sabato 21 gennaio 2012

CHI HA PERSO IL TRENO E PERCHÉ



La Liguria è montagna che si precipita nel mare, è piena di gallerie.
Qua il treno è la migliore opzione, le strade sono strette e ci si passa male, poi c’è poco spazio per posteggiare.
Io e Lele prendevamo sempre il locale delle 7 e 21 insieme; la sera, al ritorno, quello delle 17 e 53.
Il cantiere navale dove lavoravamo era vicino a Genova, il nostro percorso durava circa quaranta minuti.


Lele aveva un carattere difficilotto assai, quando qualcosa non gli funzionava, nel giro di pochi secondi diventava furioso, i suoi gesti convulsi.
Anche le sue parole, liberatesi di schianto dalla struttura della frase, rifiutavano di rientrarvi, a volte per una mezz’ora o più.
Dopo, mentre si stava ripigliando, diceva sempre quella frase assurda, secondo la quale ‘doveva ritrovare la sua calma’.
Magari l’aveva persa prima che lo avessi conosciuto, da bambino.

Una mattina d’inverno sono arrivato alla stazione e lui non c’era.
Era sparito, senza dire niente a nessuno, senza portare via le sue cose.
A quel tempo si è pensato addirittura che potesse essere morto.

Quasi quindici anni dopo non è apparso, sorridente, nel bel mezzo del Mauro Costacurta Show?
Mi trovavo al bar Luigi, nella piazzetta della stazione, intorno a me avventori occupati ad alzare il gomito.
Ogni tanto qualcuno alzava anche gli occhi verso la televisione, forse attratti dal rumore, ma non so se se la vedevano, o come.
Lele ora fa parte della Lista Cavalletta, parla di grandi cambiamenti in Italia, di imminenti e notevoli rinascite sociali concatenate.
Insomma di cose che a Bencivenga, in vita sua, nessuno aveva mai sentito menzionare, né da lui né da nessun altro... e Lele escluse le imprecazioni e le bestemmie non aveva mai parlato molto.
Non ci potevamo credere che quello là fosse proprio lui, ma il nome era rimasto uguale e la faccia anche.

Bencivenga è un paesotto tagliato in due dalle rotaie del treno, la stazione è un casottino scrostato che se non ci fosse scritto nessuno capirebbe cosa è.
L’inverno qua è mortalmente noioso, per fortuna l’estate è più allegra e luminosa.
Facile figurarsi che la venuta di Lele Pittaluga sarebbe stata l’evento di tutta la storia bencivenghese di tutti i tempi.
L’hanno perfino imbiancata, la stazione, che se ora arriva un forestiero, lo capisce subito che è proprio di lì che, volendo, si potrebbe prendere perfino un treno.
Anche se la maggior parte non ci si ferma, a Bencivenga e fa bene.

Lele è sceso dal diretto proveniente da Torino salutando, tutti gli abitanti con le gambe erano lì e qualcuno pure in carrozzella.
In prima fila, io ridevo e piangevo, pensavo che non mi avrebbe nemmeno riconosciuto.
Invece no: mi ha abbracciato e baciato, mi ha riabbracciato e ribaciato.
Automaticamente mi ha trasformato nel secondo personaggio più importante nei secoli dei secoli della storia di Bencivenga.
Lele mi ha chiesto che lo accompagnassi all’Albergo del Porto, anche se a Bencivenga il porto non c’è mai stato, l’albergo c’è e da parecchi anni.
Al telefono mia moglie Clara mi ha minacciato da più punti di vista, che ha insistito per espormi dettagliatamente, senza risparmio di aggettivi.
Invano però.

In albergo, Lele ha fatto una doccia e mentre si rivestiva, mi ha detto:
“Non è che ti stai chiedendo che cosa ho fatto per tutti questi anni?”
Anche volendo non avrei potuto negarlo.
Mi ha dato un libretto dalla copertina assai colorata, tipo carta da parati, di un centinaio di pagine.
“Qui c’è tutta ‘la storia del treno’, ci sei dentro anche tu. Te lo regalo.”
Il titolo non era sulla copertina, ma solo alla seconda pagina.
‘Chi ha perso il treno e perché’.
“Bel titolo, neh?
Lo so che cosa si aspettano, che dica cosa si deve fare per avere successo.
La gente di qua ci troverà dentro anche il proprio nome, saranno tutti contenti, finché vedranno cosa ho da dire su di loro.
Che ironia, il primo ed ultimo libro che avranno avuto l’impulso di leggere...”
“Non è che potresti anticiparmi qualcosa?”
“No, non ne ho nessunissima voglia, per me è stato come partorire un’incudine.
Però è anche bene che non me ne dimentichi tanto facilmente.
Anche tu un libro ogni tanto potresti anche leggertelo, non ti farebbe mica male, scusa se to lo dico.
E ora, se permetti, avrei una certa fame.”

Per strada la gente lo fermava e ci voleva parlare, lui con grande pazienza dava quel poco di attenzione a tutti, anche a un ometto piuttosto puzzolente, chiamato Barbanera, che ai suoi tempi non c’era ancora e che lo ha tenuto per un bel po’ per un braccio per non farselo scappare.
Lo aveva scambiato per un presentatore della televisione, ha detto che la gente famosa ha uno sguardo differente dagli altri, dalla gente comune.

Da Pio il caso poi ha voluto che un cameriere abbia rovesciato, sui pantaloni di Lele, un Cacciucco bollente.
Ho cercato la proverbiale ira nei suoi occhi, ma ci ho trovato solo pena per il cameriere, che non smetteva più di scusarsi.
Poi Lele mi ha raccontato che in uno dei primi giorni di lavoro, in Germania, dopo una settimana senza toccare alcool, le mani gli tremavano tanto che aveva rovesciato due piatti di spaghetti alla carbonara sullo stesso cliente, nel giro di dieci minuti.

La mattina seguente, nonostante le robuste e articolate proteste di mia moglie, ho fatto colazione e ho pranzato con Lele, in albergo.
Alle due e mezzo c’era il discorso in piazza della stazione.
C’era gente anche dei paesi vicini: Maruega, Barnacco e Larana.
Il suo discorso è stato breve e di una semplicità un po’ rude, che ha lasciato la gente a bocca aperta.
Ha iniziato e concluso con lo stesso concetto:
“Il vero figlio di puttana, con i tempi che corrono, è la persona onesta, nessuno se lo aspetta più.
Disorienta un po’ tutti.”
La rumorosa approvazione della folla non gli piaceva, tendeva ad alzare subito le mani e a far tacere gli applausi con i facili entusiasmi.
Mezz’ora dopo ha preso il treno per Nervi.

Appena arrivato a casa, sul sottofondo di mia moglie che brontolava, (snocciolando tutto il suo repertorio, che tanto io conoscevo già,) mi sono messo a leggere subito il libro.

A tanta gente è andato di traverso, sono stati costretti a leggerlo e a farselo spiegare da chi lo aveva capito.
Poi a negare fermamente che quelle robe là fossero la realtà storica.

All’inizio Lele afferma che la vita è come un treno, in posti come Bencivenga passa raramente e spesso non ci si ferma nemmeno.
Ma chi lo perde, il treno, che poi sarebbe l’occasione di cambiare, dopo langue fino alla prossima, se ci sarà.
Figurarsi che nel frattempo si potrebbe anche perdere l’idea stessa di treno, o di possibilità positiva, di riuscire a farcela, insomma.

 “Quella notte dopo il solito fiasco di vino rosso, il mio stato era stato ulteriormente aggravato da grappette e caffè corretti.
Mi trovai a barcollare davanti alla stazione, nella piazzetta deserta.
Un balordo che vendeva pasticchine infernali mi abbordò e ne comprai due.
Non ne avevo mai provate, avevo sempre disprezzato le droghe quanto i drogati, non rendendomi conto che l’alcool, anche se permesso dalla legge, era la stessa cosa.
Stranamente avevo un po’ di soldi in tasca, vidi un treno fermo alla stazione e ci salii.
Mi sparai le due pasticche, a quei tempi chiamate ‘pantere rosa’.
Gli effetti furono consumati in mezzo a vomito e incubi vari, trai quali presi sonno e mi risvegliai più volte, ricordo vagamente di aver fatto il biglietto col controllore, certo pagando anche la multa.
Il tatatttatà normale del treno mi pareva amplificato, tanto forte che sembrava che le carrozze si sarebbero sfasciate da un momento all’altro, ogni galleria era un tuffo nel passato scuro dell’umanità, il fiuuuuuu era un fischio tipo effetto speciale di una musica di Ennio Morricone...
Quell’uomo in divisa aveva una faccia enorme che mi accusava, ma non capivo le sue parole.
Non so quanto tempo dopo, né se e come avevo cambiato treno, ma mi trovai sulla riva di un fiume, sotto una cittadina che mi pareva di riconoscere, perché c’era un trenino colorato che saliva verso la cima della montagna lì sopra, girandoci intorno.
Chissà come, ero arrivato a Wüppertal, dove avevo vissuto e lavorato con mio padre, da adolescente.
Ricordai che c’era una famiglia biellese amica della mia, che gestiva insieme ad una altra famiglia, il ristorante Biella & Pistone all’uscita dalla città, ritrovo di camionisti.
Mi chiesi se stavano ancora là.
Non solo c’erano, ma pareva quasi che mi stessero aspettando.
Berto Pistone, il socio di Mauro Pellegrinotti, amico della mia famiglia, era sposato con una tedesca.
La figlia maggiore, Leni, era biondissima e calma, la ragazza più dolce che avevo mai conosciuto, che mi perdonò da subito di essere com’ero.
Lavorare come cameriere, all’inizio, mi parve massacrante, ma m’impediva di bere, perché servivo ai tavoli, a pranzo e a cena, tutti i giorni.
L’uomo ha la tendenza di reagire con esagerazione alle cose che gli vanno storte: la donna ci può veramente salvare da noi stessi.”






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