Dicesi delinquente di uno che delinque abitualmente, i motivi
possono essere vari, oppure anche troppi, però uno che è stato in galera non
necessariamente è un delinquente. È vero che la polizia non gli ispirava
fiducia al Noci, anzi al contrario, se ne vedeva passare una macchina lo
attraversava un brivido sulla faccia barbuta, anche se quello che gli era
successo era stato in Belgio, ora in Italia, nel paese in cui era nato, si
sentiva allo stesso modo.
La società moderna non è che non si meriti i cosiddetti atti
fuorilegge da parte del cittadino, visto che spesso lui lo è suo malgrado e che
le regole da trasgredire sono tante e una buona parte valgono solo per chi non
sa aggirarle sistematicamente. Personalmente non sono di quel tipo di persone
che danno tutto per scontato. Insomma può darsi che Attilio Noci prima non
avesse capito qualcosa di sé o del mondo circostante, o anche che abbia
semplicemente avuto sfortuna, magari in un'unica occasione che gli è costata
cara. Tra sé e sé ammetteva che non era stato molto intelligente, che magari
aveva anche avuto sfortuna, ma quella stessa sfortuna gli aveva portato
fortuna, in un certo senso, perché poi, uscito di prigione, apprezzava di più
la vita anche se resa difficile dagli stessi uomini, con la sua pur scarsa
libertà, la natura anche se sempre più contaminata, un cielo azzurro oppure
addirittura nuvoloso e una giornata di lavoro perfino duro, ma spensierato.
Lo avevo conosciuto al Bar della Zappa, dove io ero il solitario
barista e lui ogni giorno prendeva un caffè al vetro, leggeva il giornale
salutava e se ne andava. Senza mai parlare con nessuno, pur sorridendo se
necessario e mantenendosi gentile con tutti, ma esprimendosi a monosillabi
pronunciati a malapena, difficilmente riconoscibili da gemiti e grugniti appena
accennati. Un giorno, forse per caso, mi guardò negli occhi e mi ci persi.
Avevo capito due cose in un colpo solo: la prima che lui avrebbe avuto bisogno
di un amico; la seconda che anche io ne avrei avuto una certa urgenza,
essendone da sempre sprovvisto. Intorno a noi non c'era nessuno e fuori pioveva
forte, lui rimase ancora un po', quando se ne andò sentii che quel silenzio era
diventato differente, ma non avrei saputo spiegare come.
Da quel giorno, una frase alla volta, che poi faticarono per
arrivare a due o tre in fila, rispettivamente, noi diventammo amici davvero, ma
questo non significa che parlassimo molto anche dopo, o che mi volesse
raccontare la sua storia passata, o io alla lui la mia, ma anche i lunghi
silenzi con lui non pesavano, perché non c'era ansia, né da parte sua né dalla
mia.
Il Noci era un indipendente completo, si potrebbe dire a 360
gradi, ma doveva darsi da fare per mantenersi con i soldi. Era idraulico,
falegname, imbianchino, muratore, rilegava libri e faceva tanti altri piccoli
lavoretti, come svuotare cantine e soffitte, cercava e vendeva funghi, pescava
e smerciava i pesci, tagliava legna nei boschi per chi la voleva per il
caminetto. Non aveva studiato, solo in prigione si era fatto una cultura e
parlava qualcosa di simile all'inglese gommoso masticato dagli eschimesi
insieme alla carne di foca. Leggeva molto, guardava poco o nulla la
televisione, però gli garbavano i documentari sulla natura, sugli animali, su
certi posti esotici del mondo, ma senza turisti in giro e anch'io condividevo
questa sua insignificante eppure indicativa preferenza. Avevamo una passione
comune anche per la letteratura bizzarra e di nicchia, scoprimmo che entrambi
amavamo alcuni autori che pochi conoscevano come Matteuccio Scodinzola, toscano
di Batignano, che scriveva frasi cortissime e quasi mai usava aggettivi, odiava
gli avverbi e parlava di cose molto diverse tra di loro, ma in genere erano
accozzaglie composte di racconti spezzati, apparentemente slegati tra di loro,
però alla fine si capiva il nesso che invece li collegava e c'era una morale,
un messaggio o anche due, raramente tre, quasi mai quattro. Il suo era stato un
successo forse anche più che di nicchia, la sua estrema semplicità pochi
potevano capirla e meno ancora apprezzarla, ma noi ci si faceva delle belle
risate e ci stimolava anche a riflettere sulla bellezza della vita in campagna,
su quanto poco ci basterebbe se non ci creassimo dei bisogni falsi e troppo
voraci di soldi.
Non stavamo male, noi tre, ma ci mancava qualcosa, forse qualche
dinamica, qualche sogno, un qualcosa insomma che non sapevamo nemmeno se, dove
e quando esistesse, se fosse mai esistito. Se ci mancava qualcosa avevamo anche
qualcosa di troppo, nel senso che a disturbarci, magari, c'era tutto quel mulinare
intorno di gente, automobili, biciclette da corsa e non, moto, aerei,
elicotteri e brutte notizie come un bombardamento quotidiano dal quale pur non
sentendone bisogno, come altra gente invece ne sentiva, noi ce lo dovevamo
sorbire in silenzio, che tanto protestare non serviva a niente. La gente del
Quercione non era cattiva, ma forse un po' troppo stupida e chiusa, non che noi
fossimo intelligenti e aperti, magari lo eravamo solo in un'altra maniera e poi
non c'era bisogno anche di esagerare nelle quantità.
Una volta rotto il ghiaccio degli inizi di una promettente
amicizia, il Noci alternava i silenzi lunghi ai monologhi lunghissimi, agli
agganci filosofici spesso per me incomprensibili, alle citazioni sparse e alle
sue barzellette che a me non facevano assolutamente ridere. Non che Attilio non
fosse buffo, ma lo era specialmente quando voleva essere serio. Se solo
sorridevo delle sue inevitabili manifestazioni, che per me erano divertenti ma
per lui spesso anche drammatiche, ecco che si arrabbiava e io allora ridevo
anche di più e lui si arrabbiava di più e così via. Viveva in una casettina
vecchia e minuscola, all'esterno assai scrostata, con un bel pezzo di terra
intorno non recintato, la strada non ci arrivava nemmeno, c'erano da fare
trecento metri a piedi, ma se l'era comprata e pagata tutta. Le tre stanzette +
bagno e cucinotto erano accoglienti, piene di libri e di piccoli quadri, che
grandi non ce ne stavano.
Dopo due anni nei quali la nostra strana amicizia era rimasta
magari un po' statica, ma certo sempre piacevole, che il Bar della Zappa era
passato in mano ai cinesi, come tanti altri in Italia, un evento esterno ci
pose di fronte ai fatti: dovevamo assolutamente prendere delle decisioni e noi
non eravamo certo dei tipi che ne prendevano spesso e nemmeno volentieri.
Da disoccupato ero passato a lavorare per Attilio, il quale mi
passava metà dei lavori che facevamo insieme e il 100% di quelli che facevo da
solo. Tra le altre cose eravamo anche cacciatori, nel significato più largo,
cioè di quelli che sparano poco o niente. Insomma si girava per la campagna la
domenica mattina con il fucile in mano a raccogliere funghi e frutti di bosco e
se a mezzogiorno non avevamo neanche sparato un colpo, ce ne andavamo per
niente delusi a pranzo a casa mia, visto che mia moglie cucinava in maniera
discreta e in compagnia del Noci non soffriva in maniera esagerata, come altre
donne da lui conosciute, che da prima del suo arresto, non aveva più avuto una
fidanzata né purtroppo neppure neanche un mezzo succedaneo femminile o maschile
che fosse.
Quella mattina di fine inverno, dietro alla Certosa da un
cespuglio saltò fuori una mano, nel senso che spuntava da lì, c'era sicuramente
anche prima, solo che noi non l'avevamo notata. Era ferma da tempo, era quasi
putrefatta, i cani l'avevano trovata, con tutto il fetore che ne veniva fuori e
con il loro istinto di supporto ai pessimi cacciatori che eravamo, ci avevano
condotto lì davanti, di fronte ai fatti ed eventuali dannati contro-fatti.
Trattavasi probabilmente di cadavere maschio e quasi sciolto dal
tempo e anche dallo spazio, insomma dalla pioggia e dal sole, infine dall'aria
stessa, si sa e quindi dai fattori atmosferici, come succede in questi casi.
Cani e cinghiali avevano fatto il resto, senza ordine, con scarsa lungimiranza,
come accade in certi frangenti, almeno dal nostro punto di vista umano.
Erano le undici e tre quarti, la prima idea idiota che mi venne fu
di avvisare la polizia, cosa che al Noci ovviamente non piacque. Non litigammo,
giacché nessuno dei due ne era capace, io non ci riesco neanche con mia moglie
e a volte ne sento un po' la mancanza. Insomma era pure tardi e avevamo
piuttosto fame. Alla fine lo lasciammo lì, senza toccarlo nemmeno che ci faceva
anche un po' schifo, pover'uomo o quello che era stato.
A pranzo fummo più taciturni del solito e Maria Gemma se ne
accorse, ma non disse niente, forse per non infrangere quel silenzio
imbarazzante rotto solo dai rumori di gengive all'opera, più i normali e non
sempre leggeri risucchi idraulici. Ma il giorno dopo quello era ancora lì, più
squagliato che mai, e poi anche il giorno seguente, nessuno faceva niente e noi
neppure. Al quarto sopralluogo decidemmo di sotterrarlo sommariamente e mentre
lo spostavamo verso la faticosa buca nel terreno argilloso ne cadde una mappa,
forse da una tasca, se mai ce ne fosse stata una là in mezzo a quello sfacelo,
il quale rotolino sporco assai fissato con un nastro scolorito subito ci
incuriosì. C'era anche un portafogli e gonfio, non solo di muffe varie, qualche
ago di pino e un po' di ghiaietta fina. Ci pigliammo anche il suo contenuto e
ce lo dividemmo. Tanto per non abbandonare all'incerto destino quei
milleottocento euro in biglietti da cento, che anche se puzzavano non ci
facevano certo ribrezzo, a nessuno dei due. Lo adagiammo nella buca, ricoprimmo
tutto e ci spargemmo sopra aghi di pino, foglie e così via.
La mappa era un pezzettaccio di pelle consunto e scolorito, non ci
si capiva niente, perciò doveva essere autentica. Solo una cosa era chiara, se
di un tesoro si fosse davvero trattato era dentro la Certosa del Quercione, a
pochi metri dal fatto e contro-fatto il quale ora era rappresentato anche dalla
causa della morte, se d'infarto o assassinio si trattasse e di esumare il
cadavere ci venne anche in mente, ma alla fine era un lavoro schifoso, con
risultati incerti se non improbabili e poi chi se ne fregava.
Il Noci disse che aveva sentito parlare di un tesoro nascosto dai
nazisti in tempo di guerra, un bottino di razzie, tra gioielli e opere d'arte.
Al che io dissi che erano solo epiche stupidate e lui concordò, mi parve però
senza eccessiva convinzione e magari anch'io ero apparso allo stesso indeciso
modo a lui. Nei film si vede come vanno a finire quelle storie lì, la gente
s'illude, poi qualche maledizione di Montezuma, o qualche altra divinità
sufficientemente incazzata li fa morire schiantati, oppure li arrestano e così
sia. Eppure quel mucchio virtuale di potenziali soldi ci faceva gola, perché
nella vita reale si sa che gli stipendi sono sempre più striminziti e si deve
lavorare giorno e notte per sopravvivere appena dignitosamente.
Il Noci oltre che un mezzo filosofo di vita era un fine
osservatore intero e un tre quarti di curioso, perché non amava il pettegolezzo
ed era piuttosto riservato di carattere. Insomma in internet aveva trovato che
da un sito francese, visto che la Francia era la patria fondatrice dell'ordine,
si sapeva il numero dei frati della Certosa
al momento erano undici. Altre notizie ci aveva portato a leggere e foto
stampate perfino dei loro liquori commercializzati e variopinti, a base d'erbe
e ricette millenarie.
LA CERTOSA DEL QUERCIONE
La Certosa del Quercione, dedicata allo Spirito Santo, sorge ai
piedi delle colline della Lucchesia. La sua costruzione iniziò nel 1340 per
volontà di un ricco mercante lucchese, Gardo di Bartolomeo Aldebrandi. Degli
edifici originari della Certosa rimane il piccolo chiostro risalente al XIV
secolo. Tutti gli altri edifici monastici furono rinnovati pressoché totalmente
nel XVI-XVII secolo: il chiostro fu ricostruito nel 1509 e la chiesa fu ornata
di affreschi nel 1693. Nessun evento di rilievo deve aver turbato l’esistenza
della Certosa del Quercione sino al tempo della caduta della repubblica di
Lucca sotto il dominio napoleonico. Nel 1806, sotto il principato di Felice
Baciocchi ed Elisa Bonaparte, tutti gli Ordini religiosi dello stato lucchese
furono soppressi e ai certosini del Quercione fu ordinato di abbandonare il
monastero. Dapprima si rifugiarono presso i francescani del vicino convento di
san Cerbone, che tuttavia venne anch’esso presto soppresso e i certosini si
dispersero, mentre il loro monastero, entrato nel demanio statale, fu alienato
a privati. Singolarmente, fu un’altra persecuzione a ridare vita alla Certosa.
Questa era rimasta pressoché intatta nelle sue strutture e in buona parte dei
suoi arredi e si trovava in vendita, quando nel 1903 i certosini della Grande
Certosa dovettero abbandonare la casa madre dell’Ordine in seguito alla nuova
soppressione degli Ordini religiosi in Francia. Il Reverendo Padre dom Michel
Baglin, dopo aver predisposto un sopralluogo per
constatarne le condizioni, decise di acquistarla per trasferirvi la comunità in
esilio della Grande Certosa. L’atto di acquisto fu effettuato il 10 novembre
1903 e subito furono iniziati i lavori per il riadattamento e l’ampliamento dei
locali monastici. Questi lavori consistettero principalmente: nella costruzione
di nuovi edifici presso l’ingresso del monastero per accogliere i partecipanti
ai Capitoli generali; nell’ampliamento della chiesa mediante un allungamento di
tre campate dalla parte della facciata; nella costruzione di un secondo
chiostro attiguo a quello originario, in modo da rendere il numero delle celle
più che raddoppiato.
La comunità della Grande Certosa si stabilì nella Certosa del
Quercione il 24 settembre 1904. Vi rimase fino al giugno 1940, quando fu
possibile ricuperare il monastero della Grande Certosa. Da allora il Quercione
è una Certosa autonoma dell’Ordine. Durante l’ultima guerra, la Certosa del
Quercione fu vittima di una durissima prova. Avendo generosamente dato rifugio
ad ebrei e perseguitati politici – senza distinzione di partiti, di
nazionalità, di religione – nella notte fra il 1° e il 2 settembre 1944 i
soldati tedeschi invasero il monastero, da dove il giorno seguente evacuarono
tutti i religiosi e i civili che non erano riusciti a fuggire o a nascondersi,
trasferendoli con vari autocarri a Nocchi, nei pressi di Camaiore, dove furono
rinchiusi per più giorni nei locali del frantoio. La maggior parte di essi
furono fucilati, in luoghi e giorni differenti, ma specialmente nei dintorni di
Massa, la domenica 10 settembre; altri furono avviati, a gruppi separati, alla
deportazione. Dodici furono i certosini fucilati, tra i quali il priore dom
Martino Binz, il procuratore dom Gabriele Maria Costa e dom Bernardo M. Montes
de Oca, già vescovo di Valencia (Venezuela) e novizio al Quercione dal 1943. Il
sacrificio delle loro vite, offerte per fedeltà al Vangelo e alla carità di
Cristo, rimane come segno e seme di pace, e il 5 settembre 2001 fu solennemente
commemorato con il conferimento della medaglia d’oro al valor civile concessa
dal Capo dello Stato. Passati quei tragici eventi, dopo varie peripezie i
certosini poterono rientrare nei mesi successivi al Quercione, dove si riprese
la regolare vita monastica. Pur avendo una lunga storia, la Certosa del
Quercione non si presenta particolarmente ricca di opere d’arte, diversamente
dalle vicine Certose monumentali di Pisa (Calci) e di Firenze (Galluzzo).
Probabilmente è stata questa sua relativa povertà artistica che le ha
consentito di rimanere in disparte dalle visite turistiche e così conservare
tra le sue mura la solitudine e il silenzio che costituiscono l’autentica
ricchezza di una Certosa, ed è in questa solitudine e in questo nascondimento
che i certosini pregano e si offrono a Dio per il mondo intero.
Il Noci diceva che non ci credeva al tesoro, però eravamo tutti e
due curiosi, una delle non poche cose che avevamo in comune, oltre al fatto che
si discorreva poco o niente e che non ci si arrabbiava mai. Come spesso succede
quello che si dice qua è un po' diverso da queste notizie trovate in internet
sui vari siti che si copiavano un po' a vicenda.
Se ne passarono le settimane, comunque, non so più quante, prima
che sulla collinetta che sovrastava il recinto della Certosa, inaspettatamente
lui tirasse fuori un binocolo e iniziò a guardare là sotto. Quando mi avvicinai
incuriosito disse:
“Guarda qui, dalla mappa ho capito che il tesoro è nascosto in
quella torretta.”
“Ma non c'ha nemmeno una finestra...”
“Infatti.”
Si decise comunque di andare a parlare con il vecchio del Mulin di
Mezzo, forse la persona più anziana del Quercione e che si era anche nascosto
nella Certosa, quando i tedeschi lo cercavano, lui e un'altra ventina. Pare che
li ammazzarono tutti dopo e che lui prima potesse parlare, che lo avevano
torturato, probabilmente aveva tradito gli altri, ma c'erano in giro voci
discordanti, come accade sempre in questi casi.
Il Cardosi viveva da solo in una casina stretta e lunga, arredata
un po' rozzamente, parte del vecchio mulino. Lui stesso non pareva molto
raffinato, di sicuro era sordomuto, però aveva degli occhi arzilli, quando vide
la mappa mugolò forte e si chiuse in un silenzio che personalmente trovai anche
preferibile da un certo punto di vista, cioè di ascolto, quello delle mie
orecchie, ma non dava altri segni di vita che indicarci la porta con gli occhi
e con la mano. Di fronte a un biglietto da cento ricominciò a mugolare più piano,
ma cogli occhi chiusi, poi quando i biglietti diventarono due aprì gli occhi e
mugolò più forte, a tre smise di gemere e ci scrisse su un foglio di carta
gialla “Io nun so nula, ma dicano che è soterato nella torreta ceca.” Per
quanto non fosse per niente chiaro, come si facesse a sotterrare un cosa in una torretta, probabilmente non di origine
boema, piuttosto sprovvista di occhi o meglio di finestre, chissà se aveva
almeno la bocca, cioè una porta. Il Cardosi non volle più dire niente, nemmeno
di fronte a quattro bigliettoni, ma i soldi se li pigliò tutti e si trasformò
di nuovo in una brutta statua a grandezza naturale alla scarsa luce bianca che
filtrava dai vetri sporchi di un'unica lontana finestra. Di buono c'era che non
poteva parlare e farci scoprire, che noi due in quella storia c'eravamo già
dentro fino al collo ed eravamo anche sotto di quattrocento euri, come li
chiamava il Noci, pur se guadagnati disonestamente, in un certo qual modo,
erano sempre duecento a testa e nessuno dei due veleggiava nella ricchezza o ci
aveva mai navigato.
A quel punto ogni minuto che passava ci faceva crescere l'ansia di
sapere. Era venale avidità oppure solo curiosità? Forse un confuso misto delle
due cose. Mia moglie ci guardava come se avesse capito tutto, ma come avrebbe
potuto? Quella donna a volte mi pareva una strega con poteri soprannaturali,
niente a che fare con l'aspetto fisico. Forse eravamo noi che non sapevamo
mentire né dissimulare, ma lei aveva uno speciale talento per leggere il
futuro, il presente e il passato, ma di quello non gliene fregava niente. Noi
due invece eravamo più romantici, ma non è mai stata una virtù troppo
apprezzata. Alla fine glielo dissi, prima che si arrabbiasse con me per
averglielo nascosto, non si sorprese per niente, anzi ci consigliò ammodino,
come mi aspettavo. Insomma: mia moglie non l'ho sposata per caso, anche se io
sono laureato e lei ha la terza media, quando c'è qualcosa di complicato
ascolto quello che dice Maria Gemmina e invariabilmente lo applico alla lettera.
Mi sono sempre trovato bene, anche perché so che la base di ogni buon rapporto
è la stima reciproca, infatti appena confessato il misfatto in corso lei disse:
“Proprio due biscarotti siete, ma che fretta avete? Se c'è un
tesoro là dentro e ha aspettato tutti questi anni, non sarà un giorno in più o
uno in meno a farvelo scappare. Il Cardosi anche se è sordomuto sa farsi
intendere e vi ha già fregato dei soldi, senza dirvi niente che non sapevate
già.”
Tacitamente il Noci si dimostrò piuttosto in disaccordo con lei,
lo arguii dalla faccia scura e dagli occhi fissi sulla televisione spenta, in
silenzio continuava a masticare il pollo arrosto, il caso volle che fosse anche
un po' più legnosetto del solito. L'avevo capito che associava l'idea della
polizia a quella della donna, secondo lui tutt'e due controllavano e frenavano
principalmente gli impulsi dei poveri maschi intorno, a partire da sua madre
fino ad arrivare alla sua unica innamorata. Aveva avuto poco a che fare con
tutte e due, sia con le donne che con la polizia, ne aveva ricavato però
esperienze assai negative e compatte.
Mia moglie Maria Gemma dal canto suo, non è mai stata di eccessive
parole, ma è sempre stato più facile ricevere da lei un vaffanculo piuttosto
che un elogio, che quelli magari qualche volta li avrà anche pensati, non dico
di no, ma se li è tenuti per sé, se mai ne abbia pronunciato uno io non ero
presente.
Passammo all'azione senza dire niente, una mattina ventosa da una
camminata nel bosco scavalcai il muro, dalla parte dove appoggiato
provvidenzialmente agli alberi quasi cadeva e senza dire una parola il Noci mi
seguì, di là non si vedeva un anima in giro. I primi duecento metri, forse più,
erano allo scoperto, poi evitando la ghiaia dei vialetti, cercando di camminare
sui bordi erbosi delle stradine, entrammo tra un edificio e l'altro, e ci
avvicinammo alla torretta che come avevamo temuto non aveva nemmeno una porta,
ma era attaccata a un muro dello stesso materiale pietroso di un palazzetto da
cui arguimmo che bisognava passare.
Come?
Non lo sapevamo.
Dopo alcune settimane il nostro rapporto, il mio con il Noci, si
fece più stretto, ci vedevamo tutti i giorni al lavoro, la sera se non ci
trovavamo per caso, anche se di vero caso non si trattava quasi mai, io andavo
da lui o lui veniva da me.
Era inverno e a casa sua c'era il caminetto sempre acceso la sera,
pure a casa mia cominciammo anche a noi a seguire questa pratica che chissà
perché avevamo perso con gli anni. I cani e i gatti sonnacchiosi su qualche
sedia o poltrona, luci spente e il fuoco che scoppiettava, le scarse parole
risuonavano nella semioscurità attorno, a casa sua ci sentivamo più loquaci, a
casa mia chi parlava era più spesso mia moglie o la televisione.
Da noi il rintocco delle ore intere e anche mezze dal campanile
della Certosa è una roba romantica che personalmente apprezzo perché risuona di
passato e la modernità l'apprezziamo poco, sia io che il Noci. A Gemma
piacerebbe anche ma non se la può permettere.
Il prossimo passo fu lui a darlo, entrò da solo di notte nella
Certosa e fece una mappa approssimativa dell'interno degli edifici aperti, poi
insieme ci tornammo e entrammo in quella che doveva essere la torre cieca. Era
piena di cianfrusaglie, sedie rotte accatastate e panche, ma da lì sotto, non
senza difficoltà scalzammo un pezzo di pavimento di pietre piatte e cemento e
subito sotto c'era la terra. Scoprimmo in seguito che in quel palazzetto stesso
i frati non mettevano piede, era come un deposito, lasciato aperto perché non
c'era niente di valore e soprattutto i monaci non rubano perché la vita lì
dentro non ha bisogno di denaro o di valori materiali.
Lo Scodinzola intanto, nel suo opuscolo bucolico, “Maremma
Campagnola”, c'invitava alla calma riflessione invernale abbinata alle castagne
e al vino nuovo, cose che a noi piacevano anche, ma quest'ultime ci provocavano
talvolta delle diarree moleste, se mai ne fossero esistite di piacevoli. La
riflessione, di per sé, secondo mia moglie Maria Gemma, era roba da polli, lei
decideva tutto di schianto e non si sbagliava mai. Noi glielo facemmo notare
che non avevamo mai visto un pollo riflettere, ma a lei non gliene fregava
niente e tirava a dritto.
Di nuovo una pausa piena di rintocchi di campanile, di giorni che
rapidamente, secondo i nostri punti di vista altalenanti, diventavano settimane
e poi mesi... intanto c'incontravamo e ci mettevamo a fare del silenzio una
conversazione, dell'osservazione - ai tanti fenomeni a disposizione - uno stile
di vita.
Il Quercione, come dice il nome stesso, è conosciuto per le sue
fitte pinete che montando sulle colline diventano piene di castagni. Ci sono
anche le querce, ma poche, qualcuna anche grande, ma più che altro dei lecci
che si perdono un po' in mezzo agli altri alberi. Il paese è composto di case,
come di solito accade, alcune vecchie, più numerose quelle nuove, in mezzo una
strada troppo larga e dritta che usano come se fosse Indianapolis, affinché a
nessuno venga in mente di uscirsene all'improvviso senza rischiare la vita.
Cani, gatti, conigli, anatre e galline non si possono più lasciare liberi da un
bel po'.
Tutti hanno il garage ma nessuno lo usa, preferiscono lasciare
tutta una fila di macchine sulla strada, affinché diventi stretta, ma questo
non gl'impedisce poi di passarci a tutta velocità. Ho notato che poi nessuno fa
manovra, vanno fino alla pizzeria e girano nella piazzetta, ma ci sono almeno
duecento metri.0
Siamo assai affezionati ai nostri cani, noi ne abbiamo tre, il
Noci cinque, ma in certe epoche è arrivato a sette, perché adotta
automaticamente i randagi che passano di qua, ma poi gliene mettono sempre
qualcuno sotto le ruote, lui è l'unico che li lascia liberi di andare e venire.
Non sempre ritornano. Non ho ancora capito se è più sprovveduto lui che li fa
andare in giro, o il mondo moderno che non garantisce più a nessuno anche una
parziale incolumità sulle strade. Intanto la scarsa libertà che abbiamo diventa
sempre più esigua.
Nel suo terreno tante piccole croci intagliate a mano fanno a
nascondino trai cespugli. Gli piacciono i nomi russi, o comunque dell'est
europeo, quindi si leggono i vari Anatoli, Igor, Ivan, Galina (che a mio parere
sarebbe più appropriato per il pollame), Dimitri, Laszlo, Irina scolpiti sui
legni lisciati perbenino e a volte anche dipinti.
Le nostre ricerche in Certosa ristagnarono per un mese o più,
finché tornammo a scavare nella torre cieca, dopo aver spostato
faticosamente tutto l'ammasso di roba
vecchia e le pietre sconnesse, cercando di fare meno rumore possibile,
lavorando esclusivamente durante le ore di preghiera dei frati.
Nei momenti meno adatti il Noci si metteva a raccontare
barzellette secondo me piuttosto tristi, che secondo lui avevano qualcosa a che
fare con la situazione, secondo me no. Alla fine non rideva neanche lui. Mi
sono sempre chiesto perché lo facesse, non mi sono ancora risposto, forse
perché aveva paura e voleva sdrammatizzare, ma mi pareva che invece
drammatizzasse ulteriormente.
Per un'altezza di due metri togliemmo tutta la terra sotto,
insomma, senza trovare che un cofanetto metallico, lavorato tutto a borchie,
che conteneva un pezzo di legno ammuffito con sopra inciso rozzamente un numero
romano: XXXVII, per gli amici 37.
Ricorremmo a mia moglie, che purtroppo o per fortuna andava sempre alla messa,
la quale non ci nascose che secondo lei sembravamo di nuovo dei coglioncelli
fuori strada. Scartato il vangelo, i cui riferimenti erano magari somiglianti
come pure leggermente differenti, per noi quasi cattolici solo attraverso amici
e conoscenti, scoprimmo sulla base di ripetuti, faticosi e forse anche
rischiosi sopralluoghi, che i quadri nelle varie cappelle erano numerati con i
numeri romani, come diceva mia moglie.
Nella chiesetta con entrata esterna alla Certosa, il Maggetto
significava piccole celebrazioni quotidiane, con il parroco del Quercione, alle
17 di ogni giorno feriale, per tutto il mese il maggio. C'entrammo dall'interno
che non era chiuso a chiave e dietro al quadro 37, detto anche XXXVII, trovammo
uno schizzo che ritraeva rozzamente una piccola cappella che avevamo visto,
passandoci accanto. A volte ci nascondevamo un attimo lì per vedere se era
apparso qualcuno in giro, sulle rive del laghetto, vicino al boschetto, sempre
dentro il recinto della Certosa. Nel disegno la cappella in questione era però
vista attraverso tre aperture, una porta e due finestre, la seconda delle quali
ad arco.
Cosa strana era che dopo vari sopralluoghi e mesi di appostamenti
non avevamo visto ancora un singolo certosino o frate laico che fosse, nemmeno
uno: solo rumori, lontani, intermedi e vicini. Poi echi di voci di preghiere
notturne e diurne dentro la chiesa interna. Sapevamo che erano rimasti in
pochi, ma dov'erano? Ogni tanto andavano a passeggiare fuori dalla Certosa e
allora li vedevamo, la maggior parte sembravano stranieri. Con un drone degli
svizzeri avevano fatto foto e dei filmati dall'alto della Certosa che avevano
messo su Youtube e poi su Facebook, ma i frati glieli avevano fatti togliere.
Pensavamo ancora a quel cadavere, nascosto da noi e non ancora
ritrovato dalla polizia, ma certo qualcun altro lo doveva aver visto. Che cosa
gli era successo? Non lo avevano per caso ammazzato? Ogni tanto qualche frase
isolata rivelava la nostra ansia di sapere, ma di cui avevamo anche paura di
essere accusati, oppure, magari, di fare la stessa fine. Il mistero era via-via
più fitto, giacché denso di niente, aperto a ogni congettura o peggio ancora a
fantasie galoppanti.
Matteuccio Scodinzola, scrittore e suo malgrado filosofo, oltre
che ruspante maremmano, diceva in tutte le salse che bisognava avere un oggi
solatio per ogni ieri o domani troppo ombroso e umido. Suggeriva che bisognava
immagazzinare le cose positive per ogni urgenza negativa, per farlo ogni
porzione di vita doveva avere soluzioni immediate, sennò si pietrifica una
routine poco efficace, niente di più facile che trasformarsi in persone automatiche e insensibili.
La vita è disciplina, privazione e rinuncia, diceva Attilio dalla
sua, ma se scegliamo chi e cosa togliere, da questa confusione di oggetti,
situazioni, animali e anche troppe persone, quello che rimane è bello, anche se
non è puro, non è di quello che abbiamo bisogno. La purezza e la perfezione
sono solo modelli teorici che sono accompagnati troppo spesso dal dolore,
perché molto raramente corrispondono alle nostre aspettative, ma chi cazzo ce
le ha ficcate in testa poi?
Messi insieme, io e il Noci un ragionamento filosofico lo sapevamo
anche articolare, ma mai niente di pratico, rigorosamente. Maria Gemma invece
era il contrario, nessun intellettualismo arido e fine a se stesso, ma tutto
immediato e con i piedi bene per terra.
Le donne, si sa, fin dagli albori dell'agricoltura svilupparono la
loro istintiva visione d'assieme, mentre l'uomo andava a caccia, loro pensavano
all'allevamento e a piantare qualcosetta di vegetale, perché lui spesso tornava
a mani vuote e con la coda tra le gambe. Stavano attorno alla capanna e
badavano ai bambini, alle bestie, all'orticello. La fame diventò sempre meno
minacciosa, grazie a loro. Non è per caso che tutt'oggi alla donna spetta un
compito a lungo termine, di calcolo generale della situazione, di regolare e
continuo controllo sull'uomo, che non vede l'ora di spendere e spargere, di
ubriacarsi e di fare baldoria, pur lasciando perdere le puttane che non è vero
che sono il mestiere più antico del mondo, magari solo il quarto o quinto.
Insomma anche la sua stessa vista, di Maria Gemma, mette a fuoco
tutta la situazione, mentre io, il cacciatore, mi vedo solo un punto davanti e
tutto attorno si sfoca. L'uomo si concentra sulla preda, ha un solo obbiettivo,
per questo fallisce sistematicamente. Noi maschi separiamo senza volerlo la
pratica dalla teoria, lì accanto invece la donna ha sempre la pratica davanti
agli occhi, ci guarda teneramente e scuote la testa perplessa, quando noi
biscarotti ci perdiamo nella teoria.
Gemma non è simpatica, tutto al contrario, non gliene frega
proprio niente di accattivarsi l'altrui gradimento, ma se e quando ne avverte
la necessità, ti prende a randellate e ti rimette sulla via del cammino, ti
allinea alla realtà e riporta la tua esistenza a qualcosa che assomigli a una
roba non dico quasi razionale, ma che ci si avvicini più possibile. Mentre lei
è calcolatrice al centesimo io e il Noci siamo approssimativi a oltranza e
legati per il collo al caso e a tutte le sue possibili ramificazioni a patto
che siano più o meno irrazionali e talvolta anche oniriche. Visto che la preda
ripetutamente ci sfugge, come il tesoro dei frati o magari quello dei tedeschi,
mentre mia moglie applica la matematica alla sua e anche alla nostra giornata
campagnola, noi discutiamo se c'è arte o no nei quadri di Rothko e ragioniamo
sul controverso sesso degli angeli, intanto passano i giorni, i mesi e gli
anni.
Tornando al Quercione e in particolare nella Certosa, dietro al
quadro c'era scritto anche qualcosa in tedesco, ma al contrario, attraverso
Gemma e Google Traduttore arrivammo alla conclusione che significava “10 metri
davanti”, ma a che cosa non lo diceva. Quindi di notte, di fronte alla
chiesetta, cominciammo ad aprire e a chiudere buche di approssimativa
profondità di due metri, rimettendo poi a posto perfino le zolle con l'erba,
senza trovare niente di niente. Dopo aver scavato tutto intorno alla chiesetta,
per una superficie larga circa venticinque metri di diametro, venimmo a sapere
che stavamo guardando il dito invece della luna.
Le operazioni erano durate un mese, alla fine stremati, pur senza
volerlo avevamo chiesto di nuovo aiuto a Gemma. Scoprimmo allora, dopo aver
subito alcune offese leggere e altre un po' più pesanti, (ma meno numerose,)
che il disegno mostrava la chiesetta, attraverso una porta di un edificio che
noi avevamo sempre visto chiusa e la finestra dall'altra parte. In combinazione, dietro ancora una finestra ad
arco di una casa diroccata e il posto giusto era oltre quella finestra, rimasta
in piedi per caso, oltre la quale ora c'era il laghetto delle carpe, ma a quel
tempo no.
Scavare nell'acqua non è facile, anche se è solo profonda un metro
o poco più. Dopo vani tentativi e notti insonni mia moglie disse che era meglio
asciugare il lago e magari mangiarsi anche le carpe, che vanno sapute cucinare,
ma lei ne era capace, ed era lì anche per questo.
Ma come? Chiedemmo noi.
L'importante era drogarle bene, spiegò lei, per nascondere il
sapore del fango, oppure metterle in purga, nell'acqua pulita... ma il Noci la
interruppe rispettosamente alzando la mano per dirle che il nostro dubbio era
riferito piuttosto a come svuotare il lago. Lei, dopo averlo apostrofato in
malo modo, avermi incluso per la proprietà transitiva a quelle stesse categorie
dai più indesiderate, spiegò che bisognava solo fare alla svelta. C'era un
fosso che portava l'acqua e uno che usciva e continuava verso valle? Bastava
chiudere il primo e aprire di più il secondo. Facile come bere un bicchier
d'acqua, o al massimo due, non più di tre.
Mentre ci progettavamo sopra, per poter riuscire a fare tutto bene
e scappare senza essere visti o sentiti, ecco che trovarono il cadavere sfatto
e da noi sotterrato alla meglio. Determinarono che era stato ucciso, forse perché
c'era ancora un pugnale lì attorno con residui di sangue attaccati. Non si
sapeva chi l'avesse ritrovato, ma il Cardosi era diventato particolarmente
ammiccante e mugolante quando lo incontravamo.
Perché noi non l'avevamo visto? Chi l'aveva pugnalato? E poi la
mappa, perché c'era stato bisogno di una mappa? Bastava sapere che bisognava
scavare nella torre cieca. O eravamo forse stati noi che l'avevamo interpretata
male?
Mia moglie rispose per filo e per segno a tutte queste domande con
aria di superiorità malcelata. Oppure sembrava pensierosa, non completamente
certa di quello che ci diceva. Non so dire se le sue frasi fossero rassicuranti
o no, ma noi non c'eravamo per niente tranquillizzati e per questo si decise di
aspettare un po'.
Oltre che un rompicoglioni intero il Noci era un mezzo filosofo, e
diceva che in natura la paura non esisteva, quella che sentivamo noi era solo
una roba indotta e in verità era piuttosto la paura della paura, o anche la
paura della paura della paura e così via ci costruivamo spesso dei copioni
pronti, prima di cominciare ad agire, anzi a volte di conseguenza non si agiva
proprio. Gli animali quella non ce l'avevano, anche se a volte vivendo a
contatto con noi l'imparavano loro malgrado e dopo stavano peggio. I cani per esempio
non avevano la concezione del tempo, non si pensavano mai addosso. Non avevano
la nostra non sempre necessaria abitudine di cercare d'indovinare sempre cosa
diavolo sarebbe avvenuto dopo.
Era il 15 di maggio, se tutto andava bene e non ci arrestavano -
perché mai avrebbero dovuto? Chiese lei - saremmo entrati di nuovo in campo in
agosto, approfittando dell'epoca più secca, anche per quel laghetto. Lei voleva
sapere dove era la mappa, ma il Noci che l'aveva in consegna non la trovava
più. Le parolacce non ci davano noia, a me al Noci, c'eravamo abituati, anche
agli abbinamenti delle divinità cristiane con dispregiativi di vario tipo e
nomi di animali. Anche se fosse una rappresentante del gentil sesso a
bestemmiare, la nostra storia personale aveva forgiato il nostro carattere
paziente, resistente e anche un po' stoico. A volte però la loro concentrazione
e insistenza ci pareva eccessiva, Gemma
diceva che se non si sfogava subito dopo era peggio, la magagne poi ci
piovevano addosso a noialtri due, come la grandine, e aveva ragione.
Chi non ha cervello abbia gambe diceva lei, io ridevo e esprimevo
l'opinione che, visto che lui zoppicava assai, avrebbe forse dovuto trovare un
altro organo più efficace da usare, il Noci ci mandava affanculo tutti e due e
anche Maria Gemma rideva di gusto ed era una cosa da segnare sul calendario.
Che cosa è che ci fa alzare la mattina e che ci tiene un po' in
sospeso costringendoci a fare i primi passi incerti invece di starcene al
calduccio tra le coperte in un infinito oblio? Si e ci chiedeva talvolta
Attilio. La necessaria sopravvivenza? L'orario di lavoro? La speranza di un
giorno migliore?
Non lo sapeva esattamente, anzi nemmeno sommariamente.
La curiosità, forse, ma di quella buona, può essere per un sogno
irrealizzabile o anche per qualcosa di estremamente pratico, ne formulava
l'ipotesi. L'importante, magari, è che non lo sappiamo ancora bene come sia, ma
sospettiamo o meglio vogliamo credere che sia qualcosa di bello, fantastichiamo
quindi su qualcosa di potenzialmente solido, su emozioni a venire, sull'aria
ancora da friggere?
Un Noci sbarbato, perciò irriconoscibile e propositivo fu quello
che il primo agosto venne a svegliarmi e a prelevarmi dopo una sommaria
colazione alle sette del mattino, per portarmi in Certosa, al lavoro per
scavare quel canaletto che avrebbe dovuto asciugare il lago. Mia moglie era
perplessa e scuoteva la testa, era un po' che non pioveva e questo non era
necessariamente un bene.
Incontrammo undici frati a passeggio, alcuni di loro erano novizi
quindi senza ancora la tonaca, e noi ci chiedemmo: ma questa non è l'ora della
preghiera? Forse ci avevano informato male? Aveva ragione mia moglie che
eravamo degli sprovveduti allo sbando?
La terra era - come spesso succede - troppo bassa per le nostre
schiene curvate, in più secca, dura e pietrosa i nostri sogni di scavatori
s'infransero ben presto sulle pale e i picconi storti, ma non ci perdemmo
d'animo. Eravamo quasi ansiosi che ci scoprissero, inconsciamente, che
apparisse finalmente un essere umano che non fossimo noi due, dentro a quel
recinto, ma non successe.
Secco il fosso di entrata, aperto e sfondato quello di uscita, un
tubo flessibile anche spillava un rivolo d'acqua nella vallata sottostante. Per
fortuna o per sfortuna il laghetto non si vedeva dalle finestre della Certosa,
né dalle celle dei frati, c'era una fila di alberi in mezzo. Non c'era bisogno
di asciugarlo totalmente, bastava arrivare a quei dieci passi o metri che
fossero e a sera c'eravamo riusciti. Avevamo rinunciato alle carpe che
nell'acqua più bassa ancora nuotavano tranquille, ma l'acqua era del colore
della terra argillosa. Per scavare noi non avevamo più forza.
Il giorno seguente iniziammo di buon'ora ad aprire buche su buche,
partendo da quella centrale più larga e fonda; neanche a dirlo niente tesoro e
le bestemmie che non sapevamo dire apertamente, dal dentro cominciavamo a
pensarle.
Alla fine ci mettemmo a pescare le carpe e ne prendemmo un bel po'
con una rete, prima di rimettere tutto com'era. Al ritorno a casa mia moglie
non lesinò in titoli dispregiativi, non tutti rivolti a noi, ma anche ai frati,
ai tedeschi e a chi cazzo fosse stato a seminare quegli indizi falsi, ma
intanto quella sera mettemmo qualcosa di concreto sotto i denti.
Il sogno di un cambiamento di vita ci aveva contagiato però
inguaribilmente e rovistammo dovunque per anni e anni, senza mai arrenderci
all'evidenza: se un tesoro ci fosse stato era nascosto bene, magari anche fuori
di lì; ma a noi non c'importava.
La manutenzione di un essere umano non sarebbe così complicata, se
quello stesso essere umano e la società che si è costruito attorno non fossero
diventati sempre più complessi e dal funzionamento progressivamente sempre più
improbabile, visto che l'intenzione fondamentale di tanti se non di tutti non è
l'integrazione e l'efficacia dell'ambiente in cui si vive, ma il vantaggio
personale, a scapito di quello degli altri.
Io e il Noci avevamo meno bisogno di soldi e conforto, rispetto
alla maggioranza delle persone, forse anche perché non guardavamo la
televisione, non avevamo grossi contatti su Facebook, Twitter e altre social
network, non avevamo proprio niente da dimostrare a nessuno. Piuttosto
condividevamo tacitamente gli infimi ma spesso piacevoli agganci alla realtà,
le centinaia di migliaia di dettagli che fanno di una giornata una roba
insospettabilmente ricca, basta avere la calma di vederli, senza doversi
nemmeno sforzare a cercare di guardarli troppo.
La sua fortuna magari era stata la prigione che lo aveva reso così
pieno di valori minimi e incrollabili, facilmente ripetibili ma che non lo
annoiavano mai. Invece io avevo imparato da chissà chi e da chissà cosa, forse
dall'esagerata indifferenza attorno a me, avevo iniziato chissà quando a fare
caso a tutto quello che mi circondava, a tagliare ogni capello in quattro e
magari poi a guardarlo, all'occorrenza, anche con il metaforico microscopio.
Non sapevo spiegare tutto, ma intanto annotavo le variazioni.
L'esistenza di una persona, ammettiamo pure di due, a volte anche
di tre, è piena di piccoli particolari ai quali normalmente non si fa caso
perché corriamo in una direzione unica e valorizziamo solo determinati oggetti
e situazioni, gli altri li buttiamo semplicemente via come quei pescatori
moderni con le grandi reti che pescano senza volerlo tanti pesci che per loro
non hanno particolare valore, se ne fregano di tutto e li ributtano in mare
morti. Questi oggetti e situazioni per noi è come se non esistessero, anzi come
se ci disturbassero, ci distogliessero dai nostri propositi fondamentali. Il
mare magari, come la vita, è troppo dispersivo e bisogna concentrarsi, ma è
meglio non esagerare. Mia moglie si concentrava su cose diverse dalle mie, per
esempio, così non ci confondevamo. C'eravamo messi insieme senza saperne il
motivo, forse perché eravamo molto diversi e magari insieme potevamo formare
una squadra alla quale non interessasse di essere la migliore, ma che avesse
piuttosto la necessaria efficacia per arrivare alla fine dei mesi a
disposizione. Sapevamo che erano tanti e tutti in fila minacciosi davanti a
noi, ma per dimenticarsene bisognava avere un meccanismo ben oliato e
funzionante su cui poter contare. Niente figli, su questo eravamo d'accordo,
sapevamo a stento badare a noi stessi e il mondo non aveva pietà.
Non si seppe mai chi fosse quell'uomo morto, ma scoprirono qualche
anno dopo, che là dentro di frati non ce ne era nemmeno uno, che non si sa a
quale scopo inscenavano perfino le loro saltuarie passeggiate, i rintocchi
della campane erano registrati, le preghiere notturne e diurne anche.
Intanto noi avevamo cominciato ad apprezzare ancora di più quel
che avevamo ed era anche quello un tesoro, nel doloroso caos generale attorno,
anche se mia moglie avrebbe preferito l'altro.
Non smettemmo mai di cercare e quella prospettiva anche un po'
idiota, di risolvere la vita sognando di avere finalmente tanti soldi, funzionò
a dovere.
Lo Scodinzola diceva che nella vita bisogna preoccuparsi poco del
domani e dell'ieri se abbiamo un sufficiente oggi, ma qui si trattava piuttosto
di una prospettiva sfuggente, di un sogno anche realizzabile che poi però non
si realizzava mai, guarda combinazione,
ma intanto ci permetteva d'ingannare noi stessi, insomma ci teneva in forma,
allenati non si sapeva ancora per cosa. Il Noci diceva che lui non se ne
intendeva ma che il paesaggio del Quercione era bellissimo e che io non ci
facevo caso perché non ero mai andato via da lì. Negli ultimi anni, con meno
campi coltivati e più alberi tagliati, il colpo d'occhio era anche più ampio e
profondo. Dal punto di vista estetico, per il turista o per il semplice
osservatore era migliorata.
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