sabato 1 novembre 2003

La giornata tipica di un pittore ai confini della scultura

Memorizziamo quello che si narrava nei circuiti di un computer prima della nefasta collisione con un fulmine, tutto quello che, tra le altre cose, ci ha rovinosamente cancellato:
La giornata tipica di un artista del pennello, uno che sa usare le mani, più del cervello... o meglio: che usa il cuore come se fossero le mani.
Si parla delle nuvole come di una costruzione gotica in movimento e del mare come un liquido amniotico dove animali terrestri, pesci, uccelli ed essere umani hanno trovato la loro origine.
Si fanno riflessioni sulla vita come se fosse un romanzo giallo del quale è meglio non scoprire il colpevole, si parla dei cani e degli amici, l’angolo del focolare domestico con dentro una famiglia: la nostra, in quanto rifugio accogliente... ma anche e purtroppo grande peso sulle nostre spalle; si fanno paralleli tra le tre personalità: il bambino, l’adulto, e infine Shiva la furia distruttrice.
Si mette su una porzione rappresentativa della permanenza terrena dell’autore, si descrive una giornata tipica, tra tutte le età importanti della sua vita, tutto partendo dalla sua mezza età, ma dicendo e ripetendo quanto lui è ancora giovane di mente, o meglio: quanto pensa di esserlo”
Questo era il bozzetto, buttato giù da me, del depliant di presentazione di una mia mostra, in base a queste linee di lavoro, scritte su un pezzo di carta da pacchi.
Poi, il mio amico e scrittore Alberto Luis avrebbe dovuto comporre, più organicamente, una roba più sintetica e poetica, qualcosa che parlasse della mia arte.
Dopo, il depliant non è stato messo in pratica, perché anche la mostra è stata cancellata.
Copiato nel computer di Alberto Luis, il testo è stato colpito dal destino sotto forma di fulmine, poi recuperato, sulla base della mia memoria e della sua, pur se non si sapeva ancora cosa farne.
Solo dopo e qualcuno direbbe ‘per caso’, mi hanno chiesto un articolo del genere per il giornale ‘Arte della Catalogna’.
Ho letto, non mi ricordo su quale rivista o libro, (ma potrebbe essere stato anche un giornale o un programma della televisione), che nei tempi moderni l’onestà è l’astuzia maggiore, perché nessuno se la aspetta e si lambiccano il cervello per combatterla o imitarla, senza considerare il fatto che la verità possa essere davvero quello che vuole sembrare.
Incredibile.
Credo che fosse un’esagerazione di qualcuno, per provocare un’opinione pubblica che non ne vuole sapere di sensibilizzarsi, ma sono convinto che non si possa barare né con se stessi né, di conseguenza, con gli altri, almeno senza pagarne il prezzo.
Un prezzo che tutti pagano, ogni giorno, fingendo di essere qualcosa che non sono, facendo una vita che segue regole dettate da altri, persone che non hanno nemmeno conosciuto... ma visto che fanno finta... fingono di non accorgersi di niente, già che ci sono e va bene così, per loro.
La purezza è stata la causa dei miei guai peggiori, trai quali, quelli con me stesso, che rendono la vita meno noiosa, più autentica e movimentata, più gioiosa e drammatica, più viva.
Tragicomica?
Dicono che sono un bambino grande, ma sbagliano, sono un grande bambino.
In sostanza tutto ha un prezzo, anche se non è di denaro che stiamo parlando. Comunque per tutto quello che facciamo e anche per quello che non facciamo dobbiamo rendere conto, se non a nostra moglie, se non al creatore, almeno a noi stessi.
Dobbiamo temere la morte? È vero che quello è il nostro vero limite? Sarà che io, artista destinato all’immortalità, almeno secondo pochi ma autentici appassionati, poi, in fondo, dentro di me, ho più paura di morire degli altri più realizzati?
La risposta a questa domanda non ve la posso dare, perché non la so nemmeno io. O forse la so, o credo di saperla, ma non ve la voglio dare, diciamo che non ne sono sicuro.
Pensate ad un romanzo giallo, l’assassino rappresenta la verità, ma se si sapesse dall’inizio nessuno leggerebbe il seguito... poi ci si perde nei meandri di un labirinto che porta, invariabilmente, alla morte, tutto quel cammino in ricerca di qualche cosa che non sappiamo, che ci affascini o meno, è la vita.
Il bello è proprio che, a parte la morte, non si sa mai come vada a finire, la differenza tra suspence ed ansia dipende da noi, nella maggior parte dei casi, è uno spazio che possiamo gestire, in teoria liberamente, ma dobbiamo pagarne il prezzo.

Allora, dovevo riscrivere la traccia di una mia giornata tipica, articolo di giornale che m’interessa di preparare, sempre con la correzione editoriale del mio amico.
Quella la facciamo dopo.
Ecco: la mia giornata tipica inizia tra le sei e le sette, o a volte anche alle cinque, amo la notte ma non posso assaporarne un granché, vado a letto presto e non c’ è niente da fare.
La prima domanda che vi verrebbe in mente di farmi, lo so, è se sono solo, se la ho una compagna, se ho un cane, un gatto, una tartarughina o un pesce rosso.
Ho una compagna che è l’opposto di me, da tanti anni, abbiamo sempre vissuto in case differenti, io con i miei e lei da sola.
Da poco tempo la notte dormo da lei, forse perché il suo appartamento ora è più grande, forse perché ne sento di più il bisogno.
Il mio cane, Caligola, è morto il mese scorso, ed è stato un amico valoroso, che non voleva niente in cambio, che non mi domandava mai dov’ero andato e perché ci avevo messo tanto tempo.
Dopo una sobria ma commossa cerimonia in giardino, in presenza di mia madre, della mia collaboratrice domestica Lena e del mio vicino Rogerio, con poche, ma sentite, mie parole di commiato, ne ho già preso un altro al mercatino degli animali in ricerca di un padrone.
Si chiama Adroaldo, tra le sue razze possiamo distinguere il volpino nella sua coda arricciata e il Chow-Chow per la sua bocca internamente tutta viola.
I gatti non mi piacciono… poi sono anche allergico al loro pelo, pesci rossi e tartarughine non fanno molta compagnia, ho pensato ad un bel pappagallo, a qualcosa di più esotico… ma il cane, quello di pura razza bastarda, in particolare è per me qualcosa di simpatico, più adatto alla situazione e al vivente in questione eccetera.
Per me gli anni non hanno peso eccessivo, sento dei doloretti, d’accordo, gli occhi mi si stancano presto, però, tolti questi dettagli, mi sento ancora in forma, sono ancora giovane, dentro, e spesso questo se ne esce anche fuori.
Non bevo, non fumo, non faccio e non ho mai fatto uso di droghe.
Una testa come la mia non ha bisogno di additivi, la mia realtà è già fantasmagorica e piena di emozioni.

La giornata tipica fa capire un poco come vive una persona, ma la mia giornata non è mai molto tipica, perché tento di cambiare il più possibile, o meglio, mi annoio facilmente, ho bisogno di creare e distruggere, allora devo fare delle variazioni significative, imparare cose nuove, di rischiare qualcosa, bestemmiare, gioire e ringraziare… di ridere abbastanza, ma anche di piangere… l’emozione è una cosa importante.
Comunque sia, vorrei parlarne, della mia giornata usuale, una di quelle più o meno normali, vediamo se ce la faccio senza perdermi in voli immaginari.
Ieri era venerdì, non che abbia una qualsiasi importanza per me, ma, tanto per dare una qualsiasi collocazione nel tempo. Diciamo anche che siamo nel principio del terzo millennio; per quanto riguardo lo spazio abito vicino a Tarragona, in Spagna, non lontano da Barcellona.
Però io sono greco, nato in Germania, mio padre era italiano.
Una storia lunga, meglio lasciar perdere.

Mi piace mettere dentro il cervello appena sveglio una musica che faccia sognare ad occhi aperti: ieri ci ho infilato una musica tradizionale finlandese, che si adattava sorprendentemente molto bene al paesaggio riarso della Catalogna, in prossimità del mare, anche se è cosa completamente differente dalla Finlandia.
Il vento poi ha agitato i miei pensieri mentre bevevo il caffè.
Tanto che ho cominciato a tracciare con il suo liquido marrone, tramite il mio dito indice, una figura sulla tela.
Quando parte, il mio dito, si ferma presto, gli pare di essere incompleto e sente quasi subito l’aiuto di tutta la mano richiusa intorno ad un pennello.
Però, stavolta ho dovuto farmi un nuovo caffè, perché quello è andato tutto a disegnare una specie di città antica e fatata sulla grande apertura della tela.
Ho preso il pennello solo dopo mezzogiorno, mia madre mi aveva cucinato una verdura al forno. Ah, avevo dimenticato di dire che sono vegetariano.
Forse è meglio dire che l’ho preso e l’ho posato subito, il pennello. Quello piccolo e vecchissimo, me lo dette un pittore di Arles, un mezzo zingaro che faceva delle tele piene di facce di donne con i baffi e che beveva solo Pastis.
Ora è morto, si chiamava Rethufe, ma non so se era nome, cognome o soprannome, un nome strano, in ogni maniera.
Il pennello comunque non serviva, ho cominciato a lavorare invece con la colla e pezzi di rete da pescatore, le case erano fatte di rete, e dentro ci vivevano dei pesci, erano tante casette ammassate una sull’altra come quelle cittadine costruite sulle colline scoscese e la base di una casa era all’altezza del tetto dell’altra.
Allora ho preso un libro di pesca e un altro con foto di quadri di Hieronimus Bosch.
Verso le tre ero convinto che volevo buttare via il quadro e sono sceso per strada, per non farlo e pensarci un poco su, forse per distrarre gli occhi o per trarre ispirazione dalla realtà, insomma mi ero stufato.
I quadri non li butto mai via, però, ci penso sempre, ma poi li lascio lì da una parte, o ci dipingo sopra o qualche amico se li porta via, nonostante ciò ho due stanze piene di questi aborti minacciosi.
A volte penso che è meglio tenerli chiusi là che averli dentro la testa, mi pare di poterli controllare meglio.
Sono andato al bar di Pedro che è un personaggio mitologico che non è mai stato visto fuori da quel suo ambiente di lavoro.
Il bar di Pedro è piccolo e sporco, ci vanno tutti i tipi di persone, o meglio ci andrebbero, ma qui a Tarragona non ci sono turisti né intellettuali, mancano gli stranieri, le persone aperte, gli scienziati, gli artisti in genere... insomma la nostra fauna locale è totalmente ruspante.
Mi sono messo a parlare con una signorina che forse era una prostituta, ma che era di passaggio, questo l’ho dedotto dal fatto che non la avevo mai vista.
Quando l’avevo quasi convinta che Pablo Neruda era il miglior poeta del mondo e di tutti i tempi, è dovuta uscire in seguito ad una telefonata di cellulare.
Qua a Tarragona il cellulare è un attrezzo che sembra non aver senso, qua il passato conta molto più del presente e del futuro e la tecnologia mi pare sempre fuori luogo, ma s’infiltra ogni tanto, forse per colpa della televisione e dell’internet.
Sono tornato sul mio grande terrazzo, che poi si chiamerrebbe altana, mia madre dormiva nella stanza aldisotto con la radio accesa.
I pesci femmina allora hanno ricevuto anche delle belle tette, grazie a quelle della signorina, che dovevano essere grosse e dalle aureole larghe, così sono state pensate anche quelle delle pescioline dietro a quelle maglie di rete, o che nuotavano agitando le pinne per le strade di quella città di una altra dimensione.
Poi ho dovuto cancellarle, le tette, perché fatte sui pesci non si capiva nemmeno cosa erano e sembravano più dei bubboni di qualche malattia.
La mia giornata è continuata fino alle sette ed era già notte perché siamo in inverno.
Le mie figure la notte prendono forme differenti, per via delle luci e delle ombre, ho continuato ad arricchirle in volume fino all’ora di cena, dopo non dipingo mai o quasi.
I miei quadri sono aggressivi, dicono, perché, dimenticandosi dei concetti normali di pittura si slanciano verso l’osservatore in maniera tridimensionale e se qualcuno incontrasse una delle mie opere dietro un angolo, di notte, si potrebbe accasciare in preda ad un infarto.
A proposito di Shiva, la Furia Distruttrice, quando si comincia a dipingere si costruisce una figura, dopo che l’idea si è fatta luce, si comincia a nasconderla, a frammentarla, a difficoltare la visione che se fosse così lineare e semplice non ci sarebbe differenza con una fotografia.
In sostanza si distrugge quello che si è fatto, per metterlo alla prova, per farci passare dentro la nostra anima, il nostro stile.
Così nella vita, senza Shiva, tutto è routine, senza il rischio di provare le cose, di sentire l’emozione dentro di noi.
Il bambino ama e teme Shiva e l’uomo dentro di noi, invece cerca di razionalizzare, ma è difficile, perché il mondo è irrazionale, tutte le formule si fottono passando attraverso l’emozione.

Questa volta per rendere tutto più reale vorrei anche metterci un odore di pesce, non so come farò, ma non credo che sia difficile.

La cena è stata rapida e sono andato con mia sorella, che abita anche con noi, ad accompagnarla al lavoro.
Luiza è un’infermiera.
Ritornando a casa mi sono fermato di nuovo al bar, Pedro era là da solo che guardava la televisione, c’era un programma con Raffaella Carrà, una vecchia soubrette italiana, allora ho cominciato a disegnare una ballerina con un pennarello sulla vetrina del bar.
Quando Pedro mi ha visto si è arrabbiato e così sono dovuto tornare a casa.
Erano le nove, la mia giornata tipica stava terminando e ho cercato di capire quale ne era stata la sua utilità, lavandomi i denti.
Forse nessuna, ma era passata in maniera rapida, non mi ero annoiato, avevo anche cominciato un quadro che forse mi avrebbe tenuto impegnato per un bel po’, magari sarebbe diventato un incubo dinamico, che qualcuno avrebbe potuto riconoscerci qualcosa di suo, un giorno, magari, meglio di sera.
Il segreto del mio insuccesso è sempre stata la sincerità, non mi è mai riuscito di nasconderla, quella mia purezza, poco naturale al mondo d’oggi, anche se molti non ci hanno mai creduto e tutti gli altri se ne sono semplicemente fregati.

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