martedì 17 agosto 2021

A FUTURA MEMORIA

 


Ha scritto diversi libri, di cui alcuni perfino pubblicati, ma non sempre facilmente reperibili sul mercato. Criticato o snobbato ingiustamente dai critici, osannato dal pubblico, ma pur sempre un pubblico di nicchia, insomma di nicchietta, se vogliamo. È qui per presentare il suo nuovo libro, che poi non è affatto suo, ma lasciamoglielo spiegare a lui, il concetto non è tanto chiaro nemmeno per me.

 

“Fidarsi è male, non fidarsi è peggio.”

“Sì… in un certo senso. Cambiamo piuttosto discorso. Qual è la roba che ti ha più entusiasmato ultimamente?”

“Guarda, non ci crederai, ma ti garantisco che non è stato affatto un libro di libreria!”

“E io che pensavo che volenti o nolenti, fossero TUTTI libri di libreria!”

“No, di solito sì, lo ammetto, non dico di no, ma questo è un manoscritto mandatomi da un amico, non scritto da lui, ma che mi è piaciuto assai.”

“Cioè?”

“Cioè uno dei miei libri preferiti è stato stampato da me su fogli A4 e nemmeno rilegato, cioè: chi se ne frega, mi è stato mandato proprio per e-mail…”

“Aspetta, purtroppo devo dire queste stronzate qui, poi continuiamo: della serie Interviste inutili, eppure in qualche modo inevitabili, il socio-antropologo e futurologo Angelino Pietrogiovanna, nato a Milano ma che vive da anni a Lampedusa, si professa un toffleriano convinto, insomma, volenti o nolenti, ma pur sempre disponibile al dialogo.” Poi gli fa segno che ha finito e che possono continuare, dice:

“Cioè, questo qui chi lo ha scritto era uno che anche il tuo amico non conosceva?”

“È stata la prima cosa che gli ho chiesto e lui ha detto di no, ma non mi ha specificato come lo aveva avuto.”

“E te non glielo hai domandato?”

“Sì, ma lui ha cambiato discorso, io non ho insistito. Una cosa misteriosa, che ti devo dire?”

“Che storia. E che roba è allora?”

“Un piccolo trattato di antropologia maccheronica, direi, per ignoranti, quali tutti noi siamo, nel senso che questo si può facilmente capire e interpretare, visto che è principalmente un rapporto dei fatti. Si parte e si arriva agli esseri umani, sempre e comunque, ma non si entra nel labirinto delle parole difficili o tecniche, si spiega come se fosse a un bambino, con i fatti e non con le teorie. Certo questo è il solo libro che conosco che è stato scritto da due persone, due non-filosofi, quasi dei mezzi sociologi contemporanei, di un'epoca non troppo lontana, appena terminata, o forse è ancora in sospeso. Insomma non si sa. I due si conoscono, pare anche da molti anni, sono pure amici, o forse non lo sono più, giacché non sono d'accordo su quasi niente, eppure, spesso, hanno ragione tutti e due, o anche tutti e due torto, insomma si danno da fare abbastanza.

Nella mia stesura, che è il risultato di due anni di lavoro, i loro commenti li ho tolti, perché hanno meno senso, se uno dice bianco l’altro deve dire nero, fanno tutti e due gli avvocati dei diavoli e i diavoli, lo sappiamo tutti, non hanno mezze misure, se ne fregano dello spazio e del tempo. E per ironia invece gli avvocati ne hanno troppe. Insomma niente grigio, solo bianco e nero.”

“E allora?”

“Allora qui c’è tutto, voglio dire che si parla di tutto e di niente, solo che è a pezzi e il lettore deve rammendarseli da solo.”

“Sono due italiani?”

“Sì, ma uno è andato a vivere in Polonia, in campagna, sembra che per spedire le sue lettere elettroniche debba andare nel centro più vicino, a una trentina di chilometri di strade sterrate.”

“Si capisce o no perché ci è andato?”

“Sì, una storia d’amore con una donna che poi lo ha lasciato, perché lui voleva vivere lì e lei invece no, era attratta dal mondo occidentale, lui al contrario da quel ritorno al passato…”

“E dove si erano conosciuti?”

“A Pesaro.”

“Che storia. E allora?”

“Allora questo misterioso Gonzalo La Pecora, probabilmente pseudonimo di chissà chi, studia gli esseri umani, ma per sua stessa dichiarazione, credo sincera, senza conoscere i fondamenti di antropologia, psicologia, sociologia e via discorrendo.”

“E perché mai dovrebbe mentire?”

“Infatti, di solito si mente per aumentare i propri meriti, non per sminuirsi. Il che può anche essere una fortuna, perché a lui gli umani interessano come esseri, non come casi patologici. Cioè non sta a notare l’errore, ma ne sfrutta la sua comicità, la bellezza che risiede proprio nella stranezza. Non cita i nomi o usa pseudonimi, per non offendere nessuno, ma sicuramente gli interessati, se mai avessero letto le sue pagine ci si sarebbero riconosciuti. Chissà se lo hanno mai fatto? Come dicevamo qui gli scrittori sono due, lo stesso La Pecora dice che il manoscritto, è stato scritto a quattro mani.

Le altre due ci conducono quindi a Biagio Aniello, altro pseudonimo di misterioso scrittore, per quanto ne so io, a futura memoria il manoscritto non è stato mai pubblicato e non ce ne possiamo sorprendere. Per questo mi sono immerso in questa missione.”

“Quest’ultimo vive ancora in Italia?”

“Sì. Non dice dove, ma ho ragione di credere che sia nel sud, a dire il vero penso che sia il mio amico stesso, per questo non mi ha spiegato bene le cose, comunque sia, non fa differenza.”

“No. Insomma questi due hanno intervistato un sacco di gente…”

“ …e non si sa con quale trucco, se non quello di essere sinceri, che a volte funziona, la gente magari non ci crede, ma se ne fa ammaliare, spesso senza neanche accorgersene. Comunque le storie sono filtrate, più che altro, nel senso che alcune appaiono sotto forma di racconto e non di dialogo, sono anche storie di altre persone, non di quelle intervistate, insomma, bisogna prenderlo per quello che è, possono essere verità o anche bugie, storie vere romanzate, ci sono varie ipotesi o interpretazioni, secondo me.

Le testimonianze che hanno messo da parte sono di tanti tipi, alcuni dialoghi e altri sono dei resoconti, delle cronache.”

“Prova a leggerne una.”

“Una a caso, eccola qui, senza titolo, come la maggior parte, del resto:

 

Un’immagine che vale la pena di fotografare, è assai difficile da descrivere con frasi, ma può essere dipinta, anche a parole, se si riesce a darle l’idea della prospettiva, della profondità, dei colori... e naturalmente della dinamica, nell’immobilità, di combinazioni di lettere e relativi significati e poi spazi, virgole e punti.

Voglio partire da questa immagine romantica che rimane ancora davanti ai miei occhi, a distanza di anni, dal momento in cui, le mie pupille attente la misero in memoria, nel computer dietro ai miei occhi.

Era un giorno caldo, la salita dietro alla scuola del Rosario era assai ripida, una strada di grande circolazione nel centro di Porto Alegre.

Un carrettino con due operatori, ognuno con il suo compito: uno che manovrava e frustava il cavallo e l’altro che mandava affanculo gli automobilisti dietro che suonavano il clacson.”

 

“Bello e poetico, alla sua maniera. E dove è questo Porto Allegro?”

“In Brasile. Ma il nome è Porto Alegre. Si tratta piuttosto della capitale dello stato del Rio Grande do Sul, che significa del sud, perché c’è anche quello del nord, Rio Grande Do Norte.”

“Ah.”

“Cioè lo stato del sud è tra Uruguay e Argentina, quello del nord è situato nell'estremità orientale del paese affacciato sull'Oceano Atlantico. È piuttosto lo Stato sudamericano più vicino all'Africa e all'Europa, con culmine al famoso Cabo San Roque, Capo San Rocco. La capitale è Natal. Gli stati brasiliani sono 26, più il piccolo distretto federale dove c’è la capitale del paese, Brasilia.”

“Bene.”

“Vedi che l'osservazione dell'essere umano, dovunque esso sia, può risultare assai interessante, perfino divertente, anche solo nella descrizione dei loro semplici fatti quotidiani, basta saperne cogliere la semplicità, la spontaneità, a futura memoria, l'irripetibile eppure sempre ripetuta attualità.”

“Sì. Queste due persone che raccontano di altre persone, situazioni da loro vissute, volenti o nolenti, studiano l'essere umano e lo mettono in scena, ma il difficile è capire quando si tratta di uno o dell'altro a scrivere.”

“Ecco. Forse non ha importanza, ma incuriosisce. Prima di trovare questa maniera di comunicare, i due non s'intendevano quasi su niente, viene da pensare. Dopo le cose peggiorano. La storia non detta, proprio per questo, è piuttosto interessante. La gente si vergogna di tutto e di niente, invece dovrebbe sfogarsi insomma, forse ci siamo capiti.

Il tema scelto dai due è il tempo, in funzione della libertà, in contrapposizione allo spazio, anche se non lo dicono. Il tempo però è il vero lazzarone della storia, questo lo aggiungo io. Non glielo hanno chiesto direttamente, ma da quello che dicono loro e dalle poche domande che gli fanno, a futura memoria, si può intuire. Gli autori dei vari pezzi non sono stati conosciuti tutti personalmente da chi ce li scrive e ci pare di capire che non gliene sia affatto dispiaciuto, né probabilmente a loro stessi.”

“Secondo te è meglio?”

“Sì, perché ci si confida più facilmente con uno sconosciuto, piuttosto, uno che non si incontrerà mai più, se ci pensi è più confortevole.”

“Forse sì.”

“Certamente e poi troppo assorbiti dalla quotidianità della sopravvivenza pratica, ci si dimentica, oppure - più facilmente - non si è proprio mai saputo, che spiritualizzarla rende meno volgare la routine, ne olia il meccanismo, la rende più efficace: meno vile e ripetitiva.

Secondo me loro chiedevano di dire al microfono quello che volevano, la gente parlava liberamente, poi loro sfrondavano, correggevano, buttavano via delle parti. Cosa che dopo ho fatto anch’io, con il loro testo. Nella vita la parte della selezione è tanto continua, che pare sia il maggior lavoro del nostro piuttosto bombardato cervello.

Eccotene un altro un po’ più lungo, ma sempre piuttosto corto, in relazione alla media:

 

C’è un signore che incontro ogni tanto che so che soffre di depressione. L’ultima volta che l’ho incontrato era in farmacia, una di quelle grandi, dove ci sono anche posti a sedere, perché c’è sempre da aspettare abbastanza.

Mi ha riconosciuto e si è accomodato accanto a me su uno di quei piccoli sedili seminati da montagnette di pieghevoli con la reclame di medicine:

“Io non capisco quelli che non gli garba venire in farmacia, forse si annoiano ad aspettare. Mah? Invece io ci vengo volentieri, qui ci s’incontra la gente e si possono fare un po’ di discorsi a biscaro, come si suol dire.”

Come tanti altri che conosco è un po’ confuso, ma assai simpatico e tende a dimostrare a sé stesso, di conseguenza agli altri che sta bene, che va tutto bene, che la vita è bella, basta saperne approfittare, insomma come fa lui.

Capita che contraddica subito dopo quello che ha appena detto, ma questo non è affatto un problema, basta che non si metta a far politica, che tanto c’è già chi lo fa al posto suo, più giovane e anche più confuso, come suo figlio, lasciamo perdere.

So che beve assai e tutte le volte che lo incontro la distanza tra gli occhi gli si è ridotta. Non so se è una conseguenza, ma gli sta venendo una specie di strabismo convergente, credo che prima che gli occhi gli si tocchino, dovrà smettere di bere.

 

“Qui non cita nemmeno il luogo, potrebbe essere dovunque.”

“No, ma c’è la frase in cui dice discorsi a biscaro che suona come toscana, se non proprio lucchese o pisana.

Comunque poi la storia non detta, forse per questo più intrigante, è quella di due amici che si sono persi di vista, prima per un semplice trasferimento nello spazio e perciò nel tempo, uno è rimasto dove erano nati e vissuti entrambi e l'altro si è stabilito in un luogo lontano migliaia di chilometri.

Poi le loro vite anche, che già anche prima stavano divergendo, erano diventate sempre più lontane, sia come maniera di passare le giornate che come potevano pensare di conseguenza, di fronte alle faccende spicciole, delle loro rispettive routine, il loro famigerato giorno per giorno.

Prima che iniziassero, come ripiego, a scrivere questi ritratti di esseri umani, i due ex amici comunicavano piuttosto con una certa frequenza, all'inizio più lentamente, per lettera, poi, con l'avvento dell'era dei computer, per internet.

Dopo aver litigato varie volte, per e-mail, iniziarono a parlare attraverso raccontini-parabola, senza commentarli all’inizio, ma lasciando permeare le loro esperienze differenti, dai fatti descritti.

Poi invece hanno ricominciato a litigare, parlando dei racconti stessi, di conseguenza del mondo emerso, della piuttosto formicolante vita che c’è sopra… eccetera.

 Tornando al manoscritto realizzato a quattro braccia, quasi mille pagine piene-piene, corpo 12, carattere Baskerville Old Face, cartelle di 1800 caratteri, spazi compresi. Tutte queste cose venivano recitate dai personaggi e si poteva captare un potenziale insegnamento dal comportamento, giusto o sbagliato che ci sembrasse, piacevole o sgradevole che fosse, di ognuno di essi.

In quel giorno di settembre in cui lo aprii sul monitor, prima di stamparlo, sentii come una specie di vibrazione, chi lo sa, forse un presentimento, o magari era piuttosto solo la mia fertile immaginazione.

Mi sono reso conto, grazie ai due autori dai cognomignoli pastorizi, di un aspetto singolare e quotidiano della vita. Per quanto sembri strano si può avere ragione in tanti, non solo in due, sullo stesso argomento, perché la realtà ha la capacità di poter essere vista e perciò interpretata in maniera differente dai vari punti di osservazione, eppure, di solito, da ognuno di questi punti, si pensa di avere l'unica soluzione possibile. Forse per superbia, forse per la fretta, forse perché avere torto ci fa paura. Invece è cosa buona e giusta, porta apritrice di insegnamenti futuri, realtà che si aprono, magari troppo violentemente, ma non ci si può e non ci si deve far niente.”

“Leggiamo un’altra storia?”

“Prendiamo un’altra storia:

 

Un personaggio che ho conosciuto solo di vista è stato LB , un politico arruffone come tanti, ma a suo modo particolare. Ne avevo sentito parlare da mio padre che diceva che era piuttosto un delinquente, uno che tutto quello che voleva era farsi strada a spallate e non misurava rischi, perdite o guadagni, sia suoi che della gente che ci capitava in mezzo.

Ebbi modo di incontrarlo insieme al mio vicino di casa che si offrì di aiutarmi, visto che lo conosceva, suo malgrado disse, per farmi riavere la licenza di fare musica dal vivo che mi avevano ritirato per proteste dei vicini.

Dopo le opportune modifiche acustiche andammo da LB che a quell’epoca, dopo numerosi incarichi in varie parti dell’amministrazione pubblica era diventato il responsabile per queste cose, che non so nemmeno più come si chiamano.

Ci fece aspettare qualche minuto e mentre parlava con qualcun altro, con la porta aperta, il mio vicino, seduto accanto a me, mi disse:

 “Questo qui, lo vedi anche da te, è un imbecille, si vede lontano un chilometro, basta arrufianarsi un po’ , farlo sentire importante e ti darà quello che vuoi, se non gli costa troppo lavoro, lascia parlare me e spiega la situazione come me la hai raccontata prima, quando te lo dico io.”

Detto fatto, così fu, effettivamente era un faccendiere, si notava la sua ignoranza e la sua tronfia imbecillità con relativi atteggiamenti di magnanimità superiore. Facendolo sentire potente, giusto e generoso ottenemmo quello che volevamo.

Ci sarebbe bastato e avanzato per capire chi era LB ma un terzo atto ebbe a succedere, qualche anno dopo, attraverso Facebook, la moglie di quello stesso mio vicino, che non mi sembrava disonesta, forse solo un’iperattiva incompetente, che viveva in una dimensione parallela ma sulla nostra in comune rompeva piuttosto i coglioni a tutti, ma quando il famigerato LB morì lei ebbe a dichiarare il suo profondo dolore per un uomo che era stato il suo maestro, la persona che le aveva aperto un mondo che non sapeva nemmeno che esistesse. Mi domandai quale, ma non seppi rispondere.

 

Un altro pezzo interessante è questo, sul quale si sono litigati con passione, per scoprire che avevano lo stesso identico punto di vista, ma nessuno dei due lo ha mai ammesso, giammai.

“Un nipote e uno zio conversano seduti in veranda, fuori piove e loro si bevono il caffè caldo. Lo zio sta dando una specie di blanda lezione di vita al nipote, che lo stima, ne accetta l’autorità e l’esperienza, però ha opinioni discordanti, se non opposte.

- Tutti vogliono il successo e non si accorgono che sono dei fessi. Con il successo un sacco di gente li perseguirà, gli metteranno le mani addosso e in dubbio ogni parola che diranno, eccetera eccetera. Chi vuole essere lasciato in pace, come me, è all’insuccesso che deve mirare e costruirselo giorno per giorno, custodirselo gelosamente.

- Mi prendi in giro, zio?

- No, ti faccio un esempio, quando giocavo nel Pietrasanta in serie D, mancavano poche giornate alla fine del campionato e se continuavamo così si sarebbe vinto noi…

- Siete andati in serie C allora…

- No, aspetta, tu devi solo capire che per la società sarebbe stato un disastro, i soci erano tutti venditori di frutta e verdura con il carrettino, la serie C voleva dire molte spese in più, che non potevano sostenere e allora si riunirono e poi ci dissero che bisognava cominciare a perdere qualche partita purtroppo e noi così facemmo, e per poco… ma ci salvammo dalla promozione.

- Non mi pare bello rinunciare al successo.

- Allora sei fesso anche tu, ha ragione tuo padre Ernesto che Dio lo conservi sano di mente e capace di distinguere. È normale con un mondo fatto di televisione e di messaggi sensazionalistici… poco bene e troppo male, ma tutti vogliono il successo, secondo te a cosa serve? A essere frustrati, se non lo raggiungi, nella maggior parte dei casi. Ma poi, se ce la fai è anche peggio…

- Sei ammattito zio? Ma che dici?

- Dico che spesso la vera infelicità è proprio raggiungere quel qualcosa che hai sempre sognato. Perché?

- No, perché sono io che te lo chiedo.

- Era un perché retorico, lo vedi che sei fesso? Mi fai perdere anche il filo del discorso.

Perché raggiungerlo ti obbliga a vedere che non era come te lo eri immaginato!

Che delusione!

Aumentano le spese e le rotture di scatole e pensi a come stavi bene in serie D, meglio se a metà classifica, magari…

- Ma se invece la serie C ti facesse incassare di più? Per esempio con i biglietti delle partite?

- Quanto sei fesso, Nino! Non so se ho mai avuto occasione di fartelo notare, che ne so, magari di ricordartelo. Allora non bisognerebbe costruire uno stadio nuovo? E i salari dei giocatori, pensi che diminuirebbero o aumenterebbero? E gli spostamenti per le trasferte? Più l’affare ingrossa e più aumentano i pericoli, le difficoltà crescono…

- Se tutti ragionassero come te addio progresso!

- Addio, e io lo saluterei senza rimpianti, chi se ne fregherebbe?

- Tutti, zio!

- Ecco la dimostrazione definitiva della mia tesi!

Lo vedi che sei più fesso di quel che vuoi far credere a chi è meno fesso di te, perché ha più anni e più esperienza, meno falso entusiasmo e i piedi ben piantati per terra?

Proprio per questo che è una stronzata, il progresso è una parola tronfia, altisonante, che tutti amano e nessuno insegue veramente. Implica fare del bene al mondo, agli altri, ma quello che tutti vogliono è il proprio tornaconto. L’altruismo non è morto, Antonino, come tanti dichiarano inutilmente, quello non proprio è mai nato!”

 

“Questo è qua in Toscana, ha detto che giocava nel Pietrasanta, in serie D…”

“Sì, ma hai notato che lo zio dice quelle cose come che si conservi capace di distinguere… sono tipiche degli ebrei, no?”

“È vero. E allora è finita ‘sta storia?”

“Sì, ma volendo potrebbe anche continuare.”

“E fino a qui, quale sarebbe il messaggio?”

“Ce ne sono vari, basta saperli leggere.”

“Dimmene uno.”

“Te sei un tipino piuttosto delicato, ti ho già inquadrato, a futura memoria, hai paura di tutto.” Il Pietrogiovanna si sente offeso in qualche maniera, si altera improvvisamente.

“Sei impazzito? Datti una calmata. Anche questa parte la tagliamo, ovviamente.” Il telecronista è abbastanza elastico, ci è abituato e lo rimette a posto.

“Scusa, sono un po’ nervoso.”

“Non c’è problema, tornando a prima, il messaggio forse si capisce bene da solo, hai ragione. Ora aspetta che devo ripetere quelle robe, alla radio non ci vedono (e se ci vedessero sarebbe pure peggio) e quindi noi dobbiamo fare questa specie di riconoscimento, volenti o nolenti, lo so che è palloso, ma lo devo fare: della serie Interviste inutili, eppure in qualche modo inevitabili, il socio-antropologo e piuttosto futurologo Angelino Pietrogiovanna, nato a Milano ma che vive da anni a Lampedusa, si professa un toffleriano convinto, insomma, ma pur sempre disponibile al dialogo.

A proposito, come fa un futurologo a capire cosa diavolo ci succederà nel futuro?”

“Guardando il presente e il passato, a futura memoria, rapportandoli continuamente. C’è da dire che io in linea generale mi baso più che altro sullo sguardo di Alvin Toffler, che era puntato sull’uomo, sull’individuo, sul minuscolo occupante di questa nave trascinata dalla corrente del mutamento, di cui in genere quasi nessuno si cura.

Cosa pensa quell’omino sballottolato tra le onde, cosa prova nel corso della sua esistenza così diversa rispetto a quella delle generazioni che lo hanno preceduto, rimaste per secoli ancorate negli stessi porti?

Intendiamoci: non sempre le intuizioni di Toffler hanno retto alla sfida del tempo. Tra le sue congetture particolarmente centrate possiamo annoverare la crescita esponenziale di Intenet e tv via cavo, lo sviluppo di ingegneria genetica e tecniche di clonazione, il processo di dissoluzione della famiglia tradizionale, l’espansione di commercio online e la share economy. Meno precisi, invece, a futura memoria, gli insight sul declino delle città o le sue ipotesi sullo sviluppo di colonie spaziali (o sottomarine). Ma, come abbiamo ricordato, a Toffler non interessava tanto esercitarsi nell’antica arte della divinazione, quanto immaginare scenari possibili e aiutare individui, imprese e governi a prepararsi in tempo per affrontare il futuro.

Alvin Toffler, insomma, è stato uno dei rari pensatori della nostra epoca forse insieme a George Gilder in grado di tenere lo sguardo sempre fisso sulla big picture, la visione d’assieme, senza farsi influenzare da mode e fenomeni passeggeri, ma senza mai dimenticare che la storia è fatta (e subita) soprattutto dagli esseri umani in carne ed ossa, con i loro sogni e i loro problemi. Oggi, tra le elites che governano il pianeta, personaggi di questo calibro mancano terribilmente. Non ci resta che sperare nel futuro.”

“Una frase di Toffler che ritrae tutto il suo lavoro?”

Se non impariamo dalla storia, siamo condannati a ripeterla. Ma se non cambiamo il futuro, siamo condannati a sopportarlo. E questo sarebbe peggio.”

“Non ti arrabbiare se ti faccio a questo punto una domanda personale. Ma cosa ha a che fare il tuo lavoro, se ho ben capito, dello studio capillare del comportamento umano, con quello di Toffler, che studia invece a livello generale lo stesso comportamento, in larga scala?”

“Bene, sono contento che tu me lo chieda. È proprio come hai detto tu, io parto dal piccolo, perfino dall’infimo della routine degli uomini e cerco di arrivare a qualcosa di più grande, attraverso regole e notizie, grafici, norme elastiche, a quello che poi ha fatto lui, Toffler.

Il mio studio è differenziato, io non sono solo futurologo, sono un mezzo antropologo, ma prima di tutto un intero sociologo, sociologo in una maniera diversa da come comunemente s’intende, perché cerco di capire la pratica in teoria e viceversa, faccio i due processi inversi, sistematicamente. Mi allontano e mi avvicino e poi mi allontano e mi avvicino di nuovo.

Ti è chiaro adesso, cosa faccio?”

“No, cioè solo in teoria.”

“E grazie, la pratica è piuttosto complessa, io stesso la sto ancora perfezionando. Insomma ci studio tutti i giorni. Eccoti una frase di Toffler che ti farà capire meglio:

Gli analfabeti del futuro non saranno quelli che non sanno leggere o scrivere, ma quelli che non sanno imparare, disimparare, e imparare di nuovo.”

“Sì, almeno in teoria mi sembra più chiaro di prima. Mi pare che questo pensatore abbia proprio pensato a tutto.”

“Ecco perché lo chiamano così.”

“Abbiamo capito. Allora c’è qualcos’altro di Toffler che esemplifica meglio il tuo sforzo intellettuale e pratico, non lo so, un concetto o una frase…”

“Io direi che potrebbe essere questa: chiunque sia pignolo al punto da scrivere una lettera di correzioni a un editore senza dubbio merita l'errore che l'ha provocata.”

“La vuoi spiegare?”

“Sì, l’importanza che noi dobbiamo dare all’infimo e al grande si alternano, ma non a caso, bisogna prima capire cosa va studiato in piccolo, che cosa invece ci manda dei messaggi a grandi linee.”

“In relazione alla frase detta…”

“L’editore se ne frega delle tue correzioni, la tua è una perdita di tempo, assolutamente non vale la pena.”

Della serie Interviste inutili, eppure in qualche modo inevitabili, il socio-antropologo e futurologo Angelino Pietrogiovanna, nato a Milano ma che vive da anni a Lampedusa, si professa un toffleriano convinto, insomma, ma pur sempre disponibile al dialogo.”

“Questa tua presentazione mi sembra una presa in giro, te lo devo proprio dire.”

“Magari poi la cambiamo, questo è solo un abbozzo, volenti o nolenti, perché non la scrivi tu una roba come ti garba e poi la integriamo e adattiamo insieme?”

“Ecco, sì. Mi ci metto subito.”

“Aspetta, prima l’ultima domanda: perché sei andato proprio a Lampedusa, se vuoi descrivere il mondo partendo dal piccolo, perché proprio lontano da tutto?”

“Bravo! La domanda era inevitabile, come queste interviste a intellettuali di nicchia. A Lampedusa arrivano i barconi dei profughi africani, non te lo dimenticare. E l’internet, anche se fa schifetto, c’è anche là.”

“Ottimo e abbondante. L’intervista mi pare finita. Possiamo passare alle rifiniture.”

“Ma non abbiamo parlato dell’evoluzione dialettica…”

“Diciamocela allora. È importante?

Sì.

Ce la vuoi spiegare su grandi linee?”

“Sì. Diciamo che io e te, sull’immediato da farsi, abbiamo idee differenti se non opposte.

Ma fino a che punto opposte?

Sarà che i nostri orgogli, le nostre rigide convinzioni non c’ingannano?

E se invece di fare a botte, per meglio dimostrare di aver ragione, noi riflettiamo un attimo e cerchiamo di capire… noi stessi, le nostre idee e gli altri, e alla fine le loro idee sulla situazione in questione? Se noi poi prendiamo ciò che di meglio loro hanno e tagliamo quella parte delle nostre pensate, che loro ci hanno appena dimostrato che non funzionano. Se anche tu, cioè l’intervistatore, fai la stessa cosa che io ho fatto, alla tua personale maniera, quello che ne viene fuori è una fusione tra la nostra positiva selezione di idee, tagliate dal poco necessario e a volte ingombrante orgoglio, dalla ormai anacronistica rigidità di pensiero, quella è l’evoluzione dialettica!”

“Bravo!”

“Grazie!”

 

 

 

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