Chi sta bene non vuole provare anche
a stare un po’ male… e chi sta male invece solo bene e in maniera definitiva.
Con i fenomenali progressi della comunicazione combinati con l’avvento della
globalizzazione nessuno vuole stare più al suo posto.
Una storia
come quella di Sven non dico che oggi sia una cosa di tutti i giorni, ma una
volta non sarebbe stata proprio possibile. Di mezzo poi ci si sono messi anche
i poteri tribali di stregoni che a mio modesto parere… ma andiamo piuttosto con
il debito ordine.
Dunque Sven
ancora in pigiama canticchiava una canzone di guerra italiana, forse di quella
del 15-18. Girando per le stanze dell’appartamento e mentre mormorava insieme
ai fanti e al Piave, lui pensava ad altro, la sua pronuncia non era perfetta,
ma il testo era rigorosamente quello.
Il Piave
mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi
fanti il ventiquattro maggio;
l'esercito
marciava per raggiunger la frontiera
per far
contro il nemico una barriera!
Muti passaron
quella notte i fanti,
tacere
bisognava e andare avanti.
S'udiva
intanto dalle amate sponde
sommesso e
lieve il tripudiar de l'onde.
Era un
presagio dolce e lusinghiero.
il Piave
mormorò: "Non passa lo straniero!"
Sven accese
il riscaldamento, era piuttosto freddino.
Di madre Sami
e padre italiano, Sven Taccini era un giornalista, o forse è meglio dire che lo
era stato. Non era certo uno scrittore di successo, ma alcuni suoi libri,
quelli che parlavano delle popolazioni autoctone, erano stati tradotti in varie
lingue. Forse era anche troppo critico con la società, le sue frasi erano dure
come pietre aguzze, ma quando scriveva, a lui personalmente sarebbero piaciute
piuttosto le ambientazioni esotiche o anche esoteriche, oppure quando tornava
indietro nel tempo. Insomma quando usciva completamente dalla realtà e ci
tornava solo quando sua moglie lo chiamava per la cena, oppure quando lei era
uscita, i ragazzi non c’erano e qualcuno pigiava il campanello o peggio ancora
il telefono ringhiava... insomma suonava.
Il futuro non
gli garbava, e se si guardava indietro, il passato ancora meno. E il presente?
Sì, quello sì, che era proprio incomprensibile.
Da anni Sven
non protestava più, materialmente era uscito dal mondo dove le apparenze
contavano più del contenuto, si era rassegnato: niente apparenze e nessun
contenuto, vaffanculo. Mandava le sue invettive condite di bestemmie sui
racconti, nei romanzi, soprattutto negli articoli di giornale. Alla gente
piaceva proprio il suo tono rabbioso, l’esagerata e dunque quasi surreale
attinenza con la realtà, i primi a sorprendersi erano gli editori. I
giornalisti normalmente erano i più bugiardi e prezzolati.
La sua faccia
invece era diventata una maschera sorridente, i suoi baffi spioventi alla
tartara, è vero che lo sguardo era fisso, un po’ nel vuoto, ma non parlava che
quando era interrogato, e comunque diceva sempre meno e lo interrogavano sempre
più raramente.
Intanto la
società dei consumi e i suoi cittadini stressati avevano altro a cui pensare.
Certo, mancava ancora più di un mese a Natale, ma le orgie pubblicitarie erano
iniziate dalla metà di novembre e l'isteria dell'acquisto si diffondeva lungo le strade addobbate, rapida e inesorabile
come la peste. L'epidemia era inarrestabile, e non c'era un posto dove
scappare. Penetrava nelle case e negli appartamenti, avvelenando e sopraffacendo chiunque incontrasse sul proprio cammino.
I bambini già piangevano dalla spossatezza, e i padri di famiglia erano pieni
di debiti fino alle ferie successive. La
truffa legalizzata imperversava alla
grande. Gli ospedali si riempivano a causa di infarti, crisi di nervi e ulcere
perforate, per non citare tutti i morti per altre ragioni e attribuiti al Covid
19.
Un giorno,
doveva essere il 20 o il 21, sua moglie aprì la porta della cucina e lì non
c’era nessuno, andò a vedere nel suo studio e non c’era che una tazza di caffè
freddo e un pezzo di torta sbocconcellato. In bagno nessuno e nemmeno sul
terrazzo coperto di ghiaccio e neve.
Sven non
c’era più.
Considerando
che non usciva quasi mai e d’inverno il quasi spariva del tutto, cominciarono a
preoccuparsi. Avvertirono la polizia, cominciarono le relative ricerche, ma
finirono subito. Dove si poteva cercare a Malmö, nella Scania, nella parte sud
della Svezia, uno che da anni non usciva se non per fare la spesa e andare al
parco, ma solo d’estate, qualche rara volta in una primavera, mai nemmeno in un
autunno?
Quando però
la moglie prese il giornale del venerdì, dove apparivano i suoi articoli, le
sue piccole novelle, i suoi giri disperati e impotenti dentro una società che
non gli garbava da sempre o quasi… sorprendentemente l’articolo era lì al suo
solito posto, probabilmente doveva essere stato mandato prima.
Melba
telefonò alla redazione e le dissero di no, che il manoscritto a macchina era
arrivato dal solito computer la mattina prima alle undici, come faceva di
solito. Si trattava di un’avventura a puntate di una spia che era scappata ed
era braccata da altre spie. Si svolgeva nel futuro di un’epoca in cui erano
rimasti pochi abitanti sulla terra, ma concentrati in dieci grandi città,
intorno il deserto, dopo epidemie e guerre, epidemie provocate dalle guerre e
poi guerre forse anche causate dalle epidemie, non si sapeva nemmeno chi aveva
cominciato, né perché. Il distopico era un genere che acchiappava parecchio, a
Sven non piaceva neanche la parola, ma gli toccava scriverlo e almeno lì
sfogava la sua rabbia, la sua impotenza. Ogni tanto però sfociava in generi
misti, tanto la gente apprezzava soprattutto la novità e il continuo
cambiamento di marcia e dato che la vita era diventata fantascienza, non ci
faceva più caso alla mancanza di quella sana credibilità di una volta.
“La Sacca dei
Pappataci, che potete trovare in ogni libro di storia che si rispetti,
consistette nella snervante attesa di due eserciti nascosti tra gli alberi da
frutto, peschi e albicocchi per la precisione. Si studiarono e aspettarono il
momento giusto, finché poi invece se ne andarono a casa, senza colpo ferire.
Nel frattempo però i pappataci, come dice il nome, li avevano massacrati in
silenzio, pappando e tacendo. Sul rispetto dovuto ai libri di storia meglio
fare come i Pappataci, visto che da pappare non c’è niente di buono, non rimane
che tacere. Tacere e andare avanti, come i nostri valorosi soldati sul Piave.
Ormai la
sopravvivenza era diventata l’unica cosa importante. D’accordo, lo era anche
prima, o lo era sempre stata, ma me lo ero dimenticato. Qualche volta me lo ero
anche ricordato, forse non era il momento adatto e comunque ho taciuto e ho
pappato anch’io, per quel poco che c’era…”
Non sembrava
affatto il suo stile, ma in fondo il suo era da considerarsi uno per niente
rigido. Per esempio la sua origine italiana era venuta fuori all’improvviso e
di nuovo, ma la guerra quella c’era sempre, o quasi. Era anche vero che Sven
cambiava spesso, mosso da singulti interni, visto che di esterni non ne aveva
più, ogni tanto sorprendeva il lettore e l’editore capo del giornale Dagens
Handel che ne prendeva atto e pubblicava sulla fiducia. Alla gente piaceva
essere sorpresa, anche se erano sorprese spiacevoli erano pur virtuali o
metaforiche.
L’appartamento
intanto pareva che risuonasse ancora dei canti sommessi di Sven, ma forse era
solo la loro immaginazione, incredibile ma in qualche maniera avvertivano un
impalpabile vuoto.
Ma in una
notte triste si parlò di tradimento
e il Piave
udiva l'ira e lo sgomento.
Ahi, quanta
gente ha visto venir giù, lasciare il tetto,
per l'onta
consumata a Caporetto.
Profughi
ovunque dai lontani monti,
venivano a
gremir tutti i ponti.
S'udiva allor
dalle violate sponde
sommesso e
triste il mormorio de l'onde.
Come un
singhiozzo in quell'autunno nero
il Piave
mormorò: "Ritorna lo straniero!"
Melba non
sapeva cosa fare, tecnicamente sentiva appena la mancanza di suo marito, che a
livello di persona se ne era andato già da anni, ma faceva quel po’ di compagnia
a tavola, un rutto ogni tanto, a letto qualche scorreggia, a suo modo era una
presenza anche quella.
Il martedì
usciva il suo articolo sull’altro giornale, più popolare, Aftonbladet e a loro
arrivava automaticamente una copia la mattina alle sei. Qui il tema era libero,
ma lui girava sempre attorno ai soliti viaggi nella metaforica maionese.
La cronaca
c’era:
“D’accordo,
siamo tutti poco normali, anche se ci sono vari livelli, vari tipi di
classificazioni, relative interpretazioni personali. I parametri poi non ci
sono più. Magari è anche questione di stile. Forse le persone sensibili si
sentono peggio delle altre, ma come si fa a scegliere? O a smettere di esserlo?
Io non sono capace.
Se noi
guardiamo gli altri capiamo quanto poco siamo padroni del nostro destino, è
vero che possiamo influirvi, ma spesso o quasi sempre, non sappiamo come farlo
e a volte i risultati sono il contrario di quello che volevamo.
Se una vita
ha avuto un qualsiasi senso difficilmente lo scoprirà il vivente, piuttosto
qualcun altro, magari suo cugino, ma non lui, il possessore ignaro di quella
vita, che in fondo non è stata proprio sua e si vedeva che non sapeva nemmeno
dove e come dirigerla.
Per lunghe porzioni
di giornata rimanevano entrambi immobili e zitti. La sua vita e lui. Era lei a
indirizzare lui, se e quando ne aveva voglia, ma il trucco era proprio che lui
non lo avrebbe mai saputo. Lo manipolava facilmente, perché lui non sapeva come
doveva vivere, dove doveva andare e perché. Non lo avrebbero nemmeno mai
informato quando sarebbe finita, e quando era iniziata non era stato certo lui
a sceglierlo.
Soldi ce ne
aveva un po’, gli sarebbero bastati per un pezzo, certo avrebbe potuto partire
e viaggiare a caso, avrebbe speso di più e i soldi sarebbero finiti, solo
allora si sarebbe buttato giù da un ponte, o da un grattacielo, meglio in un
burrone, era più romantico.
No.
Ci si può
eclissare in tante maniere, per tanti motivi, a volte nemmeno tanto tristi da
lasciare il mondo, confidando in un futuro migliore o nella sua stessa
confortante e tiepida assenza.”
E ritornò il
nemico per l'orgoglio e per la fame
voleva sfogar
tutte le sue brame,
vedeva il
piano aprico di lassù: voleva ancora
sfamarsi e
tripudiare come allora!
No, disse il
Piave, no, dissero i fanti,
mai più il
nemico faccia un passo avanti!
Si vide il
Piave rigonfiar le sponde
e come i
fanti combattevan l'onde.
Rosso del
sangue del nemico altero,
il Piave
comandò: "Indietro va', straniero!"
La moglie di
Sven telefonò al giornale, l’articoletto era arrivato come sempre alle undici
del giorno prima. No, non l’avevano visto, l’ultima volta era stato sei anni
prima, una festicciola della redazione, se lo ricordavano bene, anche se non
aveva aperto bocca che per bere, e per quello aveva bevuto anche assai e se ne
era andato senza salutare. Tutto normale quindi.
Melba e i
figli di sedici e quattordici anni cominciavano a temere il peggio, in più la
polizia diceva che nessuno lo aveva veduto, non che fosse un tipo che si
notasse molto, però ammettevano anche.
Il venerdì
seguente sul Dagens Handel l’agente segreto del futuro parlava come un
allevatore di renne, un Sami della Lapponia.
Al pubblico
piacque, dava un’idea della solitudine e della disperazione, del freddo e della
loro vita in mezzo al gelo. La spia era fuggita tra i ghiacci perenni? La
maggioranza dei lettori non se ne accorse, ma c’era anche un vento di libertà
nelle sue parole. Il trafiletto cominciava così:
“Io il mondo
lo chiamavo anche spesso, ma lui non mi rispondeva. Anzi, a pensarci bene ero
io che ero molto discontinuo e in certi momenti mandavo tutto e tutti
affanculo. Subito dopo ecco che ne sentivo la mancanza e mi pareva di essere
stato ingiustamente abbandonato. Volevo anche fuggire ma non sapevo dove,
eccomi qua trai ghiacci, ma non sento freddo, ho lasciato la società, o quello
che ne era rimasto e mi sono trasferito tra le renne, che è gente molto più
affabile e alla mano, se ne fregano dei soldi e non ti tradiscono per qualche
spicciolo in più...”
Gli assegni e
gli articoli arrivarono ancora per un anno circa, puntualmente, Sven Taccini
non fu più ritrovato. L’editore Larsson diceva scherzando che si era rifugiato
nelle pieghe dei suoi articoli, negli avverbi e nei numerosi e talvolta anche
minacciosi congiuntivi e condizionali della sua coatta letteratura da giornale,
nelle sue cronache che diventarono sempre più soddisfatte della propria
esistenza, se così si poteva ancora chiamare, appagate e realizzate nel
silenzio bianco e nel gelo dell’artico.
I
collaboratori ridevano, ma la loro immaginazione correva parallela, a volte
anche inaspettatamente perpendicolare. Gli angoli di incidenza poi variavano
anche loro, ovviamente, senza dubbio erano cambiati.
Forse era
così che si sentivano i Sami, gli ultimi Lapponi allevatori di renne, non erano
condizioni facili, ma almeno lì non li toccava nessuno, non erano obbligati a
seguire le feste comandate, non vedevano nemmeno la televisione, la loro
religione coincideva perfettamente con la loro filosofia di vita, forse anche
dura, ma non ipocrita.
Agli svedesi
e ancora di più a chi viveva lontano dal nord sembrava impossibile che gli
allevatori potessero campare a quel modo in rifugi precari per settimane di
fila, in pieno inverno, con temperature che scendevano fino a meno trentacinque
e a volte anche meno quaranta, lontani da tutto, a decine di chilometri dal
villaggio più vicino, non sfidavano solo la morte, ma anche la vita.
I Sami,
popolo in estinzione, diviso tra quattro nazioni con la punta diretta verso
l’estremo nord del pianeta, lo ricevettero idealmente tra di loro come un
lappone autentico pur se sanguemisto. Anche se materialmente non si sapeva dove
era, per loro era ben presente nei pochi cuori materialmente rimasti.
La
popolazione totale di Sami in Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia è
stimata approssimativamente in 80.000 persone, di cui circa la
metà vivono in Norvegia. La Norvegia è patria della maggior parte
dei Sami del mondo.
La figura
sacerdotale è incarnata dallo sciamano, che
effettuava tutta una serie di riti propiziatori per
prevedere e talvolta influenzare l'avvenire, utilizzando un tamburo magico.
Molti riti propiziatori si riferivano agli animali: quando uno di loro veniva
ucciso, un pezzo di carne di ogni parte del corpo veniva inserito in una specie
di tomba, per essere seppellito, nella convinzione che la divinità, ingraziata
dal sacrificio, facesse
rivivere l'animale in un altro mondo. I sami credevano nel potere magico dei sogni,
interpretandolo come una via di comunicazione con il mondo dei morti.
Un giorno uno
sciamano aveva preso un panino sbocconcellato da Sven alla tavola calda sotto
casa e lo aveva sotterrato. Tecnicamente dentro c’era anche un po’ del suo DNA
o qualcosa del genere.
Un
personaggio nuovo allora si materializzò nei libri che parlavano dei Sami, ma
non ci fecero caso, perché le opere erano poche e se possibile lette da ancora
meno. Teatro e cinema neanche a parlarne.
Il francese
Truc aveva scritto un bel romanzo sui Sami: L’ultimo Lappone, che aveva
avuto un certo successo di nicchia. Quando un nativo sconosciuto di probabile
sangue misto, che cantava sommessamente canzoni in italiano, apparve tra le
pagine e le vicende, nessuno ci fece particolare caso. In Italia anche si
leggeva poco, ma il fenomeno si era di colpo esteso alle opere italiane
tradotte e che venivano perlopiù lette, rappresentate e immaginate in tutto il
mondo.
Nel Deserto
dei Tartari per esempio, per i corridoi della fredda fortezza sul confine, si
era materializzato un personaggio baffuto che prima non c’era e canticchiava
canzoni di guerra, era vestito come un lappone e non combinava per niente con
il resto della storia. Se ne accorse il tedesco Wolfgang Bergstein, un colto
camionista, che quel libro lo aveva letto più volte e glielo fece notare anche
a sua sorella Gertud. Dentro c’era anche un falso storico, bello e buono!
Indietreggiò il
nemico fino a Trieste fino a Trento
e la Vittoria
sciolse l'ali al vento!
Fu sacro il
patto antico, tra le schiere furon visti
risorgere
Oberdan, Sauro e Battisti!
Infranse
alfin l'italico valore
le forche e
l'armi dell'Impiccatore!
Sicure
l'Alpi, libere le sponde,
e tacque il
Piave, si placaron l'onde.
Sul patrio
suol vinti i torvi Imperi,
la Pace non
trovò né oppressi, né stranieri!
A New York,
al Metropolitan, veniva inscenato un Pirandello, il Così è se vi pare e
anche qui il misterioso lappone con i baffi ripetutamente apparve sul palco,
quasi a fare da intervallo, con la sua canzone mormorata della guerra sul fiume
Piave, quella dello straniero che non doveva assolutamente passare. Che
c’entrava quel ridicolo personaggio in un costume che non aveva niente a che
fare con quella scena siciliana? Anche gli attori lo guardavano senza
capacitarsene.
Non ci volle
molto tempo perché i lettori si stancassero delle renne e dei Sami, della vita
nella tundra, se di tundra poi si trattasse e non di taiga, e i suoi lati assai
duri ma per qualcuno anche in un certo senso romantici. Sparirono gli articoli
e quindi anche gli assegni. Per anni i familiari non poterono nemmeno avere una
regolare tomba, ma Sven probabilmente era più felice in mezzo ai ghiacci e ai
disgeli, a renne virtuali ma piuttosto in gamba, alle verdissime aurore
boreali.
Dalle pagine
dei libri e dei copioni trovava conforto, nelle scene dei film e delle opere
teatrali si sentiva al calduccio, quasi onnipresente come una specie di dio. Lo
sciamano suonava il suo tamburo tribale e la gente non capiva, ma si chiedeva
il perché delle cose, non riceveva risposte, ma l’importante, anche secondo
Sven, erano le domande e guarda caso quelle non piacevano, più che altro non ci
erano abituati. La gente voleva solo soluzioni e anche se non rispondevano né
corrispondevano alle questioni, per loro era lo stesso.
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