Già
dalla primavera del 2019 avevo comprato una mountain-bike e debitamente iniziato
a fare dei giri a caso per la meravigliosa campagna toscana, provincia di Lucca
e Pisa. Avevo scoperto, oltre ai paesaggi bellissimi, che la proprietà privata
toglieva al casuale esploratore una serie di occasioni turistiche da poter
facilmente rimanere indignati. Quando potevo me ne fregavo, e se non c’era una
valida recinzione, salivo e scendevo, con aria distratta, finché qualcuno mi
diceva, di solito educatamente, di andarmene. Allora chiedevo informazioni,
senza ammetterlo direttamente fingevo di essermi perso, a seconda della
situazione me ne andavo in silenzio, ma senza eccessiva fretta.
Oltre agli abusi di queste strade private, non sempre costruite o sbarrate a termine di legge, ho trovato anche occupazioni clandestine di ruderi e casupole abbandonate, che ovviamente non ho segnalato alla legge, perché ormai sono in pensione, per le prime, e per le seconde perché ne hanno bisogno più gli occupanti che i legittimi proprietari.
Da lontano, più volte avevo notato questa larga
scala verso il cielo, stentando a capire come era stata concepita, poi avevo piuttosto
faticato per trovarne la via d’accesso. Entrati da poco in provincia di Pisa, la
cava abbandonata di Avane era ben rappresentata dall’assenza massiccia di una
porzione enorme di terra e roccia. La montagna tagliata a grosse fette aveva
degli scalini dalla larghezza progressivamente minore verso l’alto, su cui
avevano fatto crescere cipressi e altri alberi per via delle possibili frane.
Era
stata una collina arida e arrotondata, piena di pietre bianche forate, su cui
anche gli olivi non erano potuti crescere come sull’altro versante, a lato del
fiume, oppure li avevano tolti, ma il paesaggio era bello e selvaggio lassù,
dai gradini più alti, la vista attorno era notevole.
Volendo
si vedeva il lago di Massaciuccoli e più in là il mare, il castello di Nozzano
e la rocca di Ripafratta, le torri di avvistamento del confine che c’era tra
Lucca e Pisa, quando facevano la guerra tra di loro, spesso e magari anche volentieri.
Nel mezzo alla pianura, e intorno a questi rilievi riarsi dal sole, il fiume
appariva e scompariva tra gli alberi, le canne, la scarsa vegetazione e i campi
coltivati.
Non
si sa perché avevano interrotto le estrazioni nella cava, forse perché non
convenivano più. Intorno c’erano ancora quelle grosse torrette di cemento, pietra e
ferro dove fabbricavano la ghiaia. Pochi macchinari obsoleti e arrugginiti.
La
stradetta per salire su era foderata di sassi smossi che spesso si perdeva
l’equilibrio, abbandonata la bici in un cespuglio salii fino al gradino più
alto, attraverso la macchia la strada era impervia e pietrosa in maniera
esagerata, ogni passo poteva essere una caduta.
Però
la natura intorno e il silenzio, le rocce bianche, l’atmosfera di irreale
lontananza dall’autostrada, eppure lì vicina, il panorama se non a 360 almeno a
270 gradi mi fecero innamorare di quel luogo.
Continuavo
a girare per la campagna circostante, facendo foto e fermandomi a guardare,
quando potevo e a volte anche quando non avrei potuto, ma spesso, anche senza
pensarci, andavo a finire lì.
Alternavo
i giri in bici alle passeggiate a piedi, quando raggiungevo i luoghi di
esplorazione in macchina, la Peugeot senza dire niente, approfittando della mia
incertezza e occasionale distrazione, mi portava alla cava.
Oltre
a fare le foto, mi sedevo, spesso al tramonto a guardare dall’alto e
soprattutto dall’esterno, il fervore insensato della vita umana che si
guadagnava il pane lì attorno, insieme ai soldi per potersi permettere un tipo
di vita che non avevano scelto, ma solo accettato passivamente, come se quel
sistema fosse l’unico possibile.
Praticavo
quel tipo di meditazione semplice ma efficace, che si concentra sulla
respirazione e, guardando un panorama o la magnificenza della natura
circostante, espelle ogni pensiero o perlomeno ci prova.
Starsene
in pace è sempre più difficile, forse bisognerebbe andare lontani migliaia di
chilometri dagli esseri umani. Uno cerca di rilassarsi, di dimenticarsi i casi
più cruenti e crudeli di una carriera da commissario di polizia e lo ritirano
dentro per i capelli che pochi ce ne ho e non vorrei perderli.
In
questo luogo abbandonato, un posto che la gente non apprezza, che la maggior
parte non conosce neppure, vengono scaricate lastre di eternit cancerogene,
calcinaccio e ogni sorta di spazzatura. Fin qui tutto regolare, non c’era da
aspettarsi niente di differente, però mentre passavo tranquillamente a piedi
senza nemmeno bestemmiare, come forse avrei desiderato, non ho potuto fare a
meno di notare una scarpa. Si trattava di un mocassino nero impolverato, che
veniva fuori dai calcinacci e non ci sarebbe stato niente di strano, se non
fosse stata la posizione che suggeriva il contenuto di un piede dentro, con un
calzino imbiancato di calce ma probabilmente in tinta con la scarpa e riempito
da qualcosa di ancora solido.
Nella
vita la cosa più importante è non dover dimostrare niente a nessuno, senza
dimenticarsi, però, che ugualmente fondamentale sarebbe anche l’evitare di
dover dimostrare di non avere niente da dimostrare.
Insomma
ci ho girato attorno qualche minuto, senza toccare o muovere la scena di un
atroce delitto che probabilmente era stato perpetuato altrove e scaricato lì,
con la consueta indifferenza. Avvicinarmi non potevo, per non cancellare le eventuali
tracce, quindi ho chiamato la polizia. Se non fossi stato un commissario in
pensione magari mi avrebbero velatamente mandato affanculo e avrebbero fatto
anche bene. Quando sono venuti a constatare quello che io avevo loro anticipato
nei dettagli, circa trenta minuti dopo, la scarpa era piena, sì, ma il piede
era quello di un manichino.
Tralasciando
la scena delle scuse, della loro freddezza con la quale mi hanno lateralmente
fornito la misura dell’enorme pazienza che mi dimostravano, che se non fossi
stato un commissario in pensione mi avrebbero più volentieri detto quello che
pensavano. Non ce n’era alcun bisogno, io lo sapevo già e mi sono ritirato in
silenzio nel mio luogo ideale di riposo, salendo la strada ghiaiosa e
maledicendo me stesso, ma anche quel cretino che aveva messo la scarpa in
quella maniera sapendo che qualche pesce fesso come me avrebbe abboccato.
Forse
l’età sta sopraggiungendo di sorpresa nella mia vita, non lo so, la senilità è
un pericolo che a settant’anni passati incombe su ogni essere umano, ma non mi
era mai successo di dare un falso allarme e ci sono rimasto di sasso e per di
più era un sasso sporco. Credo che sia perché il politicamente corretto stia
sconfiggendo in me il sano fregarsene delle regole, quando rappresentano un
ostacolo, che bene o male è stato assai importante nella mia vita. Solo che va
saputo usare e ci vuole una certa prontezza di riflessi a guidare ad alta
velocità a due metri dal parafango dell’automobile davanti a noi. Se quello
frena sono cazzi nostri.
Sono
salito ansimando sul gradino più ampio, forse di venti metri di larghezza, quello
che gira attorno alla collina e va a finire sull’altra cava lungo la strada
principale che porta a Pisa. Lì c’è una specie di giardinetto di cipressi ed
erba incolta, qualche osso di capra, vecchi tubi di zinco e oggetti abbandonati
da tempo immemorabile.
Scrutando
le montagne lontane, credo le Apuane, ho fatto una mentalizzazione,
respirazioni profonde e ripetute, finché mi sono addormentato seduto su una
roccia, appoggiato ad un’altra dietro di me. Non c’era il rischio di cadere
perché il ciglio era lontano, ma anche questo svenire mi ha fatto preoccupare,
non mi era mai accaduto. Sono andato a casa forse un po’ più triste, ma anche
con una specie di idea in testa, che ho realizzato meglio il giorno dopo.
Sono
tornato alla cava la mattina subito dopo colazione, con un binocolo potente e
una determinazione sfumata su diritti e doveri, miei e dei cittadini del mondo.
Mi sono messo a sorvegliare dall’alto, dai punti strategici, quello che
succedeva sotto e intorno, intanto respiravo a pieni polmoni.
Non
ci andavo tutti i giorni, ma quando ero lì ci stavo di più e fatte le mie debite
meditazioni, col binocolo cercavo qualcosa che non sapevo ancora. Forse volevo
denunciare gli abusi di chi scaricava rifiuti di ogni tipo nella cava, forse
volevo dimostrare a me stesso che non ero rincoglionito, non lo so.
Non
ci avevo mai portato il mio cane, Ciccio, un pastore tedesco un po’ sovrappeso,
perché pensavo che fosse pericoloso, cadere da lassù in alto erano più di cento
metri, in più rimbalzando sui gradini e sulle rocce. Ho voluto provare
tenendolo al guinzaglio e facendolo guardare di sotto, un po’ alla volta.
Parlando
con il mio grande amico Nibbio Guarnieri gli avevo raccontato della storia
della cava e incuriosito ci è voluto venire anche lui. All’inizio dell’estate
il gruppetto dei guardiani della cava era formato, c’era anche Toni, il Cocker
Spaniel del mio amico, naturalmente, che andava abbastanza d’accordo con Ciccio,
almeno finché non c’era da mangiare in giro.
Nibbio
è un macellaio in pensione, è chiamato così per il naso che sembra un becco,
l’espressione talvolta rapace. Per di più c’ha l’occhio clinico, secondo le sue
stesse parole e personalmente c’avrei qualche dubbio in proposito, anche solo
sullo stretto significato della definizione. Quando Ciccio ha trovato una
specie di femore mezzo sotterrato e mezzo fuori, trai cespugli, il mio amico ha
detto che gli pareva un osso umano. L’ho preso un po’ in giro e lui mi ha
risposto con la sua lingua tagliente, lo sguardo serio e ci siamo fatti quattro
risate. Trovare degli ossi era normale, in precedenza abbiamo visto e
fotografato degli scheletri interi o a pezzi, di capra, perlopiù. Ma Nibbio si
era fissato.
“Che
faccio lo porto via?” Ha chiesto più a sé stesso, o ai cani, che a me.
“Nooo,
meglio lasciarlo lì, influenzeresti le indagini.” Ho prontamente detto io,
scherzando ma sul serio.
“Quali
indagini? Quei pochi che lo hanno visto hanno pensato a un osso di capra, di
mucca, magari meno probabilmente di rinoceronte…”
“Fai
quello che vuoi, io non ho visto niente, sono in pensione e non farò valere la
mia autorità sulla polizia locale, ti ho già raccontato dell’altra volta e mi
sono sentito un verme.”
“Se
lasci correre sì che sarai un verme, finché denunci i possibili misfatti sei un
essere umano più che degno.” Ha dichiarato lui dall’alto della sua etica, che
entrambi sapevamo assai più retorica che pratica.
“Guarda:
ci ho provato per tutta un’esistenza, solo recentemente ho scoperto che
diventare un essere umano più che degno è una cosa troppo complicata per me.”
Ho detto io e abbiamo riso entrambi. Ci siamo beccati per un po’, l’abbiamo
presa sullo scherzo giocando sull’assurdità della vita in generale, in
particolare sulla nostra porzione individuale o quella comune ai due, ma alla
fine lui l’osso se l’è portato via, tanto per controllare.
Per
un po’ la nostra periodica ronda si è interrotta. Non saprei dire se per causa
mia o sua. Quindi ho ripreso ad andarci, alla cava abbandonata, saltuariamente
ma sempre da solo, senza trovare scarpe, ossi o cadaveri ma solo pace e
meditazione, ho fatto qualche bella foto, ho respirato aria fresca e salmastro eccetera.
Ho lasciato anche il cane e il binocolo a casa.
Ben
presto però ho dovuto abbandonare il mio luogo ideale di riposo, ma è stato per
un buon motivo. Inaspettatamente ho ereditato da uno zio, che avevo appena
conosciuto, un appartamentino con vista sulla spiaggia scogliosa di Tropea e ho
traslocato. Ciccio ha avuto qualche problema di ambientazione ma ora è
contento, si butta in mare e sta a mollo ogni giorno, con altri cani o da solo,
fa delle corse sulla spiaggia da farsi scoppiare il cuore. È anche dimagrito, ma
ha l’occhio più vispo. Personalmente ho trovato già qualche amico e qua direi
che vivo meglio anch’io, con tutto il rispetto e la nostalgia possibile per la
mia Toscana, la Lucchesia e la cava abbandonata. Mentalmente ci vado ancora,
abbastanza spesso direi. E non ho notato niente di cambiato.
Nibbio
però mi ha dimostrato un’indifferenza che all’inizio non ho capito. Mai una
lettera, che ne so, una cartolina. Io gli ho scritto varie volte, ma non mi ha
mai risposto. Come se non ci fossimo mai conosciuti. Ho anche sperato che non fosse
morto. Ogni vecchietto come noi ha la vita appesa a un filo, per non dire ogni
essere umano o qualunque animale solo provvisoriamente in vita.
Che
era in forma e arzillo, che mi ignorava di proposito, lo sono venuto a sapere
oggi, quando dal dentista ho sfogliato distrattamente una rivista di turismo. Nella
pagina di archeologia c’erano le foto di Nibbio e dello scheletro completo di
dinosauro rinvenuto ad Avane, provincia di Pisa, una specie nuova, nel senso
che era roba vecchia ma che non era mai stata scoperta prima. Il Nibbiosauro,
anche per via del becco adunco, un parente prossimo del più noto Iguanodonte.
Non
solo Nibbio, ma ogni essere umano ha dentro di sé un qualcosa di rapace, roba
atavica che fa parte di noi, che ci porta a rubacchiare, a nascondere la nostra
preda, a dire bugie a proprio vantaggio che a volte non rappresentano, a conti
fatti, nessun vantaggio, ma solo piccole meschinerie, senza senso.
Quanti
soldi ci avrà guadagnato? Se la sua foto fosse stata accanto a me, con sotto i
cani fedeli, non sarebbe stato meglio, non dico solo per me, che alla fine me
ne frego sia dei soldi che delle onorificenze, ma anche per lui?
Che
ne è rimasto della nostra grande amicizia?
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