martedì 19 aprile 2022

LA SACCA DEI PAPPATACI

 


Chi sta bene non vuole provare anche a stare un po’ male… e chi sta male invece solo bene e in maniera definitiva. Con i fenomenali progressi della comunicazione combinati con l’avvento della globalizzazione nessuno vuole stare più al suo posto.

Una storia come quella di Sven non dico che oggi sia una cosa di tutti i giorni, ma una volta non sarebbe stata proprio possibile. Di mezzo poi ci si sono messi anche i poteri tribali di stregoni che a mio modesto parere… ma andiamo piuttosto con il debito ordine.

Dunque Sven ancora in pigiama canticchiava una canzone di guerra italiana, forse di quella del 15-18. Girando per le stanze dell’appartamento e mentre mormorava insieme ai fanti e al Piave, lui pensava ad altro, la sua pronuncia non era perfetta, ma il testo era rigorosamente quello.

 

Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio

dei primi fanti il ventiquattro maggio;

l'esercito marciava per raggiunger la frontiera

per far contro il nemico una barriera!

Muti passaron quella notte i fanti,

tacere bisognava e andare avanti.

S'udiva intanto dalle amate sponde

sommesso e lieve il tripudiar de l'onde.

Era un presagio dolce e lusinghiero.

il Piave mormorò: "Non passa lo straniero!"

 

Sven accese il riscaldamento, era piuttosto freddino.

Di madre Sami e padre italiano, Sven Taccini era un giornalista, o forse è meglio dire che lo era stato. Non era certo uno scrittore di successo, ma alcuni suoi libri, quelli che parlavano delle popolazioni autoctone, erano stati tradotti in varie lingue. Forse era anche troppo critico con la società, le sue frasi erano dure come pietre aguzze, ma quando scriveva, a lui personalmente sarebbero piaciute piuttosto le ambientazioni esotiche o anche esoteriche, oppure quando tornava indietro nel tempo. Insomma quando usciva completamente dalla realtà e ci tornava solo quando sua moglie lo chiamava per la cena, oppure quando lei era uscita, i ragazzi non c’erano e qualcuno pigiava il campanello o peggio ancora il telefono ringhiava... insomma suonava.

Il futuro non gli garbava, e se si guardava indietro, il passato ancora meno. E il presente? Sì, quello sì, che era proprio incomprensibile.

Da anni Sven non protestava più, materialmente era uscito dal mondo dove le apparenze contavano più del contenuto, si era rassegnato: niente apparenze e nessun contenuto, vaffanculo. Mandava le sue invettive condite di bestemmie sui racconti, nei romanzi, soprattutto negli articoli di giornale. Alla gente piaceva proprio il suo tono rabbioso, l’esagerata e dunque quasi surreale attinenza con la realtà, i primi a sorprendersi erano gli editori. I giornalisti normalmente erano i più bugiardi e prezzolati.

La sua faccia invece era diventata una maschera sorridente, i suoi baffi spioventi alla tartara, è vero che lo sguardo era fisso, un po’ nel vuoto, ma non parlava che quando era interrogato, e comunque diceva sempre meno e lo interrogavano sempre più raramente.

Intanto la società dei consumi e i suoi cittadini stressati avevano altro a cui pensare. Certo, mancava ancora più di un mese a Natale, ma le orgie pubblicitarie erano iniziate dalla metà di novembre e l'isteria dell'acquisto si diondeva lungo le strade addobbate, rapida e inesorabile come la peste. L'epidemia era inarrestabile, e non c'era un posto dove scappare. Penetrava nelle case e negli appartamenti, avvelenando e sopraacendo chiunque incontrasse sul proprio cammino. I bambini già piangevano dalla spossatezza, e i padri di famiglia erano pieni di debiti no alle ferie successive. La trua legalizzata imperversava alla grande. Gli ospedali si riempivano a causa di infarti, crisi di nervi e ulcere perforate, per non citare tutti i morti per altre ragioni e attribuiti al Covid 19.

Un giorno, doveva essere il 20 o il 21, sua moglie aprì la porta della cucina e lì non c’era nessuno, andò a vedere nel suo studio e non c’era che una tazza di caffè freddo e un pezzo di torta sbocconcellato. In bagno nessuno e nemmeno sul terrazzo coperto di ghiaccio e neve.

Sven non c’era più.

Considerando che non usciva quasi mai e d’inverno il quasi spariva del tutto, cominciarono a preoccuparsi. Avvertirono la polizia, cominciarono le relative ricerche, ma finirono subito. Dove si poteva cercare a Malmö, nella Scania, nella parte sud della Svezia, uno che da anni non usciva se non per fare la spesa e andare al parco, ma solo d’estate, qualche rara volta in una primavera, mai nemmeno in un autunno?

Quando però la moglie prese il giornale del venerdì, dove apparivano i suoi articoli, le sue piccole novelle, i suoi giri disperati e impotenti dentro una società che non gli garbava da sempre o quasi… sorprendentemente l’articolo era lì al suo solito posto, probabilmente doveva essere stato mandato prima.

Melba telefonò alla redazione e le dissero di no, che il manoscritto a macchina era arrivato dal solito computer la mattina prima alle undici, come faceva di solito. Si trattava di un’avventura a puntate di una spia che era scappata ed era braccata da altre spie. Si svolgeva nel futuro di un’epoca in cui erano rimasti pochi abitanti sulla terra, ma concentrati in dieci grandi città, intorno il deserto, dopo epidemie e guerre, epidemie provocate dalle guerre e poi guerre forse anche causate dalle epidemie, non si sapeva nemmeno chi aveva cominciato, né perché. Il distopico era un genere che acchiappava parecchio, a Sven non piaceva neanche la parola, ma gli toccava scriverlo e almeno lì sfogava la sua rabbia, la sua impotenza. Ogni tanto però sfociava in generi misti, tanto la gente apprezzava soprattutto la novità e il continuo cambiamento di marcia e dato che la vita era diventata fantascienza, non ci faceva più caso alla mancanza di quella sana credibilità di una volta.

“La Sacca dei Pappataci, che potete trovare in ogni libro di storia che si rispetti, consistette nella snervante attesa di due eserciti nascosti tra gli alberi da frutto, peschi e albicocchi per la precisione. Si studiarono e aspettarono il momento giusto, finché poi invece se ne andarono a casa, senza colpo ferire. Nel frattempo però i pappataci, come dice il nome, li avevano massacrati in silenzio, pappando e tacendo. Sul rispetto dovuto ai libri di storia meglio fare come i Pappataci, visto che da pappare non c’è niente di buono, non rimane che tacere. Tacere e andare avanti, come i nostri valorosi soldati sul Piave.

Ormai la sopravvivenza era diventata l’unica cosa importante. D’accordo, lo era anche prima, o lo era sempre stata, ma me lo ero dimenticato. Qualche volta me lo ero anche ricordato, forse non era il momento adatto e comunque ho taciuto e ho pappato anch’io, per quel poco che c’era…”

Non sembrava affatto il suo stile, ma in fondo il suo era da considerarsi uno per niente rigido. Per esempio la sua origine italiana era venuta fuori all’improvviso e di nuovo, ma la guerra quella c’era sempre, o quasi. Era anche vero che Sven cambiava spesso, mosso da singulti interni, visto che di esterni non ne aveva più, ogni tanto sorprendeva il lettore e l’editore capo del giornale Dagens Handel che ne prendeva atto e pubblicava sulla fiducia. Alla gente piaceva essere sorpresa, anche se erano sorprese spiacevoli erano pur virtuali o metaforiche.

L’appartamento intanto pareva che risuonasse ancora dei canti sommessi di Sven, ma forse era solo la loro immaginazione, incredibile ma in qualche maniera avvertivano un impalpabile vuoto.

 

Ma in una notte triste si parlò di tradimento

e il Piave udiva l'ira e lo sgomento.

Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto,

per l'onta consumata a Caporetto.

Profughi ovunque dai lontani monti,

venivano a gremir tutti i ponti.

S'udiva allor dalle violate sponde

sommesso e triste il mormorio de l'onde.

Come un singhiozzo in quell'autunno nero

il Piave mormorò: "Ritorna lo straniero!"

 

Melba non sapeva cosa fare, tecnicamente sentiva appena la mancanza di suo marito, che a livello di persona se ne era andato già da anni, ma faceva quel po’ di compagnia a tavola, un rutto ogni tanto, a letto qualche scorreggia, a suo modo era una presenza anche quella.

Il martedì usciva il suo articolo sull’altro giornale, più popolare, Aftonbladet e a loro arrivava automaticamente una copia la mattina alle sei. Qui il tema era libero, ma lui girava sempre attorno ai soliti viaggi nella metaforica maionese.

La cronaca c’era:

“D’accordo, siamo tutti poco normali, anche se ci sono vari livelli, vari tipi di classificazioni, relative interpretazioni personali. I parametri poi non ci sono più. Magari è anche questione di stile. Forse le persone sensibili si sentono peggio delle altre, ma come si fa a scegliere? O a smettere di esserlo? Io non sono capace.

Se noi guardiamo gli altri capiamo quanto poco siamo padroni del nostro destino, è vero che possiamo influirvi, ma spesso o quasi sempre, non sappiamo come farlo e a volte i risultati sono il contrario di quello che volevamo.

Se una vita ha avuto un qualsiasi senso difficilmente lo scoprirà il vivente, piuttosto qualcun altro, magari suo cugino, ma non lui, il possessore ignaro di quella vita, che in fondo non è stata proprio sua e si vedeva che non sapeva nemmeno dove e come dirigerla.

Per lunghe porzioni di giornata rimanevano entrambi immobili e zitti. La sua vita e lui. Era lei a indirizzare lui, se e quando ne aveva voglia, ma il trucco era proprio che lui non lo avrebbe mai saputo. Lo manipolava facilmente, perché lui non sapeva come doveva vivere, dove doveva andare e perché. Non lo avrebbero nemmeno mai informato quando sarebbe finita, e quando era iniziata non era stato certo lui a sceglierlo.

Soldi ce ne aveva un po’, gli sarebbero bastati per un pezzo, certo avrebbe potuto partire e viaggiare a caso, avrebbe speso di più e i soldi sarebbero finiti, solo allora si sarebbe buttato giù da un ponte, o da un grattacielo, meglio in un burrone, era più romantico.

No.

Ci si può eclissare in tante maniere, per tanti motivi, a volte nemmeno tanto tristi da lasciare il mondo, confidando in un futuro migliore o nella sua stessa confortante e tiepida assenza.”

 

E ritornò il nemico per l'orgoglio e per la fame

voleva sfogar tutte le sue brame,

vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora

sfamarsi e tripudiare come allora!

No, disse il Piave, no, dissero i fanti,

mai più il nemico faccia un passo avanti!

Si vide il Piave rigonfiar le sponde

e come i fanti combattevan l'onde.

Rosso del sangue del nemico altero,

il Piave comandò: "Indietro va', straniero!"

 

La moglie di Sven telefonò al giornale, l’articoletto era arrivato come sempre alle undici del giorno prima. No, non l’avevano visto, l’ultima volta era stato sei anni prima, una festicciola della redazione, se lo ricordavano bene, anche se non aveva aperto bocca che per bere, e per quello aveva bevuto anche assai e se ne era andato senza salutare. Tutto normale quindi.

Melba e i figli di sedici e quattordici anni cominciavano a temere il peggio, in più la polizia diceva che nessuno lo aveva veduto, non che fosse un tipo che si notasse molto, però ammettevano anche.

Il venerdì seguente sul Dagens Handel l’agente segreto del futuro parlava come un allevatore di renne, un Sami della Lapponia.

Al pubblico piacque, dava un’idea della solitudine e della disperazione, del freddo e della loro vita in mezzo al gelo. La spia era fuggita tra i ghiacci perenni? La maggioranza dei lettori non se ne accorse, ma c’era anche un vento di libertà nelle sue parole. Il trafiletto cominciava così:

“Io il mondo lo chiamavo anche spesso, ma lui non mi rispondeva. Anzi, a pensarci bene ero io che ero molto discontinuo e in certi momenti mandavo tutto e tutti affanculo. Subito dopo ecco che ne sentivo la mancanza e mi pareva di essere stato ingiustamente abbandonato. Volevo anche fuggire ma non sapevo dove, eccomi qua trai ghiacci, ma non sento freddo, ho lasciato la società, o quello che ne era rimasto e mi sono trasferito tra le renne, che è gente molto più affabile e alla mano, se ne fregano dei soldi e non ti tradiscono per qualche spicciolo in più...”

Gli assegni e gli articoli arrivarono ancora per un anno circa, puntualmente, Sven Taccini non fu più ritrovato. L’editore Larsson diceva scherzando che si era rifugiato nelle pieghe dei suoi articoli, negli avverbi e nei numerosi e talvolta anche minacciosi congiuntivi e condizionali della sua coatta letteratura da giornale, nelle sue cronache che diventarono sempre più soddisfatte della propria esistenza, se così si poteva ancora chiamare, appagate e realizzate nel silenzio bianco e nel gelo dell’artico.

I collaboratori ridevano, ma la loro immaginazione correva parallela, a volte anche inaspettatamente perpendicolare. Gli angoli di incidenza poi variavano anche loro, ovviamente, senza dubbio erano cambiati.

Forse era così che si sentivano i Sami, gli ultimi Lapponi allevatori di renne, non erano condizioni facili, ma almeno lì non li toccava nessuno, non erano obbligati a seguire le feste comandate, non vedevano nemmeno la televisione, la loro religione coincideva perfettamente con la loro filosofia di vita, forse anche dura, ma non ipocrita.

Agli svedesi e ancora di più a chi viveva lontano dal nord sembrava impossibile che gli allevatori potessero campare a quel modo in rifugi precari per settimane di fila, in pieno inverno, con temperature che scendevano fino a meno trentacinque e a volte anche meno quaranta, lontani da tutto, a decine di chilometri dal villaggio più vicino, non sfidavano solo la morte, ma anche la vita.

I Sami, popolo in estinzione, diviso tra quattro nazioni con la punta diretta verso l’estremo nord del pianeta, lo ricevettero idealmente tra di loro come un lappone autentico pur se sanguemisto. Anche se materialmente non si sapeva dove era, per loro era ben presente nei pochi cuori materialmente rimasti.

La popolazione totale di Sami in Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia è stimata approssimativamente in 80.000 persone, di cui circa la metà vivono in Norvegia. La Norvegia è patria della maggior parte dei Sami del mondo.

La figura sacerdotale è incarnata dallo sciamano, che effettuava tutta una serie di riti propiziatori per prevedere e talvolta influenzare l'avvenire, utilizzando un tamburo magico. Molti riti propiziatori si riferivano agli animali: quando uno di loro veniva ucciso, un pezzo di carne di ogni parte del corpo veniva inserito in una specie di tomba, per essere seppellito, nella convinzione che la divinità, ingraziata dal sacrificio, facesse rivivere l'animale in un altro mondo. I sami credevano nel potere magico dei sogni, interpretandolo come una via di comunicazione con il mondo dei morti.

Un giorno uno sciamano aveva preso un panino sbocconcellato da Sven alla tavola calda sotto casa e lo aveva sotterrato. Tecnicamente dentro c’era anche un po’ del suo DNA o qualcosa del genere.

Un personaggio nuovo allora si materializzò nei libri che parlavano dei Sami, ma non ci fecero caso, perché le opere erano poche e se possibile lette da ancora meno. Teatro e cinema neanche a parlarne.

Il francese Truc aveva scritto un bel romanzo sui Sami: L’ultimo Lappone, che aveva avuto un certo successo di nicchia. Quando un nativo sconosciuto di probabile sangue misto, che cantava sommessamente canzoni in italiano, apparve tra le pagine e le vicende, nessuno ci fece particolare caso. In Italia anche si leggeva poco, ma il fenomeno si era di colpo esteso alle opere italiane tradotte e che venivano perlopiù lette, rappresentate e immaginate in tutto il mondo.

Nel Deserto dei Tartari per esempio, per i corridoi della fredda fortezza sul confine, si era materializzato un personaggio baffuto che prima non c’era e canticchiava canzoni di guerra, era vestito come un lappone e non combinava per niente con il resto della storia. Se ne accorse il tedesco Wolfgang Bergstein, un colto camionista, che quel libro lo aveva letto più volte e glielo fece notare anche a sua sorella Gertud. Dentro c’era anche un falso storico, bello e buono!

 

Indietreggiò il nemico fino a Trieste fino a Trento

e la Vittoria sciolse l'ali al vento!

Fu sacro il patto antico, tra le schiere furon visti

risorgere Oberdan, Sauro e Battisti!

Infranse alfin l'italico valore

le forche e l'armi dell'Impiccatore!

Sicure l'Alpi, libere le sponde,

e tacque il Piave, si placaron l'onde.

Sul patrio suol vinti i torvi Imperi,

la Pace non trovò né oppressi, né stranieri!

 

A New York, al Metropolitan, veniva inscenato un Pirandello, il Così è se vi pare e anche qui il misterioso lappone con i baffi ripetutamente apparve sul palco, quasi a fare da intervallo, con la sua canzone mormorata della guerra sul fiume Piave, quella dello straniero che non doveva assolutamente passare. Che c’entrava quel ridicolo personaggio in un costume che non aveva niente a che fare con quella scena siciliana? Anche gli attori lo guardavano senza capacitarsene.

Non ci volle molto tempo perché i lettori si stancassero delle renne e dei Sami, della vita nella tundra, se di tundra poi si trattasse e non di taiga, e i suoi lati assai duri ma per qualcuno anche in un certo senso romantici. Sparirono gli articoli e quindi anche gli assegni. Per anni i familiari non poterono nemmeno avere una regolare tomba, ma Sven probabilmente era più felice in mezzo ai ghiacci e ai disgeli, a renne virtuali ma piuttosto in gamba, alle verdissime aurore boreali.

Dalle pagine dei libri e dei copioni trovava conforto, nelle scene dei film e delle opere teatrali si sentiva al calduccio, quasi onnipresente come una specie di dio. Lo sciamano suonava il suo tamburo tribale e la gente non capiva, ma si chiedeva il perché delle cose, non riceveva risposte, ma l’importante, anche secondo Sven, erano le domande e guarda caso quelle non piacevano, più che altro non ci erano abituati. La gente voleva solo soluzioni e anche se non rispondevano né corrispondevano alle questioni, per loro era lo stesso.

 

 

 


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