giovedì 19 dicembre 2019

PITTORE TI VOGLIO PARLARE



A qualcuno potrà anche sembrare strano, ma a Pioppeta l'albero più raro a trovarsi è il pioppo, che essendo una tipica pianta da pianura qui si troverebbe in difficoltà. Però se il nostro paesino ha questo nome deve esserci almeno un motivo valido, solo che noi non lo sappiamo. Magari ci sono stati dei cambiamenti climatici, può essere che il suolo si sia incurvato in un secondo momento, forse i pioppi hanno cambiato le loro abitudini, oppure un misto delle varie cose, o anche nessuna delle tre. La vegetazione è comunque rigogliosa, se ci si accontentasse dei lecci e delle acacie, delle querce o dei castagni, o altre frondose varietà, qui se ne possono trovare. Per quanto riguarda i pini non saprei dire se li stanno abbattendo per anticipare le malattie e sfruttarne il legname o se stanno cadendo da soli, è un massacro sistematico da circa una decina d’anni.

Una volta, non troppo tempo fa, qua c'erano tre mulini funzionanti: il mulin di sotto, quello di mezzo e quello di cima. I vecchi edifici di pietra ci sono ancora, volendo c’è anche l’acqua, ma non ci sono più le ruote di legno e le relative farinose aziende. Le macine magari erano troppo pesanti da portar via e sono ancora dentro nascoste, ma di sicuro non macinano più.
Al mulin di sotto, che era il più grande, sulla strada principale che porta al mare, ora c’è un bar. C’è stata anche un’agraria, anni fa, ma poi ha chiuso perché qua in giro non ci sono più contadini. Nel mulin di mezzo, che dei tre era il più romantico a vedersi, abitano due nuclei separati, pare che siano solo tre persone in tutto. Da qualche anno al mulin di cima abita invece un vecchio pittore, tale Orazio Buonasera, lo chiamano tutti Mulin di Cima e dicono anche che è un tipo stravagante. La signora che ci stava prima è morta, era sua zia.
Da quando avevo scoperto quella lunga strada sterrata che s'incuneava in mezzo a quelle alte colline, abbastanza spesso arrivavo in macchina e posteggiavo nella piazzola vicino al canneto, a lato del mulino, dopo il lavatoio di pietra. Di solito Orazio era lì intorno a dipingere, se non pioveva. Io facevo la mia camminata nei boschi, ritornavo dopo un’ora e mezzo circa, lui era sempre lì, seduto o in piedi, il cavalletto girato dalla stessa parte. Ora non posso più fare la mia camminata in quella zona, non solo per colpa sua, ho dovuto cambiare itinerario anche se quello mi piaceva assai.
Le prime volte il Buonasera si è limitato a scrutarmi in silenzio, attraverso gli spessi fondi di bottiglia dei suoi occhiali, fischiettando. Le seconde mi ha salutato con ampi semicerchi della mano senza pennello, la destra. Per tutte le terze volte ha accompagnato il solito gesto con saluti generici e cordiali tipo buon pomeriggio o buona passeggiata. Solo alle quarte, forse dopo un mese o due, ha cominciato a lanciarmi frasi ambigue, con la faccia seria ma non troppo, con i suoi bianchissimi capelli lunghi al vento: “Attento alle multe!” Oppure “Viva la biodiversità!” O altre cose delle quali io naturalmente non capivo l'attinenza alla situazione, ma lo salutavo lo stesso con la mano, gridandogli buon pomeriggio, salve o ciao.
Quando finalmente mi sono accostato a lui, avevo già notato che dipingeva con la sinistra e che sulla tela appariva sempre qualcosa che non aveva niente a che fare con il panorama di fronte al cavalletto, che poteva essere di volta in volta la nostra affascinante Certosa, o il bosco che saliva la ripida collina, o la vallata che si apriva e scorreva in leggera discesa verso la pianura. Più avanti ho anche notato che non appariva mai lì fuori con una tela nuova, erano forse sempre state cominciate e portate a buon punto in casa? Poi che erano dipinti a tinta unita anche il retro e i lati delle tele.
Orazio si è presentato macchiandomi la mano di verde e di marrone e mi ha spiegato che era bello per lui rendersi partecipe che esisteva ancora qualcuno che non aveva il suvve, uno che arrivava in macchina senza la musica a tutto volume, viaggiando senza fretta, che non fumava guidando e che non doveva parlare continuamente al telefonino, nemmeno dopo, camminando, magari non ce lo aveva neppure. L'ho tranquillizzato dicendogli che l'avevo lasciato a casa, che lo usavo piuttosto saltuariamente e lui mi ha stretto di nuovo energicamente la mano sporca e ha detto che se veramente ci riuscivo, a non esserne schiavo, ero l'unico che lui conoscesse. L'intenzione s'intende già dal gesto, ha dichiarato, lo aveva capito subito che ero una persona valida, uno che aveva ancora dei valori ben attualizzati nella vita, che a volte consistevano nel non seguire sempre e comunque le mode, insomma una rarità. Ne era contento. Ha aggiunto che al mondo si finisce sempre per essere schiavi di qualcuno o di qualcosa, proprio da quello si determina il grado d’efficacia di una persona. Imporre alla propria vita il nostro personale ritmo non era facile, tutto congiurava contro, eppure era la maniera meno scomoda di vivere. Per esempio lui aveva scelto la pittura, la libertà e la solitudine. Ha confessato, senza la minima tristezza, che purtroppo lui aveva esagerato con queste tre cose, a volte se ne pentiva anche, ma quando si guardava attorno vedeva che gli altri stavano molto, ma molto peggio. Non mi ha chiesto di cosa o di chi io fossi schiavo, come mi aspettavo che facesse e mi ha fregato per la prima volta. Fino a quel momento io avevo parlato poco, ma credo che lui volesse presentarsi per bene, prima di lasciarmi dire chi fossi io, magari in un certo senso lo sapeva già, per quello che gli serviva mi aveva sufficientemente inquadrato. Non mi ha chiesto che lavoro facessi, se ero in pensione, se fossi sposato oppure no, non mi ha domandato se avevo figli e che cosa ne pensassi della globalizzazione sfuggita al controllo dell'uomo (e forse anche della donna) e mi aveva fregato già per un certo numero di volte da mettere in conto per il futuro, se ce ne fosse mai stato bisogno.
Davanti a noi c'era uno scorcio notevole della Certosa. Dal nostro punto di vista, a quattrocento metri circa dal mulino, in diagonale oltre la fila delle casettine delle celle dei frati, poi tra enormi cedri del libano, si vedevano la chiesa principale e alcuni edifici antichi e abbastanza alti, più in basso, dentro l'ampia recinzione in leggera pendenza: stalle, pecore e verdi pascoli.
Sulla sua tela invece c'era una bizzarra natura morta: un cocomero e una triglia, su un piano che poteva essere un tavolo marrone scuro, dietro uno sfondo a piccoli esagoni, cioè a nido d'ape, solo che era viola. Il cocomero era aperto, la triglia no, anzi, da come era messa, si capiva che era ancora viva. Orazio Buonasera ha detto che era quasi finito, c'era già la firma, Good Evening, forse perché aveva vissuto per trent'anni a Londra, mi ha spiegato. Ho pensato che il dipinto fosse brutto, a mio parere sgradevole, le figure erano poco definite e la scelta dei colori non molto azzeccata, non combinavano per niente. Non sono mai stato un amante delle nature morte, di qualsiasi tipo, mi sono giustificato con me stesso. Orazio aveva capito dalle mie frasi di tiepida ammirazione che ero rimasto leggermente deluso e allora mi ha spiegato che lo faceva perché lui vedeva quei dipinti in maniera diversa da chi ci vedeva ancora bene. Mi ha proposto di venire dentro al mulino, cioè alla sua casa, per farmi dare un’occhiata rapida alle foto dei suoi quadri di quando dipingeva sul serio, anni prima, in Inghilterra, mentre ora ci vedeva poco e lo faceva quasi per scherzo, per passare il tempo, i suoi quadri non se li comprava più nessuno e avevano anche ragione. Ma io volevo andarmene, mi sono scusato ma ero sudato e mi stavo freddando, non volevo ammalarmi, gli ho detto che li avrei visti volentieri un'altra volta, magari. Avevo già girato le spalle e mi dirigevo verso la mia Peugeot, quando lui mi ha chiesto se avevo mai visto quel film di Pupi Avati in cui l'autista del signore benestante era diventato cieco e non avevano avuto il coraggio di licenziarlo, dopo tanti anni di servizio. Senza aspettare che gli dicessi di sì o di no, si è sbrigato a dirmi che guidava un po' a tatto, certo non così bene come prima, si ricordava ancora le strade, ma a volte sbatacchiava un po' la carrozzeria. Come lui, quello che faceva era perché aveva mandato a memoria come si doveva fare, ma la sua vista era troppo indebolita.
A casa, con calma, ho rivisto dentro di me le tragicomiche scene del film, gli occhi storti dell'autista cieco somigliavano un po' a quelli di Orazio.
La gente in genere m'intristiva e mi annoiava con le solite lamentele sulla loro vita e sulla società malata, lui invece pareva pieno di entusiasmo come un bambino, ma aveva anche una specie di saggezza da ottantenne assai lucido ed esperiente. In meno di cinque minuti mi aveva fatto fare delle risate non indifferenti.
La volta seguente, due giorni dopo, mi ero preparato per raccogliere l'invito del pittore, sono arrivato lì in anticipo ma lui non c'era, ho fatto la mia camminata, ma anche al ritorno non l'ho visto, eppure c'era il sole e la giornata era assai piacevole.
Per una settimana non l'ho più incontrato, ho pensato che gli fosse successo qualcosa. Invece poi l'ho ritrovato vispo e frizzante, sotto un largo cappello di paglia colorata di rosso, che dipingeva di faccia al bosco in salita, di fianco alla fila di alberi di cachi, che così alti e carichi non ne avevo mai visti. Un genere diverso, stava terminando un'immagine estiva di gente di colore che ballava in riva al mare, di notte, vestiti svolazzanti colorati vivacemente, intorno a un grande fuoco. Anche questo era quasi finito e già firmato Good Evening. Mi piaceva certo più dell'altro, ma ho pensato che se me lo avesse regalato difficilmente gli avrei trovato una parete che ci combinasse. Non che io m'intenda di pittura moderna, sono completamente istintivo, un quadro mi piace o non mi piace, non so nemmeno spiegarmi il perché, deve essere una questione di atmosfera, di emozioni ricevute o meno.
Orazio non si era dimenticato del suo invito a entrare in casa a vedere i suoi quadri di una volta. In mezzo a una vaga conversazione che dal tempo atmosferico era sfociata nell'arte figurativa, mentre rimetteva sotto una tettoia fatiscente quadro e cavalletto, colori e pennelli, gli ho chiesto perché per una settimana non era stato fuori a dipingere. Lui ha riso, come se gli avesse fatto piacere che glielo avessi domandato, poi ha detto che lo faceva esclusivamente quando era di buonumore e non mi ha dato altra spiegazione, non ho domandato oltre.
Nel mulino non c'ero mai entrato, ma più volte ne avevo sentito la curiosità. Dalle sue larghe e scortecciate pareti, misto di mattoni e pietre, si capiva che era antico e diverse famiglie certo ci avevano vissuto. Era un vasto caseggiato asimmetrico su tre piani, che non badava molto all'estetica, essendo il primo un seminterrato dove c'era probabilmente una cantina e i soffitti degli altri due erano assai alti, come usava un tempo, che la gente preferiva respirare un po' meglio. In alto, dal lato della strada c'era pure un'altana, dove si vedevano spesso i panni ad asciugare.
In più l'edificio risuonava dell'acqua che lo attraversava ancora scrosciando. Avevo notato in precedenza che una gora stretta in pietre e muratura correva da tempo immemorabile e per almeno un chilometro prima del mulino, in mezzo al bosco, portandogli acqua dalla collina che era quasi una montagna, almeno per la ripidità dei suoi declivi.
Le finestre in fondo illuminavano solo se stesse, lo stanzone era praticamente al buio, o forse era solo l'effetto ai miei occhi che venivano da fuori. Accanto alla porta uno scolorito calendario di Frate Indovino era di dodici anni prima, con sopra illeggibili annotazioni a penna. Intanto il Buonasera parlava della sua unica figlia che era rimasta a Londra e che doveva tornare, ma invece non tornava mai, lui non stava più nella sua vecchia pelle incartapecorita dalla voglia di abbracciarla, erano cinque anni che non la vedeva e lei gli scriveva ancora delle lunghe lettere di carta piene di particolari, lui gli rispondeva con altrettante, ma più corte, che scrivere non gli piaceva, ma ci metteva dentro foto dei quadri che dipingeva e poi piangevano tutti e due, ma di nascosto, senza confessarselo. Orazio ha acceso finalmente la luce, quando si è accorto che sbattevo da tutte le parti, da solo non ne aveva bisogno, ci vedeva molto poco e magari la luce gli dava anche noia. Alle pareti non c’era neanche un quadro, come invece mi ero immaginato, solo scaffali di legno con sopra gli oggetti più impensabili. Un vaso sanitario, grosse latte vuote di tonno e aringhe, bottiglie vuote e più raramente piene, falcetti, palette, secchielli di ferro, cappelli di paglia, insomma la maggioranza erano cose tipicamente campagnole, polverose e intoccate da chissà quando. Erano dieci anni che viveva lì, ma mi ha detto che aveva lasciato tutto com’era prima, quando era morta la sua cara zia Bettina, sorella di suo padre Tonio. L’odore era di legno e di polvere stagionata, ho starnutito più volte e lui ridacchiava contento. Non doveva portare spesso ospiti là nel suo antro e ne era forse anche orgoglioso, di tutto quel passato profumato o puzzolente in maniera romantica, quello di sua zia e di quanti altri sommato al suo più recente. Gli ho domandato di sua moglie e mi ha raccontato che era colombiana e di colore, che era andata a Cartagena per rivedere la sua famiglia, tanti anni prima che non sapeva nemmeno quanti, lui c'era rimasto male, sorrideva malinconico, anche perché lei gli aveva scritto appena un paio di volte, diceva che ritornava ma non è tornata più. La vita è così, diceva, la vita è proprio così, ripeteva, ma non diceva come, era sottinteso. Magari era ancora viva, ma non ci credeva, le piaceva troppo la coca. Sua figlia era evidentemente mulatta, molto bella. Beh, più che bella era simpatica e intelligente, ridacchiava, dipingeva anche lei e suonava il pianoforte in un gruppo jazz. A proposito di Londra mi ha detto che il suo più grande amico era inglese e viveva lì vicino. Tale Bruno Cavendish, antiquario ed esperto d’arte, un uomo di grande compagnia e solidarietà, buona forchetta e ancora miglior bicchiere. Unico difetto le sue scorregge, troppo muscolari, secondo Orazio, piuttosto forti, dovute all’alimentazione.
Avevo già notato che la sua abilità era di raccontare le cose più buffe in grande serietà, di ridacchiare divertito sulle tragedie, di presentarti i fatti più intimi come se non lo riguardassero troppo direttamente, piuttosto come inevitabili parti del libro della vita di chiunque, di conseguenza anche suoi.
Sapeva lasciare delle pause tra una cosa e quell’altra, in cui tu potevi tranquillamente commentare o stare zitto, anche cambiare bruscamente argomento, ma di certo non ti sentivi forzato a mostrare una qualche reazione, o dover per forza dire qualcosa a riguardo.
Alla fine dei quadri non se ne è parlato neanche, in compenso ci siamo scolati un paio di bottiglie di vino francese, almeno così ha detto lui. Le etichette erano così vecchie e incallite, di funghi, incrostazioni e agenti atmosferici vari e difficilmente riconoscibili che non si leggevano nemmeno, ma erano due nettari non indifferenti. Ho avuto modo di notare che le bottiglie piene sugli scaffali erano poche, ma si distinguevano dalle altre, molto numerose, che erano in piedi, giacché piuttosto ben sdraiate con il collo leggermente sollevato. Quando sono riuscito ad andarmene via, barcollando un poco, erano passate quasi cinque ore. Mulin di Cima non ha insistito affinché restassi ancora un poco, ma mi ha dato una bottiglia da portare a casa e non ha voluto sentire ragioni, che non rompessi tanto i coglioni e me la bevessi alla sua salute, che lui di salute ne aveva proprio bisogno. Mi ha raccomandato di non agitarla troppo che era piuttosto vecchiotta e di lasciarla riposare qualche ora in una caraffa, prima di versarmene il primo calice, cosa che lui stesso regolarmente si dimenticava di fare, ma il vino buono e vecchio bisognava farlo respirare.
In occasione del nostro seguente incontro la cornice era assai piovigginosa, sono entrato dalla porta aperta e ho sentito una musica, l'ho chiamato più volte, lui debolmente rispondeva, sembrava lontano. Sono entrato pure in una grande sala piena di grandi scaffali carichi di decine delle sue tele dipinte e firmate Good Evening, certo la più pulita e ordinata della casa. Per qualche minuto ho girato le stanze e non lo trovavo, alla fine sono arrivato sull'altana, era là che dipingeva tra le due file di panni ad asciugare. Orazio ascoltava con un mangiadischi colorato a fiorellini una vecchia incisione di Fausto Leali. Senza neanche salutarmi mi ha spiegato che Kim, sua figlia, era mulatta, ma assai più nera che bianca, con dei labbroni e tutto, capelli riccioluti e via. Mi ha fatto vedere un enorme e assai scalcinato album fotografico, dove però apparivano solo prati, mucche, cavalli, capre e lui stesso qualche anno prima, probabilmente in Inghilterra, i capelli ancora brizzolati, la barba sale e pepe, però con più sale che pepe. Nessuna traccia di sua figlia, insomma, che fin da piccola pare che fosse affezionata a questa canzone:

Pittore ti voglio parlare
mentre dipingi un altare.
Io sono un povero negro
e d'una cosa ti prego.
Pur se la Vergine è bianca
fammi un angelo negro.
Tutti i bimbi vanno in cielo
anche se son solo negri.
Lo so, dipingi con amor.
Perché disprezzi il mio color?
Se vede bimbi negri
Iddio sorride a loro.
Non sono che un povero negro
ma nel Signore io credo
e so che tiene d'accanto
anche i negri che hanno pianto.
Lo so, dipingi con amor.
Perché disprezzi il mio color?
Se vede bimbi negri
Iddio sorride a loro.

Asciugandosi le lacrime mi ha spiegato che Angeli negri era un brano musicale adattato in italiano da Gian Carlo Testoni. Sorrideva a me, ma piangeva rivolto al resto del mondo, per via della sua ingiustizia atavica ma pur sempre attuale, un mondo bellissimo ma anche piuttosto triste. Si trattava di una cover di Angelitos negros, canzone di Pedro Infante del 1948, tratta dal film omonimo, i cui versi erano del poeta e politico venezuelano Andrés Eloy Blanco, già interpretato da Antonio Machin, cantante iberocubano, e ripreso poi da Don Marino Barreto Junior nel 1959. Una prima versione italiana era stata incisa da Luciano Tajoli già nel 1950 col titolo "Angeli neri", che si rivelò un enorme successo, poi più recentemente da Fausto Leali, si fa per dire, eravamo ancora nel 1968.
Tra una notizia e l'altra mi ha chiesto se avevo portato su un bicchiere, ha scosso la testa disapprovandomi quando ha visto che non ce l’avevo e ha detto che allora dovevamo assolutamente andare giù, al che gli ho detto che quel giorno non volevo bere, se mai fosse possibile. Senza nemmeno ascoltare le assurdità che gli stavo dicendo, mi ha chiesto che fine avesse fatto la sua dannata bottiglia, quella che mi aveva regalato. Stavamo scendendo già la prima rampa di scale nella semioscurità fredda della casa. Ho creduto che di vino in casa non ne avesse più, mi sono giustificato dicendo che non l'avevo ancora bevuta, ma che mi ripromettevo di farlo alla prima occasione. Intanto mi aveva condotto in una stanza buia. Una specie di pratica cantina, proprio vicino alla sua camera da letto. Le relative quattro rastrelliere erano punteggiate di bottiglie di vino polverose, incrostate e probabilmente antiche, ne ha presa una, a me è sembrato a caso. Intanto Fausto Leali continuava a cantare Angeli Neri dall’altana, e lo ha fatto per tutto il tempo che siamo rimasti giù a sbevazzare. Ho notato che Mulino era assai malinconico dal fatto che sorrideva e faceva pause più lunghe tra le sue frasi di argomenti differenti, ma che a spirale tornavano sempre sullo stesso, ha sentito passare un'automobile e allora è partito. Quando era nostalgico parlava dei SUV e delle loro necessarie implicazioni sociologiche.
“Non è affatto detto che chi guida un suvve sia più stronzo degli altri, no, no, ma una differenza a suo favore ce l'ha, lui vuole farlo sapere, mostra già a tutti la sua prepotenza.
Non ho potuto fare a meno di notare un’esagerata tendenza a credere di doversi difendere, nell’italiano moderno più che in altri popoli o nazioni, anche e soprattutto quando non ce n’è bisogno, una propensione media alla difesa superflua che si trasforma, senza che ci se ne accorga, e sfocia facilmente nell’aggressione gratuita e continuata.
Il suvve è una dimostrazione spicciola di questa gente infima che nel terrore di essere prevaricata passa direttamente alla prevaricazione e non solo non se ne accorge, ma se tu glielo facessi umilmente notare ci dovresti anche inevitabilmente litigare. Vogliono dimostrare di essere grandi e ricchi, ma la loro casa a volte è senza finestre e più piccola della loro automobile… e la loro mente allora? È così piccola e subdola che assomiglia a una supposta.
Prendi Bruno: è piuttosto ricco, ma non lo sa nessuno, cammina a piedi o in bicicletta, la sua vecchia Prinz è in garage e la usa una volta al mese di media, quando andiamo insieme a fare la spesa, quella si mette ancora in moto solo perché è tedesca e testarda ed è per questo che lui l’ha scelta.”
Cercavo una scusa più che plausibile per andare a fare la mia camminata, ma mi seccava lasciarlo lì da solo. Dopo un bicchiere o due di quello che mi pareva stavolta vino italiano di gran classe, forse un Amarone, per fortuna è arrivato Bruno e Orazio ha smesso all’istante di essere malinconico e ha cominciato a chiedergli di non so quali quadri. Se ne sono andati di là e parlavano di Signorini, Lama, Lamberti, Lace e altri pittori italiani, a mezza bocca ci accostavano anche centinaia di migliaia di euro come se fossero castagne secche. Li ho lasciati anche perché non riuscivo proprio ad agganciarmi ai loro discorsi e ho notato che probabilmente li disturbavo.
Qui dovrei magari specificare che negli ultimi anni ero rimasto piuttosto deluso dalle persone che conoscevo da tempo e - pur se in maniera differente - anche da quelle che avevo conosciuto più recentemente. Il mondo moderno mi pareva fosse riuscito solo a peggiorare quello di una volta, invece di averlo migliorato come dicevano. Più o meno inconsciamente tendevo a evitare di approfondire ogni persona nuova che venivo a incontrare, per non esserne di nuovo irrimediabilmente deluso. Eppure quel vecchio dai lunghi capelli bianchi e dagli occhi storti m'incuriosiva in maniera positiva, come se mi riportasse indietro nel tempo, come se riempisse almeno in parte tutta la mia sconfinata voglia di passato.
Ho incontrato Bruno per caso il giorno dopo, sulla porta del Mulin di Mezzo stava uscendo in bici, come sempre elegante e non aveva un capello fuori posto. Mi ha chiamato dentro e mi ha offerto un caffè. Bruno è l’opposto di Orazio, eppure sono grandi amici. Di padre inglese e madre italiana e di Pioppeta, ha comprato il mulino dove vive e ne ha affittato una parte a una coppia tedesca. L’interno della sua abitazione è sobrio ma accogliente, luminoso con le pareti bianche, estremamente essenziale e arredato con mobili antichi scuri, pochissimi quadri e quasi senza soprammobili, niente televisione.
Mi ha detto che Orazio è fin troppo sincero con sé stesso e con la gente, mente solo quando si parla di sua figlia, cioè invece di dire come è, racconta come lui avrebbe voluto che fosse. Kim non è esattamente una musicista, è vero che sa dipingere, suonare bene il piano e cantare anche, ma è piuttosto la donna di colore più accreditata nella politica laburista inglese. È a disposizione del cellulare 24 ore su 24 e naturalmente ha un SUV, è sposata con due figli, è una consumista incallita e non ha mai un secondo libero per sé stessa, figuriamoci per la sua famiglia. La settimana in cui Orazio è rimasto in casa senza dipingere è stata perché lei non è potuta venire a trovarlo come aveva promesso. 
“Nella vita niente va come avevamo pensato, quando succede è per poco tempo, poi diverge sempre dalla nostra immaginazione, dai nostri progetti…” Ha detto, scuotendo la testa. “Solo che Orazio ha difficoltà ad accettare questi normali cambiamenti di programma, che la figlia abbia scelto una strada che a lui non piace, la fottuta politica, che non abbia tempo di venire un paio di giorni a visitarlo, ormai da quasi dieci anni.”
Mi ha parlato del suo mestiere di mercante di arte, che ha lasciato tutti i parenti a Coventry e che non ne sentiva la minima mancanza, che ha conosciuto la moglie di Orazio a Londra, che era una prostituta e poi di conseguenza ha incontrato lui e si sono trovati subito bene, soprattutto a livello filosofico, ma anche si capiscono bene nel divertimento, nell’apprezzare le cose belle della vita.
Orazio gli aveva trovato il mulino da comprare e glielo ha comunicato per lettera, lui è sceso dall’Inghilterra e ha concluso l’affare.
Mi ha mostrato foto dei quadri del suo amico Good Evening quando era in auge ed erano veramente belli, oltre che costosi e riconosciuti un po’ in tutto il mondo. Ne aveva dipinti una trentina in tutto e li aveva venduti tutti. Si trattava di paesaggi un po’ elettrici di luci e turbolenze quasi marziane e misti di rovine di muri e colonne antiche in mezzo alla natura, con divinità boschive ingenue ma anche un po’ minacciose, poca gente propriamente detta, in ombra, vista da lontano, o di spalle. Alcuni li avevano paragonati a qualcosa di Leonor Carrington, con le dovute proporzioni, secondo me si notava la ricerca dello scarso contrasto nei colori, nelle atmosfere più a pastello sfumato. Erano dipinti un po’ stravaganti insomma, affascinanti come era Orazio, un vecchio simpatico e amabile, alla sua maniera, ma forse molto diverso dagli esseri umani che girano per il mondo.
Un giorno o l’altro, secondo Bruno, non era nemmeno escluso che avrebbe preso un fucile e avrebbe cominciato a sparare al primo SUV di passaggio. Abbiamo riso di questa sua fissazione, e Bruno ha detto che ce l’aveva specialmente con quelli bianchi con la base nera. Non aveva tutti i torti secondo lui, ma bisognava magari considerarlo come un simbolo, di quello che lui odia negli esseri umani, a cominciare dalla politica.
“All’inizio uno ha un’idea istintiva e ben determinata di come siano il carattere e la relativa indole di una persona. Dopo, ragionando, tutto si confonde… conoscendola meglio ci si accorge che non la si conosce per niente. Il fattore umano rende tutto imprevedibile, ci sembra di sapere come siamo, di cosa siamo capaci oppure no, ma non è vero, o almeno mai fino in fondo.”
Qualche giorno dopo sono tornato da Mulin di Cima, nel tardo pomeriggio, dentro era tutto buio e si sentiva una musica di sottofondo, ho immaginato che lui fosse seduto nello stanzone da qualche parte, ho fatto qualche passo e una voce cavernosa, ha dichiarato:
“Ammazzare il tempo è una delle espressioni più idiote, giacché quello poi non muore mai, ritorna e si vendica, ti fa i dispetti. Il tempo non si può forzare più di tanto, se lo conosci e lo apprezzi tu lo accompagni e allora lui accompagna te, quindi dai un ritmo più tuo al mondo, alle cose di tutti i giorni, in definitiva alla tua vita.”
Per colpa di questi due attempati giovinotti, come avevo già accennato, smisi poi definitivamente di fare le mie camminate. Da tutti i giorni ero passato in un secondo momento a una volta sì e una no, poi due no e una sì, poi tre no e una sì, poi una volta alla settimana, fino all’estinzione definitiva di ogni attività fisica che non fosse alzare ripetutamente il gomito. Il vino tra di noi infatti scorreva piuttosto copioso, ma le bottiglie non finivano mai. Pur avendo più volte chiesto da dove venissero, non me ne fu mai rivelata la provenienza, ma ogni volta Bruno ridacchiava come se lo sapesse, ma non poteva dirmelo. E poi perché Orazio pitturava quadri piuttosto brutti che poi venivano messi in una stanza affastellati, senza che ne vendesse nessuno, o senza nemmeno provarci? A parte Bruno e me, quelle pitture nessuno le avrebbe potute mai ammirare, o anche solo poter dire che facevano la loro porzione di schifo, insomma senza alcuna interazione con ulteriori esseri umani. Eppure considerate le idee filosofiche del pittore non c’era nemmeno da stupirsene tanto.
In giro si vendono cose anche più assurde, talvolta anche con prezzi proibitivi, come le “opere” di Mark Rothko, per esempio. Ultimamente un “artista” italiano aveva attaccato una banana a un pannello con il nastro isolante, un'opera d'arte che valeva 120.000 dollari, un altro scemo se l’è mangiata e sopra si sono scritti fiumi d’inchiostro virtuale, si è spaccato il mondo in due, poi in tre e così via. All’esposizione c’era tanta gente che non ci si entrava più. Ecco come va il mondo moderno. Più si è cretini meglio è.
Orazio Buonasera forse non era più un artista di grido, magari era passato di moda, e meno male, direi. Però pur senza dover alzare troppo la voce, era una buona e pacata compagnia, gradevole e poliedrica. Con lui era impossibile annoiarsi, non ti chiedeva niente che tu non volessi raccontare spontaneamente della tua vita o degli affari tuoi. Se avevi voglia di parlare ti lasciava tutto lo spazio possibile, facendoti anche domande pertinenti e riflettendo sulle possibili implicazioni. Se non ne avevi voglia allora parlava lui, ma senza ansia di dire delle cose tanto per riempire tutto quello spazio di tempo, si vedeva che amava anche il silenzio e questo era una cosa che avevamo in comune tutti e tre.
Bruno Cavendish, detto anche Mulin di Mezzo, parlava un po’ meno, ma specie dopo qualche bicchiere, quando apriva bocca lanciava sottili incastri di parole e omissioni, le sue battute con piccole ma eloquenti smorfie di dolore ci prendevano piacevolmente di sorpresa.
Lui e Mulin di Cima si prendevano spesso reciprocamente in giro, il pittore non mancava mai di commentare i suoi vestiti sobri e raffinati, soprattutto le appena contrastanti cravatte così poco colorate. Bruno lo chiamava buonanotte quando aveva bevuto troppo, buon pomeriggio quando si assentava a lungo dalla conversazione, con gli occhi storti che non guardavano più da nessuna parte, lo sguardo perso oltre l’orizzonte, buongiorno quando capiva le sue battute in ritardo.
Non sono riuscito a evitare che mi soprannominassero Mulin di Sotto, perché tra di noi ero quello che ci abitava più vicino, un centinaio di metri circa. Senza ridere per niente mi consigliarono addirittura più volte di comprarlo, di andarci ad abitare, anche clandestinamente o di scrivere solo il mio nome su uno dei campanelli del palazzo, perlopiù disabitato, a costo di diventare noiosi e ripetitivi, secondo loro per cementare la nostra amicizia in maniera più totale e completa, insomma per guadagnarsi qualche sano e meritato vaffanculo.
Ogni tanto io, che oltre a parlare poco ero la persona più seria dei tre, per divertirmi lanciavo discussioni socio-filosofiche sulle quali venivano fuori opinioni assai divergenti, come quella volta che dissi che tutte le leggi, (secondo Jeremy Bentham, filosofo e giurista inglese,) erano invenzioni umane imperfette e sempre mutevoli. I due nell’occasione si trovavano diametralmente opposti su questo tema, ma poi anche per fargli dispetto il pittore ha fatto regolarmente sue quelle parole, tirandole fuori spesso a ogni occasione, come se avessero ricalcato esattamente il suo pensiero.
Se Orazio era fisicamente incapace di mentire a sé stesso e di conseguenza agli altri, eccetto quando parlava di sua figlia, Bruno pareva non riuscisse mai a dire la verità completa, almeno in parte doveva romanzare o esagerare ogni più piccola storia, ma solo in queste serate tra amici. Sul suo lavoro e negli incontri testa-testa invece era inappuntabile e rigoroso, ogni notizia era cassazione.
Ricordo l’ultima nostra cena in cui, mangiate tre formidabili pizze con sopra pezzi di pera, noci e aglio, cotte nel forno a legna, facemmo le due a discutere su tutto e su niente, bevendoci un buon numero di bottiglie. La linea di discussione principale era sorta da una frase che io avevo letto su un libro: “Dio guarda alle cose del mondo senza amore né odio per nessuno.” Nessuno di noi era credente, ma non eravamo nelle migliori condizioni per ricordarcelo e ci accapigliammo su tutte le necessarie e relative implicazioni.
Erano gli inizi di dicembre del 2019 e non si sospettava minimamente quello che sarebbe accaduto prima dello scoccare dell’anno nuovo.
Dopo il tramonto dei malviventi notati dal pastore che stava rientrando con le sue pecore, avevano posteggiato la macchina a cento metri dal mulino, poi fatta irruzione dalla porta aperta hanno legato e torturato Orazio fino a farlo morire, probabilmente per farsi dire dove aveva nascosto i suoi quadri, ha dichiarato Bruno alla polizia. A quell’ora lì si può gridare a squarciagola che non sente nessuno. Quei coglioni non erano del ramo, mi ha rivelato poi, sennò si sarebbero accorti che le tele dipinte da Orazio non erano tutte moderne. Il pittore sicuramente gli aveva detto dov’erano i quadri, sorrideva amaramente l’antiquario, giacché non riusciva a mentire nemmeno a sé stesso, ma quando i ladri avevano visto quella montagna di croste avevano perso la già scarsa pazienza e lo avevano ammazzato. Ma di quali quadri si trattava, se sul mercato i suoi erano quotati sottozero? Pare che sotto alcune delle sue tele malamente dipinte, tutte firmate Good Evening, si nascondessero dipinti di pittori italiani famosi tra cui Signorini, Lace eccetera. Su consiglio di Bruno, che era anche il suo esecutore testamentario, li aveva ricoperti e imbrattati, davanti e dietro, con colori speciali che si potevano facilmente togliere con dei solventi adatti.
Bruno era già ricco e sua figlia non aveva più bisogno della sua eredità, meno ancora sua moglie se la meritava, se era ancora viva. Per le sante feste quel babbo natale strabico, tanto per scherzare un po’, mi aveva fatto una bruttissima e una bella sorpresa: aveva lasciato tutto a me.
Orazio Buonasera era uno che conosceva la vita, anche se su certe cose era esagerato, però, manco a dirlo gli assassini, secondo la testimonianza del pastore Venanzio, erano arrivati con un SUV bianco con la parte inferiore nera. Il modello l’aveva riconosciuto subito, perché era uguale al suo, anche se il colore era leggermente differente. Il numero di targa no, non ci aveva pensato a segnarselo.
Bruno ha continuato a venirmi a trovare, ora che abito al Mulin di Cima, la nostra amicizia è continuata come se fossimo ancora in tre e ci siamo scolati insieme già diverse bottiglie di Orazio alla sua memoria.
Sento che il suo fantasma si aggira per le stanze del mulino a contare quante bottiglie mancano e quali quadri io abbia già venduto.
Ma a quelli chi glielo aveva detto dei quadri? Come erano venuti a saperlo? Bruno non lo sa, ma da un po’ di tempo gira con una pistola in tasca. Dove era andato a scovare quelle bottiglie e quei quadri? Gli chiedo ogni tanto. Sorry. Quello Bruno non me lo può proprio dire, neanche a me, glielo ha giurato.
Il Cavendish in questione non l’ho proprio mai visto senza cravatta, anche quando ubriaco perso lo porto a casa, per evitargli la camminata notturna, non si è mai tolto niente per respirare meglio, d’agosto suda senza lamentarsi. Nel modo di fare è un perfetto gentiluomo inglese, come quelli dei libri e dei film, anche quando ti manda affanculo prima ti chiede il permesso di farlo. Il Buonasera aveva ragione anche su questo particolare: le sue scorregge sono assai muscolari, piuttosto forti, probabilmente per via dell’alimentazione, ma forse anche dei pregiati liquidi alcolici. Ciò nonostante abbiamo unito le nostre solitudini, senza Orazio è tutto molto più smorto e triste, però. Bruno sta pensando addirittura di sposarsi, alla sua vetusta età, io che sono già separato di divorziare, forse non sarebbero due soluzioni sufficienti a migliorare le cose, però.
Il Buonasera ci manca assai, se ne parla spesso e mai con malinconia, ce lo sogniamo anche, con uno dei suoi camiciotti un po’ pelosi e assai macchiati, con il pennello in mano e nell’altro un calice di vino rosso. Ogni tanto Bruno comincia a parlare come se fosse lui, specie quando usa quella famigerata sigla, che una volta lui pronunciava correttamente:
“…c’è gente insospettabile che non avresti mai detto che potesse comprarsi un suvve, il pastore Venanzio, per esempio. Lo avresti mai detto che uno così si doveva proprio comprare un suvve? Se potessero si comprerebbero dei carrarmati, te lo dico io, magari più scomodi dei suvve, ma con dei cannoni così pratici…”








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