Dalla sua casetta di legno a Creaquot il fiume non si vedeva, la vegetazione rigogliosa e intricata lo aveva inghiottito, ma si sentiva quel mugghiare sordo, non tutti i fiumi fanno quel rumore, ma quello era uno di quei fiumi. A dire il vero avevo anche dei laterali dubbi che fosse veramente russo, o che il suo nome fosse proprio quello. Un altro mio amico, fin dai tempi di Karaci era Sergej, a saperlo prendere per il verso giusto c’era pure da divertirsi ad ascoltarlo. Mi raccontava di certe torbide storie colombiane di un suo amico poliziotto, tale Aymorè, che non ho potuto fare a meno di pensare che poi fosse lui stesso, o magari solo una parte.
“È difficile e raro diventare
saggi senza essere mai stati intelligenti, ma non è impossibile. Uno che non ha
studiato molto, ma che ha avuto una certa esperienza di vita, non solo
campagnola ma anche cittadina e perfino fuori dalla stessa Colombia era Aymorè
Benetti. Quello che lo fece diventare così fu l’entusiasmo, si buttò nella vita
senza pensarci troppo, all’inizio, forse solo dopo, quando era troppo tardi
forse, e di capocciate nei muri ne aveva già battute assai. Però poi fu anche
peggio.”
“Mi avevi già accennato qualcosa, mi pare.”
Bisognava dirgli così, anche se ti aveva già parlato spesso di questo Aymorè,
era meglio non dargli l’impressione che quello fosse un filone già troppo
sfruttato in passato. Sergej parlava quasi esclusivamente di Aymorè, specie quando
beveva, ma era chiaro che parlava di sé stesso, aveva bisogno di sfogarsi, in
un certo qual modo, e forse si vergognava. Se fingeva di lasciar cadere l’argomento
era necessario ricordarglielo, ma senza essere troppo pressanti, sennò mangiava
la mosca e dopo non la risputava più fuori. Così invece si sentiva stimolato e
piano-piano entrava nel personaggio, dopo qualche frase di acchito,
incominciava a parlare, quasi come se fosse proprio il suo amico a farlo e mi
pareva che cambiasse anche la sua voce, o forse era solo la mia immaginazione. Era
come ascoltare la radio ed essere anche un po’ al teatro, se lo guardavi in
faccia.
“Per lui le città di
mare avevano un fascino particolare, non c’era niente da fare, gli erano sempre
piaciute, le spiaggie e le scogliere, i porti e le navi, i gabbiani, le barche
e anche le ragazze in bikini... ma fino a quel giorno da cui comincio a
raccontare non ci aveva mai vissuto, in una città costiera, nemmeno per un
breve periodo.
Aymoré Benetti aveva
abitato a Bogotà da quando aveva sette anni, fino alla maggior età, poi aveva
girato diverse città, per un motivo o l’altro. Forse più l’altro.
(questa premessa era
dovuta, ogni volta ce la metteva, più o meno uguale, l’altro motivo si poteva
interpretare o indovinare, di sicuro lui non te lo diceva)
“Ma te lo conosci personalmente?”
“Aymorè? Figurati,
siamo cresciuti insieme!”
“Ah, e ora dov’è?”
“Ci ha lasciato le
penne, capirai.”
(se ne vergognava, credo
che lo avesse seppellito dentro di sé, ma suo malgrado era ancora parte di lui,
ne doveva parlare ogni tanto, quasi come a cercare ancora di capirlo)
Anche un’interruzione breve,
come quella, lo bloccava un po’, magari il suo cervello si lasciava scappare
dei ricordi assopiti, forse troppo forti e sanguinosi anche per lui. Beveva un
sorso, distrattamente parlava del tempo che si era guastato, rispetto alla
settimana precedente e poi, se avevi pazienza, di punto in bianco ripartiva:
“Quando prese il suo primo
incarico, dopo il necessario tirocinio di un anno, alla spiaggia di Palomitas, si
era sentito bene, era un posto bellissimo e gli pareva beneagurante iniziare
lì. Comunque, preso simbolicamente possesso della sua poltrona girevole, dietro
una scrivania vecchia, enorme e stranamente ben mantenuta, conversato con i suoi
futuri e piuttosto rozzi collaboratori, il primo giorno passò in un volo... ma
aveva già meno baldanza di quando era cominciato. Non era ancora successo
niente, gli avevano solo parlato di cosa accadeva a Palomitas. Non che ci fosse
niente di più che in qualsiasi città di mare, con circa ottocentomila abitanti,
con un porto e appartenente allo stato della Colombia. Conosceva le cifre,
anche se sapeva che erano manipolate, anche così erano spaventose, solo che per
la prima volta la sensazione del pericolo era ben presente dentro di lui.
Credeva di non aver
lasciato trasparire niente, intanto la sua origine italiana imponeva rispetto,
forse perché non erano in molti là, ma lo avevano sempre guardato tutti in
maniera differente dagli altri, come se chi avesse inventato la mafia dovesse
seguire sempre e comunque quelle regole ormai diventate un esempio - anche se
negativo – di forza ottusa eppure prepotente in maniera anche sottile, nel
mondo intero. Forse per merito o colpa dei film.
La sera, steso sul
letto sfondato della sua casetta provvisoria, appena fuori dall’abitato e
piantata proprio sopra la scogliera, con sotto una spiaggetta splendida, si sentì
esausto e anche se il cervello attaccava un pensiero all’altro freneticamente, prese
sonno quasi subito, senza nemmeno rendersi conto delle zanzare, che come poi constatò
al mattino, lo avevano scorticato con metodo e pazienza.
Alle sette era già
sulla spiaggia per fare un tuffetto e una bella nuotata, per svegliarsi, meglio
che con una doccia, in mezzo a un ambiente naturale, ma non aveva calcolato
rifiuti umani e... pure disumani. La doccia la dovette fare lo stesso e in più
con l’ausilio di benzina per smacchiarsi, ma nonostante ciò si sentiva meglio
della sera prima, il suo umore era rinato ed era pronto di nuovo ad affrontare
il mondo della delinquenza, che faceva parte dell’altro, più grande e generale,
come la morte fa parte della vita.
I racconti dei
colleghi l’avevano un po’ abbacchiato, ma cosa si poteva aspettare? Era lì per
questo e per quello, per migliorare, se non il mondo intero, almeno una parte:
la Playa de Palomitas era già abbastanza e avanzava, per il momento.
Era ansioso di potersi
rendere conto di persona, fino a quel momento era stato solo un resoconto di
voci altrui, finalmente era l’ora di partecipare, di farsi un’idea,
personalmente, poi di mettere in pratica, di prendere parte al gioco, anche se
quello era un gioco pesante, quelli leggeri facevano parte ormai solo della sua
infanzia e adolescenza.
Si voleva sentire
utile, insomma, era per quello che aveva studiato e fatto tirocinio, fino a
quel momento era stato tutto teorico e distante, ora toccava a lui!
Aveva fatto da
assistente al famigerato commissario di origine slava Mercurio Banic, ma non
aveva preso parte a niente di pratico, lui gli diceva che non voleva
responsabilità e lo lasciava in ufficio. Dopo un po’ aveva capito che invece
non voleva che capisse quanti soldi intascava vendendo il suo distintivo.
L’unica cosa che aveva realizzato in quei primi sei mesi era che se la polizia
era corrotta, Banic a Cartagena viveva come un sultano, ben appoggiato in alto
quanto in basso, per salvare la faccia e la reputazione arrestava qualche
delinquente che non serviva più, o che aveva paura di essere ucciso e sperava –
invano – di salvarsi in prigione.
Il secondo tirocinio
l’aveva fatto con un commissario meno noto e più onesto, Teodoro Szantek, di
origine cecoslovacca, lui cercava veramente di proteggerlo dal pericolo e
quella città, Barça, doveva oltretutto essere una tra le più tranquille della
Colombia.
E ora eccolo a
Palomitas, scalpitante, secondo i suoi superiori più che pronto all’azione, con
la testa piena di verbali di casi indicativi, didattici e di tecniche comprovate
dai veterani, ma in pratica da recluta assoluta e davvero ignaro di cosa lo
aspettava.
Avevano passato il
pomeriggio, Aymorè e i suoi subordinati a rimettere un po’ in ordine il caos
creatosi in otto mesi in cui un sostituto provvisorio aveva preso il comando, e
a detta di tutti, sapendo che il suo incarico successivo e stabile era altrove
e lontano, ne aveva approfittato per battere la fiacca e per tirarne vantaggi
materiali, “senza inseguire alcuna gloria e rifiutando eroismi inutili” (queste
erano le sue parole), “piuttosto nascondendosi che rischiando, anche solo un
poco del rischiabile” (questa la testimonianza degli altri).
L’inattività è una
roba che, in luoghi retti da discipline di stampo militare, crea solo
distruzione e sconforto. Quella base pareva essere passata attraverso una
guerra, ma era peggio, erano appena usciti da qualche mese di fiacca completa, solo
pochi mesi senza nessun ordine da eseguire, forse otto mesi di bonaccia e ora
il mare grosso toccava a lui...
Come a confermare le
previsioni più logiche il primo caso si profilò subito prima del tramonto, che
d’estate era più o meno alle nove, cioè all’ora che stavo per staccare. In uno
dei quartieri più poveri, Afogados, sulla riva del fiume, un uomo era stato tagliato
in due da una sega elettrica, era stato ritrovato da un bambino in uno scarico
di rifiuti. Fin qui niente di strano, era una pratica certo non di routine, ma
che Aymorè aveva già sentito rammentare altre volte, specie nell’ambiente dei
trafficanti, ma la tecnica, stavolta, era stata diversa: l’avevano segato nel
senso della lunghezza.
Si recarono subito sul posto, la
discarica abusiva era un po’ dovunque lì intorno, Afogados era chiamato così
perché quando il fiume Caiòmas straripava, là dovevano tutti mettersi a nuotare
e ne morivano sempre diversi.
Alla domanda che fece: “C’è tanta
terra in giro! Perché non se ne vanno?” La risposta fu, di Gutierrez: “Non
sanno dove andare.” E gli altri due approvarono con la testa.
La vita è strana - commentò Sergej
- il mondo è un luogo poco adatto ai poveri, tu lo sai meglio di me, ora lo so
cosa significa avere tanti soldi nel materasso, ma anche da ricco non mi garbava
per niente, così sono tornato alla mia originaria povertà, è stato un processo
naturale, a dire la verità, mi sento meno peggio così.
Poi, lasciato scorrere l’approssimativo
silenzio attorno per un po’, con il mugghiare del fiume, ripartì con la storia:
“Un isolotto di spazzatura, uno di
quei quartieri tipici dell’America Latina
che i turisti non sfiorano nemmeno,
insomma, una squallida e pericolosa periferia, dove baracche di pezzi di
legno e di lamiera, casette di tavole più decenti o di mattoni forati senza
intonaco, si alternavano a terreni dove i cespugli e le erbacce nascondevano i
rifiuti sparsi, elettrodomestici arrugginiti,
carcasse di animali, varie automobili distrutte o bruciate.
L’impatto col corpo fu
peggio di quello che si aspettava, sebbene avesse tentato di prepararsi, vedere
quel mezzo uomo e l’espressione dei suoi occhi lo fece vomitare. Non fu una
bella impressione che causò nei suoi, ma lo consolò che anche a uno di loro,
Olguin, con una faccia indurita da anni di servizio da quelle parti, gli capitò
lo stesso.
L’altra metà del corpo
non c’era in giro, i bambini stessi l’avevano cercata, in un gioco nuovo, magari
sarebbe stata ritrovata in seguito, il sole stava tramontando e le ricerche
sarebbero proseguite il giorno dopo, forse.
La parte che era in
quel pendio sassoso, in mezzo alle erbacce e ai rifiuti puzzolenti di pesce e altre
cose di ogni tipo, contava una gamba e un braccio completi, la testa con tutto
quello che ci doveva essere, quello che mancava però era il cazzo.
L’avevano segato al
lato del collo, leggermente in diagonale, per finire in mezzo alle gambe, e...
forse di proposito, l’organo sessuale era stato lasciato nell’altra metà,
questo poteva avere un significato, oppure no.
Renato, il bambino che
aveva trovato il corpo si era impressionato, ma tutto sommato lo era di più Aymorè,
a queste cose lui ci doveva essere abituato più del commissario. Disse che
stava rovistando la spazzatura per cercare un camioncino giocattolo che sua
madre aveva buttato via perché era rotto e allora, insieme a suo cuginetto
Samuel era arrivato lì. Il corpo era stato riconosciuto dallo stesso Renato e
dal suo amico Luis, si trattava di Reginaldo Pacheco, conosciuto da tutti,
pare, come “Il ricercatore
dell’assoluto”. A quanto pareva l’aveva finalmente trovato.
Anche i suoi uomini ne
avevano sentito parlare. I bambini dissero che era un povero loco... però simpatico, che se avevi
bisogno di una mano lui faceva di tutto per aiutarti e non chiedeva niente in
cambio, cercava di convincere i banditi che sbagliavano a vendere la droga, a
rubare e a uccidere, che c’erano cose migliori da fare, ogni tanto qualcuno gli
rompeva le ossa, ma niente di più.
Perquisirono la casupola,
che era a pochi chilometri da lì, non trovarono quasi niente, anche perché non
sapevano esattamente cosa stavano cercando, ma ci lasciarono Alvarez che
dichiarava essere capace di dormire con un occhio aperto e uno chiuso. Tornati
al commissariato passarono subito alle informazioni su vita e miracoli di
Reginaldo Pacheco, visto che sulla morte, quasi tutto doveva essere ancora
scoperto. Era una specie di moderno Gesù colombiano, intanto il mondo non era
più una Bibbia, né assomigliava affatto a un Vangelo. Lasciò liberi gli uomini
che non erano di servizio, rimase con Guitierrez, il suo assistente, che avrebbe
avuto un appuntamento, è vero, ma Aymorè gli fece capire che aveva proprio bisogno
di lui. Gli altri due, Olguin e Etcheverry non gli parevano gente che ragionasse
e non ci tenevano neppure.
Ricevettero varie
telefonate di alcune personalità locali e non, più altri meno importanti, si
lamentavano di come la polizia non riusciva a proteggere le persone che
meritavano il massimo della considerazione, che invece venivano macellati come
animali. Si fecero lasciare nome, indirizzo e numero di telefono da tutti, o
almeno da quelli che lo desideravano.
Fisicamente, a quel
che pareva, Pacheco, era un uomo normalissimo, almeno prima di quell’operazione
chirurgica probabilmente anche senza anestesia, mentre dal punto di vista del
suo curriculum era piuttosto inusuale, non solo in Colombia. Grazie all’opera
di Guitierrez, attraverso telefonate in luoghi che Aymorè da solo non avrebbe
mai potuto scoprire, in poco tempo sapevano già qualcosa.
Disoccupato,
proprietario di una casetta di legno, senza parenti prossimi, ma importante per
molti, pareva, visto che a lamentarsi dell’episodio erano stati tanti e
diversi, come di differenti rami di occupazione, ma molti ben arroccati in
posizioni di rilievo economico e sociale, non sempre nella legalità. Gutierrez gli
raccontò che da anni sentiva parlare di lui, ma non l’aveva mai incontrato
personalmente. Era un personaggio popolarissimo, che si faceva chiamare il “Ricercatore dell’Assoluta Verità”
perché credeva fermamente nelle sue idee e se aiutava chi ne aveva bisogno, non
aveva paura di andare dai grandi boss della droga a parlare di come avrebbero
dovuto comportarsi per vivere meglio, loro lo ricevevano perché in un certo
senso ne ammiravano il coraggio, lo ascoltavano, si facevano qualche risata e
dopo continuava tutto come prima. Il Ricercatore era apparso anche alla
televisione locale lanciando i suoi messaggi, era stato intervistato altre
volte, anche dai canali nazionali.
Quel che si poteva
fare a quell’ora di notte era poco, sia perché erano stanchi, era tutto scuro e
non solo metaforicamente, insomma: non sapeva da che parte continuare già
ammettendo che avesse da qualche parte cominciato, sperava che durante la
nottata magari gli sarebbe venuto in mente qualcosa. Era il suo primo caso, i suoi
uomini lo sapevano, sembrava che lo guardassero nascondendo a stento un certo
divertimento, scambiavano tra di loro occhiate strane, come a sottintendere: “E
ora vediamo questo giovane figlio di papà come se la cava...”
Forse era solo la
stanchezza e la debolezza, oltretutto da mezzogiorno non aveva mangiato niente,
magari si stava immaginando cose non vere. Quegli occhi sgranati gli avevano
fatto male, aveva lo stomaco in guerra, ma a Reginaldo era andata indubbiamente
peggio. Che aveva fatto di sbagliato il Ricercatore dell’Assoluto? Perché lo
avevano straziato in quella maniera? Quella era una roba simbolica, che non si applica
a uno che vuole solo farti la predica, anche se insistente.
Mentre faceva la
doccia pensò che la perquisizione particolareggiata, della sua casetta sarebbe
stata la prima mossa, poi anche sapere tutto su quelli che avevano telefonato
per appoggiare le indagini, poteva essere una cosa pratica.
Prima di andare a
letto s’impose una porzione di pesce fritto e patate che si feci portare dalla
Rincon Brothers Fish & Chips, ci bevve una mezza bottiglia di vino bianco,
prima, poi visto che non prendeva sonno, la scolò e ne aprì una seconda,
stavolta di rosso: un pessimo Chianti di Iribeiras, non avevano diritto di
chiamarlo così. Si addormentò ubriaco e sognò il suo professore di spagnolo,
che realmente non gli era mai stato simpatico, né Aymorè a lui. Nella realtà storica
Inacio Lopes y Gonzales lo bocciava sempre e per meritarselo se lo meritava ampiamente.
Nell’incubo però secondo lui esagerava: giacché lo inseguiva colpendolo, su
quella che diceva essere la sua testaccia durissima, con un enorme dizionario
dalla copertina di marmo di Carrara bianco, appena venato di nero.
La mattina però la
testa gli faceva male sul serio e si sentiva a pezzi anche moralmente, al
telefono il suo spagnolo risultò patetico anche senza la valutazione del suo
professore, il sole forte lo disturbò già attraverso le fessure della persiana,
allo specchio vide che aveva un occhio mezzo chiuso e l’altro per un quarto, la
sua faccia era gonfia e sapeva fin troppo bene che la giornata che lo attendeva
non ne aveva alcun bisogno, sarebbe comunque stata una delle più ostiche della sua
carriera, appena iniziata. In ogni modo non era proprio il momento di darsi
malato, volente o nolente doveva mettersi in moto e a questo proposito cercò
d’infilarsi in corpo tanto caffè quanto poté sopportarne, riuscendo anche a
bruciarsi la bocca. Quest’ultimo incidente gli fece bene, però, perché, oltre a
svegliarlo, gli permise di farsi un’idea di quello che rischiava, se non
riusciva alla svelta a collegare il cervello al resto del corpo.
Arrivò in
commissariato per niente di buon umore, ma almeno questo servì per guadagnarsi
un po’ di rispetto. Mise due uomini a occuparsi dei curriculum delle quattro
persone più importanti e degli altri che avevano telefonato per Reginaldo
Pacheco. Loro si precipitarono subito alla piccola abitazione del suddetto. Aveva
un cattivo presentimento, che per fortuna non si avverò: Alvarez era in
perfetta forma e si stava facendo una frittata con uova e pancetta che aveva
trovato in frigo. Assicurò anche di aver controllato in precedenza e che non
potevano aggiungere o togliere niente alle indagini. Gutierrez, Alvarez e altri
due cominciarono la seconda perquisizione, non avendo ancora idea di cosa
stavano cercando, ma almeno c’era la luce del giorno.
Telefonò a Olguin che gli
riferì ciò che di più interessante era venuto fuori dall’indagine sui quattro
nomi di spicco, poi avrebbero passato a setaccio gli altri. Il primo in ordine
d’interesse era Calado, uno dei boss del Cartel della coca, si mise in contatto
con lui che accettò d’incontrarlo subito. Si trovarono in un bar dei suoi, con
musica a tutto volume e ubriachi in giro alle otto e mezzo di mattina. Passati
nel retro, il silenzio improvvisamente diventò quasi assoluto, lo fecero
entrare insieme a Etcheverry che era forse un po’ lento in filosofia contemporanea
ma pareva sapere il fatto suo con le armi ed era un armadio d’uomo. Chiaro che
gli uomini di Calado là intorno bastavano a trucidarli in un batter d’occhio,
ma Aymorè era convinto che non ne avessero ancora un motivo.
Calado era un uomo
dalla faccia piena di cicatrici, seduto nella penombra senza aria condizionata,
un meticcio dagli occhi di aquila, profondi e forse meno feroci di quello che si
aspettava, grassoccio ma agile, dalle parole calcolate e lente, poche ma
frizzanti, da qui il nome, che era un soprannome, che voleva dire che non
parlava molto.
“Signor commissario o
lei è un uomo moderno o uno sprovveduto. Devo dirle che mai nessuno, al suo
posto, ha accettato d’incontrarmi, ammiro il suo coraggio, può contare sul mio
aiuto, Reginaldo era mio amico e se scopro chi gli ha fatto quel lavoretto...
beh, non so ancora cosa gli farò, ma credo che in confronto quello gli sembrerà
una cretinata...”
I suoi uomini
scoppiarono a ridere, mentre lui si massaggiava le mascelle poderose, guardandolo
fisso, serio. Il commissario non sapeva cosa dire, si era preparato delle domande, ma non gliene veniva più
in mente nessuna. Sudava, tutti sudavano, era caldo assai, sperava che non si notasse
che lui sudava di più. Il ventilatore girava lento
sul soffitto e quel silenziò inquietante durò un qualche venti minuti, così gli
parve, ma non doveva essere stato più di dieci secondi...
“Bene.” Si decise.
“Questo Reginaldo mi pareva una persona inoffensiva, più amato che odiato,
perché ridurlo in quella maniera?”
“Questa è la domanda. Vorrei
saperlo anch’io. Mi hanno detto che l’hanno segato in lungo...”
“Già, è vero, è una
pratica in uso?”
“Mai sentito di
nessuno segato per il lungo, segato nel mezzo vuol dire una cosa, segare un
braccio, una gamba, altre cose, la testa, tagliare il cazzo...”
Intervenne il più
giovane coi baffi e il cappello da cowboy:
“A uno dei nostri a
Palmiton gli hanno segato tutte e due le gambe...”
“Stai zitto, idiota,
qualcuno ti ha chiesto qualcosa?” Lo gelò sibilando Calado.
Poi rivolto a Aymorè,
più calmo e gradevole:
“Sa commissario,
questi giovani non sanno più qual’è il loro posto, accusano noi patriarchi
della fine del secondo millennio, dicono che ci stiamo rammollendo, stiamo
diventando dei cazzi di maricones e
in più che li stiamo viziando...”
Il ventilatore di
nuovo fu l’unico suono per un bel po’, nessuno aveva voglia di dire niente, si
guardavano in faccia e quel giovane, invece, per terra.
“La mia opinione è... io
dico che è la pura verita.” Riprese Calado sorridendo con la faccia, ma gli
occhi erano serissimi. Gli altri risero.
“Consideri il mio
punto di vista. Se, io con i miei vecchi mentori Batoclo o perfino con il
mitico Pestana mi fossi permesso un’entrata così, sapevo già che poi avrei
dovuto raccogliere i miei denti dal pavimento. Per questo evitavo di farlo, e non
c’era verso che mi sbagliassi.”
Una risata fragorosa
alla quale Aymorè si sorprese di partecipare con tutti, Etcheverry compreso. Là
dentro però sembravano veramente indignati su quello che era successo, anche
perché era una pratica che non conoscevano ancora, che non sapevano a chi
attribuire e questo segnava due punti a loro sfavore. Parlarono ancora delle
tecniche per tagliare correttamente corpi umani con la sega elettrica,
specialità nella quale i Colombiani erano i più famosi del mondo, anche se personalmente
questo non riempiva di orgoglio Aymorè, aveva notato che loro ci tenevano.
Calado nonostante il
suo terrificante curriculum, sapeva ragionare e parlare nell’ordine, cosa rara.
Prima di tutto, però, doveva mantenerlo l’ordine e i suoi sguardi e le sue
parole erano didattici ed esemplicativi, a loro modo, quello che corrispondeva di
più ai canoni della malavita locale. Quando emerse il fatto che il pezzo ritrovato
era con la testa e che l’organo sessuale non c’era, la smorfia di Calado fu
accompagnata da varie e differenti esclamazioni del suo staff, il misterioso
assassino della motosega aveva sorpreso di nuovo anche loro.
Su Reginaldo gli disse
che proveniva da Cartagena e che era stato dal suo stesso lato, cioè quello dei
fuorilegge, non sapeva per quanto tempo era stato in un grande gruppo di là.
Poi gli era successo qualcosa, diciamo un miracolo ed era passato dal lato dei
buoni, da un momento all’altro.
Aymorè poi fece
telefonare a Trujillo, là a Cartagena, che gli mandò la scheda di Pacheco,
intanto si mise a leggere una specie di volantino datogli da un suo
collaboratore, era abbastanza recente e parlava della filosofia di un uomo
misterioso ma affascinante, il
Ricercatore dell’Assoluta Verità.
Il vino intanto era
finito e Sergej lo andò a prendere, tornò con gli occhiali da sole, che prima
non aveva e una bottiglia appena aperta, marca
diavolo.
(Da noi si usava
menzionare l’antico fabbricante cornuto quando qualcosa aveva origini incerte,
senza etichetta, o cosa assai comune, quando l’etichetta non corrispondeva al
contenuto.)
Appena seduto cominciò a parlare della Coca
Cola, quasi come se fosse stato il nostro argomento precedente, in particolare di
quella grande fabbrica che avevano inaugurato a Palomitas, per coincidenza o
no, proprio a quei tempi. Non gli dissi che non me ne fregava niente della Coca
Cola e a dir la verità nemmeno della Fanta, o della Pepsi. Aspettai un po’ ma
Sergej aveva già cambiato marcia e anche faccia. Guardava verso il mare e andava
a marcia indietro, non parlava più. Pareva aver perso interesse, pensava ad
altro.
Gli chiesi come era finita l’altra storia.
Quale altra storia?
Quella di Calado.
Ah, lui indirettamente, ma non troppo, lavorava
per la Coca Cola.
Ma non era il boss della coca?
Anche, in un certo senso erano collegate,
ovviamente. Seguì una risata amara.
E Aymorè?
Pure, ma aveva cominciato solo in un
secondo momento.
Reginaldo?
Reginaldo no, lui sì che si
era opposto e aveva pagato per questo e per quello.
E perché si era opposto?
Diceva che gli americani sfruttavano la sua gente, li
facevano lavorare come matti e li pagavano pochissimo.
“La pietra di paragone è una tavoletta di pietra scura, utilizzata per saggiare leghe di metalli preziosi. Ha una superficie a grana fine su cui i metalli teneri lasciano una traccia visibile.”
Insomma l’uomo ha scoperto la pietra di paragone per saggiare l’oro, ma l’oro è la pietra di
paragone per saggiare gli uomini, recitò
con la sua occasionale più tragica mancanza di enfasi e dopo non disse più
niente, a un certo punto si alzò e se ne andò a letto. Finito il vino me ne
andai anch’io.
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