Credevo che fosse morto da tempo, invece no, proprio stamattina l’ho incontrato in un supermercato di Trieste.
Faceva la spesa con sua moglie, molto più giovane di lui, una cameriera croata rossa di capelli, grassoccia e bianchissima di pelle, che parla poco l’italiano, ma, quando lo fa, non si capisce cosa dice.
Gastone ora abita qua, già da due anni, ha messo su un ristorante tutto suo, finalmente, ‘niente soci trai coglioni’.
È spaventosamente uguale a quando lo conobbi, quasi venti anni fa, solo che ora i suoi capelli sono tutti bianchi, allora sembrava un sessantenne, ma aveva meno di cinquant’anni, quindi ora deve averne quasi settanta.
Abbiamo parlato di quei bei tempi ormai lontani e per quei cinque minuti non ha mai riso, è normale, ma nemmeno fumato nessuna sigaretta, che abbia smesso?
Glielo ho domandato, ma ha cambiato discorso, come al solito, non risponde mai direttamente a una domanda.
Ho colto l’occasione per ringraziarlo di tutto quello che mi ha insegnato, lui ha brontolato qualcosa per schivarsi da quell’elogio che non si aspettava e forse non capiva e mi ha chiesto al volo in quale ristorante io attualmente lavorassi.
Non ho voluto deluderlo, non gli ho detto che, proprio da quei tempi ormai remoti, io non ho più lavorato in un ristorante, che il mio sogno non è mai stato e mai sarà avere un ristorante di mia proprietà.
Ho cambiato discorso, io stavolta, ho spostato di nuovo il baricentro della nostra rapida conversazione coi carrelli davanti su di lui, sulle cose che mi aveva insegnato durante quei pochi mesi.
Non ho detto bugie: la mia vita dal punto di vista lavorativo, forse anche da quello filosofico, partì col piede giusto, esattamente dal momento in cui lo conobbi.
Sì, sì, tutto iniziato dalla poderosa lezione che mi aveva dato lui, grande Gittì... e poi come doveva essere accogliente e come si doveva mangiare bene nel suo ristorante, l’avrei visitato con piacere e curiosità e così via.
Mi ha dato il biglietto da visita coloratissimo, pieno di disegnini tra cui, dietro, la mappa per arrivarci.
In più mi ha spiegato anche a parole come si faceva per trovarlo.
Non è facile, è l’unica cosa che ho capito, magari per caso nessuno ci riesce, bisogna essere assai determinati e quando si parte da casa certo non si può avere già fame.
Si chiama Tarantella e a quanto ho capito è nascosto dietro un centro commerciale, proprio vicino ad un ipermercato che però non gli porta molti clienti, almeno per ora.
Avrei voluto spiegargli la mia filosofia, che parte proprio dal tempo e dal suo corretto uso.
Nella vita tutti vogliono vederti lavorare, proprio non sopportano la tua eventuale eppur provvisoria inattività e se fosse lavorare per loro, pretendono anche di pagarti il meno possibile.
Secondo me, invece, bisogna imparare a gestire il nostro tempo come la cosa più preziosa che abbiamo, sennò ti mettono sotto schiavitù costante, ti piazzano sotto il giogo, come un mulo.
Tutto ciò che ci circonda ci fa sentire stupide bestie da soma e allo stesso tempo ci incita a fare sempre di più.
Ho pensato però che per dirgli queste cose è troppo tardi, che magari lo sarebbe stato anche vent’anni fa e comunque a quel tempo io non ne avevo ancora idea, anzi, involontariamente, fu proprio lui a farmelo capire.
E poi come si fa a dire a uno che ha appena coronato il suo sogno di sempre, che in realtà quella è una tra le tante possibilità che aveva, che la sua vita avrebbe potuto anche essere diversa, e, chi lo sa, magari pure assai meno stressante, che ne so, perché non un po’ più gratificante?
Dopo esserci salutati, mentre continuavo a fare la spesa, la mia mente se n’è andata a zonzo trai ricordi di quegli anni, partendo proprio dalle vacanze sul lago di Garda del 1981.
Non ci avevo mai pensato, ma proprio oggi, improvvisamente, ho capito che cosa manca a Gastone per essere una persona un po’ più libera: la cognizione del tempo.
Diamine, se avesse saputo manovrare meglio il tempo che aveva, non sarebbe stato così abbrutito, se solo avesse capito a che cosa serviva, il tempo, ma nessuno glielo ha mai insegnato e lui certo, per tutti i suoi affannosi settanta anni, di conseguenza, ha fatto di tutto per non preoccuparsene.
Sì. Gastone ha strizzato il tempo per tutta una vita, gli ha fatto violenza, lo ha considerato poco e distrattamente, senza dargli la giusta importanza, senza capire che poi avrebbe ricevuto subito il corrispondente trattamento, giorno per giorno, già all’interno della sua massacrante routine.
Beh, tornando a quello storico agosto dell’81, subito qualche mese prima, avevo finito la scuola alberghiera.
Durante quelle vacanze, tra le prime senza i miei genitori, mi era proprio piaciuto il lago di Garda, mi aveva ispirato chissà cosa, chissà come, insomma non avrei voluto andarmene da lì.
Ricordo che pensai che di tornare a casa, a Feltre, non ne avevo proprio voglia, perciò risposi a questo bizzarro annuncio e la mia vita già stava cambiando, anche se io naturalmente non lo sapevo:
“Cercansi cameriere-barista, ventenne o giù di lì, giovane e dinamitico, di padella facile e spugna insaponata, pizzaiuolo anzichenò, nonché ragioniere. Stipendio in laute lire italiane: Antica Locanda Spazio-Tempo, via del Lago 12, Malcesine, Verona.”
L’uomo con le lenti degli occhiali sporche, alla Locanda, mi fece accomodare con un cenno insieme a lui in un separè vicino alla cucina, con sopra un grazioso cartellino dorato di plastica che pendeva da una catenella, la scritta bilingue in antichi caratteri gotici: tavolo del personale\ stammtisch.
Il signore in questione era per me un’ancora imprecisata figura mitologica con sigaretta bagnata in bocca, che evidentemente prendeva molto sul serio il suo lavoro.
Parlava con me, ma non mi vedeva, pensava ad altro, con gli occhi semichiusi per via del fumo insistente, di rinterzo faceva i conti, gridava ai camerieri che passavano istruzioni e improperi, correva via ogni due minuti dal tavolo per fare un’infinità di cose, alcune delle quali capii solo in seguito, altre mai completamente.
Ogni volta che ritornava si accendeva una nuova sigaretta, anche se quella vecchia non era ancora finita e giaceva fumandosi da sola sul bordo di un enorme portacenere che sembrava un campo di battaglia.
Era agosto inoltrato e per fare la stagione estiva era un po’ troppo tardi. Nessun altro si era presentato e perciò cominciai a lavorare quella sera stessa.
Mi spiegò subito che lui era Gittì e per qualsiasi cosa là dentro e perfino fuori, mi sarei potuto rivolgere a lui.
Incoraggiato da questa sua confortante dichiarazione di onnipotenza, gli raccontai un po’ di me e, anche se non mi ascoltava, pensai che in generale avesse capito di che cosa parlavo.
Infatti mi ricambiò dicendo, tra una boccata e l’altra di fumo, tra una mitragliata di cifre e l’altra sulla calcolatrice, che lui invece viveva con la sua compagna, pure lei toscana, di origine, come me: tale Abbondanza Pierini che a sua volta lavorava in un hotel e faceva i turni.
Poi, quando gli dissi che cercavo anche una sistemazione a livello di alloggio, mi riferì che, se volevo, poteva affittarmi una camera, aveva giusto un appartamento troppo grande e loro ci dormivano e basta, avevano troppo da fare.
Era lì vicino, siamo andati a vederlo, era al primo piano di un palazzo di tre.
Risultò piuttosto angusto, al contrario delle sue parole, con un supplementare puzzo di fumo di sigarette che si asfissiava.
Il prezzo era la metà del mio stipendio, però ottenni il permesso di aprire le finestre quando volevo.
La camera degli ospiti era libera e lui felice di subaffittarmela che non c’aveva mai una lira in tasca, secondo le sue stesse parole, ma comprava tutto quello che gli sfilava davanti agli occhi.
Invece la sua amata Abbondanza Pierini era peggio, purtroppo, non ci si poteva fare niente. Pazienza.
“La nostra fottuta fortuna, di noi gente che lavora in gastronomia, tienila bene a mente, è questa: non abbiamo tempo di spendere i soldi. E allora li possiamo mettere in banca...”
La grassa risata che faceva dopo questa frase ricorrente, era amara e diabolica allo stesso tempo, ma aveva poco, pochissimo di allegro.
Lo spazio orizzontale dell’appartamentino era esiguo e in tutto dovevano essere a stento una trentina di metri quadrati, in verticale i soffitti invece si presentavano altissimi.
I muri erano larghi, di pietra, una casone antico.
Oltre alle due camerette c’era il cucinino, un bagnetto e la saletta, che poi era un incrocio tra un corridoio e uno sgabuzzino con tre porte di accesso, sempre aperte che sennò si soffocava.
Di lì c’era anche una bella vista sul lago, da una delle due piccole finestre, me la fece notare girato dalla parte opposta, mentre col respiro corto scovava e asportava a colpi di scopa una ragnatela vista nel riflesso dei vetri.
Gastone Tarantino, in arte ristorativa Gittì, mi confessò subito, scendendo le scale, quasi a malincuore, di essere uno che ci sapeva fare.
Vale a dire: un martello pneumatico con le donne, un autentico duro cogli uomini e nelle situazioni scabrose della vita un freddo quanto efficiente calcolatore.
Tra le prime cose, di cui correttamente mi informò, c’era il fatto, secondo lui di fondamentale importanza, di essere il fortunato possessore di un poderoso organo sessuale… insomma una minchia di ventotto centimetri.
C’è da dire, lateralmente, che Gittì russava come pochi altri esseri umani.
Pare che gli animali non russino, almeno in condizioni di normalità, ma si potrebbe dire che Gastone russasse come un porco sgozzato.
O sennò, magari, sarebbe più calzante paragonarlo ad un trattore asmatico, giacché cambiava spesso marcia e ritmo, aveva creatività e alveoli putrescenti a sufficienza, sparandosi le sue abbondanti quaranta sigarette Camel di media al giorno.
Certo, senza contare quelle che abbandonava nei portaceneri, sui davanzali, nei piatti sporchi, sui muretti e su ogni tipo di corpo tridimensionale del circondario.
Inconsciamente era sempre assai determinato nell’intento di appestare l’aria altrui, aria che anche lui, però, sempre più malamente rifiltrava, di propri e autonomi polmonacci stanchi.
Secondo un mio approssimativo calcolo, le sigarette passive ammontavano più o meno alle supplementari venti giornaliere, cioè un terzo pacchetto ad incidere sulle sue spese e respirazioni limitrofe.
Gastone naturalmente era anche un favoloso direttore orchestrale principiante di radio sveglia, le quali ci provocavano incubi sudati a tutte le ore della notte, ci facevano saltare dalla sedia a tutte le ore del giorno, se disgraziatamente eravamo in casa e a volte anche due allo stesso tempo, o quasi sincronizzate, canzoni però rigorosamente differenti, in alcuni casi anche voci di personaggi politici o telecronisti di calcio.
Assolutamente però non attaccavano mai la mattina, quando lui avrebbe dovuto svegliarsi, o per meglio dire noi.
Ne aveva una decina, ammonticchiate sul comodino, tutte connesse ad una chilometrica ‘ciabatta’ bianca sotto il letto.
Sua pratica giornaliera era studiarsi perbene le istruzioni, lette ad alta voce per fare un migliore effetto e provocare le altrui proteste, provarne e riprovarne (invano) i funzionamenti, sussurrargli o sibilargli contro coloriti bestemmioni.
Non mi chiese mai un aiuto, un consiglio, un parere, nulla di niente.
Non che ne capissi qualcosa, intendiamoci, però lui ne capiva meno di me, era evidente, o probabilmente meno di qualsiasi altro essere umano o disumano che fosse.
Il fatto è che, in alcune determinate cose, Gittì era un uomo orgoglioso e riservato.
Quella era evidentemente una battaglia che faceva parte di una sua guerra personale, tra loro (maledette) e lui, un epico conflitto bellico che era iniziato certo assai prima del mio arrivo sul lago di Garda, che in ogni caso si sarebbe perso nella notte dei tempi del futuro.
Mio padre ha una teoria, secondo la quale Gittì era fermamente convinto che fossero proprio quelle innocenti e disgraziatissime radiosveglia che funzionavano male.
Proprio per questo, a corroborare efficientemente l’ipotesi del mio genitore, Gastone ne comprava sempre di nuove, via-via più complicate, con decine di pagine di incomprensibili istruzioni.
Inspiegabilmente per lui, il risultato non migliorava, anzi, se niente c’è, peggiorava.
Più erano gli apparecchi affastellati sul comodino, (di lato, sopra e sotto portaceneri ricolmi di cicche e ceneri antiche,) più la nostra vita veniva invasa di frequente da quell’irrazionale ma, a suo modo assai prevedibile, inquinamento sonoro.
Fatto sta che la mattina presto ce ne stavamo tranquilli a letto ed arrivavamo puntualmente in ritardo al lavoro.
Non incontrai mai la fantomatica compagna di Gittì, tale Abbondanza Pierini, la quale, se faceva i turni in hotel, forse arrivava quando io non c’ero e usciva prima che rientrassi.
Non vedevo mai la sua roba stesa ad asciugare, certo se la lavava al lavoro, era più pratico.
Mutandoni beige di Gittì invece sventolavano numerosi, tutti i santi giorni, su un doppio filo montato su due carrucole, da finestra a finestra e pure decine di calzini rigorosamente uguali, neri, di cotone.
Naturalmente ero curioso di vedere se era grassa o magra, quest’Abbondanza, ma tutti gli indizi possibili, per il momento, erano purtroppo occulti.
L’Antica Locanda Spazio-Tempo era un castello in miniatura, sulla riva del lago, fatto di grosse pietre squadrate, coi merli a due punte e con imitazioni di antiche e sgargianti bandiere issate a rotazione, tre al giorno, perché le torri erano tre.
Dentro era una specie di museo di armature, alabarde, archibugi, spadoni, stemmi, scudi, mappe antiche e quadri di battaglie famose.
Non ho mai capito se ci si mangiava bene o male, il menù del personale di servizio era di tutt’altro tipo, bestialmente piccante e di stampo sudista, se non proprio crotonese certo fin troppo calabrese.
Al pubblico invece il sensazionalismo che si faceva sui cibi naturali, (sulle ricette originali prima dell’avvento dei conservanti,) faceva un certo effetto, specie ai tedeschi che erano praticamente tutti i turisti in giro, a Malcesine.
La divisa dei camerieri era proprio una sciccheria: un costume tradizionale nero, rosso e bianco di quell’epoca che non si sa bene quale, di quel luogo misterioso che doveva essere stato certo da qualche parte in Europa, o colonie dipendenti, verso la fine del medioevo o all’inizio del rinascimento… insomma nel passato.
Mio padre ha una teoria, secondo la quale si devono accuratamente evitare tutti i ristoranti che espongano fuori una sagoma di compensato raffigurante un cuoco o un cameriere dalle gote rubiconde, con un piatto o vassoio che sia, pieno di succolente, appetitose e fumanti pietanze in mano.
Ci si mangia necessariamente ed irrimediabilmente male, secondo lui.
Mi sono sempre dimenticato di chiedergli, però, se la sua regola include sorridenti cavalieri in corrazza, un piatto in mano di pastasciutta di plastica con una lucetta colorata dentro, il cui sugo pare più fuxia che rosso.
Ce ne avevamo uno che era un formidabile monumento kitsch, un’idea pacchiana di cui Gastone andava ovviamente fiero.
Là dentro Gittì si atteggiava a generalissimo, la sua faccia s’induriva già a una ventina di metri prima dell’entrata, con il salario di due camerieri faceva il caporale e tutti gli ridevano dietro e anche, ma in maniera più contenuta, davanti.
Il vero padrone era un imperturbabile tedesco di Itzehoe, Herr Fidi Seifenfeld, che aveva ricevuto la locanda dal padre ormai ottantenne.
Il glorioso ristorante vantava una storia accumulata di decenni di ammanchi di cassa: sia il genitore che lui erano stati sistematicamente derubati da una lunghissima schiera di direttori differenti, tra cui anche un raro tedesco disonesto.
Herr Fidi abitava sopra il ristorante, cioè dentro al castello, durante il servizio vagava per le sale, con un libro antico in mano, sempre lo stesso, che nessuno lo vide mai leggere.
Fumava la pipa spenta, salutava i clienti abitudinari, ogni tanto sorseggiava una grappetta, se era freddo, una birra se era caldo, un vino bianco se la temperatura era indecisa, più raramente un rosso.
A volte si sedeva a qualche tavolo ad ascoltare più che a chiacchierare, non si guardava troppo intorno, ma avevo la sensazione che stesse attento, in qualche maniera… e poi alla fine se ne andava coi soldi.
Era una persona gradevole, parlava solo quando gli faceva piacere, lavorare non gli garbava e non ne faceva un mistero, si poteva dire che fosse l’esatto contrario del mio amico, collega e datore di lavoro.
In Gittì ammirava soprattutto l’onestà, anche se poi non era proprio assoluta, perché prima di tutto Gastone era uno specialista nell’ingannare se stesso, di conseguenza, senza volerlo, fregava anche gli altri.
Herr Fidi era di poche ma sostanziose parole, calzavano sempre a pennello nella situazione in corso, o appena terminata, quando apriva bocca valeva la pena ascoltarlo.
Una sera, quando mi cadde un piatto e Gastone mi redarguì istericamente, come del resto non faceva mai, forse perché era successo proprio davanti al padrone, lui placidamente dichiarò, guardando davanti a sé, come se stesse parlando al mondo intero:
“Essere nervosi a ventanni è più che normale, ma chi lo fosse a cinquanta non avrebbe più possibilità di salvezza. ”
Gittì se ne restò impassibile, ma accusò il colpo, per quella sera non parlò più e si è scolò un boccale da birra di Calvados, a casa russò più del solito e non avrei mai creduto che fosse possibile.
Malcesine è un paese incantevole, con viette strette e un autentico castello sul roccione a picco sul lago, sotto una bellissima spiaggetta di sabbia grossa fatta di pietruzze variopinte e arrotondate che d’estate è una bellezza, nelle altre stagioni assai romantica per andarci con eventuali fidanzate.
Sui costoni a picco sul lago file di vecchi e altissimi cipressi si stagliano contro il cielo, dal monte Baldo e dalla teleferica, il panorama del lago al tramonto è qualcosa di dorato e meravigliosamente increspato dalla brezza.
Il turismo a quei tempi era quasi esclusivamente con i tedeschi, penso che lo sia ancora, i menù dei ristoranti in tre lingue, proponendo oltre all’obbligatorio italiano anche l’inglese.
Iniziavano a giugno a scendere dalle Alpi e fino alla fine di settembre era una marea.
Durante le altre stagioni il pubblico era più vario.
Gittì mi aveva assunto come sua riserva, dovevo imparare a fare tutto, perché lui da solo non ce la faceva più.
Herr Fidi aveva concordato, venni a sapere in seguito, perché il ristorante non stava andando troppo bene negli ultimi tempi e Gastone sembrava sempre più stressato.
La sua frase tipica, (sia quando io da principiante facevo qualcosa di sbagliato e lui mi perdonava dopo avermi fatto sentire colpevole, o quando lui rabbiosamente fingeva di non aver fatto un ennesimo e meno giustificato passo falso, inconsciamente chiedendo scusa al mondo rappresentato in quel momento da me, suo braccio destro, vice e coinquilino,) era una di questo genere:
“Se noi italiani all’estero non ci aiutiamo tra di noi…”
“Ma, Gastone, qui, noi, non siamo in Italia?”
“Che c’entra, non lavoriamo forse per un tedesco?”
Come essere umano forse lasciava un po’ a desiderare, come direttore di ristorante era anche peggio, se vogliamo, ma come rompiscatole era completo e attento ai più piccoli particolari.
Sia a casa che al lavoro, anche nello scarsissimo tempo libero, non si dimenticava mai di far valere il suo ruolo di leader.
Se si andava in macchina, se guidava lui era uno stress ininterrotto, sia per la velocità sostenuta, che per l’andatura a scatti, che per gli improperi indirizzati ai nemici: pedoni, ciclisti, motociclisti o automobilisti, ma ancor più ostile era agli autobus, taxi e camion.
Se a guidare invece ero io, dipendendo dal suo livello d’affanno del momento, poteva essere anche peggio.
La momentanea impossibilità di sfogare la sua iperattività sfociava in un fiume di frasi martellanti attaccate l’una all’altra:
“Metti la chiave, girala, si è acceso il motore? E che aspetti? E parti! La sai guidare questa carretta? Non mi far perdere tempo! Che io tempo non ne ho, non ne ho mai avuto e se ora anche ne avessi non lo vorrei perdere certo qui in un posteggio… che stai aspettando? Gira qui, metti la freccia, c’è il semaforo, al semaforo ricordati che devi fare sempre come me: puoi anche passare col rosso, non c’è problema, ma prima controlla se c’è una guardia, non si sa mai. Una volta ho preso un multa, a Brescia, o era a Bergamo… no, forse a Padova, o a Rovigo? Non ha importanza, attento alla signora che quella è troppo grassa e ci sporca tutta la macchina della ditta che è bianca, non ci dimentichiamo poi che quella è pure una buona cliente, mangia come un bove e ci lascia sempre la mancia…come si chiama ‘sta signora? Non ti ricordi? Ma che cazzo di memoria, e meno male che sei giovane… frena! Sei impazzito? Tu ci vuoi fare ‘o danno, al tedesco? Quello me lo tira dallo stipendio a me! E stai attento, non ti distrarre, qui nessuno ti disturba, checché, concentrati nella guida e non ascoltare la radio… non ascoltare nemmeno me, che a me la testa non m’aiuta e le parole ne sono lo specchio fedele, io sto parlando soltanto per fare qualcosa, e mi raccomando di non guardare dalle parti, solo davanti, sempre e solo davanti, come nella vita, non bisogna mai voltarsi indietro, pensa che mio nonno in Calabria aveva un mulo col paraocchi, che poi scoprì che era diventato cieco, ma il paraocchi laterale ugualmente non glielo levò mai e quello, povera ‘bbèstia fedele, si ricordava le strade a memoria, non si distraeva mai e fece sempre il dovere suo, finché non schiattò! Siamo arrivati, frena, metti la freccia, gira e posteggia. Che ore si sono fatte?”
La sua maniera di elogiare qualcuno era di dire agli altri che erano degli stronzi; più volte, ammirando alcune mie pensate circa il rivoluzionare l’organizzazione del servizio, oppure per via di nuove idee sulle decorazioni per la vetrina degli antipasti, chiamava tutti a raccolta e iniziava a gridargli contro:
“Voi siete dei coglioni! Mai una volta che vi prendete un’iniziativa, mai una pensata, guardate qui, è tanto difficile fare lavorare il vostro cervello di gallina una volta nella vita? Come potrete pretendere un giorno, di avere il vostro ristorante, se lavorate solo per i soldi, se non avete inventiva, se non cercate di fare bene quello che fate?”
Il baricentro della vita, per Gastone era il ristorante, tutto quello che faceva era per il ristorante, il suo sogno era avere un ristorante tutto suo.
Si alzava la mattina con delle idee proposte per il ristorante, faceva colazione alla svelta per non togliere tempo al suo lavoro al ristorante, poi correva al ristorante e ci lavorava dentro nella sua miriade di forsennate funzioni fino all’ora di andare a dormire.
Durante l’orario di servizio ausiliava i camerieri e i cuochi, se c’era bisogno anche i lavapiatti, ma lateralmente pure controllava l’amministrazione, faceva la spesa, le riparazioni ordinarie e straordinarie, conosceva ed odiava ogni parte del ristorante, lo faceva marciare a calci in culo per tutto il giorno, ma non lo amava e questo potrebbe essere il punto nevralgico della situazione ripetuta all’infinito nella sua vita, la storia tragicomica di Gastone Tarantino.
Nel Regno delle Due Sicile non ci sono che tre opzioni: bandito, poliziotto o ristoratore, diceva.
Tra le tante teorie di mio padre una è assai interessante, secondo me.
La radio sveglia è come lo stemma, il blasone di Gittì, la bandiera rigida della sua casata.
Il suo rapporto combattuto (e perso) con le radio sveglia, secondo il mio competente genitore, è proprio il nodo della questione.
La sua battaglia contro il tempo, combattuta e puntualmente persa all’interno di una routine giornaliera, è degnamente e sufficientemente rappresentato da quel simbolo, che Gastone da sempre ha cercato, senza capirlo, di ammansire, di dominare, di portare dal suo lato.
Invece, ahimè, è successo il contrario, la radiosveglia, cioè il tempo, lo ha schiavizzato, lo ha costretto a vivere una vita inutilmente faticosa, senza soddisfazioni.
Chissà quante ne ha ora, di radiosveglie, stamattina ci ho pensato, ma non glielo ho chiesto, tanto non mi avrebbe risposto.
Confesso che personalmente, almeno all’epoca, non mi reputavo una persona particolarmente abile in niente, forse per via della mia ancor verde gioventù, ero troppo nervoso, per abitudine dicevo la cosa sbagliata al momento sbagliato alle persone sbagliate, mi cascavano caffè bollenti sui vestiti cari dei personaggi importanti.
Certamente tra gli imbranati di tutto il Lago di Garda mi sarei classificato con un buon piazzamento.
Chi mi conosceva lo può testimoniare.
Ero distratto, la mia memoria giocava spesso a nascondino, vivevo tra le nuvole e quando disgraziatamente mi affacciavo fuori c’era sempre un fottuto e simbolico temporale, mi guardavo intorno e il mondo mi pareva strano e distante.
Però sapevo già distinguere la differenza che c’era tra allievi e maestri, tra i manovali e gli artisti, tra i gregari e i campioni più completi.
Ebbene sì, ero un dilettante al confronto con Gastone, anzi, avrei potuto dichiarare che più imbranati di lui non ne ho più conosciuti.
E mi ero accorto ben presto che non ne avevo conosciuti nemmeno prima.
Non è una scelta: la nostra ansietà determina molto di quello che viviamo, volendo o no, tutto o quasi è filtrato da questa nostra capacità di saper aspettare per ottenere quello che vogliamo, meno lo sappiamo aspettare e più siamo ansiosi, più siamo ansiosi e meno possibilità abbiamo di raggiungerlo.
E l’ansia aumenta.
A proposito, magari non c’entra niente, ma io non ho mai capito quando Gastone scherzava o quando faceva sul serio; dopo averlo conosciuto mio padre formulò questa sua personale teoria, che successivamente finii anch’io per condividere: non scherzava mai, ma quando parlava, involontariamente faceva ridere.
“Ahimè! Se noi paesani fuoriusciti non ci aiutassimo a reciproca man che lava mano…”
“Gittì, questo non è il motto della mafia? E poi qui non mi pare che siamo fuori dall’Italia...”
“Lascia fare. E allora perché i nostri clienti sono tutti tedeschi?”
Gittì infilava grammatica, storia e geografia in un unico pentolone, mischiava quello che aveva sentito dire con quello che gli sembrava di aver letto sul giornale a colazione, poi lo innestava sui frammenti di documentari visti passando davanti alla tele accesa in cucina in mezzo al servizio, parole e frasi sparse di clienti un po’ brilli di qualche ristorante in cui aveva lavorato, che non erano pochi e tutti all’estero, visto che se ne era andato da bambino dal suo amato e mai troppo rimpianto Regno delle due Sicilie.
“Se noi peninsulari in esilio non ci ausiliassimo a vicenda…”
“Ma quale esilio? Chi ti ci ha mandato qua? E poi non siamo nemmeno fuori dall’Italia! Te l’ho già detto!”
“Sì, sì, parli bene tu, tu Aldo, tu proprio non lo puoi capire, ma io invece, IO, io sono nato alla periferia di Crotone, esattamente dall’altra parte del mondo, la mappa del tesoro tu la devi conoscere, hai fatto la scuola alberghiera o no? Insomma, capiscimi bene, sono nato nel bel mezzo del Regno delle due Sicilie… e qui per me è ancora, il comessichiama, quel cazzo d’Impero Austro-Ungarico!”
Scoprii in seguito che non esisteva nessuna Abbondanza Pierini, come avevo già sospettato in precedenza, Herr Fidi mi disse che c’era, sì, una vedova che ogni tanto andava a fare le pulizie pesanti del ristorante e che lui le faceva la corte da anni, ma era così impacciato e timido che lei non se n’era nemmeno accorta: Maria Fernanda era grassoccia e toscana, ecco il nome inventato per libera associazione di idee.
Insomma lì accanto a lui, giorno dopo giorno, in casa o al lavoro e perfino nello scarsissimo tempo libero, stavo iniziando a imparare come non avrei mai dovuto comportarmi nel corso della mia vita futura, in questo lui era il miglior maestro possibile.
Mi ha fatto capire, anche se per esclusione, qual era la mia strada, mi ha dato l’esempio pratico di come non avrei dovuto guastare passato e presente per possedere un futuro qualsiasi, scelto da chissà chi.
Gittì non conosceva gli altri tempi, non ne aveva mai sentito il bisogno.
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