Ho dei cugini da parte
di madre nel nord dell’Inghilterra, a Prudhoe, provincia di New Castle, vicino
al Vallo di Adriano, e al confine ideale con la Scozia. È gente affabile e di
cuore, perciò l’ultima estate li sono andati a trovare, dopo ripetuto invito,
con tutta la famiglia. Ci siamo divertiti assai, anche perché le donne e i
bambini stavano da una parte e facevano le loro cose, intanto noi uomini
assaporavamo venti giorni quasi da scapoli, oltre a tutte le bevande che ci
capitavano a tiro, che non erano affatto cattive, né poche.
Lo zio Elton, anche lui di origine italiana, ma nato in Gran
Bretagna, marito della cugina Pina, o Giuseppina, è un signore molto
all’inglese, per la sua buffa maniera di scherzare senza ridere con l’umorismo
non-sense che piace o non piace. A me personalmente piace. In più non è
arrogante e parla solo quando ha qualcosa da dire, ma quando lo fa c’è da
spanciarsi.
Non ho mai visto una persona con uno sguardo tanto sereno e
aperto, all’inizio credevo che fosse solo un’impressione visiva e superficiale,
creata semplicemente dai suoi occhi distanti, dalle sopracciglia ben definite e
dalla pelle bianchissima, (che diventava appena rosea dopo qualche cicchetto) e
quindi dalla conformazione del viso, invece no, era proprio come sembrava.
Una sera per esempio ci siamo messi a giocare a Paroliamo, a casa
sua dove eravamo ospitati, c’era anche il cugino, Bertino, o anche detto
Robert, fratello di sua moglie, un altro simpaticone, ma un po’ più spaccone e
lui ci aveva portato del vino Romano Delli Castelli comprato a Glasgow. Diceva
e ripeteva che era come la gazzosa, ne potevi bere quanto ne volevi, non c’era
nessun problema. In effetti è un vino che sembra leggero, che però dà delle
botte non indifferenti a chi non lo conosce. Io lo conoscevo ma ho fatto finta
di no. Difatti dopo mezz’ora le regole del gioco erano diventate un po’ confuse
e non si sapeva più che lingua usare, l’inglese iniziale o l’italiano
indubbiamente più romantico, almeno per loro, o qualunque altro idioma ci
capitasse, alla fine ci inventavamo direttamente le parole e le regole, si
rideva di tutto e di niente.
L’inglese beve molto, l’italo-inglese non fa eccezione, non che
l’italiano puro non beva, ma per tutti questi isolani è quasi una questione di
onore, tutti i giorni, andare a letto in approssimativo stato di coma alcolico.
La serata più interessante è stata nei dintorni della grigiastra
cittadina, alla Staple, che vuol dire stalla, un pub storico di là, dove alla
birra alla spina buonissima di tre tipi fenomenali, si associa il gioco delle
bocce, ma un po’ diverso da quello che conoscevo io.
Anzitutto il posto è bellissimo, in mezzo alla verde campagna su
una collinetta, l’edificio è tutto in pietra a vista e durante i giorni feriali
non c’è tanta gente, non c’è musica per fortuna e si conversa tranquillamente.
Le piste per le bocce sono dei pratini perfetti e lunghissimi, inframezzati da
siepi basse e passerelle di cemento e pietra, panchine e tavolinetti di pietra
per gli spettatori, che a volte, per la più pura coincidenza, sono anche dei
bevitori. Non c’è un filo d’erba fuori posto, le bocce sono come delle ruote
ciccione, nel senso di come scorrono rotolando, essendo schiacciate nel mezzo e
arrotondate sui lati, sembrano di pietra levigata e brillante, abbastanza
voluminose e pesanti.
Giocando male e riuscendo anche a peggiorare con le relative
bevute, ridendo e scherzando ho citato la somiglianza col bowling e zio Elton
sorrideva serio e diceva che purtroppo tutti i giochi del mondo li avevano
inventati gli inglesi, per il bowling erano stati sempre gli inglesi ma
emigrati in America.
Naturalmente ci siamo fatti un certo numero di birre e se anche
avessi avuto una tenue speranza d’imparare, mischiando bionda, rossa e scura,
facevo solo dei danni e sono riuscito a tirare una pesantissima boccia
rimbalzante anche sulla pista adiacente, saltando siepe di mortellino e
passerelle laterali, pista che per fortuna era occupata da conoscenti di zio
Elton, che si sono messi a ridere divertiti. Uno dei quattro era il colonnello
Mountbatten, che mi hanno subito avvertito era l’inventore del Sistema Binario applicato alla vita.
Erano tutti dei gentiluomini ma anche loro avevano bevuto la loro parte di
birra, senza mischiare però, come facevo io. Queste stesse impeccabili personcine
quando vengono in Italia fanno degli intrugli incredibili di spumante, liquori,
birra e vino, ma in Inghilterra, forse perché lì ci devono anche lavorare, sono
molto seri e sistematici nel bere. Non è che non si ubriachino, quando sono a
casa loro, ma lo fanno in maniera più rigorosa e scientifica.
Il colonnello ha provato a insegnarmi a giocare, tra le risate di
tutti, anche di altra gente che si è riunita attorno a fare il tifo. Alcuni
piccoli ma evidenti miglioramenti li abbiamo anche ottenuti, tra cui il più
riuscito probabilmente è stato quello di abbandonare quel gioco che non faceva
per me, almeno quella sera, in condizioni somiglianti e di sedermi piuttosto a
parlare con lui, della vita in generale e della situazione in cui ci trovavamo
in particolare, noi poveri esseri umani.
Il colonnello era una persona molto educata e dall’umorismo
sottile, che quando capisci che ti prende in giro ormai sei già letto e ti gira
la testa, d’accordo, anche per altri motivi. Personalmente non ricordo nemmeno
quando siamo tornati a casa e come, ma sono quasi sicuro di non aver vomitato.
Figurarsi che il giorno dopo si è sentito in colpa ed è venuto a
scusarsi, a casa di Elton, io non capivo bene, ma era così simpatico che
abbiamo cominciato a parlare e a raccontare le nostre rispettive vite, seduti
in giardino, che a sera se ne è andato, solo dopo cena, stavolta io non avevo
bevuto niente, l’acidità del mio corpo non lo permetteva, ma lui sì, ed erano
passate sei ore in cinque minuti.
Zio Elton mi ha chiesto se avevo fatto caso a come era vestito, il
colonnello Mountbatten, gli ho risposto di no, che mi era sembrato molto
elegante e lo zio mi ha chiesto se avevo notato i colori.
Effettivamente aveva addosso sia la sera prima, che l’ultima
appena conclusa, due unici colori a caso: il bianco e il nero. Alla Staple
aveva pantaloni neri e giacca a quadrettini piccolissimi bianchi e neri,
camicia e gilet bianchi, cravatta a righine diagonali bianconere. Un berretto
nero a pallini bianchi, scarpe bicolori tipo ghette. La sera seguente un misto
differente ma degli stessi colori.
Si trattava forse di un tifoso del New Castle?
Zio Elton ha riso, e con lui la sua famiglia, tutti lì sono tifosi
del New Castle. La squadra locale gioca nel massimo campionato inglese e ha gli
stessi colori del colonnello, ma solo per caso.
Mi ha chiesto se non mi aveva ancora parlato della sua filosofia
di vita, il Sistema Binario. Non lo
aveva fatto, no, ma zio Elton ha detto che non avrebbe tardato troppo. Gli ho
chiesto che cosa ne sapesse lui, se poteva anticiparmi qualcosa, ha detto di
no, che era meglio se me lo spiegasse il colonnello, di persona.
Fatto sta che io e il colonnello oramai eravamo coppia fissa, si
andava a passeggio e si beveva qualche birra ogni tanto, si giocava a scacchi e
a dama e lui, mentre mi massacrava senza pietà, mi chiedeva tante cose
dell’Italia che onestamente non tutte gliele sapevo rispondere, ma una cosa che
mi garbava è che non m’interrompeva e che lasciava che io esprimessi il mio
pensiero esaustivamente senza alcuna pressione da parte sua, anche quando
dicevo - in tutta lealtà - delle solenni minchiate.
Dichiarava che aveva una grande stima degli italiani e il perché
era, più o meno, perché erano il contrario degli inglesi, nel bene e nel male,
ma poi non mi ha spiegato qual era il bene e quale il male, nella sua personale
opinione.
Avevo notato che i suoi vestiti cambiavano, ma i colori erano
sempre bianco e nero, quadrettini e righine di preferenza, ma con molte
variazioni, qualche pois stampato solo sui foulards, qua e là mi sarei
aspettato un Principe di Galles, ma quello poi non è mai arrivato, forse perché
c'era di mezzo il grigio.
Le scarpe a righe o a quadrettini, dei soliti due colori, non le
ho viste solo a lui, a suo tempo c’erano anche cantanti o musicisti del genere
SKA tipicamente londinese, che le usavano.
Siamo andati alla partita del New Castle che è riuscito a vincere
con il grande Liverpool ed è balzata al tredicesimo posto della classifica, che
secondo il colonnello non portava affatto sfortuna, al contrario, molto meglio
del sedicesimo, per esempio.
Per festeggiare siamo andati al pub, zio Elton era già lì e si è
unito a noi con altri gioviali tifosi della terza età. Ci siamo divertiti a
parlare di calcio soprattutto dei vari scontri Italia-Inghilterra dei quali
loro avevano un’interpretazione diversa dalla mia e forse da quella di tutti
gli altri italiani, emigrati anche all’estero. Zio Elton difendeva i nostri e
la sua origine, ma in due eravamo pochi e il colonnello era neutrale. Però ho
notato che rideva assai quando gli inglesi giustificavano il fallimento della
loro nazionale nei vari campionati europei o mondiali. Ah-ah-ah! Avevano
inventato il gioco, ma non avevano mai saputo mantenerlo al passo con i tempi.
Alla fine, quando gli altri se ne sono andati, ha detto,
sussurrando quasi confidandomi in segreto, che loro per vincere uno straccio di
mondiale avevano dovuto giocare in casa e comprare gli arbitri. Io ho opinato
che però nelle ultime coppe europee, su due finali erano quattro squadre
inglesi, cioè in percentuale il cento per cento, lui ha replicato che però
c’era un particolare interessante: erano squadre inglesi piene di stranieri.
Ben vengano gli stranieri, non è un problema, anzi è la soluzione, ma poi non
mi si venga a dire che la Francia ha vinto i mondiali in Russia, che in campo
erano tutti africani e neri. Niente a che fare con il razzismo, neanche con il
nazionalismo, né col campanilismo, solo una questione di stretta logica. Va
bene che c’era la globalizzazione in atto e non ci si poteva nascondere dietro
a un dito, lui si sentiva un cittadino del mondo prima che inglese, ma secondo
me queste cose gli facevano un po’ di confusione in testa, per questo che non
gli piacevano. Forse il sistema binario serviva a eliminare tale confusione.
Poi visto che sul calcio si parlava di poca roba nazionale, anche in Italia e
tanti o troppi prodotti importati, volevo cambiare argomento anche di poco, ma
lui insisteva.
Le sue teorie non mi convincevano ma non glielo ho detto, volevo
che andasse sulla sua specialità, la teoria che aveva inventato, di cui gli
altri mi avevano parlato.
Cercavo di portarlo sulla filosofia più teorica e fondamentale,
magari meno attuale, ma non ci voleva venire e cambiava di direzione, in
maniera affabile e buffa, ma determinata.
“Nel mondo ci sono tanti altri mondi dentro, e anche fuori, non
sono nascosti, siamo noi che non li conosciamo. Prendi i cinesi, i giapponesi,
i birmani, i coreani… tutta questa gente che cosa ha a che fare con noi? E i
mussulmani? Gli australiani per quanto lontani per ovvi motivi ci assomigliano
di più, almeno apparentemente. Anche approssimandoci qua attorno gli svizzeri,
i belgi, i tedeschi, gli olandesi con noi hanno poco da spartire. La
Scandinavia lì accanto è un altro pianeta. Non parliamo degli slavi, per
esempio i russi e i bulgari, chi li conosce?”
Era un piacere sentirlo parlare di tutto e di niente, il niente
prendeva il sopravvento e distruggeva il tutto a forza di ben congegnate
martellate metaforiche, ma nulla da fare per la teoria in questione del sistema
binario applicato alla vita di un qualsiasi essere umano.
Alla fine dei nostri magnifici venti giorni inglesi pensavo che il
colonnello mi sarebbe venuto a salutare, prima della partenza. Invece no, ha
mandato un biglietto che Elton mi ha consegnato sorridendo, mi ha scritto che
non gli piacciono gli addii, anche quando hanno buona probabilità di diventare
arrivederci. Dentro una busta marrone un libretto in inglese la cui
introduzione mi sono fatto tradurre sommariamente da mio zio Elton. Non capivo
molto bene e allora mio zio mi ha spiegato con parole sue, come lo aveva capito
lui.
Cecil Mountbatten-Windsor è l'inventore del Sistema Binario, cioè
della sua applicazione pratica nella vita.
Per esempio nel calcio, un giocatore tira una legnata della madonna con
l'intento di segnare. A questo punto a noi ci vengono in mente tante
possibilità: il portiere para e un difensore spazza l’area di rigore, il
portiere tocca la palla ma entra lo stesso ed è gol, il portiere devia in
calcio d’angolo. Oppure il pallone batte sul palo, o sulla traversa, o in
faccia a un difensore, nel sedere di un attaccante della stessa squadra. Il
tiro è imparabile e il portiere non si muove neanche, un difensore para con la
mano, è rigore… si potrebbe continuare per decine di possibilità diverse, ma il
colonnello dice che ne esistono solo due importanti: 1) è gol, 2) non è gol.
Quindi secondo lui la verità sta nelle prime cose che ci vengono
in mente, nella selezione naturale delle più importanti, nel saggio fondamento
di non farsi troppe seghe mentali.
Essere essenziali nella vita è importante, mettersi a parlare di
tutto e di niente per divertimento va anche bene, ma sulle cose serie non
scherziamo, per favore.
Il libretto è interessante, purtroppo però non c’è in italiano e
l’inglese mi fa invariabilmente giungere al dubbio se ho capito bene o no.
Anche con l’aiuto di un dizionario valido accanto.
Lateralmente confesso che mi è sempre piaciuto fare esperimenti
con le persone, ma non per divertirmi alle loro spalle, né per farli litigare,
piuttosto per combinare caratteri e aspirazioni, forse per far conoscere
individui che senza di me non avrebbero speranza d’incontrarsi e che magari
possano giovarsi della reciproca compagnia. Come primi risultati di queste mie
esperienze pratiche della mia piccola curiosità umana a fin di bene, ho
ottenuto la comprensione e forse anche la conferma che siamo tutti esseri
piuttosto imprevedibili. È veramente difficile e quindi - in un certo senso -
più appassionante, fare delle previsioni di come uno di questi incontri potrà
risultare, dalla teoria alla pratica, dove il fattore umano è
determinante. Sono comunque un fine
osservatore, anche gli altri non mancano mai di osservarlo, questa semplice
osservazione si basa anche sul fatto per niente trascurabile che non dimentico
mai una faccia, ma il soggetto in questione si era camuffato con una barba
e un comportamento diverso da quello che era stato prima.
Giacobbe Roggio era seduto a quel tavolo della Coop, accanto agli
scaffali dei libri che si potevano prendere gratis in prestito. Aveva avuto
un’officina di elettrauto e aveva lavorato come un matto tutta la vita, aveva
costruito una delle più belle case del paese. Andato in pensione si era tolta
la tuta sporca da lavoro e automaticamente si era vestito come un barbone, certo
quello che era successo nel frattempo io non lo sapevo e nemmeno quello che non
era capitato e che magari sarebbe dovuto accadere.
Ora la casa è ferma nel tempo, il giardino lasciato a sé stesso,
il muschio ha sostituito l’erba e le finestre sono sempre chiuse. Sembra
abbandonata.
Anche la sua barba era cresciuta a dismisura, aveva lo sguardo un
po’ troppo fisso, vagava per il mondo senza meta e soprattutto non aveva
fretta. Era sempre da solo.
Non ci avevo mai parlato prima. Una volta, sempre alla Coop, mi
aveva apostrofato allegramente mentre prendevo un enorme grappolo di uva
pizzutella nera per pesarlo, mi aveva detto che era bella e chiesto se era
buona e io gli avevo risposto di sì, che ne valeva veramente la pena.
Poi lo avevo incontrato altre volte, ma lui non sembrava
riconoscermi, o se mi aveva riconosciuto non dava eccessiva importanza al
saluto, gli bastava guardarmi con quei suoi occhi che mi attraversavano,
apparentemente senza nemmeno registrare la mia presenza, forse occhi di un
pazzo controllato, o i pazzi erano gli altri? Non lo so e non lo voglio
sapere.
Era lì a quel tavolo, quel giorno, mangiava da un vassoietto di
alluminio delle lasagne al sugo di carne. Gli chiesi se erano buone, disse di
sì. Gli domandai dove le aveva prese, mi mostrò con il dito indicando lì il
banco della gastronomia, avendo la bocca piena. Gli chiesi poi se avevano anche
la pasta al pesto, avendo già inghiottito il boccone precedente, dichiarò che
quel giorno non ce l’avevano, ma altre volte sì.
In un’altra
occasione ho trovato un libretto consumato tra quelli che c’erano su quegli
scaffali. Il coso, insomma quello
là di Giacobbe Roggio, sotto c’era scritto in piccolo: Poesiuole o come volete
chiamarle. Me lo portai a casa
incuriosito. Seduto in giardino inforcai gli occhiali e dopo poco avevo già
notato che se quelle erano poesie avevano una caratteristica che univa tutte le
cose, le situazioni, gli animali, le persone. Registravano sempre un dualismo,
una maniera differente di vedere la stessa realtà. Il titolo corrispondeva al
totale della poesia, o di quello che era, spesso si rifaceva a schemi fissi:
1)La musica è bella, ma
quando non c’è si sta meglio.
2)La vita mi garba, ma
da morti si riposa più tranquillamente.
3)Mia moglie è
simpatica, ma il meglio di lei è quando se ne va.
Poi aveva elaborato
qualcosa di più complesso:
4)Il mio cane mi vuole molto bene, ma forse
io gliene voglio di più.
Noto per contrasto che ci sono persone che quando parlano hanno
l’aria di volerti insegnare sempre qualcosa di fondamentale. Magari sono prevenuto,
o sono loro che da palloni gonfiati quali sono mi riempiono tutto lo spazio
vitale, mi soffocano e mi obbligano a una fuga, o a una chiusura totale. Io
sono di quelli che ci tengono costantemente a imparare qualcosa di nuovo, ma
quando uno di questi signori incrocia il mio cammino e la loro voce arriva alle
mie orecchie, io sarei disposto a fare qualsiasi cosa, per sfuggirgli, anche
volendo non mi riesce di ascoltare nemmeno una parola di quello che dicono.
E poi ci sono quelli come Giacobbe Roggio, quelli che quasi non
parlano, ma dagli occhi capisci tutto e scrivono anche poesie, per così dire.
Piuttosto frasi slegate, aforismi, che dicono tutto e niente, la tua
interpretazione è parte di esse, la sua risata finale, il suo sguardo limpido e
vuoto le giustifica e le rende importanti. Fanno ridere, ma sono anche profonde
e serie.
Mi piacciono le persone che non si danno troppa importanza e che
dicono la loro opinione solo se gliela chiedi, di solito sono quelle che mi
risultano più gradevoli.
Il mondo sta dimenticando il rispetto, ecco il problema. Hanno
perso di vista i limiti, che ci sono ora, quelli ci sono sempre stati e non si
possono semplicemente ignorare. Hanno tutti fretta e invece di ragionarci un
pochino buttano giù gli ostacoli a spallate.
Insomma se qui per noi è tutto a misura d’uomo, io mi ero messo in
testa, come ho già accennato, di far conoscere esseri umani che senza di me non
avrebbero potuto mai incrociare i propri destini. Non era la prima volta che ci
provavo, forse non sarebbe stata nemmeno l’ultima, ma le altre… beh, le altre
volte erano miseramente fallite. Non tutte ma quasi, avevo fatto male i calcoli
io, o si erano comportati in una maniera inaspettata loro… insomma non avevo
ancora capito bene.
Per farla breve nel dicembre seguente il colonnello è venuto a
trovarmi a Molina di Quosa, come aveva promesso per lettera. Sono andato
subito, ma come se fosse per puro caso, a chiamare Giacobbe Roggio, però a casa
non c’era, mi hanno detto che non viveva più lì, ma non sapevano dove. Li
volevo far incontrare, ma non sapevo come, lui non c’era sull’elenco
telefonico, non aveva un profilo Facebook, sono andato anche dai Carabinieri,
ma mi hanno detto che dovevano rispettare la sua privacy.
Intanto con il colonnello c’eravamo fatti un bel giro per la
provincia di Pisa, eravamo saliti anche sulla famosa torre. A Lucca avevamo
fatto un giro di mura, passeggiato per il centro storico. A scanso di equivoci
lui aveva più volte apprezzato qualche bella ragazza di passaggio, io con lui
avevo commentato e raccontato cose che quanto all’omosessualità non avrebbero
dovuto lasciare dubbi.
Il giorno prima del suo ritorno a Prudhoe siamo andati a fare la
spesa insieme per preparare la cena di addio, che nelle nostre intenzioni era
un allegro arrivederci, ma quella sera non volevamo certo farci mancare
qualcosa. Al supermercato abbiamo trovato la sorpresa: Giacobbe Roggio seduto
al tavolino della bibliotechina dei soci che si gustava una macedonia di
frutta, come al solito presa al banco della gastronomia. Senza alcun pensiero
in testa che non fosse il sapore di quello che stava assaporando, guardava in
alto ed evidentemente non vedeva nemmeno, né sentiva, tutto il caos che c’era
intorno. Gli ho presentato il colonnello Windsor- Mountbatten e ho cercato di
introdurli a vicenda, dicendo cose moderatamente stupide, ma che potevano avere
punti in comune con le loro rispettive filosofie. All’inizio sembravano averne
poca voglia, o forse erano solo guardinghi. Però pochi minuti dopo hanno
lentamente cominciato a parlare del dualismo dell’onnipresente materia, del
famoso Rasoio di Occam, dell’assurdità della vita e delle umane situazioni. Si
esprimevano tramite un colorito misto piuttosto maccheronico delle due lingue,
ma s’intendevano benone, a tratti li capivo perfino io, ma mi pareva che non
avessero nessuna voglia di ascoltare quello che avessi da commentare a
proposito.
Quella sera abbiamo invitato Giacobbe a casa mia, i miei avevano
mangiato prima, di solito alle sette e mezza, al massimo alle otto, avevano già
finito. Noi fra i discorsi, le bevute e la preparazione siamo andati a tavola
alle nove e mezza.
Per una strana coincidenza l’ex elettrauto aveva appena venduto la
casa, si era separato dalla moglie, non aveva figli, quindi ha colto la palla
al balzo ed è andato a vivere a Prudhoe, portandosi il suo vecchio e fedele
cane Biroldo, nel nord dell’Inghilterra, vicino al Vallo di Adriano. Giacobbe
era stato a suo tempo tifoso della Juventus, forse lo era ancora, il New Castle
aveva gli stessi colori. Il mio sforzo aveva funzionato, anche in maniera
superiore alle aspettative.
Ci ho provato a farli riflettere sul fatto innegabile che nella
vita a volte le opzioni possono essere anche tre, in certi casi anche quattro,
o numeri addirittura superiori. Però loro non mi hanno dato retta, quelle sono
coincidenze assai rare, quindi non gli interessavano. Alla fine il sistema
binario funzionava magnificamente bene per loro, disgraziatamente però non
prevedeva più la mia presenza di terzo incomodo e improvvisamente mi guardavano
come se non sapessero spiegarsi la mia inutilità al mondo.
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