venerdì 29 aprile 2022

A LIMITE CIOè

 


Non sono molte le Case del Popolo rimaste in Italia, in quella di Calci, per esempio, in provincia di Pisa, si possono trovare ancora dei vecchietti con il cappello incollato in testa che giocano a carte e bestemmiano con autentica foga, in più ci sono anche personaggi un po’ spelacchiati e ruspanti, come Torquato Dinelli.

È un cantante di provincia che conosco e che imitava Enzo Maolucci alle sagre, a qualsiasi festa di paese si esibiva con A limite cioè, Baradel e altre canzoni meno famose, ma anche queste le conoscevano in pochi. Siccome il cantautore imitato non l’aveva visto quasi nessuno, lo faceva un po’ come gli pareva e comunque gli assomigliava anche fisicamente, se vogliamo.

Non poche volte mi ci sono fermato a parlare, era un tipo da spiaggia, tipico e atipico allo stesso tempo. Non capivo perché, ma lui beveva sempre il Pastis, o quelle cose francesi di quello strano genere, che sorbiva lentamente anche Maigret nei libri di Simenon, e Giulio Cervi nell’omonima serie televisiva degli anni sessanta.

Glielo chiesi, perché bevesse quella roba e mi disse che era stato in Francia per qualche anno, attualmente anche ci andava spesso. Gli piaceva quella bevanda e, detto tra noi, aveva visto gente che sembrava completamente sobria, dopo averne bevuto un bel po’, che tentava di alzarsi dalla sedia ma non ci riusciva.

“Ah! Il tuo obbiettivo è quello allora?”

“No, dottore, ormai son vecchietto e per sentirmi sballato mi basta alzarmi dal letto, ma se ci rimango anche, a pensarci bene… mi fa piacere che me lo chieda però, mi riporta un po’ al passato più romantico e luminoso.

Il nome pastis viene dall'occitano pastís, che significa pasticcio o miscela. Quando in Francia fu proibito l'assenzio nel 1916, i maggiori produttori (Pernod e Ricard, che poi si sono fusi nella Pernod Ricard) riformularono le loro ricette introducendo l'anice, aggiungendo zucchero e riducendo il contenuto di alcool. Il pastis in particolare venne inventato da Paul Ricard nel 1932, a Marsiglia; la sua gradazione alcolica originariamente era di 45°. Da allora tuttavia la ricetta della bevanda è cambiata considerevolmente.”

Mi portò davanti al bancone del bar, mi indicò un punto ben preciso sugli scaffali di vetro, dietro uno specchio illuminato.

“Vede quelle bottiglie? Qui le tengono solo per me. Capirà, abito qui accanto e questa è praticamente casa mia.”

Lessi le etichette e c’era scritto Pastis sulla prima, Pernod sulla seconda e Ricard sulla terza.

“Se lei, che non ci è avvezzo, li sente uno per uno, i sapori le sembreranno tutti e tre perfettamente uguali, eppure io la differenza la sento e senza sforzo. Le dirò che mi piace alternare un po’.”

“Non suoni più?”

“Suono e canto più che mai.”

“Veramente? Fai spettacoli nei locali come una volta?”

“Nooo, da anni ormai ho fatto il salto di qualità!”

“Non mi dire! Che hai fatto?”

Mi raccontò che aveva conosciuto personalmente Maolucci e che gli aveva chiesto di tradurre in francese le sue canzoni. Lui ne era stato entusiasta.

“Chi era entusiasta? Lui lo ha chiesto a te?”

“Io ero entusiasta. No, io l’ho chiesto a lui. Insomma poi ci lavorammo insieme per un bel po’. Andai in Francia e riuscii a suonare in varie feste di paese con le canzoni che parlavano della politica del ‘68 e cose varie.

Ha capito che roba?

Ha avuto successo e ora siamo al decimo ellepì, cioè ora sono CD, Enzo ha dovuto comporre canzoni nuove, le altre le avevamo già finite. Poi lui si è rotto le scatole e ora le faccio io a suo nome, questo me lo ha concesso, si fida di me. Si rende conto che roba?”

“Vuoi dire che usi il suo nome?”

“No, o quasi, ora là mi chiamo Enzy Maoluccio.”

“Ah… e avete avuto un successo significativo?”

“Se significativo significa ancora qualcosa, per me vuol dire che questo successo, modesto ma probabilmente ancora da considerarsi di un certo livello, in qualche modo misterioso, vuol dire che in Francia queste cose piacciono più che in Italia.”

Con queste parole si è alzato ed è andato dietro il bancone, come se fosse a casa sua e ha messo nello stereo un CD, evidentemente uno dei suoi. Ha alzato il volume. Il francese scritto io lo capisco abbastanza, ma parlato meno e cantato peggio ancora. La sua pronuncia non sono in grado di giudicarla, ma mi pareva quasi Portoghese cantato da un Angolano. La canzone comunque era questa, debitamente tradotta in francese:

 

Baradel

 

Da un mese sto insegnando

in una scuola media

un mese fa studente, e adesso ho il potere,

ma... Ho conosciuto Baradel,

che non sta fermo dietro il banco.

Non scrive i temi Baradel,

perché compone nella testa.

Sei già schedato Baradel,

sei ripetente Baradel e ti han bocciato,

tu lo sai, perché non rispondevi mai.

 

Hai fatto bene Baradel,

non si risponde a chi vorrebbe fare di te quello che lui si è messo in testa per paura.

Ma io ti parlo Baradel,

non ti istruisco Baradel,

tu mi rispondi perché sai

che non ti giudicherò mai.

Ma il preside dagli occhi morali

di chi non fa mai l'amore

ha controllato temi e registri vari

e ha deciso che così non va.

Io me ne frego Baradel,

però ti dico chi comanda.

Non gira il vento Baradel,

attento da che parte spira.

Nell'oro c'è la storia antica,

la storia poi non è cambiata.

Menenio Agrippa conta palle

che un certo Kissinger ripete.

È morto Allende Baradel,

ci son le bombe dei padroni,

e chi li serve accusa me

di far politica anche a scuola.

I vostri banchi in mezzo al mondo,

i vostri temi poesie.

L'ortografia violentata dal voto non è vendicata.

 

È primavera Baradel,

Pablo Neruda in classe muore.

Ai tuoi compagni Baradel,

la vita scoppia nelle mani.

Vi ho portati un po' a giocare nel prato

che c'è lì davanti,

e non ho chiesto alcun permesso

perché credevo fosse giusto.

Ma il boia con quegli occhi morali

di chi non fa mai l'amore

ha scritto che ho commesso peccato grave:

ho preso e dato troppa libertà.

 

Mi han trasferito Baradel,

ha dunque vinto quel bastardo.

Ti stangheranno Baradel,

è proprio questo che ci vuole.

Non sei un servo Baradel,

e non fai comodo lo sai,

perché tu porti in mezzo ai banchi

la lotta che non si fa mai.

Mordi le labbra Baradel,

quando hanno voglia che tu parli,

e grida sempre Baradel,

se ti si impone di tacere.

Impara a scrivere per te

e non ti fare emarginare.

La mela marcia sparirà,

il verme poi sarà farfalla.

Non sei un servo Baradel,

e non fai comodo lo sai,

ma porta sempre in mezzo ai banchi

la lotta che non si fa mai.

 

Era commovente ma anche tragico come la società rovina i bambini, già a partire dalla scuola e gliel'ho detto. Lui ha obiettato che era così a quei tempi, ora sono gli allievi che rovinano gli insegnanti, non che ne traggano alcun profitto, beninteso. Ah… ho commentato io e ho dichiarato a mia discolpa di non avere figli, lui ha sorriso e si è augurato che magari un giorno, nel futuro prossimo o anteriore, si riuscirà a fare una cosa intermedia.

Poi Torquato si è alzato di nuovo e ha messo l’altro cavallo di battaglia:

 

A limite cioè

 

Mi sveglio e sento che un certo discorso è davvero finito
le sedie intorno a me sono lo scheletro dell'assemblea.
Non ricordo più il momento, l'intervento,
che a un certo punto mi ha fatto dormire.
Eppure io lo so, che nell'incanto dell'aula smarrita
non più di un'ora fa grosse parole mordevano i muri.
Sono intorno anche adesso, frantumate,
suoni impazziti alla caccia di un senso.
Voci gergali con barba ed occhiali si sono accorte di me,
sono di un serio compagno che adesso non c'è, e dicono:
Al limite cioè, portare avanti una linea diversa,
Al limite cioè, la strategia di un certo tipo
a livello di gestione dico "cazzo" nella misura in cui si interviene
al limite cioè, è pazzesca cioè la mozione di base.
Al limite cioè, è bestiale compagni, lo dice anche Lenin.
Al vertice e alla base c'è la prassi, Cristo Dio,
la problematica del collettivo.
Al limite cioè (adesso però ho un'angoscia tremenda)
Al limite cioè (sto come quando mi parla mia madre)
Ora basta, vado via, che follia le filastrocche del mio '68.
Al limite cioè, con queste frasi marcite e bigotte
Al limite cioè, l'idea masturbata è già mossa dai vermi.
Ninna nanna cane sciolto, stai tranquillo,
a valle la lotta a monte il discorso.
...Cerco di uscire ma scopro che ora non saprei muovermi più.
Dentro la testa un brusio di chiacchiere snob (che noia).
Al limite però la resistenza l'ha fatta anche il prete.
Al limite però anche il tuo preside fu partigiano.
Non hai torto cane sciolto, stranamente
in bocca a tutti c'è l'antifascismo.
Al limite cioè la lotta dura ci fa un po' paura.
Al limite cioè la strategia ha un profumo di morte.
Bla, bia, bla, bla, bla, bla, parole e discorsi rimbalzano intorno
Bia, bla, bla, bla, bla, bla, e si rincorrono ad un certo livello
bla, bla, bla...............

Quest’ultima era composta di espressioni tipiche e ripetute dagli studenti in assemblea, o dai rappresentanti di sinistra in un dibattito, insomma una maniera di esprimersi standardizzata di quegli anni e in quei determinati ambienti.

È incredibile come mi è sembrato romantico e pieno di passato vivo Maolucci in francese. Mi ricordava un po’ Brel e anche Brassens. E queste canzoni sono belle anche per ricordare un’epoca lontana e quasi dimenticata, che ne so? Maolucci mi garbava, lo avevo conosciuto molto tempo dopo, ma non mi ero mai sentito così vicino alle lotte studentesche, anche perché erano state in un'altra epoca quando io avevo circa dieci anni. Lui stesso, Maolucci, aveva composto e suonato queste canzoni ricordando quegli anni, ma un bel po’ di tempo dopo.

Però ora, in questa nuova veste di linguaggio, stranamente lo sentivo forte e sincero. Mi acchiappava di più e Torquato se ne è accorto che non mi stava annoiando con le sue cose, che magari lì attorno non le sopportavano già più da tempo.

“Il successo di nicchia è l’unico possibile se non c’è una vera grossa produzione dietro. Però questa francese è una nicchiotta consistente, almeno per me, anche Maolucci se ne è stancato, a dir la verità, ha anche ragione, disilluso dalla perdita attuale di tante dure conquiste, è un vecchietto e non ne ha più voglia. Ma a me mi sta dando tante belle soddisfazioni, forse loro d’oltralpe a quelle epoche lì ci sono più affezionati di noi. Qui a Calci non ne posso più parlare di queste cose, mi mandano affanculo subito. Mi prendono in giro. Se ne è reso conto di come mi guardano? Sono un amico, mi stimano e forse anche mi amano, alla loro maniera, basta che non gli parli di queste cose. La gente non sa più se è di destra o di sinistra. Forse non ha più nemmeno grande importanza.”

“Secondo me la destra e la sinistra non esistono più e volenti o nolenti abbiamo già voltato pagina, anche se tanti non se ne sono ancora accorti, i problemi ora sono altri, le posizioni mischiate.”

“Sì, forse ha ragione lei, quello che succede ora nel mondo sono cose diverse e il consenso stesso, il politicamente corretto e le idee vere si sono confusi in un pentolone in cui langue la nostra vecchia polenta, per fare un parallelo, che è dolce e amara allo stesso tempo, non ci garba più neanche a noi, vecchi militanti nostalgici, ma non sappiamo più vivere senza, quell’idea della lotta, come le posso dire? Anche le classi sociali, anche quelle non sono più così nette e separate.”

“Infatti, è quello che dico io, non si sa più contro chi lottare, perché non si sa nemmeno più chi siamo noi. Che poi a dirla tutta io stesso sono rimasto nel mezzo, cioè sono di una mezza tacca o generazione successiva e, anche se non del tutto, quasi separata dalla tua…”

Torquato aveva delle nascenti lacrimucce agli occhi, visto che tutto era diviso approssimativamente a metà, in Italia c’è sempre un gruppo che lotta contro un altro, fa parte del gioco e non sono certo loro a sceglierlo. Prima erano cose assai più nette e distinte, ma ora non ci si capiva più niente e lui aveva ancora da mostrarmi la parte più importante, secondo me, anche per cambiare argomento e non piangere, me l’ha mostrata subito:

“Dottore, qui c’è l’ultimo disco, guardì un po’ i testi e glielo metto su per ascoltarlo prima che mi obblighino a spengere, per vedere il centesimo telegiornale di oggi, che qui non se ne vogliono mai perdere uno. Ora c’è anche la guerra in Ucraina…”

È partita una ballata, che dopo qualche frase è diventata un rock non troppo hard e piuttosto piacevole, la voce di Torquato era bella e somigliante anche un po’ a quella di Vecchioni o di Enrico Nascimbeni, ogni tanto faceva il verso a Maolucci, ma si sentiva che era qualcosa di differente ancora, come i vecchi cantautori d’oltralpe.

Ho cercato di leggere i testi in francese sul librettino del CD e per quello che mi sembrava, mi pareva scritto in maniera sbagliata.

“Eh? Che me ne dice?”

“Bell’assai Torquato, bella voce, inciso ammodo, tutti gli strumenti si sentono nitidi, ma queste parole non sono scritte male?”

“Infatti.”

“Come infatti?”

“Me ne vergogno un po’…”

“Cioè?”

“Quando ho cominciato a scrivere i testi delle nuove canzoni, il mio francese era maccheronico, non che ora sia perfetto. Per carità.”

“E allora?”

“Al produttore invece è piaciuto che si scrivesse e cantasse sbagliato.”

“Figuriamoci! E perché mai?”

“Per quanto sembri impossibile, a volte per vendere di più hanno anche delle idee buone, questa di ribellarsi alla schiavitù della grammatica e della sintassi, per esempio a me piace.”

“Ma se hai detto ora che ti vergognavi?”

“Perché ho paura che venga fraintesa.”

“Ma allora è come se tutti fossero diventati bambini che stanno ancora imparando?”

“O stranieri che annaspano con le loro regole.”

“Una originale trovata di marketing?”

“Sì, il marketing è una di quelle materie che se io avessi studiato non avrei mai preso in considerazione, ma forse ai miei tempi non esisteva nemmeno e direi che si stava anche meglio.”

“Concordo.”

“Il francese poi non è facile come sembra, la fonetica e gli accenti sono durissimi!”

 “Non saprei esattamente, è una lingua che ho sempre considerato da lontano. Eppure geograficamente siamo vicinissimi.”

“Infatti. La casa discografica è di un corso, s’immagini un po’, assomiglia anche a Napoleone, ma più alto e grassoccio, di origine italiana, il cognome è Bandelloné. Loro ci mettono sempre l’accento finale acuto ai nostri cognomi. E io non mi sento per niente offeso, il mio francese è veramente così come viene scritto sui dischi e relativi libretti dei testi…”

“Il mio è peggio, anzi, non esiste nemmeno. Com’è lui?”

“Chi Bandelloné?

Direi un pingue contadinotto arricchito!

No, no, scherzo, è un tipo a posto, non va dietro solo ai soldi, come ci si aspetterebbe. È affezionato alla politica di quei tempi in cui era estremista e studente, molto legato alle sue origini e quindi all’Italia, ce l’ha un po’ con i fascisti e i nazisti, scherza sempre sul fatto che la razza pura è una baggianata, che siamo tutti bastardi…”

“E c’ha anche ragione.” Ridacchio io.

Confesso a Torquato che una volta il francese mi pareva una lingua da effemminati, ora invece mi piace e ammiro anche la loro cultura. Non sarò mica diventato finocchio? Torquato ride e arrossisce. Mi chiedo allora perché non si è mai sposato e non l’ho mai visto con una donna. Poi noto che anch’io non mi sono mai sposato e raramente, quasi mai, vado in giro con una donna.

Sono due pianeti diversi quelli e io faccio fatica solo a esplorare e a comprendere il mio, inutilmente vasto e vario, magari anche Torquato si sente così.

Mi siedo e cerco di seguire il significato dei testi mentre accompagno la musica. Poi i vecchietti mettono il loro ennesimo telegiornale, che parla di guerra e di Putin, notizie vere mischiate con quelle false, noi andiamo fuori a fare un giretto.

Torquato mi porta a casa sua, a cento metri o meno di distanza, c’è un giardino fuori che pare una giungla, la casa è di quelle vecchie, con i muri larghi e le persiane. È arredata un po’ alla hippy, con tappeti appesi alle pareti, invece di quadri oggetti di vita come una forca, un rastrello he un falcetto, una maschera subacquea e tante piante in vaso. Gatti e cani in genere e numero, un pappagallo che invece di parlare scorreggia perfettamente, quasi come un essere umano. Torquato convive con una francese, Milou, molto sorridente e tranquilla, hanno anche tre figli adottivi, due scuri di pelle. Non so se sono sposati, non glielo ho chiesto. Stanno cenando e io mi siedo con loro, mi chiedono se ho fame e rispondo che ho già mangiato e stavo ancora digerendo. Bevo piuttosto un Pedrocchino, digestivo che pensavo non esistesse più, che mi servono da una bottiglia polverosa. Torquato invece mangia con gusto una pastasciutta fredda con aglio, olio, basilico e pecorino grattugiato. Parla con loro in francese alternato al suo toscano-pisano e loro rispondono in altre lingue, penso anche mischiate, sento qualche parola in italiano. Tento di usare la stessa tecnica per conversare, come se niente fosse, ma mi imbrano un po’ troppo e ridono tutti. Dopo mangiato ognuno se ne va per i fatti suoi, la moglie a lavare i piatti. Mi sembra di capire che era il turno di Torquato, ma lei si offre di lavarli perché ci sono visite in casa, cioè io.

Rimaniamo soli con una musica a basso volume, Torquato dice che è indiana, non dell’India, ma dei pellerossa americani.

Gli chiedo allora se si è ispirato a qualcuno per i suoi testi, delle sue canzoni, che non parlano più tanto di politica, mi sembra.

“Trattano del famigerato mondo del lavoro, quello che io in pratica ho sempre visto e sentito da fuori, l’ho accuratamente evitato. Indirettamente della schiavitù dell’uomo al denaro e al potere. Alla sopravvivenza in società malate.”

“Ma come, te non hai mai lavorato?”

“Tecnicamente sì, ma appena iniziato ho capito subito che non era per me e mi sono buttato su cose alternative, senza un padrone che mi controllasse, non ho fatto - se non per qualche giorno - un lavoro normale od ordinario tipo cameriere, muratore, impiegato, operaio o cose del genere…”

“E nemmeno cuoco, medico, geometra o industriale…”

“No, solo cose indipendenti: cacciatore, pescatore o più frequentemente un mezzo artista improvvisato. Le ho provate tutte e posso dire che sono scarso in tutte le discipline artistiche, come scultore, pittore, scrittore, musicista, poeta…

Vabbè, ora sono vecchio, ma di una cosa sola sono piuttosto orgoglioso: non ho mai studiato, cioè a scuola, voglio dire, in più sono riuscito a evitare il famigerato mondo del lavoro e non sono diventato un delinquente, ma non sono neanche morto di fame. Non ho mai sfruttato nessuno e non sono mai stato sfruttato.”

“Un mestiere raro e affascinante il tuo, a conti fatti, e comunque come cantante, musicista e poeta io non direi affatto che sei scarso…”

“No, è vero, ora me la cavo, ma non ho mai avuto eccessivo talento, ci sono riuscito solo con tanto esercizio e sbattendo la testa nei vari muri a disposizione. Divertendomi anche parecchio, devo ammettere.

No, quello sì, la caparbietà non mi è mai mancata, per compensare alla disciplina che mi manca, sono testardo come un mulo…”

“Non è la disciplina che ti manca, al contrario sei molto disciplinato, te lo dico io, se non hai talento e ti sforzi a imparare lo stesso. Quello che ti manca è la sottomissione. E non mi pare che sia affatto un difetto.”

Torquato ha riso, ha ammesso di avere una certa esperienza di convivenza con la gente, curiosità e capacità di conversare senza problemi con tutti gli appartenenti ai più diversi strati sociali, quello sì. Poi mi ha chiesto come vivevo io, visto che eravamo lì davanti a una bottiglia di grappa e avevamo lo stomaco pieno, voglia di parlare e i piatti ormai li avevano già lavati.

Gli ho raccontato che ho avuto una vita interessante, in un certo senso, piuttosto diversa dalla sua, a partire dal fatto che avevo studiato e lavorato assai, come medico e non avevo più una famiglia. Da dieci anni stavo con Mary, inglese di Leeds, ma lei viveva a casa sua con sua madre, a Buti e io a casa mia a Vicopisano con il mio cane Tommaso, così chiamato perché non ci credeva se non ci metteva il naso. Ero soddisfatto della mia vita, non tanto del mondo attorno a me, cioè la terra in sé mi garbava ma la gente sempre meno.

Ci siamo messi a conversare su questo ultimo argomento e abbiamo scoperto di avere delle idee simili a quelle di Luciano De Crescenzo, sull’umanità e sugli individui, due realtà molto separate, al contrario di quanto si penserebbe e che ci obbligavano a distinguere continuamente e a stare ben attenti a quello che facevamo. Gli ho chiesto se leggeva molto, ha confessato di no, infatti in giro non avevo visto libri.

Abbiamo scolato la grappa parlando e gesticolando senza neppure accorgercene e alla fine ho dormito lì a casa di Torquato.

La mattina mi sono svegliato per le leccate calde di Paguro, un cucciolo di S.Bernardo di qualche decina di chili. Torquato mi ha spiegato che aveva sentito la grappa nel mio alito, lui ce l’aveva ereditariamente un po’ nel sangue.

Ora mi ricordo molto parzialmente quello che abbiamo detto quella sera, però la discussione sul lusso quella sì. Mi sono anche scaldato e ho alzato la voce, ma lui era così calmo e naturale che mi ha poi riportato agevolmente sulla carreggiata.

In qualche maniera gli avevo chiesto se non sentiva la mancanza del lusso, di avere i migliori prodotti sul mercato. Quello che mi ha detto, più o meno è stato che il lusso, sia quello falso e ostentato, che quello vero e quasi nascosto non gli interessano, perché sono entrambe falsità o tentativi di dimostrare agli altri di essere migliori, che anche se fosse vero non andrebbe certo ostentato o nascosto, ma lasciato libero. Torquato ha detto che lo sa benissimo che la società obbliga quasi a questi meccanismi fini a sé stessi, ma la sua scelta si annida in quel quasi, lui è riuscito a capirlo e a vivere senza. Secondo il suo gusto personale anche piuttosto bene. Al che io già ubriaco gli ho detto che la comodità non è una cosa falsa, ma vera e tangibile. Lui meno sbronzo di me, anche in questo si vedeva la sua disciplina, eppure la naturalezza con cui beveva, ha replicato che la comodità è bella, ma impigrisce, sia fisicamente che mentalmente. Mi ha infatti dimostrato con calma e senza arrabbiarsi, cosa che a me riusciva meno, che le cose importanti che ho io ce le ha anche lui, ma se non ha il SUV, lo Smart Phone, la televisione al plasma, un computer all’ultimo grido, è spinto d’inerzia verso certe cose a prima vista scomode, ma che lo portano ad avere un rapporto più autentico e giornaliero con la gente.

Mi ha chiesto quanti amici veri avessi io e non ho saputo dirglielo, perché veramente non ci avevo mai pensato troppo.

A un certo punto mi ha chiesto da quanto tempo non mi ubriacavo con qualcuno semplicemente parlando a un tavolino, senza ascoltare musica o guardare un film, o su una spiaggia esotica, alla settimana bianca o magari in una città fredda all’estero.

Non ho saputo rispondergli, perché non me lo ricordavo, ma non erano solo anni, erano decenni che non mi concedevo una cosa del genere, bella, semplice e in teoria alla mia portata ogni giorno.

Forse quando ero studente. Non sapevo nemmeno io il perché, ma dopo averci pensato a mente fredda e senza alcool nelle vene, ho capito che quello era il lusso vero, la comodità autentica, cioè non pensare che devi alzarti presto o che semplicemente il tuo sistema di vita è regolato da una tabella che non hai scelto liberamente, ma che segui chissà perché alla lettera.

E poi perché lo chiamavo per nome e lui invece con me usava il mio titolo di dottore o il mio cognome? Perché mi dava del lei e io gli davo del tu?

Mi sentivo superiore?

E come mai?

Potevamo essere amici noi due?

Da parte mia, purtroppo, nessuna risposta.

Lui avrebbe potuto rispondermi e probabilmente quello che mi avrebbe detto non mi sarebbe piaciuto, ma glielo avrei chiesto lo stesso.

 

 

 

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