venerdì 7 gennaio 2022

LAVORATORI?PRRRR!


 

Nella misura in cui una coppia di esseri umani normalmente costituita da lui (uomo) e da lei (donna), abbia come prima necessità quella di sopravvivere e come seconda quella di rimanere insieme, i due membri devono assoggettarsi a compromessi piuttosto pesanti, tra cui lavorare.

Lavorare in sé non sarebbe un così tragico dramma se: 1) il lavoro gli piacesse; 2) non si dovessero rispettare orari più o meno fissi; 3) non ci fossero attorno altre persone, i cosiddetti colleghi e superiori a rompere le scatole; 4) se i lavori non fossero sempre più costituiti da azioni e reazioni ripetute all’infinito (o almeno fino al momento del licenziamento.)

Nell’ambito delle previsioni del tempo, o della vita di coppia, come in quello del lavoro, oppure nell’intero mondo globalizzato, probabilmente in tutto l’universo, niente ma proprio niente va come previsto, nulla però assolutamente nulla come desiderato. Togliendo i figli dal preventivo, dato che comportano un’ulteriore e problematica applicazione della legge del caos, tutto il resto già è sufficiente per far scervellare la gente.

Gino racconta sempre a sua moglie di quel film di Fellini in cui Alberto Sordi fa la pernacchia ai lavoratori della mazza, ma poi la macchina gli si rompe e si ferma cento metri più in là e i lavoratori partono di corsa con i pugni chiusi. Fina non ha mai riso, solo quando ha visto il film, qualche anno dopo.

Gino di nome sarebbe stato Ambrogio e lei invece era Josephina e per praticità era diventata Fina. Erano una coppia poco convenzionale, lei boliviana e lui italiano, quando si sono conosciuti lei aveva 20 anni e lui 40, vivevano a La Paz, lui lavorava come professore lei come commessa in un negozio di ferramenta.

Lui aveva una casa di sua proprietà, si era divorziato da non molto, da un’ulteriore boliviana precedente, la casa era un po’ lontana da una strada principale del quartiere Vila Vieja piuttosto periferico della città di Pineda, vicino a La Paz.

Nel frattempo il padre di Gino, in Italia a Corniglia, si è ammalato di una normale demenza senile, cose che purtroppo capitano ai vivi, che se capitassero ai morti sarebbe più facile.

La vita boliviana non gli garbava più a lui, né a lei era mai piaciuta, sono andati a soccorrere il padre in Liguria, si son messi a sua disposizione.

Il padre da solo non poteva andare avanti, non era mai stato una persona facile, con la demenza senile era tutt’altro che migliorato, se prima era piuttosto incazzereccio dopo è diventato peggio. In più si arrabbiava per motivi inesistenti, esagerati, talvolta paradossali, proprio con chi cercava di aiutarlo.

Corniglia era un bel posto dove vivere, come no, bastava non aver bisogno di lavorare, che quello era un lato difficile da considerare serenamente. Gino cominciò a fare delle foto, del paesaggio all’inizio, a cercare di venderle in giro, facendoci delle cartoline, ma il turismo anche a Corniglia non era il massimo, essendo in alto sul mare che difficilmente si poteva raggiungere a piedi se non da una ripida scalinata interminabile. La stazione del treno, dall’altra parte, era a una cascata di scale che non finiva più. Nelle foto, oltre al paesaggio tipicamente ligure, cominciò a metterci anche suo padre e sua moglie vestiti da pescatori, con qualche rete in mano, due o tre muggini, una spigola.

Guardando un vecchio filmato teatrale di Govi a TV Genova Libera, a Gino venne un’idea che naturalmente la moglie che parlava ancora assai male l’italiano, rifiutò a priori.

Gino però sapeva che non avevano eccessive alternative, le spiegò che non doveva nemmeno imparare l’italiano, poteva tranquillamente mischiare parole e frasi come faceva con lui in casa, con il solito spagnolo-boliviano misto, bastava urlare di più. L’idea era inscenare la loro vita per strada, portare delle sedie, un tavolino, qualche piatto o bicchiere e fare, insieme anche al padre Gando, nome originale Gandolfo, la copia esatta della loro assurda ma autentica polemica giornaliera. I gridi di disperazione c’erano anche prima, bastava esagerare, alzare di più la voce, aumentarne la frequenza, inventarsi qualcosa che era poi già stato detto o gridato.

Ovviamente la gente del posto, che conosceva già il loro piccolo dramma familiare, sempre più comune a tanti altri, all’inizio fu resistente, perché quello che doveva far ridere piuttosto li faceva se non piangere, almeno intristire.

La situazione non era semplice, ma cosa c’è al mondo di non complicato? Quello che cambiò dopo pochi giorni di tragicomiche prove nelle piazzette di Corniglia, è che il padre forse non aveva capito la situazione del tutto, ma forse proprio perciò recitava bene assai la sua parte e anche la boliviana cominciò a litigare meglio, che non era stata abituata a farlo, nella vita precedente. Piano piano imparò a metterci, oltre alla voce stentorea, lati nascosti del suo sornione ma combattivo temperamento latino e anche più parole italiane, tra cui anche qualcuna nuova dialettale ligure, involontariamente ma opportunamente storpiata.

Era primavera e i turisti cominciavano ad arrivare a frotte, non tanto come negli altri paesi delle Cinque Terre, ma alcuni avevano anche sentito dire che proprio lì a Corniglia facevano delle commedie per strada da schiantar da ridere.

La crisi e la pandemia avevano portato più turisti italiani, diversi toscani e piemontesi e affatto raramente anche liguri di altre zone. Un antico secchio di latta per terra raccoglieva anche sonoramente gli spiccioli che ora gli permettevano di pagare le spese di sopravvivenza e ogni giorno ce ne erano di più. Cominciarono anche a filmarli, con i cellulari e a pagarli per andare a fare dei giri a Manarola, Rio Maggiore, Vernazza e Monterosso. Dopo anche a Levanto e a Portovenere, che da alcuni erano chiamati la sesta e la settima terra, rispetto alle cinque convenzionali. Erano soprattutto gli stranieri, stranamente, che non ci capivano una mazza, ad apprezzarli, ma loro non si offesero, anzi.

Per fare scena fingevano anche di mangiare e bevevano dei falsi bicchieri di vino Sciacchetrà, aveva solo il colore originale, ma era succo di mela con un po’ di Campari. Era un’idea di Gino, che a tempo perso aveva studiato un po’ di marketing ruspante. Lo mettevano dentro delle bottiglie usate, a rotazione, di marche di Corniglia che esistevano veramente. Le vendite dei prodotti originali inopinatamente aumentarono, loro intanto avevano provato e realizzato che bevendo veramente quel loro vino passito recitavano anche meglio, così passarono a consumarne del vero, senza esagerare. I produttori dello Sciacchetrà gli fornivano quanto era necessario e pagavano in più una percentuale che chissà come avevano calcolato e aumentava in maniera più che proporzionale, tanto che iniziò subito a farsi interessante anche dal loro lato. Parrebbe strano ma in precedenza i turisti mascherati che andavano sempre più in fretta, in tanti casi non venivano a sapere che lì si produceva una tale leccornia e se ne andavano senza comprarne. Gli altri produttori si accodarono e ottennero tutti la loro fetta di propaganda pubblicitaria.

Sarà stato anche colpa del vino liquoroso, o della vita dell’artista di strada che per un vecchio malato era troppo pesante, ma di notte Gando cadde dalla finestra, sotto c’era uno strapiombo di più di cento metri. Fu un incidente, magari era ubriaco, oppure si era suicidato, forse voleva andare in bagno e non lo trovava, insomma non lo seppero mai.

Lì per lì pensarono a cosa fare, potevano anche vendere l’appartamento del padre e tornare in Bolivia, ma in fondo si erano veramente divertiti e un lavoro così dove lo avrebbero ritrovato?

Furono costretti a rimpiazzare il ruolo rimasto scoperto con un altro attore non professionista, ovviamente anziano anche lui e con principi se non quasi finali di senilità. Ce ne erano assai, più di quello che avevano pensato, a stimolarli c’era anche il fatto che molti erano annoiati della loro stanca routine e poi i figli o parenti vari erano lieti di liberarsene, insomma si misero a fare dei provini.

Il lavoro non nobilita mai l’uomo, neanche la donna, casomai il contorno e le situazioni che lo delimitano, le chiacchierate, le discussioni, le litigate e poi da non trascurarsi l’occasionale dopolavoro, ma piuttosto fisiologico in vino veritas.

Fu una donna infatti che vinse l’acerrima concorrenza ed era una vera attrice amatoriale, che pur non avendolo mai fatto come mestiere, la vita e le relative difficoltà di sopravvivenza l’avevano abbondantemente dotata e preparata. Aveva una lingua che tagliava e cuciva, dopo ci passava anche il ferro caldo, insomma faceva delle facce che lo stesso Gilberto Govi le avrebbe dato volentieri la mano, ma ormai non poteva più.

Anche fuori dalla scena aveva uno sguardo che ci rimbalzavano le saette, per quanto fingesse meravigliosamente, non era per niente senile e prova concreta ne fu che pretese subito un aumento di stipendio.

Le cose però andavano di bene in meglio, tanto che decisero di mettere su un teatrino stabile, per continuare a fare rappresentazioni anche d’inverno e d’autunno, quando non c’erano i turisti.

I testi li scriveva Gino, ma poi sopra ci improvvisavano tanto e così bene, che se ne dimenticavano o quasi. Iniziarono anche le altre due a dare i loro suggerimenti e la signora Clelia, come ormai la chiamavano, era la meglio di tutti. Diventarono ben presto soci al 33, 3 % periodico.

I costumi erano vecchi vestiti che Gando aveva in casa, lui da buon ligure non buttava via niente, erano cose che non usavano più e per questo erano così fuori moda, la signora Clelia si vestiva ancora proprio in quella maniera lì e arrivando da casa non doveva nemmeno cambiarsi.

“Dove l’hai messo il pesce?” Chiede Fina.

“Quale pesce?” Domanda Gino.

“Ma te non dovevi comprare il pesce?” Raddoppia Clelia.

“Io no, perché io?”

“Magari perché mamma, ossia la mia cara suocera, te lo aveva chiesto.”

“No… e quando me lo avrebbe detto?”

“Te l’ho detto ieri sera prima di andare a letto.”

Belin! Ma se ieri sera quando siamo arrivati tu eri già nel mondo dei sogni!”

“Vorrà dire che me lo sono sognato, ma tu però hai risposto e hai testualmente detto di sì!”

“Mamma, dimmi un po’ una cosa, non voglio assolutamente insinuare che tu sia rincoglionita, lo sai che non mi permetterei mai. Ma mettiamo il caso, che se quello del tuo sogno fosse stato solo uno che mi somigliava?”

“Se ti somigliava allora non avrebbe detto di sì, ma piuttosto di no.”

“Ma sentila! E poi che pesce dovevo mai comprare?”

“Un pesce di mare, che domande!”

“Ma da fare arrosto, belin, in umido o fritto?”

“Non mi ricordo.”

“Beluga! Alla faccia dell’acciuga!! Ecco la verità che viene fuori dalla buga! Cioè dalla bugia, ti volevo dire.”

Cose?”

“Non ti puoi ricordare certo una cosa che non hai fatto.”

“E quale?”

“Quella di chiedermi di comprare il pesce a me, a me, proprio a me, che non lo compro mai.”

“Tu non lo comprerai mai, ma io te lo chiedo sempre! Già, chissà perché! Perché inventi sempre delle scuse, tu!”

“Il pesce non mi piace, magari perché puzza, te l’ho detto cento volte! Se mi chiedi di comprare un coniglio, che ne so, un pollo, vedi come te lo compro volentieri, belin! Un pezzo di sapone, una bottiglietta di profumo francese…”

“Allora lo ammetti che te lo avevo detto?”

“No, figurati, una cosa non ha niente a che fare con l’altra. Guarda un po’ che roba!”

La moglie boliviana che non aveva detto più niente, mette a tavola tre piatti pieni di cibo e comincia a mangiare in silenzio.

“E questo?” Chiede la Clelia.

“E questo l’ho preparato io, mentre chiacchieravate tra di voi, con calma e tipica cortesia ligure...”

“Ma questa non è una cernia!”

“No.”

“E neanche uno sgombro o un merluzzo…”

“Neppure.”

“E nemmeno una spigola, né un cefalo…”

“No.”

“Non l’ho mai visto qua in giro.”

“Beh, lo consumano di più in città, almeno in Italia.”

“Ah… sembrava duro, invece no, è tenero.”

“Si taglia con un grissino.”

“Ma noi di grissini non ce ne abbiamo.”

“Nooo. È la pubblicità alla televisione che diceva così.”

“Mah? Sarà, ma non ci credo.”

“Provalo. In Bolivia si mangia assai.”

“Ma perché è così rotondo?”

“Per via della sua confezione.”

“E sotto cosa c’è?”

“Insalata, maionese e capperi tritati.”

“Bello a vedersi ma non mi fido.”

“Assaggialo, vedrai che ti piace.”

“Mmmm! Buono, però.”

“Ma che cos’è?”

“È una specie di pesce grande, anche piuttosto in estinzione.”

“Ma come si chiama?”

“Aspetta, c’è scritto qua sopra la scatola…”

“Ma non hai detto che lo mangiano anche in Bolivia?”

“Sì, ma là lo chiamano in maniera diversa.”

“Sono proprio curiosa.”

“E il prezzo? Non costa mica tanto?” Chiede il Gino inquisitore, il ligure è avaro per stereotipo ed è importante evidenziarlo.

“Nooo, per quello che vale, direi proprio di no. È pieno di sostanza.”

“Ma allora come si chiama?”

“Tonno.”

“Ah, è vero, anche una mia amica che è andata a vivere a La Spezia lo compra sempre, dice che si trova perfino all’alimentari.”

“Infatti. Ce l’ha anche il nostro Pittaluga, io l’ho comprato lì…”

Gino ha detto e ridetto che quello che fa ridere gli stranieri sono le facce e i movimenti, i gesti, quelle situazioni che sono, se non uguali, almeno riconoscibili in tutto il mondo. Quello che dicono i personaggi è per gli italiani, l’accento e la cantilena sono fondamentali, il dialetto è meglio lasciarlo da parte, solo qualche parola ogni tanto, per accontentare anche i liguri.

“Ma da bere cosa c’è?”

“Ci sarebbe questa robetta qui.”

“Grappa?”

“No.”

“Gin?”

“Nemmeno.”

“Sambuca?”

“Neppure.”

“Sassolino?”

“Neanche, ma non ti far ingannare dalla bottiglia, non è la sua.”

“Wodka?”

“No.”

“Allora è Rum bianco?”

“No. Acqua.”

“Ha! Ora ci mettiamo a fare il giochino dell’acqua e del fuoco?” Gino, non aveva più parlato da un po’, ma aveva fatto alternativamente le facce di chi si meraviglia e di chi disapprova.

“No.”

“In che senso: no?”

“Che io non conosco questo giochino.”

Belin! Ma allora cos’è?”

“In Bolivia la bevono spesso e volentieri.”

“Ma ci vuoi dire finalmente che diavolo è?”

“Acqua. Ve l’ho già detto.”

“Ah sì, io la conosco! Gino, da bambina l’ho bevuta anch’io, almeno mi pare…”

 

 

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