mercoledì 6 luglio 2022

GALIZIA

 


 

Ho un cervello che non si ferma mai, non si riposa che quando dormo, ma anche lì i sogni a volte sono turbolenti, o simbolici, insomma poco tranquilli. Non sono mai veri e propri incubi però, ma sono premonitori e soprattutto enigmatici.

Il mio vero nome è Shulamit e significa pacifica, nel Cantico dei Cantici (7:1) era il nome che alludeva al popolo d'Israele: un popolo di pace o quasi, almeno a quei tempi.

 

«Ah!», penso fra me, «e io, non giaccio io in fondo alla terra, nella polvere? Mentre gli altri, quelli di Jehupez, per esempio, se ne stanno tutta l’estate a Boiberik, mangiano e bevono bene e nuotano nell’abbondanza. Ah, Creatore del mondo, che cos’ho fatto per meritarmi questo? Eppure io sono un ebreo uguale agli altri ebrei! Dio, sii un po’ ragionevole!»

Guarda la nostra miseria – continuo a cantare – guarda come noi soffriamo e abbi pietà dei poveri. Perché, chi dovrebbe aver pietà di loro se non tu?

Risanaci, perché noi possiamo guarire, e mandaci soltanto le medicine, perché tanto le piaghe ci vengono da sé...

 

(da Tewje il lattaio di Sholem Aleichem)

 

Quando e se la realtà circostante fosse piuttosto stretta, ecco che l’essere umano, quindi anche un’anziana come me, differentemente dalle bestie, può riuscire ad ingannarsi ed entrare in un’altra dimensione, non più falsa di quella che è la nostra vita, in questa cosiddetta società, da qualche parte, su questo mondo, dunque anche dove una volta c’era la Galizia, ora divisa tra varie nazioni.

Documentarsi sull’occultismo quindi sarebbe una maniera di occultare a sé stessi le proprie magagne nella purtroppo umana situazione di tutti i giorni, quella routine che ruota e ruota instancabile, però rimani sempre lì, guarda che combinazione.

 

 (in ebraico: קַבָּלָה‎, letteralmente 'sapere ricevuto', 'tradizione')

Praticando la Tradizione Primordiale ho bevuto alla fonte di tutte le spiritualità autentiche, infrangendo le catene dogmatiche dell'esclusivismo religioso. Da qui la congiura del silenzio, che per lungo tempo ha cercato di soffocare la mia opera nel cui cuore è celato un segreto: quello degli iniziati della “via di sinistra”, cioè di coloro che, sistematicamente perseguitati nel corso dei secoli, consideravano e considerano la cosiddetta Creazione come una prigione cosmica in cui siamo rinchiusi dal Demiurgo, colui che costruisce coi numeri. Per uscirne esiste uno stratagemma, cioè l’usare le forze ritenute inferiori e caotiche - il "potere nero" - il cui controllo libera l'energia necessaria al fine di ritrovare la luce. Se il rito non sortisce tale positività il buio, in sé, inghiotte il Tutto e il Nulla. Questo il pericolo per il vero mistico: la Gnosi Controversa… cioè ciò che ogni religione e ogni dottrina propone come verità pur già sapendo che è sterco del Demonio. (René Guénon 1909)

 

Che cosa significa tutto questo? Non lo so, però con il semplice artificio di leggerlo, io me ne vado via, leggendolo io mi tiro fuori da questa stanza e parto, entro in un mondo parallelo, forse anche perpendicolare, non lo so, nel passato ma anche nel futuro, via dal presente insomma.

Questa mia fervida immaginazione la gente non la sopporta, dicono che sono bugiarda, un po’ come tutti, ma in una maniera esagerata... Come mio padre e mia madre, il nonno e la nonna, i miei cugini e i relativi zii, però in una maniera diversa. Non gli piace neppure che quando mi chiamano io non risponda e se rispondo ci sono solo con il corpo, fisicamente cioè, ma chissà dove sono con la mente? E la cosa che si tollera meno è che se racconto qualcosa, magari anche nei minimi particolari, poi si scopre immancabilmente che non è andata davvero così e la realtà mi ha solo ispirato, sono partita per la tangente, per gli spazi siderali o che ne so io quali.

Lo sanno tutti che gli esseri umani sono in perenne fuga dalle varie situazioni, spesso fuggono anche e soprattutto da sé stessi, dalla verità, dalla loro condizione.

 

Un’eco di questo disprezzo razionalista si coglie nella descrizione dell’incontro tra Scholem e Philip Bloch, un erudito ormai ottantaduenne che si era fatto un nome per alcuni studi bibliografici sui cabbalisti. Accolto con grande cordialità dall’anziano professore, Scholem era rimasto ammirato di fronte alla sua splendida biblioteca, l’unica raccolta privata allora esistente in Germania di manoscritti e libri a stampa di argomento cabbalistico. All’ingenua osservazione del giovane Gershom: «Che bello, professore, che lei abbia studiato tutto questo!», il vecchio erudito aveva risposto: «Cosa? Dovrei anche leggerle, queste frottole?» Il commento tardivo di Scholem suona a un tempo ironico e polemico: «Fu un grande momento della mia biografia».

All’estremo opposto di questi ambienti scientifici ostili al misticismo, vi erano a quel tempo circoli esoterici in cui la qabbalah ebraica era una sorta di malcompreso feticcio intellettuale.

Gershom Scholem - Da Berlino a Gerusalemme (Einaudi, 2018)

 

Letture che io scovo di qua e di là, sotto o sopra, quello che conta magari è solo la mia mente, che se ne va e torna quando vuole, o forse no, torna quando c’è un rumore più forte, qualcosa che mi scuote e mi obbliga a deconcentrarmi, dal mio proposito di dedicarmi allo sproposito.

La mia avventura immaginaria però a volte mi porta dove non voglio, come l’altro giorno che ho preso il treno per Uikel e invece sono arrivata fino a Yon, cento chilometri più avanti e sono scesa perché era il capolinea e mi hanno costretta a farlo.

Una volta qui c’era la Galizia, che tanti pensano che sia in Spagna. Una confusione nei nomi, le relative traduzioni dalle varie lingue. D’accordo, anche là c’è una Galizia, completamente differente dalla nostra.

Dov’è la Galizia?

Prima di proseguire in questa nostra indagine e riflessione, (o vogliamo chiamarlo sfogo?) sarebbe giusto chiarire a tutti coloro che non condividono questa storia personale dove fosse questa regione, svanita nella polvere della dissoluzione dell’impero austro-ungarico.

Credo che questo nome trasmetta ancora una sensazione particolare, quasi di mistero irrisolto, in qualsiasi nipote o pronipote di coloro che, cittadini austriaci fino al 1918, sono stati mandati a combattere contro i russi in quella che era la Galizia austriaca a partire dall’estate 1914.

Si tratta... o meglio si trattava di una zona assai povera che attualmente comprende la parte meridionale della Polonia (quella quindi attorno a Cracovia) e l’Ucraina occidentale (che fa capo a Leopoli), passate all’impero asburgico in seguito alla prima spartizione della Polonia nel 1772.

Per una serie di ragioni storiche quella lontana regione ricevette il nome di regno di Galizia e Lodomiria e fin da subito fu terreno di una notevole politica di integrazione linguistica, sociale ed economica e di sperimentazione delle più moderne tendenze del tempo.

La lingua ufficiale (e quella di prestigio) divenne ovviamente il tedesco nella sua variante austriaca, ma le due grandi minoranze linguistiche (polacchi ed ucraini) videro riconosciuti tutti i loro diritti. Circa il 10% della popolazione era formato da ebrei che, tra il 1848 e il 1867, furono completamente equiparati agli altri cittadini.

Leopoli (Lemberg, Lviv), la capitale, era la quarta città dell’impero per numero di abitanti, dopo Vienna, Budapest e Praga, superando Trieste per appena una manciata di persone.

 

“Ogni tanto un emigrato manda una lettera in cui descrive a chi è rimasto a casa i vantaggi dell’estero. Gli emigranti ebrei hanno perlopiù l’orgoglio di non scrivere finché se la passano male, e tendono a esaltare la nuova patria rispetto alla vecchia. Hanno l’ingenua smania del provinciale che vuole far colpo sui compaesani. In una cittadina orientale la lettera di un emigrato costituisce un fatto sensazionale.”

 

Dal romanzo “Ebrei Erranti” di Joseph Roth

 

Questi galiziani hanno perpetuato nella diaspora la memoria della loro "piccola patria", a volte idealizzata cantando il multiculturalismo prima della lettera, il pluralismo religioso, culturale ed etnico, visto attraverso il prisma della loro comunità scomparsa, e talvolta traumatico ricordando le intolleranze religiose incrociate , la strumentalizzazione politica e il conseguente odio di classe o razziale, i conseguenti massacri.

 

Molti ritornano indietro. In numero ancora più grande rimangono per strada. Gli ebrei orientali non hanno patria in nessun luogo, ma tombe in ogni cimitero. Molti diventano ricchi. Molti diventano importanti. Molti diventano attivi in una cultura straniera. Molti smarriscono se stessi e il mondo. Molti rimangono nel ghetto e solo i loro figli lo lasceranno. La maggior parte di essi dà all’Occidente almeno tanto quanto questo gli toglie. Alcuni gli danno più di quel che ricevono.

 

Dal romanzo “Ebrei Erranti” di Joseph Roth

 

Lo shtetl ebraico, l’aristocrazia polacca e la relativa grande proprietà fondiaria, lo splendore remoto nel tempo delle metropoli regionali di Leopoli e Cracovia  appena rammentano un'  Arcadia  perduta dall'infanzia o un' Atlantide sommersa da un'ondata di disumanità più recente, fatta di guerre, nazismo, stalinismo e i loro relativi quanto fisiologici crimini.

La Galizia era una terra di frontiera, al suo posto ora ci sono dei confini tra nazioni che a quei tempi erano ancora impensabili.  

Arrivo a sera a casa di Yechayahou, che poi sarebbe Isaia, è freddo e la neve sciolta sui bordi della strada è diventata marrone, grigia, a tratti perfino nera.

Dentro è freddo e in penombra. Non ci sono mobili, perciò mi siedo su un ciocco di abete. Il vecchio invece si siede sulla cassa che usa come tavolo da lavoro. Puzza di fumo e muffa mischiate. Per come la luce entra non riesco a vederlo in faccia e la sua tunica vecchia e larga lo fa sembrare allo stesso tempo magro e senza forma, come se si fosse perso dentro ai vestiti. La gente non lo sa che è mio marito, o almeno lo è stato, la vita ci ha separato, ma non vogliamo darle la colpa, o il merito, o quello che è… che non lo sappiamo nemmeno. Abbiamo la stessa età, ma non si direbbe. Parliamo in yiddish, la lingua più diffusa, non per numero, ma per la sua distribuzione sulle terre emerse. La gente non vuole parlare del passato, o chi lo fa è catatonico e non ci ragiona, ripete meccanicamente le stesse cose, invece con lui è diverso.

Mi dice: vieni, andiamo di là.

Ha riprodotto una minuscola stanzetta tutta foderata di legno come se la casa intera lo fosse, invece è un cubo dentro un magazzino in muratura, dove si è scavato nella mente il suo passato, forse anche il nostro e lo ha ricopiato. È povero ma accogliente, ordinato e confuso, come il suo ricordo, diciamo il nostro, preciso e dolente quanto basta. Anche romantico, alla sua maniera, forse alla nostra.

Mi prepara il tè in silenzio, accende un bastoncino d’incenso, magari per coprire l’odore di muffa e mi guarda intensamente, mi pare, ma non mi vede o forse mi vede com’ero allora, qualche secolo fa. Non importa.

La vecchia stufa di ghisa e muratura, coperta di mattonelle verdi, scoppietta e c’è un caldo quasi soffocante, in quei pochi metri cubi di passato, senza futuro, tantomeno presente.

Per l’uomo della strada di inizio Novecento era una specie di Far West e, per un militare di carriera, essere di stanza in una guarnigione di quella regione era decisamente demoralizzante. La Galizia era infatti una zona estremamente importante per la strategia militare austriaca, essendo situata al confine con la Russia. Cracovia e Przemysl divennero città fortezza e lungo il confine le linee ferroviarie vennero potenziate per poter trasportare il maggior numero di soldati possibile.

 Durante la prima guerra mondiale l’Austria sofferse enormi perdite in questa zona: l’enorme fortezza di Przemysl venne conquistata e i russi giunsero fino quasi Cracovia.
Ciò significa enormi perdite di vite umane (infatti oggi questa zona pullula di cimiteri e monumenti ed esiste pure un "First World War’s Eastern Front Trail" (risparmio al lettore la versione polacca), un lunghissimo percorso che ricorda gli incredibili spostamenti del fronte e l’enorme numero di caduti.

 Entrambi i miei nonni sono stati presi prigionieri dai russi nel primo periodo delle ostilità. Si sono trovati quindi a perdere il senso dell’orientamento che dava loro l’esercito austriaco. I superiori generalmente si occupavano del benessere della truppa, e si sono visti catapultati in una realtà completamente estranea per lingua (ucraino/russo), usi e costumi.

 Ho potuto finalmente arrivare in questa zona nello scorso giugno, per conoscere la Galizia e la Bucovina, appunto regioni tutt’ora poco conosciute, anche se hanno un posto ben chiaro nella storia austriaca. Se in Polonia si può parlare tranquillamente in inglese e il mio piccolo bagaglio di polacco funziona ancora, l’Ucraina era per me (proprio come per i nonni) un paese del tutto sconosciuto per usi, costumi e lingua d’uso, quindi ho scelto per la prima volta nella mia vita un viaggio organizzato, il cui scopo principale non era nemmeno il mio. È stata però un’esperienza liberatoria: poter entrare nel mondo che non trova posto nella storia italiana, ma è parte della mia storia, mi ha consentito di vedere il passato recente del Goriziano con occhi diversi. Certamente partire da Vienna alle 8.15 del mattino con un pullman distante 10 minuti di tram dal mio alloggio e con un programma dettagliato tra le mani non ha nulla a che vedere con il viaggio dei nonni, iniziato in treno a Trieste verso un est sconosciuto, per una guerra che avrebbe dovuto durare qualche mese e che invece ha sconvolto completamente il mondo per quattro anni con una violenza inimmaginabile precedentemente.

Mio nonno materno ha vissuto due anni di prigionia russa (1914-1916) optando poi per la cittadinanza italiana, visto che la sua famiglia, residente a Capriva, la linea del fronte quindi, era stata evacuata dagli italiani in Emilia a Mirandola (Modena). Per inciso, i due anni trascorsi nella profuganza mirandolese sono stati ricordati sempre con grande positività e riconoscenza dai caprivesi che avevano vissuto quest’esperienza.

Durante la prigionia russa "nono Toni" ha arrotondato la diaria di prigioniero lavorando come giardiniere e quindi aiutando un barbiere ebreo a Kiev.

Suscita immensa meraviglia per me, abituata fin da bambina a spostarmi tra lingue diverse, come questo nonno praticamente esclusivamente friulanofono sia riuscito ad organizzarsi così bene in un mondo che non aveva alcun addentellato con il suo, immagino però che l’istinto di sopravvivenza abbia potuto fare miracoli! Nono Toni ha fatto parte di coloro che hanno scelto l’offerta dei funzionari italiani di opzione per l’Italia e quindi ha potuto rivedere la sua famiglia già nel 1916, partendo dal porto di Arcangelo sul Mar Bianco, costeggiando la penisola scandinava, attraversando poi la Gran Bretagna e la Francia.

 Alla fine della guerra i miei nonni materni sono tornati a Capriva e alla cura dei loro campi.

Diverso è stato il destino di mio nonno paterno, Rodolfo Alt, che vedete in foto. La prigionia (come nel caso di tutti gli austriaci del Litorale) nel suo caso è durata quattro anni, attraversando non solo la Russia e la Cina e tornando via Stati Uniti, ma anche i rivolgimenti politici e sociali che hanno cambiato completamente la storia di quei due enormi paesi e del mondo.

I miei nonni paterni si erano sposati nel 1914: il loro piano di vita era quello di rimanere a Gorizia (questo nonno era tranviere).

 Non so come abbiano potuto rimanere fedeli a questo proposito, tornati in una città devastata dalle cannonate italiane e snaturata dalla violenza del Fascismo di frontiera, dove hanno dovuto cambiare persino l’identità - come tantissimi altri - per evitare, nel loro caso, semplicemente ripercussioni sul lavoro, essenziale per rimanere a Gorizia.
Mio padre è cresciuto però serenamente in via Goldoni, trovandovi gli amici di una vita e passando a me, indirettamente, lo stimolo ad indagare sulla storia dei loro dirimpettai, la famiglia di Attilio Morpurgo, l’ultimo presidente della comunità ebraica di Gorizia.

Andrea Morpurgo, pronipote di Attilio, architetto a Madrid, mi ha cercata per ringraziarmi per tutto quanto ho fatto per la storia della comunità ebraica goriziana.
Buona parte della famiglia Alt-Altieri è invece emigrata tra gli anni Venti e Trenta, scegliendo la Francia o l’Argentina.
Un fratello di mia nonna materna, Luigi Tirel, partito ventiduenne per la Galizia, è tornato entusiasta degli ideali della rivoluzione comunista e quindi ha trovato ovvio aderire al partito comunista.

Nel 1928 il podestà di Capriva lo ha invitato caldamente ad andarsene il più lontano possibile, procurandogli, come allora consuetudine per gli tutti gli indesiderati politici, il passaporto e visto per l’Australia.

È morto in tarda età a Brisbane dove, finalmente in pensione, ha voluto rinfrescare il suo tedesco, avvalendosi dell’offerta "life long learning" ovvia per i paesi del Commonwealth. "But why, Mr.Tirel, lei è italiano e parla il tedesco?" Gli ha chiesto la sua sbalorditissima insegnante.

 Il museo della guerra della città di Przemysl non si occupa solo della cronaca delle due guerre mondiali che hanno sconvolto quella bella città, ma cerca di avvicinare i bambini e i ragazzi alla sua storia con una (per quanto ho potuto sapere) simpatica attività creativa per far loro conoscere il passato multinazionale, multietnico e multireligioso della città in cui ora vivono, e tutto ciò in modo decisamente oggettivo.

 È un’ottima idea che potrebbe essere utile anche nelle "province redente" perché senza un’identità chiara e salda non si può costruire il futuro.”

 “Siamo di nuovo a due passi dalla guerra?” Chiede al soffitto basso Isaia affermando.

“Gli esseri umani non imparano mai.” Rispondo quasi domandando.

“Mai.” Ripete lui distrattamente, sorseggiando il suo tè.

 

 

Ho preso questa testimonianza autentica da questo sito

https://www.voceisontina.eu/Cultura/Viaggio-nella-Galizia-dei-nonni , settimanale dell’Arcidiocesi di Gorizia e l’ho romanzato, c’ho infilato anche pezzi di altra roba, per commentare da lontano, ma anche da vicino, la guerra in Ucraina, senza dirne niente, in fondo, se non quello che importa veramente.

Nessun commento:

Posta un commento