentare da lontano, ma anche da vicino, la guerra
in Ucraina, senza dirne niente, in fondo, se non quello che importa veramente.
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