sabato 26 aprile 2014

IL RITORNO DEL CIUCCI


 

“Siussi? Ma quale Siussi? CIUCCI! Si dice CIUCCI!”

I brasiliani avevano sempre avuto una certa difficoltà a pronunciare il suo cognome, di origine italiana e Rodolfo ci si era sempre arrabbiato, inutilmente.

Preferiva dimenticarsi che lui, come tutti i suoi compaesani di origine, non sapeva pronunciare la terminazione –ão che avrebbe dovuto essere una specie di -aun assai nasale, come nella parola pão, cioè pane, ma per tutti loro, figli di figli di immigrati italiani, inevitabilmente veniva fuori pòn.

Tutto questo non sarebbe stato un problema, né per i brasiliani e nemmeno per Rodolfo, ma a Rio Vermelho (cioè Fiume Rosso) era troppo caldo, non ci si era mai abituato, anche se praticamente non conosceva altro posto che quello. Sapeva però che dove lui era nato il clima era più fresco, che la gente era più seria, non si facevano tanti intrallazzi, e i propri superiori non erano corrotti come in Brasile. Questo almeno ai tempi in cui era partito, con la sua famiglia, per l’America Latina.

Dopo una vita passata nello stato di Rio De Janeiro, alla fine della sua onorata carriera, l’ex delegado (cioè commissario) Rodolfo Ciucci iniziò vagamente a parlare di tornare in Italia. Sì, lui diceva Italia, però intendeva Mologno, dove era nato e vissuto fino ai cinque anni di età.

Certo che la sua pensione e la liquidazione di commissario della polizia, tradotti in Euro erano una miseria, anche in Brasile bastavano appena per non morire di fame, se tutto andava bene. Sua moglie, Santinha Machado in Ciucci, non smetteva mai di ricordarglielo, come se ce ne fosse stato bisogno, ogni volta che entravano nell’argomento, ma a volte anche senza.

Rodolfo era un uomo pratico, anche se di soldi non ne aveva mai avuti, se l’era sempre cavata egregiamente... insomma, diciamo che se l’era cavata e basta. Non aveva vizi, non spendeva nemmeno quel poco che si poteva permettere, tirava fuori la mano chiusa dalla tasca e l’apriva solo per la necessaria sopravvivenza e più per gli altri che per se stesso. In Brasile, come nel resto del mondo, ma forse un po’ di più, i prezzi aumentano ogni giorno, ma gli stipendi no.

Lui in famiglia aveva sempre parlato, oltre al portoghese-brasiliano, anche la sua lingua originaria. In più aveva finito e ripetuto due volte il corso d’italiano, organizzato dal consolato, dove sua moglie ora anche faceva lenti progressi. Intanto il Ciucci leggeva quanto poteva, da Ammaniti a De Crescenzo, Cipolla, Eco, De Carlo e perfino Camilleri. Ora l’italiano lo parlava bene assai e lo capiva anche meglio, sentiva che ce l’aveva proprio nel sangue.

Fatto sta che dopo aver lottato verbalmente per settimane, con sua moglie, ma anche con i suoi figli Batista e Pedro, facendo ricorso, più spesso del solito, alla sua più peninsulare bestemmia, ci fu un’inaspettata combinazione di fatalità che cambiò le carte in tavola. La vita, come si dice in Brasile, è una scatola a sorpresa e uno se ne accorge soprattutto dopo che una grossa gli è capitata.

Terzo figlio di sua zia Clara, dopo due femmine, suo cugino Mario era emigrato in Venezuela per seguire il padre, che aveva una grande fazenda, ma lui invece era diventato ricco nell’ambito dell’edilizia. Poi era tornato anche lui da pensionato a morire in Italia, pochi anni dopo e precisamente a Fornaci, a due chilometri da Mologno. In precedenza i due figli di Mario, con le rispettive signore, erano morti schiantati in un incidente stradale di un’automobile contro una quercia, la moglie invece di cancro e forse è meglio evitare ogni commento, in questo caso. Insomma, quei due cugini non avevano avuto mai molti contatti e quei pochi da bambini.

Soprattutto negli ultimi anni, loro non sapevano né dove si trovavano, reciprocamente e rispettivamente e se, da qualche parte delle terre emerse conosciute, fossero ancora con i piedi sopra e non sotto. Ricevuta la notizia dell’eredità di Mario, però, finalmente tutti gli argomenti contrari di sua moglie e dei suoi figli caddero di colpo, si dovettero rassegnare.

“Guardate che io ci ho pensato. L’unica risposta che ho trovato è questa.”

Disse, rispondendo ad una domanda che nessuno gli aveva fatto, il commissario in pensione, il giorno prima di partire, a cena in un ristorante trai più cari, con la sua famiglia e le famiglie dei due figli:

“Mio cugino era molto attaccato a mamma Nada…”

I bambini risero divertiti.

“Sì lo so che è un nome buffo e qui in Brasile significa niente o nulla, in Italia è solo un nome, poco comune, ma esiste e non ha un significato. Va bene?

C’è anche stata una cantante livornese, degli anni 60, che cantava la famosa canzone Ma che freddo fa… ma che ve ne può fregare oggi a voi, qui a Rio Vermelho?”

I bambini tacquero, per via dello sguardo minaccioso del nonno e lui poté finire la storia che poi loro si ricordarono per sempre, perché quella era l’ultima volta che lo avrebbero visto in Brasile, ma non lo sapeva ancora nessuno.

“Mia madre e mio cugino erano molto attaccati, prima che lui partisse per il Venezuela, forse più lei a lui, che lui a lei, d'accordo, specialmente alla luce dei fatti che seguirono, o magari dovrei dire: alla luce della loro fottuta mancanza. Infatti, poi, ogni anno, quando veniva in Italia in ferie, a un certo punto smise di chiamarla, non so perché, smise di visitarla e lei si arrabbiò come una belva... insomma ci rimase male, non gliela perdonò mai e dopo non si sono incontrati che in paradiso, forse, o magari in purgatorio, o proprio all’inferno, nel caso che esistano veramente, da qualche parte, chi lo sa?

Credo che lui si sia sentito in colpa, però, in qualche maniera, ecco perché. Di quella cosa che si era accennato prima. Io lo so come vanno queste cose, un povero diavolo, una volta nella sua vita ha una debolezza o due, (a volte anche tre,) poi dovrebbe dare spiegazioni, che non gli garba per niente di concedere a chicchessia.

Insomma quel disgraziato dovrebbe riuscire ad ammettere la sua colpa, se di colpa si può parlare, ma non ci riesce e gli anni passano, inesorabili.

La gente poi ha il brutto vizio di morire, proprio quando nessuno se lo aspetta e le cose diventano impraticabili, ecco come funziona.

Per questo Mario ha scelto me per l'eredità. L’unico rimasto in vita di noi tre fratelli, figli di Nada Bertani in Ciucci.”

Il viaggio fu lungo, perché da Rio Vermelho, Santinha e Rodolfo andarono in autobus a S.Paulo, che sono quasi due ore, se non ci sono imbottigliamenti, cioè avendo fortuna assai e loro quella volta ce l’ebbero. Da lì in aereo a Buenos Aires, aspettarono due ore e mezza, poi volarono fino a Madrid, dove - dopo quattro ore e cinque minuti - ne presero un altro per Milano, lì attesero tre ore e venti e saliti sull’ultimo aeromobile, ne scesero finalmente a Pisa.

Trenta ore tra autobus, voli e attese, ma non erano ancora arrivati.

Quando si sedette sulla Fiat Uno presa a nolo, nonostante le lamentele di Santinha, volle partire subito per la destinazione finale, che doveva essere a circa un’ora da lì, ma coi numerosi, relativi e normali sbagli di strada, diventarono due e qualcosa.

L’ex commissario e sua moglie andarono subito dal notaio, cioè a Barga. Era piuttosto freddo e dal fatto che non era sudato, Rodolfo dedusse che non era per niente stanco.

Bisogna sapere che un povero essere umano in Brasile sudava 24 ore su 24, 12 mesi all’anno e dal livello di inzuppamento degli indumenti, lui aveva imparato a ricavare il corrispondente grado di stanchezza.

Non aveva mai conosciuto, nemmeno da bambino, il notaio Ivo Brucciani, quando era basso sì, ma magro, un bambino timido, che con il tempo era diventato tutto il contrario. Uomo grasso, basso e sempre rosso in faccia, amante del vino buono e delle storie raccontate la sera davanti al caminetto acceso a illuminare la stanza, e a lasciare le descrizioni del passato nella penombra più romantica.

Parlarono un bel po’ dei bei tempi andati, quando le mamme per mettere a letto i bambini gli dicevano: ora tutti al cinema Bianchi! Alludendo alle candide lenzuola che a quei tempi erano solo di quel colore.

Il notaio poi rise divertito alle storie poliziesche di Rodolfo in Brasile, lui però gli disse che là quelle erano storie piuttosto serie, anche se a raccontarle lì non lo sembravano. Brucciani allora rise anche di più. Gli era sempre piaciuto il Brasile, chissà perché, era un paese che avrebbe sempre voluto visitare: “Ma come si fa? Non si fa in tempo a fare tutto, quando mi guardo allo specchio vedo un vecchio, ma dentro di me io non mi sento proprio così… ho più energia di quando avevo vent’anni!”

Alla fine dei racconti e degli inviti reciproci, poi l’atto fu finalmente letto e le facce diventarono serie e si stabilizzarono. Il capitale era diviso in cinque parti, trai quattro figli vivi dei due figli morti di Mario e Rodolfo. La sua parte non era tantissimo, ma neanche poco, soprattutto se pensava a quanti Reais ci avrebbe preso a cambiarli.

La vita però è una scatola a sorpresa, Rodolfo lo sapeva bene, anche se spesso se ne dimenticava. La lettura delle varie voci terminò con un inaspettato scoppiettio di fuochi artificiali:

“… fa parte del lascito la casa colonica di Mologno, via di Campitello 12, con terreno circostante, stalla, i due garages, fienile, pollaio e metato con tutti gli annessi e connessi ad essa congiunti e/o contenuti.”

Il Delegado si mise a piangere, perché era nato lì e quel posto aveva un valore sentimentale immenso per lui, ma la casa era di zio Dorando, padre di Mario e fratello di sua madre Guglielmina.

Mentre sua moglie gli asciugava gli occhi con un fazzolettino e lui la scacciava con la manona, Brucciani disse che i nipoti di Mario ci tenevano, come no, ma siccome il testamentario c’era assai affezionato e sapeva che loro l’avrebbero venduta, aveva scelto di darla a lui, con la giustificata speranza che invece ci sarebbe andato ad abitare.

Poco o niente lo conosceva, ma c’aveva azzeccato in pieno.

Scesero insieme al podere, di quasi un ettaro di superficie, perché le chiavi le doveva ritirare lo stesso Brucciani da un certo Rossi, che per essere chiamato vicino era forse un po’ troppo lontano, ma era pur sempre la casa abitata più prossima a tiro.

“Lei penserà che questa mia non è una procedura proprio a termini di legge, e avrebbe ragione a farmelo notare, ma è che ogni tanto Celso va ad aprire le finestre, leva i topi dalle trappole, rimette le esche… tempo fa il vento aveva strapazzato le tegole vecchie del tetto e lui è andato su da solo e le ha sostituite.

Insomma, un brav’uomo, come pochi ce ne sono, purtroppo, visto che nessuno lo paga per il disturbo, ma lei non lo conosce?”

Le parole del notaio finirono esattamente nell’attimo in cui quello stesso brav’uomo, in carne e ossa, saltò fuori da un cespuglio, proprio davanti alla macchina, che il Ciucci dovette frenare bruscamente per non metterlo sotto. Con una vanga tra le mani robuste, sembrò a Rodolfo, per quell’attimo di plastica immobilità, la statua di cera del contadino russo ai tempi della rivoluzione bolscevica, da Madame Tussaud a Londra, che lui non c’era mai stato, ma aveva visto le fotografie.

Santinha invece si era spaventata. Sarà stato il baffo folto e spiovente, lo sguardo severo, pressoché staliniano, o la sorpresa di trovarselo davanti all’improvviso, l’agricolo utensile in mano, imbracciato come se fosse un’alabarda.

Una volta scesi dalla macchina e scambiate le regolari strette di mano, le prime impressioni e relative frasi sul tempo di quel marzo imprevedibile e burlone, (perciò un marzo piuttosto sul classico,) insomma, dopo nemmeno un minuto, Celso gli faceva già un’impressione diversa e migliore.

E Rodolfo lo conosceva, sì, anche se l’aveva visto l’ultima volta una sessantina di anni prima e ci mise qualche secondo per ricollegare il nome alla persona con gli stivali di gomma a quel bambino grasso, sempre sporco e vivacissimo che d’improvviso si ricordò assai nitidamente. Suo cugino Mario lo chiamava maialissimo, ma non era il momento di rinverdire quell’immagine remota del passato e magari - per Celso - meno divertente che per lui.

Ora aveva dei baffoni proprio fuorimoda ed era, in relazione allo spazio e al tempo, forse meno grasso; doveva avere più o meno la sua età, qualche anno meno, probabilmente.

Non volle niente per il suo lavoro e Rodolfo smise d’insistere quando Celso disse:

“No. Ve l’ho detto già prima, Rodolfo. Basta che m’invitiate ogni tanto a bere un bicchierotto, che ne so io, una fetta di salame e una di formaggio.”

“Se m’invitate anche me, mi farò carico di vettovaglie aggiuntive e di vino bono.” Si affrettò a dire Brucciani e a Rodolfo parve di capire che nessuno dei due scherzasse.

In Brasile è uno stereotipo conosciuto, si dice sempre agli amici e ai conoscenti che si farà un churrasco (grigliata o barbecue,) per invitare tutti loro, per stare un po’ insieme - che diamine - e mettere in ordine i pettegolezzi arretrati. Però poi l’ambizioso progetto - spesso annunciato ai quattro venti - regolarmente non esce dalla carta, come si dice là, e tutti sanno che quella è la normale procedura, in questo determinato tipo di situazione.

In Italia no, se si ricordava bene, promettere significava anche compiere, pur se le notizie, specialmente quelle politiche degli ultimi anni, sembravano dichiarare proprio il contrario.

Rodolfo comunque rimase gradevolmente stupito e disse:

“Con piacere, Celso, anche lei Brucciani sarà il benvenuto, dopo tutti questi anni non mi aspettavo di essere accolto così bene, tu sei sposato Celso? Hai famiglia?”

Ma Celso non rispose, dal suo sguardo e da quello del Brucciani, capì che aveva toccato un tasto dolente. Trovarono una scappatoia all’imbarazzo alzandosi di scatto per andare a vedere la casa, che in fondo erano lì principalmente per quello.

Trattavasi di edificio enorme e disabitato da parecchio tempo, l’umido era forte e diffuso, soprattutto dal lato del fiume, oltre il quale c’erano anche le Apuane, ma le pareti di pietra e il tetto, per fortuna, si trovavano in discrete condizioni.

Le cantine nascondevano ancora le enormi, vecchie botti intere. Secondo Celso si potevano fare dei mobili con quelle tavole di legno buono assai, se Rodolfo però avesse voluto metterci del vino, si potevano usare anche meglio.

“Questa zona per fare il vino non è propriamente privilegiata, ma basta guardare queste botti giganti, per capire che una volta non la pensavano affatto così. Certo, manca la forza del sole, ma del vinello leggero e onesto si può anche fare, come faceva il tu’ nonno, che tu’ padre quando andava giù a prenderlo in cantina lu’ si disperava, ma un era poi così cattivo come diceva lu’.”

“Mio padre è sempre stato un tantino esagerato.”

“Sì-sì, me lo ricordo.”Disse il Brucciani ridendo e anche Celso fece di sì con la testa, assai serio ma dentro forse sorrideva.

Poco dopo accompagnarono il notaio a casa e andarono in una pensione lì vicino, dove, dopo una cena in pizzeria, passarono la notte fra sogni di un ben determinato passato remoto, più altri di un futuro prossimo gioioso, ma un po' più incerto e sfocato.

Alle sette, il giorno dopo, erano di nuovo in piedi e a Mologno, in via di Campitello, ci arrivarono alle otto spaccate.

Le montagne a Mologno sono soprattutto intorno, il paese è costruito sul largo greto del fiume, ma chiamarlo paese è eccessivo, trattandosi di una trentina di abitazioni sparse e nemmeno tutte abitate.

Rodolfo ammirò in silenzio i muri della grande casa, fatti di pietre levigate e arrotondate dalla corrente del fiume, muri possenti a trapezio che partivano larghi da terra, per giungere un po’ meno massicci al tetto, stretti appena un metro, lassù in alto.

Il pianterreno era una cantina buia e polverosa, piena di ragnatele spesse e accumulate che dovevano avere l’età di Rodolfo o forse più. Partiva dal livello della strada, che lì faceva novanta gradi, (passando stretta-stretta tra la casa e la stalla/fienile/garage 1,) per infilarsi nel leggero pendio, man mano che saliva e diventava seminterrato. Oltre il portone alto assai, sul lato nord, per poter far entrare i barrocci che trasportavano i grossi bigongi della vendemmia, aveva solo qualche lercia e intasata presa d’aria, protetta da reti metalliche a maglia fina. I due piani di sopra erano divisi in quasi una ventina di stanze, ma separati verticalmente in due abitazioni.

Una volta i contadini abitavano in quella a nord, la più piccola, o meglio dire: la meno grande. Santinha avrebbe scelto quella, se non altro perché per loro due bastava e avanzava, costava meno a rimetterla a posto e ci voleva meno a pulirla. Brucciani non mancò di ricordare che il riscaldamento della casa non c'era, si faceva tutto con il focolare, situato in cucina-sala. Rodolfo però che nella parte sud c’era nato, non volle sentire storie.

Andarono a piedi a chiamare Celso, il quale avvisò che volendo lui c’aveva anche il telefono fisso e gli mostrò pure un cellulare uguale a quelli che c'erano anche giù a valle. Rodolfo invece no, non ce lo aveva mai avuto nemmeno in Brasile, a parte quello di servizio.

Celso portò un termos pieno di caffè e tre tazzine. Si misero a pianificare i restauri seduti sulle scale di pietra del fienile, nella quale immagazzinavano la paglia per le vacche e da un buco le nutrivano, buttandone ogni giorno una certa quantità nella mangiatoia della stalla sottostante.

Celso e Santinha parlavano dei lunghissimi dettagli, perché lei parlava un italiano abbastanza maccheronico, che l’altro in qualche modo capiva e rispondeva in gergo Garfagnino dell’alta Mediavalle, che lei intuiva o magari faceva anche un po' finta alla brasiliana.

C’è da dire che, purtroppo, in Garfagnana le C e le Q diventavano G, le T si trasformavano in D, le P erano le B… insomma le consonanti, in genere, s’indurivano. Ciucci quindi era più una specie di Giuggi, o qualcosa del genere.

I linguisti, per fortuna, dicevano che la colpa era tutta dei Celti Liguri, infatti, una pronuncia simile, era presente anche sul litorale della provincia di Lucca, poi nel territorio di Massa e Carrara, risalendo cioè verso nord, nord-ovest.

Non era però per questo che Rodolfo non riusciva a fare attenzione, la sua mente se ne andava in giro per via dei ricordi e all’accento locale non ci pensava nemmeno.

Certo, in una casa così c’era della storia, c’era passata un mucchio di gente. A vederla ora si ricordò che anche sotto la casa sud c’era un’abitazione meno ampia, prolungamento della cantina, dove stavano altri contadini. Lì di fronte c'era ancora, un po' malridotta l’ampia aia di cemento, con gli scoli laterali, dove si seccavano i fagioli, il granturco sgranato e così via.

Di questi contadini si ricordò anche le facce e l’aspetto fisico, ma non i nomi. Celso gli disse che lui si chiamava Pietro Cavani, quello di lei se lo era dimenticato, una donna molto grinzosa e cogli occhiali, sempre con un grembiule marrone impermeabile, ma era gente molto simpatica e gentile.

Poi Rodolfo si ricordò: lei si chiamava la Meri.

Figurarsi che a quel tempo che lui se ne andò in Brasile, con la sua famiglia, i contadini che vivevano nell’altra casa, lato nord, erano degli esseri abbrutiti a causa dell’alcool e che quasi non parlavano, camminavano come automi. Lui un gigante magro dal naso lungo e storto e dai capelli a cespuglio, lei una donna grassoccia dalla pelle chiara, ma dalle guance non a caso rubizze, dagli occhi sgranati, che parevano vagare nel vuoto. Il nonno era piegato in due da un’artrosi feroce, ma non smetteva mai di lavorare. Solo i due bambini parevano normali, almeno a quel tempo, chissà dove erano finiti.

E poi c’era anche Celso Rossi, che ora si era messo subito a disposizione, come se fosse stato tutti quegli anni ad aspettare il suo ritorno e che usava un italiano dalle conzonanti più dure del normale, di quella stessa parlata Garfagnina.

Con la primavera che stava quasi diventando estate, iniziarono i lavori. Per non spendere tanto bisognava avere pazienza, aveva detto Santinha, che sennò i soldi dell’eredità finivano e dopo dovevano tornare in Brasile con la coda tra le gambe, o qualcosa del genere, che una maniera di dire così esisteva anche là. Perciò sistemata alla meglio la casa a sud, a pianterreno, quella piccola dei contadini, provvisoriamente si stabilirono lì.

Prima di tutto si misero a scoperchiare e a rifare i travi del tetto, dove ce ne fosse bisogno, non erano tanti, ma la confusione che quell’operazione provocava era delle peggiori. Rodolfo vagava di qua e di là, su e giù dalle scale, perduto nel passato remoto, non era in condizioni d’influire minimamente nei piani di restauro di sua moglie.

Pur essendoci nato, quei muri, quelle finestre, quei mobili vecchi, tutta quella maniera di vivere differente dalla sua, o da quella brasiliana, gli si erano trasformati in esotici, estremamente romantici.

Tra un bicchiere di vino rosso e una fetta di biroldo o di cacio, sia Celso che l’aiutante Delfo Giuntini, un arzillo vecchietto di Casabasciana, erano diventati di famiglia.

“La signora lo sa che qui c’è da fare assai, ma basta non avere fretta.” Diceva ogni giorno Celso.

“Fretta non ne abbiamo.” Rispondeva Santinha. “Basta che riusciamo a vivere decentemente, mentre aspettiamo di essere pronti.”

“Eh sì.” Commentava distrattamente Rodolfo, che era così contento che avrebbe anche dormito fuori.

E intanto maturava idee su idee per poter lavorare, ma non troppo, solo per mantenersi, ma non proprio come un re, che tanto la regina ci era abituata.

Produrre vino fu la prima idea, la seconda un agriturismo, la terza un museo di agricoltura, che tanto la casa è grande e poi c’è anche la stalla (che lassù chiamavano capanna,) i due garage (che lassù si chiamavano rimesse) e l’altana.

La quarta era di fare tutto quanto insieme.

Santinha, Celso e Delfo cercavano di frenare l’entusiasmo di Rodolfo, ma avevano troppo da fare, i due muratori a sporcare tutto e lei dietro a pulire per quel che poteva.

Appena lo persero di vista, l’ex delegado stava già piantando uva, insieme a Dome Orsucci, una vecchia conoscenza, diventato esperto del ramo di vite, che mentre lo faceva gli mostrava come si tirava su una vigna. Nel tempo libero, poi, da solo, restaurava gli attrezzi agricoli di legno e di ferro. Si era comprato due pastori maremmani, Topo e Gigio, che abbaiavano assai, quando non c’era motivo e facevano le feste a chiunque arrivasse.

Per fare la spesa, comprare il materiale per i lavori, più altre cose di ordinaria amministrazione, era necessaria un’automobile e il Ciucci comprò una vecchia ma ben conservata Fiat Panda verdolina.

“Il vino è cosa lenta, solo per assaggiare il primo frutto delle tue fatiche ti ci vuole del tempo, le viti non si possono accellerare, no, no, ci vogliono degli anni.” Diceva Dome.

“Le idee non ci vengono mai fuori realizzate come si vorrebbe.” Si lamentava allora Rodolfo. Delfo e Santinha scuotevano malinconicamente la testa, forse anche un po’ ironicamente, allora Celso suggeriva:

“Però, se mentre aspetta di bere quel vino, ci dai una mano, noi finiamo prima e poi ci mettiamo tutti insieme a preparare il museo e l’agriturismo, intanto le viti passano i loro primi anni di rodaggio e noi non ce ne accorgiamo nemmeno.”

Rodolfo ci pensò bene, per qualche giorno, ma poi approvò e ci si mise subito con tutta la sua buona volontà. Però la schiena gli faceva male e anche la sua mente soffriva, vagava intorno senza riuscire a fissarsi su quello che stava facendo. La paiolina di cemento facilmente veniva rovesciata sulle già maltrattate scarpe altrui, i martelli cadevano dall’alto a rischio e pericolo di chi stava in basso, con la carriola sbatteva nel muretto appena murato e lo abbatteva. Insomma: ogni cosa veniva fatta nella maniera sbagliata, e rigorosamente al momento sbagliato.

Da sempre ruminava a lungo i suoi pensieri, come un attempato toro con i baffi, Rodolfo era troppo distratto, per fare un lavoro in cui il cervello si lascia spesso riposare, mentre il corpo si dà da fare. Allora il Brucciani, una sera davanti al caminetto dei Ciucci, ebbe un’idea pratica delle sue:

“La polizia qua è scarsa, eppoi li conoscono tutti e con la divisa danno troppo nell’occhio, la gente è un po’ violenta, ignorantotta, un investigatore privato è quello che ci vorrebbe e ci manca.”

Detto fatto attraverso il notaio di cui sopra, amico di avvocati dei dintorni e di varie persone facoltose, si trovarono i primi clienti.

Il primo caso fu quello dell’allevamento di trote Chiocca di Gallicano. Il posto era nascosto nel bosco e se non ci fosse stato l’ingresso e l’insegna non sarebbe stato possibile vederlo, dalla ripida strada per Verni. Rodolfo se ne appassionò subito.

La signora Isolina era una donna spiccia e robusta, aveva preso le redini dell’impresa con la morte del marito e aveva tre dipendenti che si alternavano nei tre turni di otto ore.

Lì ci voleva qualcuno 24 ore su 24, chi rimaneva di notte era guardiano, sì, ma doveva anche saper fare tutto quel che era necessario, a partire dal mangiare per i pesci fino al controllo della temperatura dell’acqua per gli avanotti, durante l’inverno.

La vedova Chiocca disse che il problemaccio era che le sparivano regolarmente trote piccole, medie e grandi, perfino gli avanotti.

“Aha!” Disse subito Rodolfo.

“In che senso?”Chiese la signora.

“Nel senso che qui si tratta della concorrenza, magari nemmeno troppo lontana.” La donna lo guardò piuttosto perplessa, ma non disse nulla.

Le grandi vasche di cemento erano state costruite sui due lati di una stretta valle, in mezzo scorreva il torrente dal quale prendevano l’acqua, gli alberi intorno erano alti e frondosi. Le trote erano di due tipi, Iridea e Salmonata. Isolina disse che di soldi non ce ne aveva, ma che avrebbe potuto pagare il suo lavoro in trote fresche da mangiare e consegnate a casa sua, per una quantità da stabilire. Gli piacevano le trote a lui e a sua moglie?

Sì, certo, anche se non le aveva mai assaggiate.

Allora lei propose che si poteva anche arrivare a una quantità di cento chili, dei due tipi di trote, da pagare in due anni, da distribuire con un massimo di due chili alla settimana, salvo debite eccezioni. Il pesce gli piaceva, perciò accettò e non volle nemmeno sapere che cosa sarebbe successo se non avesse preso i ladri. Se l’era già presa a cuore ed era contento anche di ricominciare con il suo mestiere che gli era sempre piaciuto, però visto da un punto di osservazione differente, certo meno burocratico.

La corruzione in Brasile non gli era mai andata giù, aveva sempre avuto dei superiori figli di puttana che pensavano solo a riscuotere i soldi di protezioni varie e i cittadini che andassero a farsi fottere.

Il Ciucci volle iniziare subito e, visto che partiva in quarta, la vedova Chiocca gli disse che non c’era fretta, solo la sua presenza lì scacciava i malintenzionati. Non gli era mai capitato che la vittima non avesse una smania dannata di prendere i ladri, però gli piacque.

Si mise seduto su una panca e lasciò riposare un poco la mente, con il romantico gorgoglio dell’acqua come sottofondo. A dire il vero si stava quasi addormentando, ma lo assalì improvvisamente un brivido di freddo e visto che la signora se ne era andata, si avvicinò all’inserviente di turno, Graziano Della Nina, che stava lanciando palate di miscela alle trote grandi, quelle già pronte per la vendite, gli spiegò. Graziano era un ometto silenzioso ma efficiente, secondo Isolina. Rodolfo cominciò a fargli domande a largo raggio, come si fa all’inizio, ma dopo un quarto d’ora cominciò a stringere:

“Con tutta questa enorme quantità di esemplari, divisa per tipo e grandezza, in vasche differenti, come si fa a capire che mancano trote e avanotti?”

“Io non lo so, lo chieda alla signora, a me mi pare tutto normale.”

“Ma voi fate inventari e/o avete sistemi di conteggio?”

“Finora no, almeno noi guardiani no, lei dice di sì, ma come non lo so...”

“Quindi Lei non ha notato niente di strano, in questi giorni, non lo so, qualcosa lasciato fuori posto...”

“Senta: qui ci si lavora in quattro, se si conta anche la padrona, le cose fuori posto si trovano sempre, per forza, ognuno c’ha il su’ sistema di lavoro, no?”

Il sole batteva poco in quell’avvallamento e verso le quattro di pomeriggio era già un freddaccio dannato. Andò a casa di Nanni Cuma e subito dopo da Reno Treppio, gli altri due inservienti; le risposte furono in sostanza le stesse, alle medesime domande, parola più, parola meno. Ovviamente Isolina aveva un’opinione differente e giustificata, sull’argomento, la mattina dopo gli disse:

“È chiaro, caro il mi’ Ciucci, che se io dicessi i miei sistemi di conteggio a loro perderei un vantaggio, più che altro gli faccio credere di averne, ma la verità è che non ne ho nessuno, solo che, quando una grande quantità manca, salta all’occhio.”

“Quello che è strano allora, è che loro non abbiano notato niente, non le pare?”

“Magari sì. Un lo so.”

“E poi anche che siano tutti e tre d’accordo.”

“Beh, ora che Lei me lo fa notare...”

La grande abilità da sbirro del Ciucci era che sapeva ascoltare ogni voce del coro, anche quando apparentemente stavano tutti zitti. Oppure quando erano tutti stranamente d’accordo, che se non c’è nulla di sospetto, è una cosa che non succede quasi mai, nel mondo emerso dalle acque, quello conosciuto dagli uomini e anche dalle donne.

La sera del secondo giorno, davanti alla tavola apparecchiata, sorseggiando un bicchierotto di vino bianco, assaporando le prime trote della ditta Chiocca, fatte al forno con il rosmarino e aglio, iniziò a esporre il caso a quella che lui considerava la sua squadra di collaboratori, la quale, anche se non lo sapeva, non fiatò finché lui non avesse terminato del tutto il resoconto.

“Queste trote en propio bone...” Disse allora Celso.

“Davero, caro il mi’Ciucci.” Aggiunse Delfo.

“Ma i congiurati non potrebbero essere tutti e tre i guardiani?” Chiese Santinha.

“Non è escluso, sennò mi pare strano che siano così d’accordo e non abbiano notato niente e nessuno.” Disse Rodolfo.

“E se invece avessero ragione proprio loro?” Domandò Celso.

“Cioè che non mancasse niente?” Chiese Santinha.

“Non lo so. Mi pare tutto un po’ troppo manovrato... qui qualcuno non me la conta giusta, oppure anche tutti e quattro.” Concluse Rodolfo.

Dopo due ore di conversazione, di caldarroste e di vino rosso novello, prima di chiudere ufficialmente la seduta, per andare finalmente a letto, decisero che anche Santinha sarebbe andata a vedere la situazione, a fare qualche domanda cammuffata, non avvertendo nemmeno Isolina, come semplice visitatrice e potenziale cliente di un domani prossimo. Intanto il Ciucci si dette da fare a trovare concorrenza attorno che non trovò, almeno fino a Pieve Fosciana, cioè a una ventina di chilometri da lì.

Troppo lontani?

L’allevamento in questione era il più moderno e computerizzato, gli avanotti venivano svezzati all’interno di un capannone climatizzato.

Erano disponibili sette tipi di trote differenti, che Rodolfo, prima, non sapeva nemmeno che esistessero, tra cui una trasparente della Cina, che mentre nuotavano gli si vedevano tutti gli organi interni che facevano proprio impressione, per non dire schifo.

A parte quella loro sottile antipatia, di gente che pareva lavorare con oggetti e non con piccoli, medi e grandi esseri viventi, il Ciucci non ce li vedeva proprio, quelli, a rubare le trote di un allevamento più all’antica, con molte meno possibilità e varietà di loro.

Il secondo allevamento, in ordine di distanza, invece era a Saltocchio, a più di 30 km da Gallicano.

Lontanissimo? Si chiese di nuovo.

Quella sera mangiarono più sul pesante: salsiccia in umido coi fagioli; e per bere, bevvero più sull’assai. Celso era esausto e Delfo parlava anche meno del solito, che era cosa quasi impossibile. Santinha gli spiegò che avevano fatto la gittata di cemento in cantina, quindi le idee, che erano già poche, si erano tutte sciolte nel vino di ora e nella stanchezza che c’era già prima.

Santinha, quando quei due se erano già andati a casa del Rossi, disse in portoghese che era stata all’allevamento e c’era di turno Reno Treppio.

“Mi è sembrato sospettoso, si guardava attorno in maniera strana, come se dovesse arrivare qualcuno; quando gli ho detto che volevo solo visitare l’allevamento, c’è mancato poco che mi mandasse affanculo. A tutto quello che gli ho domandato, o non mi ha risposto, o lo ha fatto telegraficamente o evasivamente.”

“È normale. O magari invece no.”

“Mi ha piantato in asso, non ci credi? Ha detto che aveva da fare.”

“Ma quando ti ha lasciato da sola, tu ne avrai approfittato, o sbaglio?”

“Da sola ma non troppo, Rodò! Non te l’ho sorpreso più volte mentre che mi spiava da lontano, in mezzo agli alberi o dalle finestre del magazzino?”

“E comunque?”

“Comunque sia una cosa l’ho notata, forse anche interessante. Non lo so.”

“E cioè?”

“C’è un viottolo nel bosco, che tra gli alberi porta in fondo alla recinzione, lì la rete è un po’ storta, c’era anche del fango attaccato, con dei fili d’erba, come se qualcuno l’avesse scalata per entrare e uscire.”

“Bravissima! Io lo sapevo che mi avresti trovato il dannato bandolo della matassa!”

Quella notte Rodolfo sognò di essere dentro a un canale, lui stesso era un pesce, lo capì dal fatto che invece delle mani e delle gambe aveva delle pinne, ma di pesci non ce ne erano altri attorno e fischiava forte anche il vento. Il vento sott’acqua?

Il sogno purtroppo non spiegò questo dettaglio, ma quando si svegliò, era tutto sudato e fuori il vento fischiava veramente.

Le cose non quadravano, né sottacqua, né sopra.

La mattina alle sette era già all’allevamento, la prima cosa che fece fu sincerarsi, con Nanni, sui turni di quei giorni. Lo chiamavano Calimero perché era scuro di pelle, per via della pubblicità degli anni 60, nella quale un pulcino nero, detto Calimero, si lavava con il detersivo AVA e diventava bianco, come tutti gli altri.

I pulcini più che bianchi sono gialli, ma la televisione a quei tempi era in bianco e nero, lui quella pubblicità non l’aveva mai vista, perché era in Brasile, dopo che Isolina gli aveva raccontato quel dettaglio se lo era fatto spiegare dal Brucciani bevendo un caffè insieme nel suo ufficio.

La rete intanto era stata sostituita, però, da palo a palo, circa quattro metri, con due pali metallici in mezzo. La stradina invece era ancora al suo posto originario. Se a farlo era stato Reno, o Nanni, non si poteva sapere, ma ora era sicuro che il colpevole era uno di loro, o almeno era un complice.

Nanni era scuro di carnagione, ma pareva anche arrabbiato, Rodolfo gli chiese della rete, ma non ne sapeva niente, e di quella stradina sotto? Nulla, neppure. Allora gli domandò se conosceva la parola omertà, e se era per caso Siciliano. Sì, ma solo di origine, per la Sicilia e solo per sentito dire, dell’omertà. I suoi erano arrivati da Cefalù molti anni prima e lui era nato proprio lì vicino, a Sommocolonia.

Ora mentre Nanni raccontava, contento di parlare di cose belle del passato, Rodolfo faceva di sì con la testa, ma invece si chiedeva perché uno che aveva accesso libero all’impianto, doveva scavalcare la rete, poi addirittura sostituirla perché nessuno se ne accorgesse. Scese sulla stradina passando da fuori, camminando in senso inverso arrivò su uno spiazzo, che era raggiungibile da un’altra strada, ma non da quella asfaltata che conduceva all’allevamento.

Poi il Ciucci considerò che naturalmente ci potevano essere altri allevamenti in formazione, non ancora aperti al pubblico. Attraverso il Brucciani, uomo ammanicato non solo con il potere costituito, venne a sapere che ce n’era uno a Ghivizzano e lo andò a visitare di nascosto.

Stavano ancora murando le vasche, su una specie di altopiano senza vegetazione, che li poteva spiare bene con il cannocchiale del Brucciani. Notò subito che di pesci lì attorno non se ne vedevano, né c’erano possibili nascondigli.

Quella sera Delfo e Celso non c’erano, magari erano troppo stanchi e poi non sapevano nemmeno più cosa dovevano fare, visto che la parte in muratura ora era finita.

Colse l’occasione per andare a casa del Brucciani Ivo che lo invitava da tempo e lui diceva sempre di no. La moglie era più grassa e più bassa di lui, che non era cosa facile, se glielo avessero detto non ci avrebbero creduto. Però era anche una cuoca con i controfiocchi. Adele, che zitta-zitta gli aveva preparato delle fottute pappardelle alla lepre, di secondo invece aveva infornato uno stinco di maiale con le patate e broccoli, che smisero tutti di parlare finché non fu spolpato l’osso e pulito il vassoio.

Essendo il notaio persona di possibilità, aveva innaffiato il tutto con un Brunello di Montalcino, che se ne erano scolati due bottiglie. Dopo le donne si ritirarono alla televisione, al normale pettegolezzo di rito, tanto per fare conoscenza e nello studio di Ivo i due si stravaccarono davanti a una bottiglia quasi piena di cognac originale francese. Pareva che se non fosse stato proprio francese non si poteva nemmeno chiamare cognac, secondo le parole del Brucciani, che per la mangiata in questione parlava piuttosto a fatica, ma zitto non ci stava lo stesso.

Mise su un CD di Andrea Bocelli e quando Rodolfo stava per addormentarsi beatamente, sulle melodiose note di Con te partirò , Ivo che se ne era accorto e aveva ricominciato, con l’aiuto del cognac e della finestra aperta, a respirare meglio, alzò il volume della voce e disse:

“La signora Isolina mi ha detto che le indagini vanno bene assai...”

“Se vanno bene non lo so, ma mi pare che quella gente là dell’allevamento non abbia tanta voglia di collaborare, a dire la verità.”

“In che senso, Ciucci?”

“Mi pare che tutti nascondano qualcosa, che mi vedano come un male, nemmeno troppo necessario, se lo vuol sapere proprio.”

“Però Lei ha iniziato da troppo poco tempo, mi scusi tanto, non pretenderà di trovare subito il colpevole!”

“A dire il vero non sto cavando un ragno dal buco, in più non posso fare a meno di notare che tutti stanno remando contro...”

“Ah.”

“Sospetti per me sono loro, tutti loro, dicendo le cose come stanno veramente.”

“Ma come?”

“Forse dovrei fare degli appostamenti notturni, ma con la mia età e il freddo che c’è...”

“Nooo, non credo proprio che sia necessario, vada con calma e le cose si incastoneranno a dovere, nel loro rispettivo posticino, dia retta a me.”

Ma ormai la calma se ne era andata via con il vino e con il cognac e Rodolfo raccontò - in pochi minuti - della rete storta e sporca, poi sostituita, del sentiero che portava a uno spiazzo di un’altra strada e del comportamento strano dei vari dipendenti, della sospetta mancanza di fretta della signora Chiocca e cose di questo genere. Ivo Brucciani iniziò a preoccuparsi anche lui e il Ciucci ne trovò strana la maniera, cominciò a credere che nella congiura ci fosse denyro anche il notaio. Rodolfo cominciò a metterlo alle strette, con domande aggressive e alzando anche il volume e il tono.

Alla fine, proprio mentre entravano le mogli nella sala-studio, richiamate dalle voci, lui stava dicendo:

“Va bene, caro il mi’ Ciucci, Lei ha vinto, Le dirò tutta la storia.”

Ma quando vide sua moglie e Santinha si bloccò.

Quelle due non capivano neanche lontanamente la situazione, ma videro che i mariti erano assai alterati e oltremodo rubizzi in faccia, si convinsero che l’alcool avesse parlato fin troppo alto, da dentro quei corpi avvinazzati e accognaccati... e bisognava correre ai ripari, cercarono di dividerli con ogni mezzo.

Arrabbiato con il mondo in generale, più in particolare con l’allevamento di trote, con il notaio e principalmente con sua moglie, il Ciucci urlante venne quasi spinto, non solo a forza di parole, dagli altri tre, nell’automobile, senza riuscire a spiegarsi o a ricevere spiegazioni.

Esposta la situazione alla moglie, persero la strada più volte e quando finirono la benzina se ne andarono a casa a piedi. Non avendo il telefono, né il cellulare, alle nove di mattina, quando Rodolfo stava finalmente per addormentarsi, si vide arrivare Ivo e Isolina.

Santinha implorò ai due di andarsene, che suo marito stava finalmente dormendo, ma il Ciucci invece oramai era sveglio e arrivò in cucina coperto alla meglio da un accappatoio a righe, con i capelli ritti e gli occhi spiritati. I due ospiti ebbero grosse difficoltà a iniziare a parlare, visto che l’uomo aveva un diavolo per capello e anche se quelli erano pochi, erano piuttosto agitati.

Santinha cerco di rabbonire il marito e servì caffè e biscotti fatti in casa, mentre Isolina entrò subito nel vivo del discorso. Rodolfo era stato assoldato per sviare i sospetti della finanza, che aveva motivo di credere che loro vendessero trote e avanotti senza fattura. Prima di lui avevano chiamato la polizia, che naturalmente non aveva scoperto niente.

Intanto la Finanza, operando su denuncia dei concorrenti di Pieve Fosciana, nella persona di Marco Destro Piccionis, proprietario unico, aveva insistito, sicura del fatto suo, notando che le quantità delle trote si erano assottigliate negli ultimi tempi.

Invece di calmarsi il Ciucci si arrabbiava sempre di più e non smetteva di domandare se quei sospetti erano giustificati dai fatti avvenuti o no e brontolava a denti stretti che se ne era venuto via dal Brasile proprio per quel motivo.

“Ma le trote piccole medie e gli avanotti a chi le vendete?”

“Agli altri allevamenti, nello spiazzo qui sotto, ma senza fattura, anche a loro gli va bene.” Spiegò Isolina.

Ivo disse che lui, in buona sostanza, era stato contattato e messo a capo delle indagini, non perché scoprisse qualcosa, anzi, ma solo per calmare la Finanza. Era proprio quello che non gli doveva dire, il Ciucci andò su tutte le furie:

“Cioè, fatemi capire, io mi dovrei calmare, ora, dopo che mi avete detto che confidavate nella mia incapacità e quindi non avete nemmeno pensato di avvisarmi?”

Allora provarono a parlargli della crisi, che se pagavano le tasse non avrebbero avuto possibilità di andare avanti e siccome quelli dell’allevamento Destro Piccionis a lui gli garbavano ancora meno, si mise il cuore in pace, quando capì che il solito governo ladro era il maggior responsabile, per cui migliaia di ditte negli ultimi anni avevano chiuso.

La signora Isolina gli promise di pagare il pattuito in trote fresche e consegnate a casa, bastava che le sue false, ma insistite indagini durassero ancora una settimana o meglio due, tanto per fare scena. Gli giurarono solennemente che appena usciti dalla crisi si sarebbero di nuovo messi in regola.

Alla fine del caffè e dei dolcetti di Santinha, il Brucciani mise la sua ciliegina sulla torta, spiegando la situazione precaria delle imprese italiane e tirò fuori una cartellina piena di ritagli di giornale. Gliene mostrò uno in particolare, articolo di un certo economista americano, Milton Friedman:

“Il mercato nero, Napoli, e l’evasione fiscale hanno salvato il vostro Paese, sottraendo ingenti capitali al controllo delle burocrazie statali. E per questo io ho più fiducia nell’Italia di quel che si possa avere dalle statistiche, che sono pessimiste.

Il vostro mercato nero è un modello di efficienza.

Il governo un modello di inefficienza.

In certe situazioni un evasore è un patriota.

Ci sono tasse immorali.

Non facciamo moralismi, un conto è rubare o uccidere, un conto evadere le tasse.

Lei ha mai conosciuto qualcuno che obietta al contrabbando, se non semplicemente per il pericolo di venir catturato?”.

Dalla viva voce di Friedman il suo credo, come condensato nel celebre volume, scritto con Anna Schwartz sulla storia della politica monetaria americana e come tramandato agli allievi: il Welfare State offende i valori antichi dell’umanesimo, argomentava già nel 1962 “Capitalism and Freedom”, scritto con la moglie Rose...

Che quelle cose le avesse dette un americano non gli garbò tanto, quello schifo di sistema economico lo avevano inventato proprio loro e portato alla maturazione di quegli anni che non aveva ancora aggettivi calzanti. Però erano cose giuste, le pensava anche lui e stava ancora dalla parte di Isolina, pur se ora in maniera diversa.

Nei giorni a seguire le sue indagini consistettero più che altro nel chiacchierare con i guardiani e nell’ammirare la natura circostante, ascoltare il rumore dell’acqua e sonnecchiare sulla panchina.

Il suo primo caso in Italia era stato molto diverso da tutti gli altri in Brasile, non sapeva se si poteva dichiarare risolto, ma quella non era la cosa più importante. Essendo un commissario in pensione, Rodolfo poté avere il trasferimento del suo porto d’armi brasiliano, ottenuto grazie a Brucciani e ai suoi fili lunghi, ai figli corti e grassocci come lui, e influenti. Santinha intanto era riuscita a trasferire la loro abitazione nella casa nord, che poi era stata la sua prima intenzione. Quasi tutte le sere la compagnia di Celso e Delfo era di complemento e anche il Brucciani interveniva spesso, a volte portava anche la moglie Adele, se veniva a pranzo anche il cane Pio XII° .

Ogni tanto il Ciucci pensava se non era il caso di mettere su anche lui un vivaio di trote, nell’ambito del suo agriturismo-museo-vinicola e tutto quello che avrebbe potuto. Magari una multiazienda a 360 gradi che magari non sarebbe mai esistita, ma sognare non costava niente ed era, insieme alla religione, inspiegabilmente considerata un’attività esentasse, ma non si sapeva ancora per quanto.

 

 


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