martedì 7 dicembre 2004

OGNI CANE HA IL PADRONE CHE SI MERITA (MA I VICINI CHE COLPA NE HANNO?)



Al contrario che in altre opere dello stesso autore, questi sono fatti realmente accaduti, le variazioni sui reali avvenimenti sono le meno significative possibile, perciò, senza il rischio di offendere nessuno, useremo liberamente luoghi e fatti originali, ce ne approfitteremo grazie a questo piccolo vantaggio che abbiamo: le persone di cui si parla qui non leggerebbero mai un libro, nemmeno se fosse nella loro lingua, figuriamoci poi se fosse - come è - in italiano.

Dei vicini di casa ne avevo sentito parlare come se fossero sempre stati, fin dai primordi della storia dell’uomo, una realtà spiacevole, ma che capitava, per fortuna, solo agli altri.
In seguito ho capito che la mia lunga, ma infelicemente solo provvisoria, completa neutralità sull’argomento, dipendeva unicamente dal fatto che non ero mai stato proprietario di una casa.
Se i cani assomigliano ai padroni, come dicono, è un fatto dimostrato che i miei cani siano sempre stati consoni ai miei gusti, forse anch’io ai loro.
Sono convinto che pure il mio vicino di casa possa affermare lo stesso, riguardo quella loro accozzaglia di esseri assurdi, rappresentata da un instancabile chiacchierone e da quegli strani animali dai denti all’infuori che abbaiano anche alle formiche.
Insomma: dipende dalla maniera in cui si guarda, dall’angolo dal quale ci si mette in osservazione, in che direzione puntiamo il nostro sguardo e da cose di questo genere.
Quando  l’agente immobiliario me lo presentò, prima di comprare quel terreno e la solida base della casa futura, quell’uomo mi era rimasto quasi simpatico, i suoi cani, forse già a quel tempo, un poco meno, anche solo a guardarli.
Col passare dei giorni, notai anche che lui era sempre allegro e gridava assai, non se ne stava mai zitto e ogni tanto tirava fuori la sua fisarmonica e cominciava a intonare canzoni, che, certo, nella sua mente, dovevano apparire diverse e figurare pure ben separate l’una dall’altra, ma che al mio orecchio, malgrado sempre più allenato, risultavano identiche e non solo per questo motivo, noiose.
Cominciai a intravedere qualcosa riguardo le sue limitate quanto ripetitive qualità, quando un giorno, parlando ognuno dal loro lato della rete metallica, (che solo in un secondo momento io avrei sostituito, per evidenti motivi, con un muro di mattoni), sua figlia Marilainezinha cercò di spiegargli che esistevano lingue differenti dal portoghese e mi parve che lui continuasse a non capire, anche alla fine della spiegazione.
Tutto era cominciato dal fatto che io avevo detto che ero professore d’italiano, perciò, dal suo punto di vista, un tipo di professione incomprensibile.
Bene, il mondo forse sarebbe peggio di quello che è, se fosse popolato esclusivamente da intellettuali, anzi forse è meglio che ci siano differenze notevoli tra le persone e le cose e gli animali, alti e bassi, culture e ignoranze, silenzi e rumori e così via, anche qualche bella scorreggia ha il suo motivo di esistere, se non altro come sfogo gassoso.
Però a volte penso che chi legge un libro, oltre al fatto decisamente positivo che, almeno in quel momento, non sta disturbando nessuno, impara anche qualcosa, sia dalle pagine attraversate, che dal semplice fatto di fare una pausa con il caos della sua vita, una riflessione, per breve che sia.
Tanta gente entra nel tunnel della sua vita e ne esce solo dall’altro lato, morta, senza aver mai fatto una pausa.
Noto con dispiacere che il mondo dei libri è comunque escluso alla maggior parte, esistono tante o troppe persone che sono a presa diretta, cioè che parlano e fanno e pensano come se fosse la stessa cosa.
Questo non significa che siano sincere o coerenti, solo che fanno tutto in maniera automatica, come hanno imparato decenni prima, sempre allo stesso modo, come se non esistessero e non fossero mai esistite alternative.
Arquimedes, si chiamava ed era un nome sapientemente ironico, dubito che i suoi genitori se ne siano resi conto, al momento in cui lo scelsero, o anche dopo.
 Il nostro eroe sarebbe cresciuto sufficientemente lontano da pensieri matematici o di qualsiasi altro tipo.
Comunque sia, all’epoca dovevo fare un lavoro d’intonaco dalla sua parte, un mio grande muro senza finestre era sul confine, quando pioveva entrava acqua da quel lato.
Non lo conoscevo ancora, come avrei dovuto fare in futuro, questo Arquimedes e perciò cascavo sistematicamente nel suo gioco, che era passarmi un’acqua minerale senza gas, che poi era cachaça, ogni cinque minuti, combinando la prima azione con una seconda complementare, che consisteva nell’incastrarmi in un labirinto di frasi senza senso, né  probabili interruzioni.
Per i suoi discorsi tutto bene, bastava dire un eh sì o un semplice mmm ogni tanto, o anche niente del tutto, che per lui era esattamente la stessa cosa… il problema era bere acqua minerale senza gas e intonacare a cinque o sei metri di altezza, sulla scala.
In un secondo momento iniziai a lavorare su quel versante solo quando lui non era in casa, cioè di mattina, quando poi sentivo il rumore della sua macchina salire sulla collina, smontavo tutto e saltavo il muro alla svelta.
Il mio vicino Arquimedes Moura De Souza era un Gaucho de fronteira, non perdeva occasione di travestirsi alla maniera tradizionale della Pampa e di andare ad ubriacarsi come un cencio nei Centri di Cultura Gaucha.
Come attività complementare alla birra e alla cachaça, o viceversa, il sabato e la domenica, se non lo stava facendo da qualche altra parte, a casa sua era sempre puzzo di carne arrostita, cioè quello che da queste parti si chiama churrasco … e quando dico sempre, significa un sempre senza eccezioni.
Ma quello non era il peggio, piuttosto mi chiedevo come faceva a lavorare come autista di autobus urbano, se non smetteva mai per un secondo di parlare… forse era così che si era sviluppata la sua arte di dire cose inutili e ripeterle più volte, visto che poi la gente scappava scendendo dall’autobus e non aveva importanza se erano cose stupide o intelligenti?
O forse sull’autobus lui doveva stare zitto, perlopiù ed era in quella maniera che lui accumulava numeri sproporzionati di parole e poi doveva dirle tutte insieme, a chiunque gli capitasse a tiro, una volta uscito dal lavoro?
Una volta, in piena ora di punta, nell’infernale traffico del quartiere Tristeza, mi vide passare da un lato della strada, fermò l’autobus e tirò fuori un argomento al volo, come se fosse stato un importante dubbio che gli rodeva nella testa, invece era una delle sue idiozie da implacabile chiacchierone.
Io mi limitai a guardarlo incredulo e a dire i miei soliti mmmm alternati a degli ah sì, a qualche metro di distanza, mentre i passeggeri sull’automezzo pubblico e gli automobilisti dietro bloccati, aspettavano pazientemente che la nostra surreale conversazione terminasse, gridando o suonando il clacson.
Insomma Arquimedes non smetteva mai di parlare, per nessun motivo al mondo, se era in casa e non si sentiva la sua voce, allora stava dormendo, se c’erano con lui altre persone disgraziate, come sua moglie, ogni tanto si sentivano altre fievoli voci, ma che al massimo potevano riuscire ad infilarci nel mezzo un rapido e inascoltato eh sì o un isolato mmmm perduto nel vento, in mezzo ad una tempesta di parole.
Ho detto parlare, ma ho sbagliato, lo ammetto, ho usato un verbo improprio. No, non è esattamente quello che lui faceva, a dire il vero, se era per parlare, lui, non parlava mai, Arquimedes gridava e lo faceva sempre come se stesse dicendo cose importanti.
Invece no, non diceva niente di niente, ma lo ripeteva più volte e lo urlava così forte, in maniera che tutti lo potessero udire bene.
Anche quando suonava… e suonava malissimo, per essere maledetto meglio e di più dal vicinato, aveva comprato un amplificatore elettrico che metteva al massimo volume e poi giù mitragliate di note stonate e acqua minerale senza gas
I suoi cani, come ho già accennato, erano selezionati a sua immagine e somiglianza, in base al fatto di essere tracagnotti e dalla insopportabile personalità petulante.
Abbaiavano ad ogni rumore che facevo io, o qualsiasi altra persona, o cane, al di qua del muro di divisione… invece, se andavo di là da loro, per fare qualche lavoretto di manutenzione del mio muro, ecco che sparivano dalla paura e appena ritornavo di qua, ricominciavano minacciosi a ringhiarmi e ad abbaiarmi di nuovo.
Anche dal punto di vista del coraggio, Arquimedes era maestro e fonte d’ispirazione per loro, lui non aveva i denti all’infuori, ma tutte le altre caratteristiche coincidevano.
All’inizio, quando abitavo là da poco, lui attaccava discorso spesso, questo almeno prima che io alzassi il mio tardivo muro, in riparo alle sue chiacchiere e all’abbaiare inutile di cani abituati alla noia come stile di vita.
Allora poteva darmi preziosi e frequenti consigli su come avrei dovuto zappare e in che maniera era meglio che mi comportassi con il mio cane; ogni tanto lo mandavo, non sempre velatamente, affanculo, ma lui non se ne accorgeva.
Ecco che, quando mi separai da Valeria e lei se ne andò in Italia, la mia ex moglie sparì misteriosamente, da un momento all’altro, alla vista dei vicini curiosi e di conseguenza, più che altro dediti al pettegolezzo.
In uno di quei giorni, mentre stavo facendo qualche lavoretto nell’orto, Arquimedes mi sorprese, senza che lo avessi potuto sentire arrivare e scappare a tempo.
Dal suo lato della rete mi passò un falso boccale di birra, di quelli con il liquido dal colore caratteristico ermeticamente chiuso dentro l’intercapedine del vetro e rise di gusto, al mio smarrimento momentaneo, insieme a sua moglie.
Poi mi chiese che cosa stessi facendo ed io gli dissi che stavo scavando, lui ne domandò allora il perché ed io gli risposi candidamente che stavo sotterrando Valeria.
I due non riuscirono a dire nemmeno una parola e si defilarono più rapidamente possibile oltre l’angolo della loro casa.
Da quel giorno mi guardarono sempre strizzando gli occhi, sforzandosi di capire dove si annidava la verità, ma nell’incertezza Arquimedes iniziò a rispettarmi come si rispetta un pericoloso assassino.
Quando Valeria però se ne tornò in Brasile in vacanza e mi passò a trovare, tutto cominciò di nuovo come prima.
Così come lui e i suoi annodati grovigli di frasi senza motivo né significato, quelle sue caricature di cani, quando cominciavano ad abbaiare, specialmente di notte, si dimenticavano di smettere, almeno fino al momento in cui io gli tiravo un urlaccio, o meglio ancora, un pietrone.
Questi piccoli e numerosi mostri, già che ogni tanto e per fortuna crepavano di tedio o di veleno, (anche se non ho capito ancora come fosse possibile,) altrettanto puntualmente venivano sostituiti da colleghi perfettamente somiglianti e non solo fisicamente.
A quel tempo c’era anche una vecchina, sempre di malumore, che abitava di fronte al mio cancello, che poi defunse a sua volta, ma prima avvelenò vari e numerosi cani tra cui il mio Rocco e alcuni mostriciattoli di Arquimedes.
A proposito, mi ricordo di un sintetico dialogo tra me e mio fratello Anacleto, all’epoca in cui lui, prima di sposarsi, abitava qua a casa mia.
Un giorno stavamo conversando seduti in veranda e io stavo parlando in maniera ironica del mio vicino del lato sinistro, che aveva avuto modo anche lui di conoscere personalmente, suo malgrado.
Mio fratello, alla maniera italiana, cioè di quelli che, assai giustamente controbattono tutto quello che dicono gli altri, sennò la chiacchierata esaurisce troppo presto i suoi necessari spunti e finisce subito, prese le difese di Arquimedes, con un’argomentazione sorprendente.
Sospirò impaziente e mi chiese guardandomi negli occhi diagonalmente:
“Se tu fossi un sempliciotto ignorante, ubriaco fisso, se ti dovessi alzare ogni mattina alle quattro per pilotare un autobus stracarico di persone, in mezzo al traffico indiavolato di Porto Alegre per otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana, undici mesi all’anno, per almeno un trentina di anni… come credi che passeresti il tuo tempo libero?”
“Non lo so. Forse farei qualcosa di simile a quello che sta facendo lui…” Risposi io, pensieroso, cominciando un po’ a capire, cosa volesse andare a dimostrare con quelle parole.
“Allora di cosa ti lamenti? Non sta facendo esattamente quello che tutti si aspettano, da uno come lui? Non sarebbe sorprendente, invece, se si mettesse seduto al fresco e leggesse, in silenzio meditativo, un trattato di filosofia moderna? ”
Le acide ma ben mirate parole di mio fratello, mi provocarono prima un senso di colpa, poi una serie di pensieri di assestamento, come quelle piccole scosse dopo i terremoti grandi.
Alla fine mi sentii di nuovo in armonia con me stesso e con la natura, non solo con quella meravigliosa delle piante, dei fiumi e degli animali selvatici, ma anche con quella più complicata e contorta degli esseri umani... e i loro relativi cani.
I punti di vista sono cose appuntite, partono fini-fini dagli occhi, ma aumentano progressivamente, con l’aiuto del cuore e del cervello… nostro e altrui… e man mano si aprono, per avere un raggio di azione più ampio, un cono di luce virtuale che si allarga allontanandosi dall’osservatore e che forma la famigerata visione d’assieme.
La filosofia, quella greca, era nata proprio perché tanti schiavi facevano i lavori pesanti per i pensatori, loro padroni, che potevano così mettersi a teorizzare su tanti qualcosa che prima di quel tempo erano sfuggiti alla comprensione di tutti.
Era stato Archimede, l’illustre scienziato del mondo ellenico, che disse la famosa frase:Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo.
Oltre il mar Egeo, aldilà dell’Adriatico… di tutto il mar Mediterraneo, dall’altra parte dell’Atlantico, ai tempi di Arquimedes brasiliano e gaùcho, più di duemila anni dopo, la frase era stata cambiata nella più attuale e moderna: datemi una lingua instancabile e un cervello senza logica, qualche cane e una fisarmonica e farò bestemmiare il mondo.
In un certo senso quel dannato di Arquimedes, anche se non lo sapeva, con il suo involontario sacrificio, stava facendo in maniera che io, libero professionista e pensatore, potessi spassarmela seduto con mio fratello, altro libero professionista e pensatore ed avessimo un possibile gustoso argomento di chiacchiere da gettare al vento.
Ci poteva far divertire o indispettire, senza dover pensare alla sua umile ma necessaria funzione di, magari fin troppo scontato, eroe delle strade urbane di Porto Alegre.
Lo potevamo prendere in giro, per noi era buffo, ignorante e invadente, ma come potevamo pretendere che sapesse educare i suoi cani, se lui stesso non aveva avuto un’instruzione necessaria per leggere un libro, o magari anche qualcosa di più semplice, come un giornalino a fumetti? 
Certo, faceva sempre rumore perché non conosceva o aveva dimenticato da tempo il mondo del silenzio, ma era pur sempre degno di rispetto... anche se lui non sapeva nemmeno cosa era, il rispetto, non era solo colpa sua, forse era anche colpa nostra, insomma, faceva parte dell’ordine naturale delle cose…

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