giovedì 10 settembre 2020

LA SCALA VERSO IL CIELO


 

Già dalla primavera del 2019 avevo comprato una mountain-bike e debitamente iniziato a fare dei giri a caso per la meravigliosa campagna toscana, provincia di Lucca e Pisa. Avevo scoperto, oltre ai paesaggi bellissimi, che la proprietà privata toglieva al casuale esploratore una serie di occasioni turistiche da poter facilmente rimanere indignati. Quando potevo me ne fregavo, e se non c’era una valida recinzione, salivo e scendevo, con aria distratta, finché qualcuno mi diceva, di solito educatamente, di andarmene. Allora chiedevo informazioni, senza ammetterlo direttamente fingevo di essermi perso, a seconda della situazione me ne andavo in silenzio, ma senza eccessiva fretta.

 Oltre agli abusi di queste strade private, non sempre costruite o sbarrate a termine di legge, ho trovato anche occupazioni clandestine di ruderi e casupole abbandonate, che ovviamente non ho segnalato alla legge, perché ormai sono in pensione, per le prime, e per le seconde perché ne hanno bisogno più gli occupanti che i legittimi proprietari.

 Da lontano, più volte avevo notato questa larga scala verso il cielo, stentando a capire come era stata concepita, poi avevo piuttosto faticato per trovarne la via d’accesso. Entrati da poco in provincia di Pisa, la cava abbandonata di Avane era ben rappresentata dall’assenza massiccia di una porzione enorme di terra e roccia. La montagna tagliata a grosse fette aveva degli scalini dalla larghezza progressivamente minore verso l’alto, su cui avevano fatto crescere cipressi e altri alberi per via delle possibili frane.

Era stata una collina arida e arrotondata, piena di pietre bianche forate, su cui anche gli olivi non erano potuti crescere come sull’altro versante, a lato del fiume, oppure li avevano tolti, ma il paesaggio era bello e selvaggio lassù, dai gradini più alti, la vista attorno era notevole.

Volendo si vedeva il lago di Massaciuccoli e più in là il mare, il castello di Nozzano e la rocca di Ripafratta, le torri di avvistamento del confine che c’era tra Lucca e Pisa, quando facevano la guerra tra di loro, spesso e magari anche volentieri. Nel mezzo alla pianura, e intorno a questi rilievi riarsi dal sole, il fiume appariva e scompariva tra gli alberi, le canne, la scarsa vegetazione e i campi coltivati.

Non si sa perché avevano interrotto le estrazioni nella cava, forse perché non convenivano più. Intorno c’erano ancora quelle grosse torrette di cemento, pietra e ferro dove fabbricavano la ghiaia. Pochi macchinari obsoleti e arrugginiti.

La stradetta per salire su era foderata di sassi smossi che spesso si perdeva l’equilibrio, abbandonata la bici in un cespuglio salii fino al gradino più alto, attraverso la macchia la strada era impervia e pietrosa in maniera esagerata, ogni passo poteva essere una caduta.

Però la natura intorno e il silenzio, le rocce bianche, l’atmosfera di irreale lontananza dall’autostrada, eppure lì vicina, il panorama se non a 360 almeno a 270 gradi mi fecero innamorare di quel luogo.

Continuavo a girare per la campagna circostante, facendo foto e fermandomi a guardare, quando potevo e a volte anche quando non avrei potuto, ma spesso, anche senza pensarci, andavo a finire lì.

Alternavo i giri in bici alle passeggiate a piedi, quando raggiungevo i luoghi di esplorazione in macchina, la Peugeot senza dire niente, approfittando della mia incertezza e occasionale distrazione, mi portava alla cava.

Oltre a fare le foto, mi sedevo, spesso al tramonto a guardare dall’alto e soprattutto dall’esterno, il fervore insensato della vita umana che si guadagnava il pane lì attorno, insieme ai soldi per potersi permettere un tipo di vita che non avevano scelto, ma solo accettato passivamente, come se quel sistema fosse l’unico possibile.

Praticavo quel tipo di meditazione semplice ma efficace, che si concentra sulla respirazione e, guardando un panorama o la magnificenza della natura circostante, espelle ogni pensiero o perlomeno ci prova.

Starsene in pace è sempre più difficile, forse bisognerebbe andare lontani migliaia di chilometri dagli esseri umani. Uno cerca di rilassarsi, di dimenticarsi i casi più cruenti e crudeli di una carriera da commissario di polizia e lo ritirano dentro per i capelli che pochi ce ne ho e non vorrei perderli.

In questo luogo abbandonato, un posto che la gente non apprezza, che la maggior parte non conosce neppure, vengono scaricate lastre di eternit cancerogene, calcinaccio e ogni sorta di spazzatura. Fin qui tutto regolare, non c’era da aspettarsi niente di differente, però mentre passavo tranquillamente a piedi senza nemmeno bestemmiare, come forse avrei desiderato, non ho potuto fare a meno di notare una scarpa. Si trattava di un mocassino nero impolverato, che veniva fuori dai calcinacci e non ci sarebbe stato niente di strano, se non fosse stata la posizione che suggeriva il contenuto di un piede dentro, con un calzino imbiancato di calce ma probabilmente in tinta con la scarpa e riempito da qualcosa di ancora solido.

Nella vita la cosa più importante è non dover dimostrare niente a nessuno, senza dimenticarsi, però, che ugualmente fondamentale sarebbe anche l’evitare di dover dimostrare di non avere niente da dimostrare.

Insomma ci ho girato attorno qualche minuto, senza toccare o muovere la scena di un atroce delitto che probabilmente era stato perpetuato altrove e scaricato lì, con la consueta indifferenza. Avvicinarmi non potevo, per non cancellare le eventuali tracce, quindi ho chiamato la polizia. Se non fossi stato un commissario in pensione magari mi avrebbero velatamente mandato affanculo e avrebbero fatto anche bene. Quando sono venuti a constatare quello che io avevo loro anticipato nei dettagli, circa trenta minuti dopo, la scarpa era piena, sì, ma il piede era quello di un manichino.

Tralasciando la scena delle scuse, della loro freddezza con la quale mi hanno lateralmente fornito la misura dell’enorme pazienza che mi dimostravano, che se non fossi stato un commissario in pensione mi avrebbero più volentieri detto quello che pensavano. Non ce n’era alcun bisogno, io lo sapevo già e mi sono ritirato in silenzio nel mio luogo ideale di riposo, salendo la strada ghiaiosa e maledicendo me stesso, ma anche quel cretino che aveva messo la scarpa in quella maniera sapendo che qualche pesce fesso come me avrebbe abboccato.

Forse l’età sta sopraggiungendo di sorpresa nella mia vita, non lo so, la senilità è un pericolo che a settant’anni passati incombe su ogni essere umano, ma non mi era mai successo di dare un falso allarme e ci sono rimasto di sasso e per di più era un sasso sporco. Credo che sia perché il politicamente corretto stia sconfiggendo in me il sano fregarsene delle regole, quando rappresentano un ostacolo, che bene o male è stato assai importante nella mia vita. Solo che va saputo usare e ci vuole una certa prontezza di riflessi a guidare ad alta velocità a due metri dal parafango dell’automobile davanti a noi. Se quello frena sono cazzi nostri.

Sono salito ansimando sul gradino più ampio, forse di venti metri di larghezza, quello che gira attorno alla collina e va a finire sull’altra cava lungo la strada principale che porta a Pisa. Lì c’è una specie di giardinetto di cipressi ed erba incolta, qualche osso di capra, vecchi tubi di zinco e oggetti abbandonati da tempo immemorabile.

Scrutando le montagne lontane, credo le Apuane, ho fatto una mentalizzazione, respirazioni profonde e ripetute, finché mi sono addormentato seduto su una roccia, appoggiato ad un’altra dietro di me. Non c’era il rischio di cadere perché il ciglio era lontano, ma anche questo svenire mi ha fatto preoccupare, non mi era mai accaduto. Sono andato a casa forse un po’ più triste, ma anche con una specie di idea in testa, che ho realizzato meglio il giorno dopo.

Sono tornato alla cava la mattina subito dopo colazione, con un binocolo potente e una determinazione sfumata su diritti e doveri, miei e dei cittadini del mondo. Mi sono messo a sorvegliare dall’alto, dai punti strategici, quello che succedeva sotto e intorno, intanto respiravo a pieni polmoni.

Non ci andavo tutti i giorni, ma quando ero lì ci stavo di più e fatte le mie debite meditazioni, col binocolo cercavo qualcosa che non sapevo ancora. Forse volevo denunciare gli abusi di chi scaricava rifiuti di ogni tipo nella cava, forse volevo dimostrare a me stesso che non ero rincoglionito, non lo so.

Non ci avevo mai portato il mio cane, Ciccio, un pastore tedesco un po’ sovrappeso, perché pensavo che fosse pericoloso, cadere da lassù in alto erano più di cento metri, in più rimbalzando sui gradini e sulle rocce. Ho voluto provare tenendolo al guinzaglio e facendolo guardare di sotto, un po’ alla volta.

Parlando con il mio grande amico Nibbio Guarnieri gli avevo raccontato della storia della cava e incuriosito ci è voluto venire anche lui. All’inizio dell’estate il gruppetto dei guardiani della cava era formato, c’era anche Toni, il Cocker Spaniel del mio amico, naturalmente, che andava abbastanza d’accordo con Ciccio, almeno finché non c’era da mangiare in giro.

Nibbio è un macellaio in pensione, è chiamato così per il naso che sembra un becco, l’espressione talvolta rapace. Per di più c’ha l’occhio clinico, secondo le sue stesse parole e personalmente c’avrei qualche dubbio in proposito, anche solo sullo stretto significato della definizione. Quando Ciccio ha trovato una specie di femore mezzo sotterrato e mezzo fuori, trai cespugli, il mio amico ha detto che gli pareva un osso umano. L’ho preso un po’ in giro e lui mi ha risposto con la sua lingua tagliente, lo sguardo serio e ci siamo fatti quattro risate. Trovare degli ossi era normale, in precedenza abbiamo visto e fotografato degli scheletri interi o a pezzi, di capra, perlopiù. Ma Nibbio si era fissato.

“Che faccio lo porto via?” Ha chiesto più a sé stesso, o ai cani, che a me.

“Nooo, meglio lasciarlo lì, influenzeresti le indagini.” Ho prontamente detto io, scherzando ma sul serio.

“Quali indagini? Quei pochi che lo hanno visto hanno pensato a un osso di capra, di mucca, magari meno probabilmente di rinoceronte…”

“Fai quello che vuoi, io non ho visto niente, sono in pensione e non farò valere la mia autorità sulla polizia locale, ti ho già raccontato dell’altra volta e mi sono sentito un verme.”

“Se lasci correre sì che sarai un verme, finché denunci i possibili misfatti sei un essere umano più che degno.” Ha dichiarato lui dall’alto della sua etica, che entrambi sapevamo assai più retorica che pratica.

“Guarda: ci ho provato per tutta un’esistenza, solo recentemente ho scoperto che diventare un essere umano più che degno è una cosa troppo complicata per me.” Ho detto io e abbiamo riso entrambi. Ci siamo beccati per un po’, l’abbiamo presa sullo scherzo giocando sull’assurdità della vita in generale, in particolare sulla nostra porzione individuale o quella comune ai due, ma alla fine lui l’osso se l’è portato via, tanto per controllare.

Per un po’ la nostra periodica ronda si è interrotta. Non saprei dire se per causa mia o sua. Quindi ho ripreso ad andarci, alla cava abbandonata, saltuariamente ma sempre da solo, senza trovare scarpe, ossi o cadaveri ma solo pace e meditazione, ho fatto qualche bella foto, ho respirato aria fresca e salmastro eccetera. Ho lasciato anche il cane e il binocolo a casa.

Ben presto però ho dovuto abbandonare il mio luogo ideale di riposo, ma è stato per un buon motivo. Inaspettatamente ho ereditato da uno zio, che avevo appena conosciuto, un appartamentino con vista sulla spiaggia scogliosa di Tropea e ho traslocato. Ciccio ha avuto qualche problema di ambientazione ma ora è contento, si butta in mare e sta a mollo ogni giorno, con altri cani o da solo, fa delle corse sulla spiaggia da farsi scoppiare il cuore. È anche dimagrito, ma ha l’occhio più vispo. Personalmente ho trovato già qualche amico e qua direi che vivo meglio anch’io, con tutto il rispetto e la nostalgia possibile per la mia Toscana, la Lucchesia e la cava abbandonata. Mentalmente ci vado ancora, abbastanza spesso direi. E non ho notato niente di cambiato.

Nibbio però mi ha dimostrato un’indifferenza che all’inizio non ho capito. Mai una lettera, che ne so, una cartolina. Io gli ho scritto varie volte, ma non mi ha mai risposto. Come se non ci fossimo mai conosciuti. Ho anche sperato che non fosse morto. Ogni vecchietto come noi ha la vita appesa a un filo, per non dire ogni essere umano o qualunque animale solo provvisoriamente in vita.

Che era in forma e arzillo, che mi ignorava di proposito, lo sono venuto a sapere oggi, quando dal dentista ho sfogliato distrattamente una rivista di turismo. Nella pagina di archeologia c’erano le foto di Nibbio e dello scheletro completo di dinosauro rinvenuto ad Avane, provincia di Pisa, una specie nuova, nel senso che era roba vecchia ma che non era mai stata scoperta prima. Il Nibbiosauro, anche per via del becco adunco, un parente prossimo del più noto Iguanodonte.

Non solo Nibbio, ma ogni essere umano ha dentro di sé un qualcosa di rapace, roba atavica che fa parte di noi, che ci porta a rubacchiare, a nascondere la nostra preda, a dire bugie a proprio vantaggio che a volte non rappresentano, a conti fatti, nessun vantaggio, ma solo piccole meschinerie, senza senso.

Quanti soldi ci avrà guadagnato? Se la sua foto fosse stata accanto a me, con sotto i cani fedeli, non sarebbe stato meglio, non dico solo per me, che alla fine me ne frego sia dei soldi che delle onorificenze, ma anche per lui?

Che ne è rimasto della nostra grande amicizia?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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