Tutto
ebbe inizio e fine, in un certo senso, quando l’editore berlinese Hammer, che
conosceva bene entrambe le lingue, si trovò di fronte la traduzione in italiano
del quinto romanzo documentario di Gunther Croffi, nato in un paesino dell’Eifel
e morto a Trieste in logiche circostanze, per chi lo conosceva, eppure assai poco
chiare per tutti gli altri.
Quei testi interminabili in tedesco, personalmente non gli piacevano per niente, anche se riscuotevano in giro per il mondo un’inspiegabile approvazione, almeno per lui. Se è difficile capire la gente, in senso generale, i lettori sono anche più imperscrutabili e irrazionali, senza contare che la trasposizione in italiano di Dario invece lo faceva sbellicare dalle risate. Lo scrittore italo-teutonico era considerato oltre che assai scientifico, serio se non quasi tragico, la traduzione invece era piuttosto una commedia, forse tragicomica, ma di sicuro comica fino alle lacrime. Difficile spiegare come, ma alla fine era anche piuttosto commovente, eppure si mantenevano sempre pronti e increspati gli angoli della bocca. Insomma sorprendeva e piacevolmente, cosa rara al giorno d’oggi e comunque anche nel passato.
Non
ci è possibile stabilire quando cominciò la fortuna, o per alcuni versi la
sfortuna di Dario Mario, certo e innegabile è che la sua intenzione era
un’altra, lui voleva fare il traduttore, ma dovette invece fare lo scrittore,
suo malgrado, e anche di un progressivo successo, in lento ma deciso aumento.
L’editore
Hammer considerò che del resto anche Domenico Modugno voleva far l’attore e si
ritrovò per caso, suo malgrado, al grande successo come cantante. È vero che
riuscì a interpretare anche qualche film, ma come attore risultò piuttosto mediocre.
Lo stesso si poteva dire di Dario, come traduttore era una chiavica, ma come
scrittore era assai brillante.
In
più nessuno capiva mai quale era il cognome suo o il nome, Mario Dario o Dario
Mario? Non si saprebbe neanche ora, perché parlare con lui era difficile, impossibile
avere una soddisfazione, una risposta coerente alla domanda, non riusciva a
essere ragionevole, non ci teneva proprio, se solo avesse mostrato la carta
d’identità sarebbe stato facile e immediato, ma quando si provava a convincerlo
scappava via con qualche scusa inventata al momento. La moglie ci informò che
il cognome del marito era Finkelstein, di origine ebrea, Mario e Dario i due
nomi propri, scambievoli. Ma lui se ne vergognava e non sapeva nemmeno perché.
Trattavasi di un uomo in perenne fuga da qualcosa o da qualcuno, forse proprio
da sé stesso, frequentemente si sentiva raggiunto, allora fuggiva di nuovo e
ancora. Sua moglie lo giustificò dicendo che andava preso come veniva, era
l’unica maniera, anche se piuttosto spesso non veniva per niente. Aveva in sé
nascoste un’infinità di regole e nozioni che però non comunicavano tra loro, se
non in qualche fortunato momento, come quando traduceva dal tedesco, che però lui
chiamava yiddish, che anche se si
somigliavano non erano esattamente la stessa cosa.
Avevamo
comunque capito che il suo modo di lavorare si trattava di un difetto congenito,
o acquisito nel tempo, già dal pensiero di Mario, dal suo stesso percorso
storico. Quando gli chiedemmo cosa ne pensava, ci portò degli esempi che con
lui avevano poco a che fare, qualcosa rimasto impigliato nei ruvidi meandri
della sua mente, trasposizioni di cui era forse cosciente, ma spesso anche
altre che non sembravano proprio essere in una qualsiasi relazione con lui e la
sua storia personale, quella degli ebrei ashkenaziti
e con la sua stessa maniera di parlare. Citava sé stesso sempre alla terza
persona singolare, come se fosse un altro e in un certo senso lo era anche.
Abbiamo
per fortuna una confessione che ci fornì, senza saperlo, scrivendo inavvertitamente
il suo primo romanzo, che non fu certo un grande successo. La gente tardò a
identificarsi con i meccanismi mentali anticipati e interrotti, sfuggiti al
controllo del proprietario, per modo di dire, di una trota Fario che nuotava in mezzo alle Iridee, cioè la sua
mente ribelle anche a sé stessa, ma incatenata forse per sua stessa scelta, secondo
una sua poi diventata nota descrizione, che apparentemente era riferita a un personaggio
del libro, ma si capiva che idealizzava piuttosto la sua umana condizione, di fondamentale
e sistematica confusione che si trasformava in disumana testardaggine e
insistenza, su errori nuovi o già fatti e consumati, sulle liquide vie di fuga
per scappare dalla schiavitù della realtà, fatta di invasori perlopiù
americani, come le trote Iridee che più forti ma meno pregiate delle Fario
avevano invaso le acque europee, soprattutto quelle degli allevamenti, ma anche
dei laghi, perlopiù di pesca a pagamento.
Dario
ebbe a dire una volta che quel traduttore non sapeva e non voleva scrivere
niente di personale, parlando di sé stesso, non era affatto capace e non gli
garbava nemmeno, che gli lasciassero fare il suo lavoro, che lo lasciassero un
po’ in pace, che aveva bisogno di concentrarsi un po’.
Per
fargli scrivere il suo primo romanzo, l’editore dovette inventare uno stratagemma:
gli dette da tradurre un libro di uno svizzero tedesco amico suo, Dino Fischer,
che non gli avrebbe fatto causa, visto che quello era un esperimento, anche per
il bene della scienza e forse anche della letteratura, almeno quella di un
certo tipo, che magari stava nascendo in quel momento e poi il testo fu tanto
stravolto che sarebbe stato difficile riconoscercelo. Lo stesso autore ne rimase
stupito, non che lui non avesse detto quelle cose, o forse potevano essere
interpretate in un’altra maniera, magari più di una.
Dario
non amava la traduzione letterale, come avrebbe potuto? No, no, gli ricordava
il nazismo, lo aveva più volte dichiarato, indirettamente attraverso altre sue elaborazioni
precedenti, dalla bocca di personaggi che fiorivano dalla prosa scientifica e
lanciavano messaggi in codice all’avventuratosi lettore eventuale, spesso
ignaro, ma che talvolta se ne lasciava catturare con insospettabile piacere.
Non so da cosa viene, ma spesso
o quasi sempre, la cosa sbagliata mi viene in mente prima di quella giusta, sui
parametri delle quali cose ci sarebbe anche da discutere, se avessimo voglia e
tempo, ma anche una qualsiasi necessità, che noi adesso non abbiamo, magari
nemmeno in futuro, poi vediamo. Si potrebbe anche dire che una cosa è conseguenza
dell’altra, ma a chi importerebbe saperlo? Insomma alla fine non dico niente,
ma i pensieri mi ronzano dentro come api in un alveare, un grande alveare,
tanti pensieri.
Chi è che ha detto che la
vigliaccheria è l’incapacità di fermare la corsa dell’immaginazione?
L’illusione di credere di sapere
quello che viene dopo mi rovina tutto, quando il dopo viene a presentarsi,
anche se non era così come pensavo, io me ne sono già andato, stanco di
aspettare, non posso mai avere una controprova utile. Il brutto è che
interrompo anche gli altri e termino le loro frasi come se sapessi
perfettamente cosa stanno per dire, invece era solo una proiezione che mi era inavvertitamente
scappata. Devi vedere come s’incazzano e hanno anche ragione, oltretutto. Sono un
rompiscatole, ma non lo faccio di proposito, per quanto me ne renda conto, non
riesco a fermarmi, reagisco prima che succeda qualcosa, molte volte anche
quando non dovrà proprio succedere niente. Ma che ci vuoi fare? Vivo in
anticipo quello che deve accadere tra poco e anticipandolo spesso lo cambio e
nella maggior parte dei casi non in meglio.
È difficile cambiare alla mia
età.
A proposito: quanti anni ho?
Un
maggiore successo, ma sempre di nicchia, anche se a ben guardare una nicchiotta
decisamente più estesa, venne raggiunto con l’accorgimento di pubblicare il
testo in tedesco, poi tradotto fedelmente e correttamente da un altro
traduttore, uno vero, infine la parte trasposta in maniera… diciamo non letterale, da Dario Mario. I saggi
scientifici diventavano magicamente e inopinatamente romanzi intimistici e se
si andava a vedere parola per parola, concetto su concetto, non erano proprio
del tutto campate in aria, quelle evoluzioni di frasi sfuggite al loro creatore
come mosche senza testa, senza alcun piano di volo, rispetto all’originale in
tedesco.
L’editore
Holger Hammer si accorse che la vita e poi anche la traduzione di Mario erano
legate alla fisica quantistica con un filo robusto, per tutti invisibile, sebbene
lui non se ne rendesse conto e probabilmente non ne avesse nemmeno mai sentito
parlare, già abbastanza confuso da cose molto meno complicate. Quando gli venne
fatto notare questo aspetto, lasciò di stucco il suo pubblico e forse anche
quello degli altri. Influenzato da personaggi scientifici attorno, durante un
congresso al quale aveva erroneamente partecipato, in un’intervista al giornale
Berliner Morgenpost, quindi in tedesco, poi tradotto in italiano da qualcun
altro e successivamente in portoghese, spagnolo, inglese e francese, al microfono
per la prima volta in vita sua, di fronte a un centinaio di luminari per i suoi
gusti anche troppo illuminati, ebbe a dichiarare:
In
sintesi, l’esperimento sostiene la teoria che la realtà è la risultanza fra osservatore e osservato, significa
che l’universo esiste perché c’è
un osservatore, significa che il sistema di credenze dell’osservatore determina l’esistenza della
realtà nella forma in cui egli crede che sia.
Le
teorie dei quanti funziona bene anche con me, ma in maniera saltuaria e forse
non casuale. La mia mente si scinde di continuo, comunica raramente con sé
stessa, le varie parti separatesi si ignorano, ma ecco le famose reazioni
immediate e non locali.
Per
onestà intellettuale, va detto che la fisica quantistica è considerata ancora
una teoria, sebbene fino ad oggi abbia avuto il 100% di successo nel prevedere
il risultato degli esperimenti quantistici e, fra tutte le teorie alternative
sulla realtà, è quella che fornisce maggiori possibilità di comprensione
dell’esistenza. Per contro, bisogna considerare che un secolo è un tempo troppo
piccolo rispetto alla storia complessiva dell’uomo per determinare un cambio
radicale del modello di pensiero collettivo. È probabile che occorrano diverse
generazioni affinché queste nuove consapevolezze divengano parte integrata del
sapere collettivo e, di riflesso, del patrimonio genetico dell’umanità. È parte
del processo di evoluzione complessivo. La mia vita è ancora più corta e le
interruzioni che io devo subire da me stesso, e che riverso spesso sugli altri,
ne sono solo una piccola, infima dimostrazione dell’enorme e spesso inutile attività
che ferve dentro di me, se proprio mi si volesse considerare come un’unica
entità.
Il
terzo libro di Mario Dario, Fatevi piuttosto
i fatti vostri fu una traduzione da un incompiuto ma gigantesco testo di
quasi mille pagine dello scienziato Heisemberg, ormai defunto, quello che a suo
tempo aveva detto, per primo, che l’osservatore influenza inevitabilmente l’esperimento.
La famiglia accondiscese volentieri a questa esperienza. Mario dimostrò che il
tale esperimento, qualsiasi esso sia, influenza la vita dell’osservatore e di
tutti i suoi amici e conoscenti, a volte anche della sua donna di servizio, più
raramente quella del suo gatto, animale per sua fortuna piuttosto indipendente.
Dario riuscì a scrivere una lettera commossa al mondo, cioè a tutti i suoi
abitanti, a partire da formule ed esperimenti scientifici, cosa che nessuno
poteva pensare che fosse possibile, né poi in seguito che potesse risultare
gradevole alla lettura, a parte qualche bestemmia sfuggitagli.
Il
suo editore, al decimo libro tentò un nuovo esperimento, gli fece tradurre un
libro già tradotto da lui stesso, ma successivamente trasposto in tedesco da
qualcun altro. Mario Dario stupì tutti e lo riprodusse fedelissimo, perfino
nella punteggiatura, al trattato di botanica dell’austriaco Heinrich Krantz da
cui era stato elaborato, diciamo, con l’aggiunta di alcune battute improvvise,
spesso esilaranti, non riscontrabili nel testo originale.
I
critici iniziarono a chiamarlo il Diligente Frullatore Cosmico, sua moglie lo trovò appropriato, i libri
venivano firmati con lo pseudonimo La
Trota Fario, perché l’autore amava la pesca con la mosca, sebbene non
l’avesse mai praticata, purtroppo non ne aveva mai avuto occasione.
Per
manifesta impossibilità di ragionarci, Mario Dario non fu mai messo al corrente
di essere diventato uno scrittore in pianta più o meno stabile, se il suo
stipendio progressivamente e costantemente aumentava è anche vero che le
traduzioni da fare, con il passare degli anni, diventarono troppe e sempre più
complicate. I figli cercarono di dirglielo solo sul letto di morte, ma lui
stava già delirando, anche più del suo solito, evidentemente parlava ai
Salmerini Alpini, parenti lontani della trota Fario, sembra che parlasse di
future e chiare, fresche, dolci acque, citando
il Petrarca probabilmente senza volerlo.
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