lunedì 23 agosto 2021

LA TROTA FARIO

 


Tutto ebbe inizio e fine, in un certo senso, quando l’editore berlinese Hammer, che conosceva bene entrambe le lingue, si trovò di fronte la traduzione in italiano del quinto romanzo documentario di Gunther Croffi, nato in un paesino dell’Eifel e morto a Trieste in logiche circostanze, per chi lo conosceva, eppure assai poco chiare per tutti gli altri.

 Quei testi interminabili in tedesco, personalmente non gli piacevano per niente, anche se riscuotevano in giro per il mondo un’inspiegabile approvazione, almeno per lui. Se è difficile capire la gente, in senso generale, i lettori sono anche più imperscrutabili e irrazionali, senza contare che la trasposizione in italiano di Dario invece lo faceva sbellicare dalle risate. Lo scrittore italo-teutonico era considerato oltre che assai scientifico, serio se non quasi tragico, la traduzione invece era piuttosto una commedia, forse tragicomica, ma di sicuro comica fino alle lacrime. Difficile spiegare come, ma alla fine era anche piuttosto commovente, eppure si mantenevano sempre pronti e increspati gli angoli della bocca. Insomma sorprendeva e piacevolmente, cosa rara al giorno d’oggi e comunque anche nel passato.

Non ci è possibile stabilire quando cominciò la fortuna, o per alcuni versi la sfortuna di Dario Mario, certo e innegabile è che la sua intenzione era un’altra, lui voleva fare il traduttore, ma dovette invece fare lo scrittore, suo malgrado, e anche di un progressivo successo, in lento ma deciso aumento.

L’editore Hammer considerò che del resto anche Domenico Modugno voleva far l’attore e si ritrovò per caso, suo malgrado, al grande successo come cantante. È vero che riuscì a interpretare anche qualche film, ma come attore risultò piuttosto mediocre. Lo stesso si poteva dire di Dario, come traduttore era una chiavica, ma come scrittore era assai brillante.

In più nessuno capiva mai quale era il cognome suo o il nome, Mario Dario o Dario Mario? Non si saprebbe neanche ora, perché parlare con lui era difficile, impossibile avere una soddisfazione, una risposta coerente alla domanda, non riusciva a essere ragionevole, non ci teneva proprio, se solo avesse mostrato la carta d’identità sarebbe stato facile e immediato, ma quando si provava a convincerlo scappava via con qualche scusa inventata al momento. La moglie ci informò che il cognome del marito era Finkelstein, di origine ebrea, Mario e Dario i due nomi propri, scambievoli. Ma lui se ne vergognava e non sapeva nemmeno perché. Trattavasi di un uomo in perenne fuga da qualcosa o da qualcuno, forse proprio da sé stesso, frequentemente si sentiva raggiunto, allora fuggiva di nuovo e ancora. Sua moglie lo giustificò dicendo che andava preso come veniva, era l’unica maniera, anche se piuttosto spesso non veniva per niente. Aveva in sé nascoste un’infinità di regole e nozioni che però non comunicavano tra loro, se non in qualche fortunato momento, come quando traduceva dal tedesco, che però lui chiamava yiddish, che anche se si somigliavano non erano esattamente la stessa cosa.

Avevamo comunque capito che il suo modo di lavorare si trattava di un difetto congenito, o acquisito nel tempo, già dal pensiero di Mario, dal suo stesso percorso storico. Quando gli chiedemmo cosa ne pensava, ci portò degli esempi che con lui avevano poco a che fare, qualcosa rimasto impigliato nei ruvidi meandri della sua mente, trasposizioni di cui era forse cosciente, ma spesso anche altre che non sembravano proprio essere in una qualsiasi relazione con lui e la sua storia personale, quella degli ebrei ashkenaziti e con la sua stessa maniera di parlare. Citava sé stesso sempre alla terza persona singolare, come se fosse un altro e in un certo senso lo era anche.

Abbiamo per fortuna una confessione che ci fornì, senza saperlo, scrivendo inavvertitamente il suo primo romanzo, che non fu certo un grande successo. La gente tardò a identificarsi con i meccanismi mentali anticipati e interrotti, sfuggiti al controllo del proprietario, per modo di dire, di una trota Fario che nuotava in mezzo alle Iridee, cioè la sua mente ribelle anche a sé stessa, ma incatenata forse per sua stessa scelta, secondo una sua poi diventata nota descrizione, che apparentemente era riferita a un personaggio del libro, ma si capiva che idealizzava piuttosto la sua umana condizione, di fondamentale e sistematica confusione che si trasformava in disumana testardaggine e insistenza, su errori nuovi o già fatti e consumati, sulle liquide vie di fuga per scappare dalla schiavitù della realtà, fatta di invasori perlopiù americani, come le trote Iridee che più forti ma meno pregiate delle Fario avevano invaso le acque europee, soprattutto quelle degli allevamenti, ma anche dei laghi, perlopiù di pesca a pagamento.

Dario ebbe a dire una volta che quel traduttore non sapeva e non voleva scrivere niente di personale, parlando di sé stesso, non era affatto capace e non gli garbava nemmeno, che gli lasciassero fare il suo lavoro, che lo lasciassero un po’ in pace, che aveva bisogno di concentrarsi un po’.

Per fargli scrivere il suo primo romanzo, l’editore dovette inventare uno stratagemma: gli dette da tradurre un libro di uno svizzero tedesco amico suo, Dino Fischer, che non gli avrebbe fatto causa, visto che quello era un esperimento, anche per il bene della scienza e forse anche della letteratura, almeno quella di un certo tipo, che magari stava nascendo in quel momento e poi il testo fu tanto stravolto che sarebbe stato difficile riconoscercelo. Lo stesso autore ne rimase stupito, non che lui non avesse detto quelle cose, o forse potevano essere interpretate in un’altra maniera, magari più di una.

Dario non amava la traduzione letterale, come avrebbe potuto? No, no, gli ricordava il nazismo, lo aveva più volte dichiarato, indirettamente attraverso altre sue elaborazioni precedenti, dalla bocca di personaggi che fiorivano dalla prosa scientifica e lanciavano messaggi in codice all’avventuratosi lettore eventuale, spesso ignaro, ma che talvolta se ne lasciava catturare con insospettabile piacere.

 

Non so da cosa viene, ma spesso o quasi sempre, la cosa sbagliata mi viene in mente prima di quella giusta, sui parametri delle quali cose ci sarebbe anche da discutere, se avessimo voglia e tempo, ma anche una qualsiasi necessità, che noi adesso non abbiamo, magari nemmeno in futuro, poi vediamo. Si potrebbe anche dire che una cosa è conseguenza dell’altra, ma a chi importerebbe saperlo? Insomma alla fine non dico niente, ma i pensieri mi ronzano dentro come api in un alveare, un grande alveare, tanti pensieri.

Chi è che ha detto che la vigliaccheria è l’incapacità di fermare la corsa dell’immaginazione? 

L’illusione di credere di sapere quello che viene dopo mi rovina tutto, quando il dopo viene a presentarsi, anche se non era così come pensavo, io me ne sono già andato, stanco di aspettare, non posso mai avere una controprova utile. Il brutto è che interrompo anche gli altri e termino le loro frasi come se sapessi perfettamente cosa stanno per dire, invece era solo una proiezione che mi era inavvertitamente scappata. Devi vedere come s’incazzano e hanno anche ragione, oltretutto. Sono un rompiscatole, ma non lo faccio di proposito, per quanto me ne renda conto, non riesco a fermarmi, reagisco prima che succeda qualcosa, molte volte anche quando non dovrà proprio succedere niente. Ma che ci vuoi fare? Vivo in anticipo quello che deve accadere tra poco e anticipandolo spesso lo cambio e nella maggior parte dei casi non in meglio.

È difficile cambiare alla mia età.

A proposito: quanti anni ho?

 

Un maggiore successo, ma sempre di nicchia, anche se a ben guardare una nicchiotta decisamente più estesa, venne raggiunto con l’accorgimento di pubblicare il testo in tedesco, poi tradotto fedelmente e correttamente da un altro traduttore, uno vero, infine la parte trasposta in maniera… diciamo non letterale, da Dario Mario. I saggi scientifici diventavano magicamente e inopinatamente romanzi intimistici e se si andava a vedere parola per parola, concetto su concetto, non erano proprio del tutto campate in aria, quelle evoluzioni di frasi sfuggite al loro creatore come mosche senza testa, senza alcun piano di volo, rispetto all’originale in tedesco.

L’editore Holger Hammer si accorse che la vita e poi anche la traduzione di Mario erano legate alla fisica quantistica con un filo robusto, per tutti invisibile, sebbene lui non se ne rendesse conto e probabilmente non ne avesse nemmeno mai sentito parlare, già abbastanza confuso da cose molto meno complicate. Quando gli venne fatto notare questo aspetto, lasciò di stucco il suo pubblico e forse anche quello degli altri. Influenzato da personaggi scientifici attorno, durante un congresso al quale aveva erroneamente partecipato, in un’intervista al giornale Berliner Morgenpost, quindi in tedesco, poi tradotto in italiano da qualcun altro e successivamente in portoghese, spagnolo, inglese e francese, al microfono per la prima volta in vita sua, di fronte a un centinaio di luminari per i suoi gusti anche troppo illuminati, ebbe a dichiarare:

 

In sintesi, l’esperimento sostiene la teoria che la realtà è la risultanza fra osservatore e osservato, significa che l’universo esiste perché c’è un osservatore, significa che il sistema di credenze dell’osservatore determina l’esistenza della realtà nella forma in cui egli crede che sia.

Le teorie dei quanti funziona bene anche con me, ma in maniera saltuaria e forse non casuale. La mia mente si scinde di continuo, comunica raramente con sé stessa, le varie parti separatesi si ignorano, ma ecco le famose reazioni immediate e non locali.

Per onestà intellettuale, va detto che la fisica quantistica è considerata ancora una teoria, sebbene fino ad oggi abbia avuto il 100% di successo nel prevedere il risultato degli esperimenti quantistici e, fra tutte le teorie alternative sulla realtà, è quella che fornisce maggiori possibilità di comprensione dell’esistenza. Per contro, bisogna considerare che un secolo è un tempo troppo piccolo rispetto alla storia complessiva dell’uomo per determinare un cambio radicale del modello di pensiero collettivo. È probabile che occorrano diverse generazioni affinché queste nuove consapevolezze divengano parte integrata del sapere collettivo e, di riflesso, del patrimonio genetico dell’umanità. È parte del processo di evoluzione complessivo. La mia vita è ancora più corta e le interruzioni che io devo subire da me stesso, e che riverso spesso sugli altri, ne sono solo una piccola, infima dimostrazione dell’enorme e spesso inutile attività che ferve dentro di me, se proprio mi si volesse considerare come un’unica entità.

 

Il terzo libro di Mario Dario, Fatevi piuttosto i fatti vostri fu una traduzione da un incompiuto ma gigantesco testo di quasi mille pagine dello scienziato Heisemberg, ormai defunto, quello che a suo tempo aveva detto, per primo, che l’osservatore influenza inevitabilmente l’esperimento. La famiglia accondiscese volentieri a questa esperienza. Mario dimostrò che il tale esperimento, qualsiasi esso sia, influenza la vita dell’osservatore e di tutti i suoi amici e conoscenti, a volte anche della sua donna di servizio, più raramente quella del suo gatto, animale per sua fortuna piuttosto indipendente. Dario riuscì a scrivere una lettera commossa al mondo, cioè a tutti i suoi abitanti, a partire da formule ed esperimenti scientifici, cosa che nessuno poteva pensare che fosse possibile, né poi in seguito che potesse risultare gradevole alla lettura, a parte qualche bestemmia sfuggitagli.

Il suo editore, al decimo libro tentò un nuovo esperimento, gli fece tradurre un libro già tradotto da lui stesso, ma successivamente trasposto in tedesco da qualcun altro. Mario Dario stupì tutti e lo riprodusse fedelissimo, perfino nella punteggiatura, al trattato di botanica dell’austriaco Heinrich Krantz da cui era stato elaborato, diciamo, con l’aggiunta di alcune battute improvvise, spesso esilaranti, non riscontrabili nel testo originale.

I critici iniziarono a chiamarlo il Diligente Frullatore Cosmico, sua moglie lo trovò appropriato, i libri venivano firmati con lo pseudonimo La Trota Fario, perché l’autore amava la pesca con la mosca, sebbene non l’avesse mai praticata, purtroppo non ne aveva mai avuto occasione.

Per manifesta impossibilità di ragionarci, Mario Dario non fu mai messo al corrente di essere diventato uno scrittore in pianta più o meno stabile, se il suo stipendio progressivamente e costantemente aumentava è anche vero che le traduzioni da fare, con il passare degli anni, diventarono troppe e sempre più complicate. I figli cercarono di dirglielo solo sul letto di morte, ma lui stava già delirando, anche più del suo solito, evidentemente parlava ai Salmerini Alpini, parenti lontani della trota Fario, sembra che parlasse di future e chiare, fresche, dolci acque, citando il Petrarca probabilmente senza volerlo.

 


Nessun commento:

Posta un commento