mercoledì 12 agosto 2020

PARAGONI

 


foto Enrico Villani

Dalla sua casetta di legno a Creaquot il fiume non si vedeva, la vegetazione rigogliosa e intricata lo aveva inghiottito, ma si sentiva quel mugghiare sordo, non tutti i fiumi fanno quel rumore, ma quello era uno di quei fiumi. A dire il vero avevo anche dei laterali dubbi che fosse veramente russo, o che il suo nome fosse proprio quello. Un altro mio amico, fin dai tempi di Karaci era Sergej, a saperlo prendere per il verso giusto c’era pure da divertirsi ad ascoltarlo. Mi raccontava di certe torbide storie colombiane di un suo amico poliziotto, tale Aymorè, che non ho potuto fare a meno di pensare che poi fosse lui stesso, o magari solo una parte.

“È difficile e raro diventare saggi senza essere mai stati intelligenti, ma non è impossibile. Uno che non ha studiato molto, ma che ha avuto una certa esperienza di vita, non solo campagnola ma anche cittadina e perfino fuori dalla stessa Colombia era Aymorè Benetti. Quello che lo fece diventare così fu l’entusiasmo, si buttò nella vita senza pensarci troppo, all’inizio, forse solo dopo, quando era troppo tardi forse, e di capocciate nei muri ne aveva già battute assai. Però poi fu anche peggio.”

 “Mi avevi già accennato qualcosa, mi pare.” Bisognava dirgli così, anche se ti aveva già parlato spesso di questo Aymorè, era meglio non dargli l’impressione che quello fosse un filone già troppo sfruttato in passato. Sergej parlava quasi esclusivamente di Aymorè, specie quando beveva, ma era chiaro che parlava di sé stesso, aveva bisogno di sfogarsi, in un certo qual modo, e forse si vergognava. Se fingeva di lasciar cadere l’argomento era necessario ricordarglielo, ma senza essere troppo pressanti, sennò mangiava la mosca e dopo non la risputava più fuori. Così invece si sentiva stimolato e piano-piano entrava nel personaggio, dopo qualche frase di acchito, incominciava a parlare, quasi come se fosse proprio il suo amico a farlo e mi pareva che cambiasse anche la sua voce, o forse era solo la mia immaginazione. Era come ascoltare la radio ed essere anche un po’ al teatro, se lo guardavi in faccia.

“Per lui le città di mare avevano un fascino particolare, non c’era niente da fare, gli erano sempre piaciute, le spiaggie e le scogliere, i porti e le navi, i gabbiani, le barche e anche le ragazze in bikini... ma fino a quel giorno da cui comincio a raccontare non ci aveva mai vissuto, in una città costiera, nemmeno per un breve periodo.

Aymoré Benetti aveva abitato a Bogotà da quando aveva sette anni, fino alla maggior età, poi aveva girato diverse città, per un motivo o l’altro. Forse più l’altro.

(questa premessa era dovuta, ogni volta ce la metteva, più o meno uguale, l’altro motivo si poteva interpretare o indovinare, di sicuro lui non te lo diceva)

 “Ma te lo conosci personalmente?”

“Aymorè? Figurati, siamo cresciuti insieme!”

“Ah, e ora dov’è?”

“Ci ha lasciato le penne, capirai.”

(se ne vergognava, credo che lo avesse seppellito dentro di sé, ma suo malgrado era ancora parte di lui, ne doveva parlare ogni tanto, quasi come a cercare ancora di capirlo)

Anche un’interruzione breve, come quella, lo bloccava un po’, magari il suo cervello si lasciava scappare dei ricordi assopiti, forse troppo forti e sanguinosi anche per lui. Beveva un sorso, distrattamente parlava del tempo che si era guastato, rispetto alla settimana precedente e poi, se avevi pazienza, di punto in bianco ripartiva:

“Quando prese il suo primo incarico, dopo il necessario tirocinio di un anno, alla spiaggia di Palomitas, si era sentito bene, era un posto bellissimo e gli pareva beneagurante iniziare lì. Comunque, preso simbolicamente possesso della sua poltrona girevole, dietro una scrivania vecchia, enorme e stranamente ben mantenuta, conversato con i suoi futuri e piuttosto rozzi collaboratori, il primo giorno passò in un volo... ma aveva già meno baldanza di quando era cominciato. Non era ancora successo niente, gli avevano solo parlato di cosa accadeva a Palomitas. Non che ci fosse niente di più che in qualsiasi città di mare, con circa ottocentomila abitanti, con un porto e appartenente allo stato della Colombia. Conosceva le cifre, anche se sapeva che erano manipolate, anche così erano spaventose, solo che per la prima volta la sensazione del pericolo era ben presente dentro di lui.

Credeva di non aver lasciato trasparire niente, intanto la sua origine italiana imponeva rispetto, forse perché non erano in molti là, ma lo avevano sempre guardato tutti in maniera differente dagli altri, come se chi avesse inventato la mafia dovesse seguire sempre e comunque quelle regole ormai diventate un esempio - anche se negativo – di forza ottusa eppure prepotente in maniera anche sottile, nel mondo intero. Forse per merito o colpa dei film.

La sera, steso sul letto sfondato della sua casetta provvisoria, appena fuori dall’abitato e piantata proprio sopra la scogliera, con sotto una spiaggetta splendida, si sentì esausto e anche se il cervello attaccava un pensiero all’altro freneticamente, prese sonno quasi subito, senza nemmeno rendersi conto delle zanzare, che come poi constatò al mattino, lo avevano scorticato con metodo e pazienza.

Alle sette era già sulla spiaggia per fare un tuffetto e una bella nuotata, per svegliarsi, meglio che con una doccia, in mezzo a un ambiente naturale, ma non aveva calcolato rifiuti umani e... pure disumani. La doccia la dovette fare lo stesso e in più con l’ausilio di benzina per smacchiarsi, ma nonostante ciò si sentiva meglio della sera prima, il suo umore era rinato ed era pronto di nuovo ad affrontare il mondo della delinquenza, che faceva parte dell’altro, più grande e generale, come la morte fa parte della vita.

I racconti dei colleghi l’avevano un po’ abbacchiato, ma cosa si poteva aspettare? Era lì per questo e per quello, per migliorare, se non il mondo intero, almeno una parte: la Playa de Palomitas era già abbastanza e avanzava, per il momento.

Era ansioso di potersi rendere conto di persona, fino a quel momento era stato solo un resoconto di voci altrui, finalmente era l’ora di partecipare, di farsi un’idea, personalmente, poi di mettere in pratica, di prendere parte al gioco, anche se quello era un gioco pesante, quelli leggeri facevano parte ormai solo della sua infanzia e adolescenza.

Si voleva sentire utile, insomma, era per quello che aveva studiato e fatto tirocinio, fino a quel momento era stato tutto teorico e distante, ora toccava a lui!

Aveva fatto da assistente al famigerato commissario di origine slava Mercurio Banic, ma non aveva preso parte a niente di pratico, lui gli diceva che non voleva responsabilità e lo lasciava in ufficio. Dopo un po’ aveva capito che invece non voleva che capisse quanti soldi intascava vendendo il suo distintivo. L’unica cosa che aveva realizzato in quei primi sei mesi era che se la polizia era corrotta, Banic a Cartagena viveva come un sultano, ben appoggiato in alto quanto in basso, per salvare la faccia e la reputazione arrestava qualche delinquente che non serviva più, o che aveva paura di essere ucciso e sperava – invano – di salvarsi in prigione.

Il secondo tirocinio l’aveva fatto con un commissario meno noto e più onesto, Teodoro Szantek, di origine cecoslovacca, lui cercava veramente di proteggerlo dal pericolo e quella città, Barça, doveva oltretutto essere una tra le più tranquille della Colombia.

E ora eccolo a Palomitas, scalpitante, secondo i suoi superiori più che pronto all’azione, con la testa piena di verbali di casi indicativi, didattici e di tecniche comprovate dai veterani, ma in pratica da recluta assoluta e davvero ignaro di cosa lo aspettava.

Avevano passato il pomeriggio, Aymorè e i suoi subordinati a rimettere un po’ in ordine il caos creatosi in otto mesi in cui un sostituto provvisorio aveva preso il comando, e a detta di tutti, sapendo che il suo incarico successivo e stabile era altrove e lontano, ne aveva approfittato per battere la fiacca e per tirarne vantaggi materiali, “senza inseguire alcuna gloria e rifiutando eroismi inutili” (queste erano le sue parole), “piuttosto nascondendosi che rischiando, anche solo un poco del rischiabile” (questa la testimonianza degli altri).

L’inattività è una roba che, in luoghi retti da discipline di stampo militare, crea solo distruzione e sconforto. Quella base pareva essere passata attraverso una guerra, ma era peggio, erano appena usciti da qualche mese di fiacca completa, solo pochi mesi senza nessun ordine da eseguire, forse otto mesi di bonaccia e ora il mare grosso toccava a lui...

Come a confermare le previsioni più logiche il primo caso si profilò subito prima del tramonto, che d’estate era più o meno alle nove, cioè all’ora che stavo per staccare. In uno dei quartieri più poveri, Afogados, sulla riva del fiume, un uomo era stato tagliato in due da una sega elettrica, era stato ritrovato da un bambino in uno scarico di rifiuti. Fin qui niente di strano, era una pratica certo non di routine, ma che Aymorè aveva già sentito rammentare altre volte, specie nell’ambiente dei trafficanti, ma la tecnica, stavolta, era stata diversa: l’avevano segato nel senso della lunghezza.

Si recarono subito sul posto, la discarica abusiva era un po’ dovunque lì intorno, Afogados era chiamato così perché quando il fiume Caiòmas straripava, là dovevano tutti mettersi a nuotare e ne morivano sempre diversi.

Alla domanda che fece: “C’è tanta terra in giro! Perché non se ne vanno?” La risposta fu, di Gutierrez: “Non sanno dove andare.” E gli altri due approvarono con la testa.

La vita è strana - commentò Sergej - il mondo è un luogo poco adatto ai poveri, tu lo sai meglio di me, ora lo so cosa significa avere tanti soldi nel materasso, ma anche da ricco non mi garbava per niente, così sono tornato alla mia originaria povertà, è stato un processo naturale, a dire la verità, mi sento meno peggio così.

Poi, lasciato scorrere l’approssimativo silenzio attorno per un po’, con il mugghiare del fiume, ripartì con la storia:

“Un isolotto di spazzatura, uno di quei quartieri tipici dell’America Latina  che i turisti non sfiorano nemmeno,  insomma, una squallida e pericolosa periferia, dove baracche di pezzi di legno e di lamiera, casette di tavole più decenti o di mattoni forati senza intonaco, si alternavano a terreni dove i cespugli e le erbacce nascondevano i rifiuti sparsi, elettrodomestici arrugginiti, carcasse di animali, varie automobili distrutte o bruciate.

L’impatto col corpo fu peggio di quello che si aspettava, sebbene avesse tentato di prepararsi, vedere quel mezzo uomo e l’espressione dei suoi occhi lo fece vomitare. Non fu una bella impressione che causò nei suoi, ma lo consolò che anche a uno di loro, Olguin, con una faccia indurita da anni di servizio da quelle parti, gli capitò lo stesso.

L’altra metà del corpo non c’era in giro, i bambini stessi l’avevano cercata, in un gioco nuovo, magari sarebbe stata ritrovata in seguito, il sole stava tramontando e le ricerche sarebbero proseguite il giorno dopo, forse.

La parte che era in quel pendio sassoso, in mezzo alle erbacce e ai rifiuti puzzolenti di pesce e altre cose di ogni tipo, contava una gamba e un braccio completi, la testa con tutto quello che ci doveva essere, quello che mancava però era il cazzo.

L’avevano segato al lato del collo, leggermente in diagonale, per finire in mezzo alle gambe, e... forse di proposito, l’organo sessuale era stato lasciato nell’altra metà, questo poteva avere un significato, oppure no.

Renato, il bambino che aveva trovato il corpo si era impressionato, ma tutto sommato lo era di più Aymorè, a queste cose lui ci doveva essere abituato più del commissario. Disse che stava rovistando la spazzatura per cercare un camioncino giocattolo che sua madre aveva buttato via perché era rotto e allora, insieme a suo cuginetto Samuel era arrivato lì. Il corpo era stato riconosciuto dallo stesso Renato e dal suo amico Luis, si trattava di Reginaldo Pacheco, conosciuto da tutti, pare, come “Il ricercatore dell’assoluto”. A quanto pareva l’aveva finalmente trovato.

Anche i suoi uomini ne avevano sentito parlare. I bambini dissero che era un povero loco... però simpatico, che se avevi bisogno di una mano lui faceva di tutto per aiutarti e non chiedeva niente in cambio, cercava di convincere i banditi che sbagliavano a vendere la droga, a rubare e a uccidere, che c’erano cose migliori da fare, ogni tanto qualcuno gli rompeva le ossa, ma niente di più.

Perquisirono la casupola, che era a pochi chilometri da lì, non trovarono quasi niente, anche perché non sapevano esattamente cosa stavano cercando, ma ci lasciarono Alvarez che dichiarava essere capace di dormire con un occhio aperto e uno chiuso. Tornati al commissariato passarono subito alle informazioni su vita e miracoli di Reginaldo Pacheco, visto che sulla morte, quasi tutto doveva essere ancora scoperto. Era una specie di moderno Gesù colombiano, intanto il mondo non era più una Bibbia, né assomigliava affatto a un Vangelo. Lasciò liberi gli uomini che non erano di servizio, rimase con Guitierrez, il suo assistente, che avrebbe avuto un appuntamento, è vero, ma Aymorè gli fece capire che aveva proprio bisogno di lui. Gli altri due, Olguin e Etcheverry non gli parevano gente che ragionasse e non ci tenevano neppure.

Ricevettero varie telefonate di alcune personalità locali e non, più altri meno importanti, si lamentavano di come la polizia non riusciva a proteggere le persone che meritavano il massimo della considerazione, che invece venivano macellati come animali. Si fecero lasciare nome, indirizzo e numero di telefono da tutti, o almeno da quelli che lo desideravano.

Fisicamente, a quel che pareva, Pacheco, era un uomo normalissimo, almeno prima di quell’operazione chirurgica probabilmente anche senza anestesia, mentre dal punto di vista del suo curriculum era piuttosto inusuale, non solo in Colombia. Grazie all’opera di Guitierrez, attraverso telefonate in luoghi che Aymorè da solo non avrebbe mai potuto scoprire, in poco tempo sapevano già qualcosa.

Disoccupato, proprietario di una casetta di legno, senza parenti prossimi, ma importante per molti, pareva, visto che a lamentarsi dell’episodio erano stati tanti e diversi, come di differenti rami di occupazione, ma molti ben arroccati in posizioni di rilievo economico e sociale, non sempre nella legalità. Gutierrez gli raccontò che da anni sentiva parlare di lui, ma non l’aveva mai incontrato personalmente. Era un personaggio popolarissimo, che si faceva chiamare il “Ricercatore dell’Assoluta Verità” perché credeva fermamente nelle sue idee e se aiutava chi ne aveva bisogno, non aveva paura di andare dai grandi boss della droga a parlare di come avrebbero dovuto comportarsi per vivere meglio, loro lo ricevevano perché in un certo senso ne ammiravano il coraggio, lo ascoltavano, si facevano qualche risata e dopo continuava tutto come prima. Il Ricercatore era apparso anche alla televisione locale lanciando i suoi messaggi, era stato intervistato altre volte, anche dai canali nazionali.

Quel che si poteva fare a quell’ora di notte era poco, sia perché erano stanchi, era tutto scuro e non solo metaforicamente, insomma: non sapeva da che parte continuare già ammettendo che avesse da qualche parte cominciato, sperava che durante la nottata magari gli sarebbe venuto in mente qualcosa. Era il suo primo caso, i suoi uomini lo sapevano, sembrava che lo guardassero nascondendo a stento un certo divertimento, scambiavano tra di loro occhiate strane, come a sottintendere: “E ora vediamo questo giovane figlio di papà come se la cava...”

Forse era solo la stanchezza e la debolezza, oltretutto da mezzogiorno non aveva mangiato niente, magari si stava immaginando cose non vere. Quegli occhi sgranati gli avevano fatto male, aveva lo stomaco in guerra, ma a Reginaldo era andata indubbiamente peggio. Che aveva fatto di sbagliato il Ricercatore dell’Assoluto? Perché lo avevano straziato in quella maniera? Quella era una roba simbolica, che non si applica a uno che vuole solo farti la predica, anche se insistente.

Mentre faceva la doccia pensò che la perquisizione particolareggiata, della sua casetta sarebbe stata la prima mossa, poi anche sapere tutto su quelli che avevano telefonato per appoggiare le indagini, poteva essere una cosa pratica.

Prima di andare a letto s’impose una porzione di pesce fritto e patate che si feci portare dalla Rincon Brothers Fish & Chips, ci bevve una mezza bottiglia di vino bianco, prima, poi visto che non prendeva sonno, la scolò e ne aprì una seconda, stavolta di rosso: un pessimo Chianti di Iribeiras, non avevano diritto di chiamarlo così. Si addormentò ubriaco e sognò il suo professore di spagnolo, che realmente non gli era mai stato simpatico, né Aymorè a lui. Nella realtà storica Inacio Lopes y Gonzales lo bocciava sempre e per meritarselo se lo meritava ampiamente. Nell’incubo però secondo lui esagerava: giacché lo inseguiva colpendolo, su quella che diceva essere la sua testaccia durissima, con un enorme dizionario dalla copertina di marmo di Carrara bianco, appena venato di nero.

La mattina però la testa gli faceva male sul serio e si sentiva a pezzi anche moralmente, al telefono il suo spagnolo risultò patetico anche senza la valutazione del suo professore, il sole forte lo disturbò già attraverso le fessure della persiana, allo specchio vide che aveva un occhio mezzo chiuso e l’altro per un quarto, la sua faccia era gonfia e sapeva fin troppo bene che la giornata che lo attendeva non ne aveva alcun bisogno, sarebbe comunque stata una delle più ostiche della sua carriera, appena iniziata. In ogni modo non era proprio il momento di darsi malato, volente o nolente doveva mettersi in moto e a questo proposito cercò d’infilarsi in corpo tanto caffè quanto poté sopportarne, riuscendo anche a bruciarsi la bocca. Quest’ultimo incidente gli fece bene, però, perché, oltre a svegliarlo, gli permise di farsi un’idea di quello che rischiava, se non riusciva alla svelta a collegare il cervello al resto del corpo.

Arrivò in commissariato per niente di buon umore, ma almeno questo servì per guadagnarsi un po’ di rispetto. Mise due uomini a occuparsi dei curriculum delle quattro persone più importanti e degli altri che avevano telefonato per Reginaldo Pacheco. Loro si precipitarono subito alla piccola abitazione del suddetto. Aveva un cattivo presentimento, che per fortuna non si avverò: Alvarez era in perfetta forma e si stava facendo una frittata con uova e pancetta che aveva trovato in frigo. Assicurò anche di aver controllato in precedenza e che non potevano aggiungere o togliere niente alle indagini. Gutierrez, Alvarez e altri due cominciarono la seconda perquisizione, non avendo ancora idea di cosa stavano cercando, ma almeno c’era la luce del giorno.

Telefonò a Olguin che gli riferì ciò che di più interessante era venuto fuori dall’indagine sui quattro nomi di spicco, poi avrebbero passato a setaccio gli altri. Il primo in ordine d’interesse era Calado, uno dei boss del Cartel della coca, si mise in contatto con lui che accettò d’incontrarlo subito. Si trovarono in un bar dei suoi, con musica a tutto volume e ubriachi in giro alle otto e mezzo di mattina. Passati nel retro, il silenzio improvvisamente diventò quasi assoluto, lo fecero entrare insieme a Etcheverry che era forse un po’ lento in filosofia contemporanea ma pareva sapere il fatto suo con le armi ed era un armadio d’uomo. Chiaro che gli uomini di Calado là intorno bastavano a trucidarli in un batter d’occhio, ma Aymorè era convinto che non ne avessero ancora un motivo.

Calado era un uomo dalla faccia piena di cicatrici, seduto nella penombra senza aria condizionata, un meticcio dagli occhi di aquila, profondi e forse meno feroci di quello che si aspettava, grassoccio ma agile, dalle parole calcolate e lente, poche ma frizzanti, da qui il nome, che era un soprannome, che voleva dire che non parlava molto.

“Signor commissario o lei è un uomo moderno o uno sprovveduto. Devo dirle che mai nessuno, al suo posto, ha accettato d’incontrarmi, ammiro il suo coraggio, può contare sul mio aiuto, Reginaldo era mio amico e se scopro chi gli ha fatto quel lavoretto... beh, non so ancora cosa gli farò, ma credo che in confronto quello gli sembrerà una cretinata...”

I suoi uomini scoppiarono a ridere, mentre lui si massaggiava le mascelle poderose, guardandolo fisso, serio. Il commissario non sapeva cosa dire, si era preparato delle domande, ma non gliene veniva più in mente nessuna. Sudava, tutti sudavano, era caldo assai, sperava che non si notasse che lui sudava di più. Il ventilatore girava lento sul soffitto e quel silenziò inquietante durò un qualche venti minuti, così gli parve, ma non doveva essere stato più di dieci secondi...

“Bene.” Si decise. “Questo Reginaldo mi pareva una persona inoffensiva, più amato che odiato, perché ridurlo in quella maniera?”

“Questa è la domanda. Vorrei saperlo anch’io. Mi hanno detto che l’hanno segato in lungo...”

“Già, è vero, è una pratica in uso?”

“Mai sentito di nessuno segato per il lungo, segato nel mezzo vuol dire una cosa, segare un braccio, una gamba, altre cose, la testa, tagliare il cazzo...”

Intervenne il più giovane coi baffi e il cappello da cowboy:

“A uno dei nostri a Palmiton gli hanno segato tutte e due le gambe...”

“Stai zitto, idiota, qualcuno ti ha chiesto qualcosa?” Lo gelò sibilando Calado.

Poi rivolto a Aymorè, più calmo e gradevole:

“Sa commissario, questi giovani non sanno più qual’è il loro posto, accusano noi patriarchi della fine del secondo millennio, dicono che ci stiamo rammollendo, stiamo diventando dei cazzi di maricones e in più che li stiamo viziando...”

Il ventilatore di nuovo fu l’unico suono per un bel po’, nessuno aveva voglia di dire niente, si guardavano in faccia e quel giovane, invece, per terra.

“La mia opinione è... io dico che è la pura verita.” Riprese Calado sorridendo con la faccia, ma gli occhi erano serissimi. Gli altri risero.

“Consideri il mio punto di vista. Se, io con i miei vecchi mentori Batoclo o perfino con il mitico Pestana mi fossi permesso un’entrata così, sapevo già che poi avrei dovuto raccogliere i miei denti dal pavimento. Per questo evitavo di farlo, e non c’era verso che mi sbagliassi.”

Una risata fragorosa alla quale Aymorè si sorprese di partecipare con tutti, Etcheverry compreso. Là dentro però sembravano veramente indignati su quello che era successo, anche perché era una pratica che non conoscevano ancora, che non sapevano a chi attribuire e questo segnava due punti a loro sfavore. Parlarono ancora delle tecniche per tagliare correttamente corpi umani con la sega elettrica, specialità nella quale i Colombiani erano i più famosi del mondo, anche se personalmente questo non riempiva di orgoglio Aymorè, aveva notato che loro ci tenevano.

Calado nonostante il suo terrificante curriculum, sapeva ragionare e parlare nell’ordine, cosa rara. Prima di tutto, però, doveva mantenerlo l’ordine e i suoi sguardi e le sue parole erano didattici ed esemplicativi, a loro modo, quello che corrispondeva di più ai canoni della malavita locale. Quando emerse il fatto che il pezzo ritrovato era con la testa e che l’organo sessuale non c’era, la smorfia di Calado fu accompagnata da varie e differenti esclamazioni del suo staff, il misterioso assassino della motosega aveva sorpreso di nuovo anche loro.

Su Reginaldo gli disse che proveniva da Cartagena e che era stato dal suo stesso lato, cioè quello dei fuorilegge, non sapeva per quanto tempo era stato in un grande gruppo di là. Poi gli era successo qualcosa, diciamo un miracolo ed era passato dal lato dei buoni, da un momento all’altro.

Aymorè poi fece telefonare a Trujillo, là a Cartagena, che gli mandò la scheda di Pacheco, intanto si mise a leggere una specie di volantino datogli da un suo collaboratore, era abbastanza recente e parlava della filosofia di un uomo misterioso ma affascinante, il Ricercatore dell’Assoluta Verità.

Il vino intanto era finito e Sergej lo andò a prendere, tornò con gli occhiali da sole, che prima non aveva e una bottiglia appena aperta, marca diavolo.

(Da noi si usava menzionare l’antico fabbricante cornuto quando qualcosa aveva origini incerte, senza etichetta, o cosa assai comune, quando l’etichetta non corrispondeva al contenuto.)

Appena seduto cominciò a parlare della Coca Cola, quasi come se fosse stato il nostro argomento precedente, in particolare di quella grande fabbrica che avevano inaugurato a Palomitas, per coincidenza o no, proprio a quei tempi. Non gli dissi che non me ne fregava niente della Coca Cola e a dir la verità nemmeno della Fanta, o della Pepsi. Aspettai un po’ ma Sergej aveva già cambiato marcia e anche faccia. Guardava verso il mare e andava a marcia indietro, non parlava più. Pareva aver perso interesse, pensava ad altro.

Gli chiesi come era finita l’altra storia.

Quale altra storia?

Quella di Calado.

Ah, lui indirettamente, ma non troppo, lavorava per la Coca Cola.

Ma non era il boss della coca?

Anche, in un certo senso erano collegate, ovviamente. Seguì una risata amara.

E Aymorè?

Pure, ma aveva cominciato solo in un secondo momento. 

Reginaldo?

Reginaldo no, lui sì che si era opposto e aveva pagato per questo e per quello.

E perché si era opposto?

Diceva che gli americani sfruttavano la sua gente, li facevano lavorare come matti e li pagavano pochissimo.

“La pietra di paragone è una tavoletta di pietra scura, utilizzata per saggiare leghe di metalli preziosi. Ha una superficie a grana fine su cui i metalli teneri lasciano una traccia visibile.”

Insomma l’uomo ha scoperto la pietra di paragone per saggiare l’oro, ma l’oro è la pietra di paragone per saggiare gli uomini, recitò con la sua occasionale più tragica mancanza di enfasi e dopo non disse più niente, a un certo punto si alzò e se ne andò a letto. Finito il vino me ne andai anch’io.

 

 

 

 

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento