Nella
misura in cui una coppia di esseri umani normalmente costituita da lui (uomo) e
da lei (donna), abbia come prima necessità quella di sopravvivere e come
seconda quella di rimanere insieme, i due membri devono assoggettarsi a
compromessi piuttosto pesanti, tra cui lavorare.
Lavorare in sé non sarebbe un così tragico dramma se: 1) il lavoro gli piacesse; 2) non si dovessero rispettare orari più o meno fissi; 3) non ci fossero attorno altre persone, i cosiddetti colleghi e superiori a rompere le scatole; 4) se i lavori non fossero sempre più costituiti da azioni e reazioni ripetute all’infinito (o almeno fino al momento del licenziamento.)
Nell’ambito
delle previsioni del tempo, o della vita di coppia, come in quello del lavoro,
oppure nell’intero mondo globalizzato, probabilmente in tutto l’universo, niente
ma proprio niente va come previsto, nulla però assolutamente nulla come
desiderato. Togliendo i figli dal preventivo, dato che comportano un’ulteriore
e problematica applicazione della legge del caos, tutto il resto già è
sufficiente per far scervellare la gente.
Gino
racconta sempre a sua moglie di quel film di Fellini in cui Alberto Sordi fa la
pernacchia ai lavoratori della mazza, ma poi la macchina gli si rompe e si
ferma cento metri più in là e i lavoratori partono di corsa con i pugni chiusi.
Fina non ha mai riso, solo quando ha visto il film, qualche anno dopo.
Gino
di nome sarebbe stato Ambrogio e lei invece era Josephina e per praticità era
diventata Fina. Erano una coppia poco convenzionale, lei boliviana e lui
italiano, quando si sono conosciuti lei aveva 20 anni e lui 40, vivevano a La
Paz, lui lavorava come professore lei come commessa in un negozio di
ferramenta.
Lui
aveva una casa di sua proprietà, si era divorziato da non molto, da un’ulteriore
boliviana precedente, la casa era un po’ lontana da una strada principale del
quartiere Vila Vieja piuttosto periferico della città di Pineda, vicino a La
Paz.
Nel
frattempo il padre di Gino, in Italia a Corniglia, si è ammalato di una normale
demenza senile, cose che purtroppo capitano ai vivi, che se capitassero ai
morti sarebbe più facile.
La
vita boliviana non gli garbava più a lui, né a lei era mai piaciuta, sono
andati a soccorrere il padre in Liguria, si son messi a sua disposizione.
Il
padre da solo non poteva andare avanti, non era mai stato una persona facile,
con la demenza senile era tutt’altro che migliorato, se prima era piuttosto
incazzereccio dopo è diventato peggio. In più si arrabbiava per motivi
inesistenti, esagerati, talvolta paradossali, proprio con chi cercava di
aiutarlo.
Corniglia
era un bel posto dove vivere, come no, bastava non aver bisogno di lavorare,
che quello era un lato difficile da considerare serenamente. Gino cominciò a
fare delle foto, del paesaggio all’inizio, a cercare di venderle in giro,
facendoci delle cartoline, ma il turismo anche a Corniglia non era il massimo,
essendo in alto sul mare che difficilmente si poteva raggiungere a piedi se non
da una ripida scalinata interminabile. La stazione del treno, dall’altra parte,
era a una cascata di scale che non finiva più. Nelle foto, oltre al paesaggio tipicamente
ligure, cominciò a metterci anche suo padre e sua moglie vestiti da pescatori,
con qualche rete in mano, due o tre muggini, una spigola.
Guardando
un vecchio filmato teatrale di Govi a TV Genova Libera, a Gino venne un’idea
che naturalmente la moglie che parlava ancora assai male l’italiano, rifiutò a
priori.
Gino
però sapeva che non avevano eccessive alternative, le spiegò che non doveva
nemmeno imparare l’italiano, poteva tranquillamente mischiare parole e frasi
come faceva con lui in casa, con il solito spagnolo-boliviano misto, bastava
urlare di più. L’idea era inscenare la loro vita per strada, portare delle
sedie, un tavolino, qualche piatto o bicchiere e fare, insieme anche al padre
Gando, nome originale Gandolfo, la copia esatta della loro assurda ma autentica
polemica giornaliera. I gridi di disperazione c’erano anche prima, bastava
esagerare, alzare di più la voce, aumentarne la frequenza, inventarsi qualcosa
che era poi già stato detto o gridato.
Ovviamente
la gente del posto, che conosceva già il loro piccolo dramma familiare, sempre
più comune a tanti altri, all’inizio fu resistente, perché quello che doveva
far ridere piuttosto li faceva se non piangere, almeno intristire.
La
situazione non era semplice, ma cosa c’è al mondo di non complicato? Quello che
cambiò dopo pochi giorni di tragicomiche prove nelle piazzette di Corniglia, è
che il padre forse non aveva capito la situazione del tutto, ma forse proprio
perciò recitava bene assai la sua parte e anche la boliviana cominciò a litigare
meglio, che non era stata abituata a farlo, nella vita precedente. Piano piano
imparò a metterci, oltre alla voce stentorea, lati nascosti del suo sornione ma
combattivo temperamento latino e anche più parole italiane, tra cui anche
qualcuna nuova dialettale ligure, involontariamente ma opportunamente storpiata.
Era
primavera e i turisti cominciavano ad arrivare a frotte, non tanto come negli
altri paesi delle Cinque Terre, ma alcuni avevano anche sentito dire che proprio
lì a Corniglia facevano delle commedie per strada da schiantar da ridere.
La
crisi e la pandemia avevano portato più turisti italiani, diversi toscani e
piemontesi e affatto raramente anche liguri di altre zone. Un antico secchio di
latta per terra raccoglieva anche sonoramente gli spiccioli che ora gli
permettevano di pagare le spese di sopravvivenza e ogni giorno ce ne erano di
più. Cominciarono anche a filmarli, con i cellulari e a pagarli per andare a
fare dei giri a Manarola, Rio Maggiore, Vernazza e Monterosso. Dopo anche a
Levanto e a Portovenere, che da alcuni erano chiamati la sesta e la settima
terra, rispetto alle cinque convenzionali. Erano soprattutto gli stranieri, stranamente,
che non ci capivano una mazza, ad apprezzarli, ma loro non si offesero, anzi.
Per
fare scena fingevano anche di mangiare e bevevano dei falsi bicchieri di vino
Sciacchetrà, aveva solo il colore originale, ma era succo di mela con un po’ di
Campari. Era un’idea di Gino, che a tempo perso aveva studiato un po’ di
marketing ruspante. Lo mettevano dentro delle bottiglie usate, a rotazione, di marche
di Corniglia che esistevano veramente. Le vendite dei prodotti originali
inopinatamente aumentarono, loro intanto avevano provato e realizzato che
bevendo veramente quel loro vino passito recitavano anche meglio, così
passarono a consumarne del vero, senza esagerare. I produttori dello
Sciacchetrà gli fornivano quanto era necessario e pagavano in più una
percentuale che chissà come avevano calcolato e aumentava in maniera più che
proporzionale, tanto che iniziò subito a farsi interessante anche dal loro lato.
Parrebbe strano ma in precedenza i turisti mascherati che andavano sempre più
in fretta, in tanti casi non venivano a sapere che lì si produceva una tale
leccornia e se ne andavano senza comprarne. Gli altri produttori si accodarono
e ottennero tutti la loro fetta di propaganda pubblicitaria.
Sarà
stato anche colpa del vino liquoroso, o della vita dell’artista di strada che per
un vecchio malato era troppo pesante, ma di notte Gando cadde dalla finestra, sotto
c’era uno strapiombo di più di cento metri. Fu un incidente, magari era
ubriaco, oppure si era suicidato, forse voleva andare in bagno e non lo
trovava, insomma non lo seppero mai.
Lì
per lì pensarono a cosa fare, potevano anche vendere l’appartamento del padre e
tornare in Bolivia, ma in fondo si erano veramente divertiti e un lavoro così
dove lo avrebbero ritrovato?
Furono
costretti a rimpiazzare il ruolo rimasto scoperto con un altro attore non
professionista, ovviamente anziano anche lui e con principi se non quasi finali
di senilità. Ce ne erano assai, più di quello che avevano pensato, a stimolarli
c’era anche il fatto che molti erano annoiati della loro stanca routine e poi i
figli o parenti vari erano lieti di liberarsene, insomma si misero a fare dei
provini.
Il
lavoro non nobilita mai l’uomo, neanche la donna, casomai il contorno e le
situazioni che lo delimitano, le chiacchierate, le discussioni, le litigate e
poi da non trascurarsi l’occasionale dopolavoro, ma piuttosto fisiologico in vino veritas.
Fu
una donna infatti che vinse l’acerrima concorrenza ed era una vera attrice
amatoriale, che pur non avendolo mai fatto come mestiere, la vita e le relative
difficoltà di sopravvivenza l’avevano abbondantemente dotata e preparata. Aveva
una lingua che tagliava e cuciva, dopo ci passava anche il ferro caldo, insomma
faceva delle facce che lo stesso Gilberto Govi le avrebbe dato volentieri la
mano, ma ormai non poteva più.
Anche
fuori dalla scena aveva uno sguardo che ci rimbalzavano le saette, per quanto
fingesse meravigliosamente, non era per niente senile e prova concreta ne fu
che pretese subito un aumento di stipendio.
Le
cose però andavano di bene in meglio, tanto che decisero di mettere su un
teatrino stabile, per continuare a fare rappresentazioni anche d’inverno e
d’autunno, quando non c’erano i turisti.
I
testi li scriveva Gino, ma poi sopra ci improvvisavano tanto e così bene, che
se ne dimenticavano o quasi. Iniziarono anche le altre due a dare i loro
suggerimenti e la signora Clelia, come ormai la chiamavano, era la meglio di
tutti. Diventarono ben presto soci al 33, 3 % periodico.
I
costumi erano vecchi vestiti che Gando aveva in casa, lui da buon ligure non
buttava via niente, erano cose che non usavano più e per questo erano così
fuori moda, la signora Clelia si vestiva ancora proprio in quella maniera lì e arrivando
da casa non doveva nemmeno cambiarsi.
“Dove
l’hai messo il pesce?” Chiede Fina.
“Quale
pesce?” Domanda Gino.
“Ma
te non dovevi comprare il pesce?” Raddoppia Clelia.
“Io
no, perché io?”
“Magari
perché mamma, ossia la mia cara suocera, te lo aveva chiesto.”
“No…
e quando me lo avrebbe detto?”
“Te
l’ho detto ieri sera prima di andare a letto.”
“Belin! Ma se ieri sera quando siamo
arrivati tu eri già nel mondo dei sogni!”
“Vorrà
dire che me lo sono sognato, ma tu però hai risposto e hai testualmente detto
di sì!”
“Mamma,
dimmi un po’ una cosa, non voglio assolutamente insinuare che tu sia
rincoglionita, lo sai che non mi permetterei mai. Ma mettiamo il caso, che se
quello del tuo sogno fosse stato solo uno che mi somigliava?”
“Se
ti somigliava allora non avrebbe detto di sì, ma piuttosto di no.”
“Ma
sentila! E poi che pesce dovevo mai comprare?”
“Un
pesce di mare, che domande!”
“Ma
da fare arrosto, belin, in umido o
fritto?”
“Non
mi ricordo.”
“Beluga!
Alla faccia dell’acciuga!! Ecco la verità che viene fuori dalla buga! Cioè
dalla bugia, ti volevo dire.”
“Cose?”
“Non
ti puoi ricordare certo una cosa che non hai fatto.”
“E
quale?”
“Quella
di chiedermi di comprare il pesce a me, a me, proprio a me, che non lo compro
mai.”
“Tu
non lo comprerai mai, ma io te lo chiedo sempre! Già, chissà perché! Perché
inventi sempre delle scuse, tu!”
“Il
pesce non mi piace, magari perché puzza, te l’ho detto cento volte! Se mi
chiedi di comprare un coniglio, che ne so, un pollo, vedi come te lo compro
volentieri, belin! Un pezzo di
sapone, una bottiglietta di profumo francese…”
“Allora
lo ammetti che te lo avevo detto?”
“No,
figurati, una cosa non ha niente a che fare con l’altra. Guarda un po’ che
roba!”
La
moglie boliviana che non aveva detto più niente, mette a tavola tre piatti pieni
di cibo e comincia a mangiare in silenzio.
“E
questo?” Chiede la Clelia.
“E
questo l’ho preparato io, mentre chiacchieravate tra di voi, con calma e tipica
cortesia ligure...”
“Ma
questa non è una cernia!”
“No.”
“E
neanche uno sgombro o un merluzzo…”
“Neppure.”
“E
nemmeno una spigola, né un cefalo…”
“No.”
“Non
l’ho mai visto qua in giro.”
“Beh,
lo consumano di più in città, almeno in Italia.”
“Ah…
sembrava duro, invece no, è tenero.”
“Si
taglia con un grissino.”
“Ma
noi di grissini non ce ne abbiamo.”
“Nooo.
È la pubblicità alla televisione che diceva così.”
“Mah?
Sarà, ma non ci credo.”
“Provalo.
In Bolivia si mangia assai.”
“Ma
perché è così rotondo?”
“Per
via della sua confezione.”
“E
sotto cosa c’è?”
“Insalata,
maionese e capperi tritati.”
“Bello
a vedersi ma non mi fido.”
“Assaggialo,
vedrai che ti piace.”
“Mmmm!
Buono, però.”
“Ma
che cos’è?”
“È
una specie di pesce grande, anche piuttosto in estinzione.”
“Ma
come si chiama?”
“Aspetta,
c’è scritto qua sopra la scatola…”
“Ma
non hai detto che lo mangiano anche in Bolivia?”
“Sì,
ma là lo chiamano in maniera diversa.”
“Sono
proprio curiosa.”
“E il prezzo? Non costa mica tanto?” Chiede il Gino inquisitore, il ligure è avaro per stereotipo ed
è importante evidenziarlo.
“Nooo,
per quello che vale, direi proprio di no. È pieno di sostanza.”
“Ma
allora come si chiama?”
“Tonno.”
“Ah,
è vero, anche una mia amica che è andata a vivere a La Spezia lo compra sempre,
dice che si trova perfino all’alimentari.”
“Infatti.
Ce l’ha anche il nostro Pittaluga, io l’ho comprato lì…”
Gino
ha detto e ridetto che quello che fa ridere gli stranieri sono le facce e i
movimenti, i gesti, quelle situazioni che sono, se non uguali, almeno
riconoscibili in tutto il mondo. Quello che dicono i personaggi è per gli
italiani, l’accento e la cantilena sono fondamentali, il dialetto è meglio
lasciarlo da parte, solo qualche parola ogni tanto, per accontentare anche i
liguri.
“Ma
da bere cosa c’è?”
“Ci
sarebbe questa robetta qui.”
“Grappa?”
“No.”
“Gin?”
“Nemmeno.”
“Sambuca?”
“Neppure.”
“Sassolino?”
“Neanche,
ma non ti far ingannare dalla bottiglia, non è la sua.”
“Wodka?”
“No.”
“Allora
è Rum bianco?”
“No.
Acqua.”
“Ha!
Ora ci mettiamo a fare il giochino dell’acqua e del fuoco?” Gino, non aveva più
parlato da un po’, ma aveva fatto alternativamente le facce di chi si
meraviglia e di chi disapprova.
“No.”
“In
che senso: no?”
“Che
io non conosco questo giochino.”
“Belin! Ma allora cos’è?”
“In
Bolivia la bevono spesso e volentieri.”
“Ma
ci vuoi dire finalmente che diavolo è?”
“Acqua.
Ve l’ho già detto.”
“Ah
sì, io la conosco! Gino, da bambina l’ho bevuta anch’io, almeno mi pare…”
Nessun commento:
Posta un commento