venerdì 10 novembre 2000

Calogero City

Avevamo preso un bella decappotabile d’epoca a nolo , marca sconosciuta, color bianco-sporco... e c’eravamo infilati senza meta per le strade, su per le colline.
La giornata era meravigliosa e tutto intorno pareva valere la pena.
Attraverso la Grecia, fino a quel momento, avevamo fatto una vacanza memorabile, cercavo di non pensare che entro due giorni sarei stato di nuovo al lavoro.
Lascia perdere!
Gina era una veneta allegra, conosciuta appena un mese prima delle ferie, mi aveva accompagnato brillantemente in quella escursione su e giù per la culla della civiltà occidentale.
Durante il resto dell’anno vivevamo a Londra, una città dove le infinite razze, prendendo esempio dallo snobismo inglese, si mantenevano alla dovuta distanza dalle altre: gli indiani stavano con gli indiani, gli italiani con gli italiani eccetera. A volte si mischiavano, ma, se potevano, preferivano di no.
Il caso aveva voluto che l’avessi incontrata nel ristorante Parioli, a Londra, proprio lei, Gina Slongo, nata a Cesiomaggiore, due chilometri da casa mia, a Feltre, in provincia di Belluno, nel Veneto più montagnoso. Una ragazza che non avevo mai visto finché avevo abitato là, o magari, chi lo sa, l’avevo già incrociata, ma non era stato il momento giusto.
Quel giorno di circa un mese prima, mentre facevamo scarpetta nel sugo delle rispettive pastasciutte appena terminate, passando il pane per quel simpatico rito (considerato maleducazione da chi non sa apprezzare le cose buone della vita), alzando gli sguardi dai rispettivi tavoli, le nostre belle coppie di occhi celesti s’erano incontrate.
E proprio mentre guardavamo intorno, se nessuno stava notando quell’atto impuro ma gustoso, che regala tanta soddisfazione ai golosi di pasta e relative salsette.
È anche del caso, o, se vogliamo, del destino, che vorrei parlare in questa storia, perché è stato il caso o forse il destino, il famoso ‘fato’ dei greci, che ci ha spinti fino in quel posto sperduto tra le colline pietrose e gli olivi centenari... ma andiamo per tempo, piuttosto.
Proprio quel tempo là, che era stato dimenticato da noi, l’assenza del quale e della preoccupazione che ne segue, insieme ad altri elementi, magicamente scomparsi, ci rendeva allegri e spensierati in una stupenda giornata di sole, con i capelli al vento e tutto il resto.
Senza orologio, senza orari fissi per mangiare o dormire, solo la stupenda Grecia davanti a noi e le cicale che cantavano il loro piacere per il calore, per la bella vita, nello scorrere senza fretta dei famosi attimi fuggenti.
Tutto questo, è chiaro, senza pensare all’inverno, era solo quel momento presente che stavamo vivendo e chi se ne fregava del futuro e del passato e così via.
Eravamo usciti da un ristorantino tutto bianco colle pareti rugose, sulla scogliera, dove ci eravamo bevuti un po’ di quel vino fortissimo che fanno là, ecco che a pancia piena tagliavamo la campagna, sembrava che quello sarebbe durato per sempre e allora chi stava meglio di noi?
Nessuno. Lasciatevelo dire.
Ogni giorno che passava il pensiero del ritorno al lavoro mi assaliva più spesso, ma, visto che non ci potevo fare niente, scacciavo, in fondo alla mia coscienza allenata, ogni riflessione a riguardo.
L’uomo moderno si allena giornalmente, il suo sport preferito è l’ingannare se stesso, passo essenziale per disciplinarsi e in seguito poter ingannare gli altri.
Siamo arrivati sfrecciando ad un crocevia di quattro strade, ho frenato, abbiamo notato subito che nessuna delle quali sembrava il prolungamento dell’altra. Una era quella da dove eravamo arrivati, asfaltata, le altre tre, sterrate, scendevano dalla sommità della collina quasi completamente priva di vegetazione, per più basse destinazioni e per noi misteriose, perciò piene di fascino.
Ci eravamo fermati, proprio mentre la radio stava trasmettendo un sirtaki pieno di suspence, una versione moderna e sincopata della musica tradizionale di quella terra.
Non lo sapevo ancora, ma in seguito mi sarei ricordato di quel momento, di quella scena simbolica. Gina aveva detto di prendere la strada alla nostra destra, io avevo proposto invece quella a sinistra, avevamo una cartina geografica, ma avevamo deciso che consultarla non faceva parte del nostro stile.
Visto che pilotavo io, abbiamo preso la strada di sinistra, Gina non ha protestato, né io né lei pensavamo che potesse avere una qualsiasi importanza.
Il paesaggio era bellissimo e la sequenza di panorami ci aveva fatto dimenticare della realtà, del mondo circostante a quell’isola (il cui nome non sono autorizzato a dire) e delle esperienze precedenti... vivevamo finalmente il presente, senza essere ostacolati dal pensiero del passato o frenati da quello del futuro, senza un telefono che suonasse, o qualsiasi altra cosa che potesse richiamarci al duro dovere.
Meraviglioso.
Lasciatevelo dire: il bello e il brutto della vita sono la stessa cosa, in pratica, dipende dallo spazio e dal tempo, per questo, bisogna mantenersi in mezzo tra la razionalità e la spensieratezza, tra la determinazione e la spontaneità, tra la realtà ed il sogno... potrei continuare per un bel po’ , ma smetto, credo che ci siamo capiti.
Il male ed il bene, insomma, non sono mai separati tra di loro, sono sempre presenti, fanno parte integrante di tutte le cose.
Gina, per esempio, era molto simpatica, un po’ agitata in alcuni momenti, parlava troppo di lavoro, ma in quella cornice tutto andava liscio .
In alcuni momenti la ascoltavo mentre parlava a raffica e sentivo il suono delle sue parole come una musica argentina, con le le risatine ed i versi che le uscivano dalla bocca senza che riuscisse a controllarli, il contenuto delle sue frasi mi piaceva meno, ma non ci facevo troppo caso.
Meglio una come lei che una che stava zitta tutto il tempo e che faceva pesare i silenzi. Le persone che parlano troppo sono irritanti, a volte, ma quelle che non dicono niente sono peggiori.
Lasciatemelo dire.
La cosa migliore è quella più rara, cioè i fantomatici esseri che sanno alternare i silenzi alle parole, che sanno ascoltare, insomma quelli in armonia con se stessi e di conseguenza con gli altri.
Intanto noi stavamo notando, sì, che quella strada stava progressivamente peggiorando, ma facevamo finta di niente. Le rocce sporgenti erano più sporgenti e più rocciose, la larghezza era meno larga, la profondità delle buche... più profonda... ma ci piaceva tanto quella escursione improvvisata, quella vista delle colline sottostanti e più sotto ancora il mare luccicante, che... bene o male, con il vino che formava, probabilmente, onde irregolari dentro di noi, al ritmo dei vari dislivelli che la decappottabile affrontava, andavamo avanti, esplorando quella campagna dorata.
Abbiamo passato un ruscello quasi secco in cui la spider si è bloccata, spingendo la abbiamo portata dall’altra parte, a quel punto eravamo già meno estatici e più sudati, più sporchi e meno filosofi... abbiamo guardato anche la cartina. Anche se il nostro stile da esploratori ci sussurrava di non farlo.
Le cicale, sugli enormi olivi che ci circondavano, cantavano tutte insieme, con un vocione basso, mi pareva più minaccioso del solito, era quasi assordante.
Non sapevamo che ora era, ma dalla posizione del sole parevano le due o le tre. Abbiamo visto sulla mappa che mancava poco ad arrivare ad un paese, o almeno pareva.
Solo che quell’incrocio simbolico, dalle conseguenze però assai materiali, graficamente, era rappresentato da tre strade e non da quattro.
La logica diceva che tornare indietro era peggio che andare avanti, da quel paese partiva un’altra strada che poi ritornava su quella principale, quella che poi costeggiava il mare, là in basso. Era una cartina greca, per la prima volta ne usavamo una, non avevamo idea della distanza, né del tipo di strada, dato che tutte erano segnate alla stessa maniera... o meglio, con dei simboli diversi, ma che noi non conoscevamo.
Il nostro umore si era deteriorato in poco tempo, specie quello di Gina, che ha incominciato ad incolparmi della disavventura. Avevo scelto la strada sbagliata, in più non sapevo sollevarle il morale, perché anche io ero preoccupato.
Non so se avete mai pensato a tutte le cose assurde che si pretendono dall’uomo, non ho mai capito perché... e sapere che le pretese aumentano proporzionalmente alle difficoltà, in quel momento, non mi ha aiutato.
E dopo alcune disgraziate manovre tra precipizi e rocce, tra alberi curvi ad invadere la strada che era diventata della stessa larghezza della macchina, il cui bianco sporco era diventato meno bianco e sempre più sporco, per via della polvere, delle foglie e anche delle ammaccature.
Tra le altre cose pensavamo che avremmo dovuto pagarne il conto, senza contare che sotto avevamo battuto varie volte, contro i sassi e nelle buche... potevamo star perdendo olio.
Inoltre ci eramo scordati di bere quando avevamo attraversato il ruscello, ora avevamo sete, noi e la macchina, la benzina della quale era quasi alla fine.
Il sole e le offese di Gina battevano forte e con continuità sulla mia testa, le cicale cantavano minacciosamente, tutto sincronizzato per aiutarmi a risolvere con tranquillità i nostri problemi.
Niente rende più nervosi che una attività che richiede calma.
La filosofia greca non si stancava di suggerirmi che il male e il bene erano in fondo la stessa cosa, dipendeva dalla nostra testa, in quel momento, in quella situazione.
Allora, per capire il da farsi bastava distanziarsi mentalmente, ma esattamente questa era la cosa più difficile.
Non sapevo ancora, quanto ero vicino alla verità, pensavo comunque di esserne piuttosto lontano.
Nel corso di quello stesso viaggio mi sarei reso conto che, per avere successo nel mestiere di filosofi, bisogna educare il tempo e lo spazio a mantenersi a nostra completa disposizione e fare in modo di essere circondati esclusivamente da persone sagge che non ci riempiano di offese e bestemmie ad ogni nostro, pure ingiustificato, errore.
Non credo che sia stato per caso che i greci abbiano praticamente inventato la filosofia: non dovevano lavorare.
Dopo un poco abbiamo trovato un boschetto e almeno lì il sole non era così forte, entrava ed usciva tra i rami, in compenso gli insetti hanno cominciato a massacrarci.
Erano di due tipi: i tafani che si posavano delicatamente sulla nostra pelle sudata, la cui umidità li attraeva e ci pungevano dolorosamente.
E poi assurdi moscerini che in un altra situazione sarebbero parsi simpatici e buffi, per via delle ali rotonde, grassottelli e succosi di un liquido giallo-verdolino, quando li spiaccicavi con una manata, ma che arrivavano a sciami e si divertivano ad entrare - come kamikaze - in tutti gli orifizi disponibili: bocca, occhi, naso ed orecchie, dando volentieri la vita in cambio della soddisfazione di vederci irritati e di sentirci bestemmiare nella nostra pittoresca maniera, tipicamente italiana.
Ricordo che ho pensato, in quel momento, che forse, come le ricchezze materiali a volte sono spesso mal distribuite, con tante persone povere e poche ricchissime, ecco che anche il bene ed il male si erano separati quel giorno, e raggruppati in due parti, tutto il bene si era concentrato nella mattinata, dopo il pranzo si era raggiunto il punto di massima altezza... poi cominciando a scendere il sole e noi quella collina, il male era sceso lentamente ed aveva, piano-piano, progressivamente, sostituito il bene.
Quando è finita la benzina le nostre energie si sono eclissate, definitivamente.
Gina ha cominciato a piangere, io, dopo aver tentato di rincuorarla, senza esito, mi sono seduto al suo lato con la testa tra le mani e non so quanto tempo siamo rimasti così.
Nel frattempo avevo scoperto anche che mancava la chiave del portabagagli, che ovviamente non si apriva, ecco che eravamo anche impossibilitati di lasciare lì la macchina e non potevamo tirarcela dietro esplorando il boschetto... che nel frattempo era diventato foresta.
Avevamo delle borsone enormi che non potevamo lasciare e non potevamo portare con noi, tra cui quella, pesantissima delle mie macchine fotografiche, con obbiettivi, cavalletti e attrezzi vari a raggiungere forse i trenta chili. Poi l’altra, quella della telecamere di Gina, che non si accontentava di averne una con sé, doveva assolutamente portarsene due, con tutti gli accessori, batterie e cose varie.
Altre borse e borsette erano ammucchiate con quelle due più grandi, sui sedili posteriori formando una montagnetta considerevole.
Ho proposto di andare in esplorazione, ma Gina non ha gradito il pensiero di rimanere da sola.
Ostacolati dalle nostre stesse proprietà, dalla nostra inesperienza in fatto di situazioni impreviste, in più stanchi, assetati, affamati... ecco che aspettavamo la morte, che ci liberasse finalmente dal peso di tutte le nostre responsabilità terrene.
È scesa l’oscurità e con essa la disperazione è diventata sempre più nera... ma con un puntino giallo nel mezzo... sì, perché ci sembrava che ci fosse una lucetta, tremula ed intermittente, tra gli alberi.
Considerato che i miraggi avvengono di giorno ed in pieno sole, siamo stati fisicamente attirati da quel debole lume e avanzando ne abbiamo visti altri, non parevano simbolici, ma piuttosto corrispondenti ad una realtà oggettiva.
Usciti dal bosco abbiamo visto che c’era un favoloso villaggio arrampicato sulle rocce, sulla collina ripida, di fronte a noi.
La salvezza!

Salvezza...
Carichi di tutti i nostri assurdi bagagli ci siamo incamminati, le forze erano rinate e ci siamo mossi inciampando e cadendo sul terreno ricco di pietre, prima scendendo e poi risalendo, fino a poter distinguere, nel sudore di una stanchezza mai provata, che le luci erano torce e lampade a olio.
Ce ne siamo resi conto quando siamo arrivati, attraverso un sentiero stretto, tra due pareti di pietra. I personaggi che vivevano in quelle case fatte di blocchi di roccia, non parlavano che la loro lingua, che doveva essere greco, ma pareva mischiato con altre lingue che non conoscevamo o che forse non eravamo in grado di riconoscere in quel momento.
Sembrava evidente che quello non fosse un famoso punto turistico, forse esisteva una strada migliore per arrivarci, comunque, ci siamo sentiti meglio, anche se non sapevamo ancora come.
Un barbuto, con un asino carico di due sacchi di erba ci ha accompagnati, siamo arrivati in quello che era evidentemente il centro dell’abitato.
Una piazzetta con un enorme olivo in mezzo che se ne usciva da una grande pietra circolare, che forse un giorno era stata una macina, ora era una comoda panchina dove sedevano varie persone barbute e capellute, conversando placidamente, bevendo in strane coppe di legno un buonissimo vino bianco che ci hanno offerto, fresco e non così forte come sono spesso i vini in Grecia.
Non capivamo una parola, ma le facce erano amichevoli, ci hanno dato una focaccia calda con rosmarino e olive a pezzi e anche la fame è sembrata meno opprimente.
Di nuovo il bene stava trionfando sul male.
Poco dopo un vecchio dagli occhi storti e vestito con una specie di poncho è arrivato zoppicando, parlava italiano, o meglio: siciliano. Era il capo del villaggio e si chiamava Biagio.
Naturalmente era contento di vederci, da tanto tempo non vedeva italiani. Gli occhi del vecchio rilucevano di felicità, la sua cortesia era franca e la sua ospitalità sinceramente entusiasta, ma il suo modo di fare era asciutto e senza cerimoniali.
Ci ha accompagnati, con altri popolani e popolane tutti con i capelli lunghi, gli uomini tutti con la barba, verso la sua casa, conversando tranquillamente.
Tutti insieme, seduti ad un tavolo di legno grezzo, con una pagnotta integrale ed un piatto di olive nere saporite e di formaggio fresco di capra davanti, sotto una pergola fuori dalla sua casetta di pietra, gli abbiamo spiegato la situazione, ma è parso non meravigliarsene:
“Figli miei, lo so quello che vi è successo, gli unici stranieri che arrivano fino a qui sono quelli che si perdono, la strada è buona solo per i muli... anzi, no, nemmeno. Figuratevi che anche loro, a volte, ci si rompono gli zoccoli!”
“E allora come fate a vivere qua?” Ha interrotto Gina con la voce di chi ha un’oliva che rotola dentro la bocca. “Non avete nemmeno la televisione?”
“No, figlia mia, non ce l’abbiamo, figuratevi che non abbiamo nemmeno la luce elettrica! Dovete pensare che qui viviamo semplicemente, senza elettrodomestici, né prodotti confezionati, esiste una antica radio nel nostro piccolo museo, ma è solo un reperto storico, una curiosità, un ricordo del mondo che abbiamo scelto di lasciare.
Vi pare assurdo?
Vi sorprenderete, siamo vicini alla cosiddetta civiltà, ma ne facciamo a meno, è per via di quella che potremmo chiamare una scelta.
Sapete, nessuno di questi signori che avete incontrato è nato qui, sono tutti arrivati a piedi o con un mulo, spontaneamente, o per caso, ma scegliendo, prima o poi, di abbandonare la vita delle città, che voi forse amate, ma non è per tutti così, non tutti possono apprezzare la modernità come è diventata.”
Migliaia di grilli cantavano intorno a noi nenie esoteriche, Gina mi guardava come se tutto fosse troppo divertente.
Il buio oltre le case era impressionante, come se l’unica cosa che esistesse, oltre alla selvaggia natura circostante, fosse quel piccolo villaggio.
Mi piaceva il magnetismo di quel vecchio uomo. Quello che diceva, non mi pareva per niente fuori luogo. Anche se il mio stile di vita, se così si poteva chiamare, era totalmente differente, specie negli ultimi tempi, la routine della grande città mi stava stancando sempre di più.
Da un bel po’ stavo pensando che un mese di ferie all’anno era insufficiente per recuperarsi da un insieme di situazioni sgradevoli che dovevamo accettare ogni giorno, che quella non era più vita, che non agivamo più come esseri umani, che lo stress era dilagante .
Biagio sembrava contento di offrirci un’ospitalità differente da quello a cui eravamo abituati. Da come toccava gli oggetti, da come il suo sguardo ci accompagnava, sentivo entrare un benessere in me, che, anche se mai provato prima, per quanto difficile a spiegarsi, era ben tangibile e reale.
Il senso di tutto quello che faceva non mi era ancora chiaro, ma sapevo, in qualche maniera, che ogni gesto era diretto al rifiuto dell’artificiale mondo moderno e al recupero dei valori antichi.
Gina ammiccava e rideva, lo guardava come un fenomeno raro e credo che non notasse la attenzione soave eppure decisa del siciliano, era abituata alla rapidità nervosa di urbani alienati, personaggi sprofondati nel mondo del loro ambiente metropolitano, dove non c’era tempo e occasione per progredire, né per fermarsi.
“Ci deve scusare Biagio, la nostra dimensione è quella della modernità, ma questo non significa che non sappiamo apprezzare la natura e il vivere spartano ...”
Avevo parlato dicendo cose che, mentre mi uscivano dalla bocca, mi parevano false ed inutili, ma Gina ha mostrato che approvava e Biagio mi ha guardato con un brillare di occhi che mi hanno fatto capire, non so come, quanto fosse normale quello che avevo detto, che, in un certo senso, lo rispettava, che era una cosa della quale teneva conto. Però preferiva qualcosa di differente, voleva che anche noi ne conoscessimo l’esistenza e magari anche mostrarci, se avessimo voluto, come funzionava questo mondo alternativo.
“Ci sono dei vantaggi nel vivere in città, dal punto di vista culturale, per esempio.” Ha aggiunto Gina. “Il cinema, il teatro, ora poi, con l’internet, tutto è a nostra disposizione, senza uscire di casa, non è meraviglioso?”
“Dipende da che cosa si vuole raggiungere.” Ha detto Biagio, con un’estrema semplicità nello sguardo, divertente perché contrastante con l’aria saccente di Gina, degnamente completata dai suoi gesti convulsi .
Una cosa che mi ha colpito era anche il fatto che mentre noi, parlando, muovevamo mulinando le braccia, battevamo le ciglia, distorcevamo la faccia con alcune smorfie . Invece lui no, Biagio, era composto e allo stesso tempo naturale, si muoveva non come se qualcosa di esterno lo manovrasse, ma come se lui fosse padrone, completamente e tranquillamente, di ogni suo movimento.
Nessun imbarazzo, nessun tic nervoso, nessun battere di occhi paurosi di guardare altri occhi negli occhi.
Anche gli altri, lì intorno a noi, che parlavano tra di loro o commentavano con noi, con il poco di italiano che conoscevano, rappresentavano una scena di armonia, solo per come la loro conversazione accompagnava il corpo senza contrasto o divergenza, senza molto movimento, ma evidenziando placidamente il valore delle parole, senza invadere la sensibilità altrui .
Mi pareva, comunque, che tra loro e Gina ci fosse un abisso incolmabile, ma anch’io mi sentivo molto diverso.
Lei, assai poco interessata culturalmente e socialmente, era immersa in un’era in cui la macchina aveva preso rapidamente il sopravvento sull’individuo, gli aveva dato un ritmo, lo aveva privato di molti valori sani, sostituendoli con altri, spesso vuoti e inutili, spesso anche dannosi.
Pure io ne facevo parte, diciamo la verità, però quando mi capitava di vedere un personaggio di un film, o di un libro che stavo leggendo, che avesse connotati di persona umana, (in un senso più antico, cioè regolata ad una velocità naturale,) sapevo riconoscerla ed apprezzarla.
In epoche moderne era quasi fantascienza , ma ricordando, forse, come erano i miei nonni, come altre vecchie persone, di un mondo quasi perduto nel tempo della mia memoria.
Mi richiamavano alla mente le notti in cui andavamo, dalla fattoria dei genitori di mia madre, ad un altra, sulle montagne, per sbucciare il granturco, o alle feste delle castagne, o per svolgere altri tipi di attività collegate all’agricoltura locale.
Nessuno là aveva la luce elettrica, lampade a petrolio e candele illuminavano le alte pareti di quelle grandi capanne di pietra e legno, usate per immagazzinare cereali o presse di fieno, dove cinquanta o più persone facevano quei servizi parlando a gruppi, cantando o ascoltando qualcuno che raccontava una storia per tutti.
Ora, invece, ma in maniera somigliante, sotto la luce della luna, che filtrava dalla pergola di vite , seduti a quel grande tavolo grezzo e massiccio, noi conversavamo tranquillamente, parlando di vari argomenti, bevucchiando quel vino bianco leggermente liquoroso, accompagnando con formaggio e olive, prodotti freschi che loro stessi, piccola comunità auto-sufficiente, producevano.
Gli altri barbuti parlavano a bassa voce, partecipavano poco alla nostra conversazione, ma commentavano, credo, tra di loro, il nostro dialogo, ogni tanto Biagio spiegava qualche cosa.
Erano tutti tranquilli sorridenti, rilassati, ma lui pareva molto più in alto degli altri, aveva la gestualità e lo sguardo di una persona importante... si muoveva e si atteggiava con la calcolata semplicità di quelli che sanno molto bene cosa fanno, che sono consci che gli altri li usano come esempio, accettano di esserlo, non tanto per vanità o perché non sanno sottrarsi al fascino del loro ruolo, ma perché è la cosa più naturale ed utile che possono fare.
Non saprei come descriverlo in maniera compiuta, ma era un misto di energia e dolcezza, nelle giuste dosi, con una necessaria lentezza che si adattava alla perfezione alla profondità della voce e alla spontaneità nel parlare, in più la forza e l’autorità trasmesse dal suo modo di fare armonioso.
Una cosa che avevo notato nelle persone anziane, o meglio, nella maggior parte di quelle che avevo conosciuto, era che, a dispetto della saggezza e dell’accumularsi dell’esperienza, non sapevano approfittare di ciò che di positivo possedevano, perché disturbati in maniera continua da mali fisici o morali.
Nei film avevo già ammirato senilità nobili e luminose, nella mia vita vera, molte meno, infelicemente, ma me ne ricordavo alcune di quando ero bambino, il mondo era cambiato e stava cambiando ancora.
Sentivo un fascino profondo per quel vecchio siciliano, una bellezza interiore che riusciva, dopo poco tempo a dare una connotazione estetica estremamente gradevole ad un volto scavato, un naso aquilino quasi coperto da barba e capelli lunghi nerissimi, ma striati di grigio e di bianco, una espressione saggia trasmessa attraverso una bocca leggermente troppo grande e da due occhi, che anche se guardavano in direzioni opposte, perché strabici, risultavano ugualmente brillanti e luminosi.
“Perché qui tutti sono capelluti e barbuti?” Ha chiesto Gina dopo aver preso coraggio con un bel bicchierotto di vino.
“Solo per comodità, non che ci sia qualcosa di prestabilito o di simbolico, solitamente d’inverno sono più lunghi, ora con il caldo, alcuni tagliano qualcosetta, personalmente io apprezzo questi volti ispirati a mode più antiche, sapete, quando i barbieri erano un servizio di lusso.”
“Non ci avevo mai pensato, giustamente, nell’epoca moderna, l’apparenza è molto importante.” Ha commentato Gina.
“Tanto che è diventata più importante della sostanza. Lasciatemelo dire!” Ho aggiunto io, fiero dell’intelligenza della mia affermazione.
“Anche se...” Ha ripreso Biagio, come se continuasse la mia frase “...tanti preferiscono il brillare di questo mondo di apparenze, all’opacità di un altro che invece si cura più che altro di contenuti, ma... il perché lo sapete voi?”
“Che cosa vuol dire che il nostro mondo è fatto di apparenza e basta? Ci sono tante di quelle cose che possiamo ricevere dalla vita moderna che possiamo scegliere, possiamo vivere anche tranquillamente in una grande città, basta volerlo, per esempio nella vecchiaia...”
Gina stava prendendo a cuore il problema, visto che adorava vivere nel movimento frenetico della città. Biagio senza fretta rigirava le argomentazioni di lei, con repliche assai logiche, mostrando un altro lato della questione.
“Vero, verissimo, la città moderna offre una grande varietà di opzioni. Qui non abbiamo tutto questo. Il problema è che là non abbiamo il tempo di approfittarne, ci sentiamo più stanchi, lavoriamo di più, dobbiamo mantenere una struttura che una volta creata non si alimenta da sola, ma ha bisogno di essere aumentata, proprio per causa di tutte le possibilità nuove che si creano attorno a noi.
Impossibile fermarsi, dobbiamo sfamare un animale mostruoso che mangia sempre di più e diventa sempre maggiore, sempre più potente, sempre più feroce: il risultato più logico, e non per questo più evidente, dal dentro, è una specie di schiavitù, che ci fa sentire sempre frustrati, visto che non possiamo, materialmente permetterci tutti i nuovi bisogni che si formano all’interno e all’esterno delle nostre persone, che fanno diventare i precedenti desideri obsoleti.”
“Obsoleti come voi qui?” Ha interrotto quella voce veneta che era arrivata con me, della quale riconoscevo sempre meno la legittimità.
A questo punto io, che a rigore ero più dal suo lato che dal loro, mi sono sentito colpito nell’onore, un po’ come se fossi ferito a sangue, e stavo per rispondere duramente alla provocazione di Gina, però, mentre stavo cercando di pensare velocemente, incapace di trovare le parole giuste, mi fumava il cervello e le mie ruote scivolavano nel fango dell’indignazione... Biagio mi ha fermato, con un gesto lento e fors’anche imperioso della mano e ha detto sorridendo:
“Esattamente, noi siamo obsoleti, ma se per voi questa parola rappresenta un’offesa per me è un complimento, siamo dichiaratamente contro tutte le novità, se queste nascono solo dal desiderio di produrre e vendere... è chiaro che fra queste ci sono buone cose che possono essere usate con propositi sani... alcune medicine, per esempio.
È vero che per vivere bisogna lavorare e vendere la nostra capacità, ma se tutto diventa una ruota di produzione e vendita ecco che i valori della vita spariscono.
Provate a fare, per favore, questa riflessione: tutti questi oggetti e servizi nuovi migliorano, realmente, il nostro livello di vita? Che cosa ci è veramente necessario e cosa si crea per correre dietro al mercato impazzito originatosi con la rivoluzione industriale?”
“Che vuol dire questo? Tutto è necessario, dipende dalle esigenze della singola persona... prendete il computer, come si farebbe al giorno d’oggi per ricevere informazioni, per fare ricerche per comunicare rapidamente?”
Gina si è guardata intorno come se pensasse di aver messo alle corde l’avversario con questa ultima argomentazione. Il brusìo delle voci dei barbuti e delle capellute è diventato più alto, ma, impassibile, Biagio ha continuato:
“Rapidamente? Ma chi ha bisogno di questa rapidità? Pensate che la rapidità sia un fattore positivo? Per me, non sempre lo è.
Prendiamo il computer, una macchina meravigliosa, ma veramente tutte le persone hanno bisogno di un computer? Se ci guardiamo intorno rispondiamo: sì, o quasi. Perché? Per accompagnare i processi evolutivi del mercato, per esempio. Ma tutto questo è vendita, possibile che possiamo solo pensare a vendere e a comprare?
E la cultura? E l’arte? E l’amore? E la salute dell’umile vivente?
Possibile che tutto deve girare intorno al denaro, alla proprietà?”
“Come si può vivere senza denaro e proprietà? Come si fa a rivoluzionare tutto il sistema mondiale? E perché poi?”
“Perché tutto questo non fa bene agli uomini, si è perso il controllo, non si pensa più alle conseguenze.
Allora, si deve tornare indietro, è meglio, principalmente come mentalità, si devono percorrere di nuovo i passi che abbiamo già fatto, per scoprire quando, dove e come abbiamo sbagliato.
Credo fermamente che questo sia inevitabile. Certo, noi egoisticamente ci possiamo isolare, dissociare, ora che tutto il processo funziona in questa maniera. Non abbiamo né voglia né forza di divulgare e fare propaganda, di nascere come movimento politico, perché questo significherebbe stress, è dallo stress che stiamo sfuggendo, o meglio dal ‘distress’ .
Però, solo il fatto che Calogero City esiste significa che una tendenza di ritorno si sta creando. Sono convinto che altre comunità si stanno formando, nel mondo, con le nostre stesse prerogative.
Forse un giorno si passerà all’azione politica, per ora ci stiamo pensando, è già qualcosa.
Secondo me, noi, qui, siamo avanti nel tempo, anche se obsoleto significa il contrario, questa parola è stata creata da chi pensava che il cammino dell’uomo era segnato, che il passato era storia morta e sepolta.”
Siamo rimasti in silenzio per un poco, potevamo ascoltare le canzoni dei grilli e la musichetta del vento tra i rami, sulle foglie, intorno agli alberi e tra le case, i rumori degli animaletti della notte, rane e uccelli, insetti e cose varie... nessun motore, niente di moderno, nessun telefono che squillava o sirena della polizia.
“Ma se siamo abituati a vivere in questa maniera, come possiamo tornare indietro?”
Ha detto poi la mia amica, come se si fosse improvvisamente convinta che fosse esattamente quello che anche lei voleva.
Biagio si è illuminato:
“Prima di tutto bisogna pensare che il movimento c’è già, non dobbiamo mettere in moto una macchina enorme e pesante, ma solo farle cambiare di direzione, nemmeno molto all’inizio, ma con decisione.
Per questo dobbiamo essere sicuri di quello che facciamo, stiamo studiando per questo, abbiamo creato una distanza iniziale, tra noi e il mondo moderno, che ci permette adesso, di vedere certe cose dal fuori.
Non ci poniamo più il problema di risolvere tutto prima che degeneri troppo, la maggior parte di noi, qui a Calogero City, è già passata attraverso questa fase, che ora non è più urgente perché personalmente stiamo già bene, ma ora che ci troviamo in questa situazione privilegiata, cerchiamo di vedere la soluzione in maniera più ampia.
Forse il punto di ritorno, nel mondo, sarà proprio quando non sarà più possibile sopportare questo tipo di vita, forse solo in quel momento la maggioranza delle persone penserà che è l’ora di cambiare, attivamente. ”
Mi stupivo sempre di più vedendo Gina che si immedesimava nella nuova dimensione, il carisma di Biagio aveva colpito anche il suo cuore, nello stesso tempo notavo la grande calma di quella decina di persone che, seguendo come potevano i nostri discorsi, chiedevano a volte spiegazioni al loro leader, ma si mantenevano tanto in silenzio quanto osservavano, le nostre reazioni esteriori, come se fossero state lezioni di vita.
La pazienza e la serietà bambina di chi sta imparando con piacere, per quanto con difficoltà, per quanto con fatica: cose dimenticate nel nostro mondo lontano, ora pareva, mille anni luce.
Gina non ha più parlato, sembrava chiusa nelle sue fantasticherie, poco dopo i barbuti hanno cominciato ad andarsene e con loro le donne dai lisci o riccioluti - ma sempre lunghi – capelli e alcuni bambini assonnati dagli occhi semichiusi.
Con un sorriso, senza parole ci hanno salutato, guardandoci placidamente negli occhi, alzando la mano destra all’altezza della testa, si sono incamminati verso casa, a gruppetti.
Difficile immaginare che là dentro, ognuno si sarebbe arrangiato senza televisione, computer, radio, giradischi o mangiacassette, insomma senza nessunissima dannata luce elettrica.
Anche noi abbiamo manifestato il desiderio di andare a dormire, Biagio ci ha accompagnati alla nostra piccola, scarna, sobria cameretta con una grande finestra sulla valle e le lucette lontane che pareva scendessero tremolanti verso il mare, ma che in verità non si muovevano da dov’erano.
Quando ci ha dato la buona notte Gina si è chiusa rapidamente in bagno, anche se la chiave non c’era ed ha dovuto rinunciare con un po’ di delusione a quella sua idea proveniente da un’altra dimensione.
Prima che Biagio se ne andasse gli ho manifestato con tutto il calore che potevo il mio appoggio per le sue idee, ma lui non si è impressionato per niente. Ha sorriso guardandomi nel fondo delle pupille, con un solo occhio profondissimo e paternale, e con l’altro attraverso la tenda forellata di stoffa grezza, fuori nel fresco della notte greca e mi ha detto in un sospiro lieve, che se fossi uscito dalla grande città anche io mi sarei sentito un pesce fuor d’acqua.
Mi sono sentito offeso e gli ho chiesto se questo, per caso, era una colpa... lui ha risposto che non era una colpa, ma un peccato, per me e per il villaggio.
Ha aggiunto che sapeva che ero un medico generico e che aveva bisogno di me a Calogero City. Salutandomi ha aggiunto che finora nessun medico aveva vissuto là, che se ne sentiva la mancanza.
Per la macchina ci ha detto di non preoccuparmi, che il giorno dopo l’avremmo tirata fuori da dove si trovava, nessuno l’avrebbe toccata durante la notte.
Siamo andati a letto e, accompagnati dai terapeutici rumoretti della natura notturna, non abbiamo avuto difficoltà per addormentarci.

Il giorno dopo
La mattina, svegliato da numerosi e allegri galli, mi sono sentito fisicamente bene e meglio ancora di morale, Gina non voleva alzarsi e allora sono sceso da solo, dopo una sommaria lavata.
Non c’era acqua calda là, ma il mattino era piacevolmente tiepido, dovevano essere le otto o le nove. Anche se avevo lasciato l’orologio a Londra, la fissazione di sapere che ora era ogni tanto mi prendeva.
Biagio non c’era, la porta era spalancata e sono uscito, coi pantaloni corti e la canottiera, le ciabatte e la macchina fotografica.
I personaggi che popolavano le case di pietra erano sparsi in giro facendo senza fretta i loro lavoretti.
Avevano occupazioni diverse che svolgevano, vari tipi di faccende, come scolpire, dipingere, suonare uno strumento, scrivere, leggere, giocare... ho visto anche delle donne e dei bambini, cani e galline, mucche e asini, cavalli e pecore... ma nessuna automobile, trattore, camion o macchina agricola.
La giornata era di nuovo stupenda, le persone vestite senza alcuna pretesa di eleganza, ma con estrema praticità, dai volti sorridenti, mi salutavano mentre scendevo verso la piazzetta, ho sentito parlare il tedesco e altre lingue che non parevano greco, forse lingue slave.
Ho trovato Biagio che tracciava su un largo spuntone di roccia, il quadro che stava iniziando, disegnando linee essenziali con un pastello nero sulla tela bianca, doveva raffigurare il paesaggio là sotto, che era a dir poco fenomenale: una rete di canali tagliava la pianura gialla-senape fino al mare, poche bianche casette a gruppi, la luce del sole batteva con la sua dolce forza, rifletteva e faceva riflettere chi come me che si metteva in osservazione e si meravigliava di un mondo che, visto da lassù, era un plastico coi suoi bei soldatini e le automobiline... alcune navette lanciavano delle graziose fumate nel cielo di un azzurro che feriva gli occhi e solcavano un mare sfavillante.
Accanto a lui due giovani dalle barbe e dai capelli corti, occhi vivaci in movimento, probabilmente nuovi cittadini di Calogero City, anche loro muniti di tela, colori e cavalletto.
Biagio gli stava insegnando quel tipo di arte, con la sua prosa asciutta, con i suoi sguardi divergenti che attraversavano spazi adiacenti, ma la cui continuità, lui riconosceva.
Quando li ho fotografati si sono messi in posa tutti e tre e sembravano contenti e completamente rilassati.
Poi Biagio ha spiegato, in un francese maccheronico, di come, prima di tutto, si deve proporzionare, il paesaggio scelto, alla tela.
Il vecchio sistema del pollice inteso come unità di misura.
Poi, visto che non mi muovevo di lì e continuavo a fare domande, più o meno sullo stesso tema della sera precedente, senza rendermi conto, nel mio ingenuo entusiasmo, che stavo disturbando la sua lezione, mi ha detto, con un sorriso, che, se volevo fare colazione, potevo andare a casa di Aggatta, con due ‘G’ e due ‘T’, la quale svolgeva una specie di servizio pubblico là nel paesello.
Cioè serviva da mangiare a chi non aveva famiglia, ai rari visitanti, più faceva altre cose che non ho capito bene, né lui aveva voglia e tempo per spiegarmele meglio.
Allora, affamato e curioso, bisognoso di un caffè, mi sono diretto verso quella casa che poi era vicina a dove eravamo arrivati, la sera precedente, Gina ed io dalla boscaglia.
Aggatta era una ragazza giovane, ma non troppo, un po’ grassottella, sorridente e simpatica. Parlava con un accento sardo pieno di accenti chiusi e di doppie consonanti, ecco il perché del nome.
Dopo esserci salutati, mi ha servito una tazzona di caffè nero, delle fette di pane di granturco e del burro. Appena mi sono sentito di nuovo in forze, ho cominciato a conversare con lei, tra le panche di legno nodoso c’eravamo solo noi e i discorsi del più e del meno sono andati quasi subito su Calogero City, chissa perché: la sua storia e il suo bel motivo di esistere.
“La vitta qua è esattamente come potteva essere la vitta prima della rivoluzione industrialle, la differenza è che la cosciénza è quella del ventesimo séccolo rivisitatta ed adattatta a chi vuóle valorizzare la personna e mettere la sovrapproduzionne nel dimenticattóio .”
La frase con la quale è entrata nell’argomento mi ha lasciato senza parole, ho pensato che forse la diceva a tutti quelli che si perdevano su quelle colline, o forse era la maniera come la recitava, o forse ero io che volevo vedere le cose in un determinato modo.
Era senza dubbio il manifesto di quella congrega misteriosa, che però pareva tanto aperta, sulla quale, nonostante i dubbi, ero curioso e volevo saperne di più.
C’è una cosa che mi fa sentire sospettoso: è quando qualcuno cerca di arruolarmi nel suo esercito, che sia pure il migliore esercito del mondo, e può essere anche con la migliore delle intenzioni.
Il fatto è che spesso i propositi collettivi non hanno niente a che vedere con la realtà ed il mio pensiero va subito a quelle religioni moderne, ottenute incrociando idee di stampo orientale con regole occidentali, con le quali non hanno niente a che fare.
Quelle sette fanatiche assurde e deprimenti, altre confraternite più o meno nascoste, dite quello che volete, ma per me sono una roba insopportabile.
“La diffidénza è natturale, veniamo da un mondo che ci inganna ogni ggiorno di ppiù, sulle nostre esiggénze, sui nostri intimmi desiddéri, su quale è verammente il cammino che vogliamo intrappréndere...”
Dopo un po’ di indottrinamento pieno di doppie e di accenti gravi, un secondo caffè, ma col latte e con gustosi biscotti casalinghi e un po’ di frutta di stagione, Aggatta ha cominciato a parlare senza frasi programmate.
Era una ex programmatrice di computer, ne aveva viste di cose in giro, lavorando free-lance e viaggiando per il mondo, per poi, dopo una crisi profonda e forse esistenziale, abbandonare tutto per vivere a Calogero City.
Una cosa che ho pensato, mentre lei raccontava, era l’auto-ironia, di chi chiama il proprio paradiso terrestre con un nome come Calogero City.
Normalmente, chi vuole trarre profitto dal suo villaggio alternativo, lo chiama con un nome studiato atraverso il marketing, qualcosa che catturi l’attenzione al primo colpo, come per esempio ‘Il Paese del Sole’, o ‘Ritorno alla Natura’.
Si stabilisce il motivo e la falsa soavità di ogni particolare, per favorire la propaganda e per attrarre il numero maggiore di persone, fargli tirare fuori i soldi e poi scapparsela in un paradiso fiscale e magari anche tropicale.
Invece Calogero City era un nome che voleva scherzare con quelle buffe denominazioni delle città americane, viste nei film e telefilm che riempiono i programmi di tutto il mondo occidentale.
Aggatta mi stava spiegando che loro non facevano pubblicità di nessun tipo, solo chi arrivava a conoscere Calogero City per caso, come era capitato a noi, o attraverso l’informazione di altre persone che già ne facevano parte, ne parlava ad altri o rimaneva lì senza comunicare con il suo mondo precedente che per lettera, nella città più vicina si poteva anche telefonare.
Ho obiettato che chi optava per quella scelta non avrebbe più avuto soldi per viaggiare o per seguire le evoluzioni del mondo esteriore, solo ogni tanto uscendosene per vedere quello che era successo... e lei ha ammesso, al contrario di ciò che mi aspettavo, che era effettivamente così, se uno non aveva depositi in banca precedenti.
Il fatto è che lì non poteva guadagnarsi che il cibo e niente più, tutto quello che avanzava dalla produzione autonoma di latticini, ortaggi e frutta, veniva venduto in città e il ricavato era usato per il sovvenzionamento dell’arte e della cultura.
A Calogero City si scolpiva e si dipingeva, si componevano, si suonavano e si cantavano musiche; si scrivevano poesie e prose, si inscenavano drammi e commedie... c’era una mostra di arte nella piazzetta, a lato la biblioteca che contava più di diecimila volumi. Faceva parte della casa di cultura e dell’arte, anche un piccolo e gustoso museo.
Proprio mentre pensavo che Aggatta non era poi così grassa ed aveva due occhi come brace ardente, è arrivata Gina, con tutto il suo repertorio di risatelle frequenti e ad alto volume. Insieme a lei un ragazzotto scuro di pelle che si esprimeva con quell’inglese strampalato che parlano gl’indiani dell’India. Si è presentato tutto sorridente di denti bianchissimi, sembrava assai simpatico. Era di Sri Lanka, si chiamava Braveheart, una bella specie di nome d’arte.
Mentre loro due facevano colazione, parlando animatamente, è arrivato Biagio, con i suoi due studenti di belle arti, che dalle voci e dai movimenti si capiva oltre al fatto che erano omosessuali, anche che erano pieni di vita e di gioia e arrivati da poco, per via dei capelli corti.
Claude, il più alto, era loquace, tutti e due parlavano anche l’italiano, avevano abitato a Venezia.
Mentre Aggatta e Biagio erano impegnati a conversare, in quello che pareva greco mischiato con i dialetti delle isole italiane, abbiamo chiacchierato del più e del meno, che là significava parlare di Calogero City.
“Ho notato che le case qui sono differenti, da quelle tipiche greche...” Ho detto tanto per introdurre un dialogo.
“Con certezza sono differònti...” Ha ammesso con piacere Claude. “...dal modello greco di abitazione, mi hanno esplicato che quelle sono, per causa du soleil forte, normalmònte blanc, tagliate e squadrate e rustiche, i muri rugosi, finestre petit... e poi, invece della pendenza nata per evitare esattamente la memme choise... i tetti sono depositi per immagazzinare acqua, la pioggia rappresònta una rarità presiosa.”
“Ho capito. Ma perché invece qui le case non sono imbiancate?”
“Guarda, come avrai visto, Calogero City è composta di case con muri di pietra a vista, rigorosamònte senza intonaco, le finestre sono più grandi del normale, ma si mantiene la formiula della conservazione dell’acqua di pioggia, perciò dell’assònza di pendenze e tegole per i tetti. L’abbondanza di grandi alberi, olivi enormi, consente la protezione dai raggi di sole, allora ecco una conseguònte minore esigenza di imbiancare... diciamo che è per economizzare in prodotti esterni all’economia paisana, il cemento è già una spesa necessaria, mais la sabbia la prendono da sé al fiume, le pietre ci sono in abbondanza, ma la calce è da comprare e le pietre sono di colore abbastanza chiaro, gli alberi aiutano a ripararsi dal sole, ecco che abbiamo questi meravigliosi muri di pietre a vista!”
“Ah sì, ma mi sembrano case vecchie, questo villaggio è abbastanza antico, no?”
“Non tanto. Le case sono state costruite tutte in quarònta anni, non c’è luce, acqua corrente, ma un efficiònte sistema di fogne, che permette di usare, dopo una opportuna decantazione speciale, il concime per la coltivazione, importòntissima qua, il paese ha un’economia autonoma.
La prima casa, messa su da Calogero Albani, padre di Biagio, no, non è quella dove quest’ultimo abita ora, è piccola comoda, rustica, esattamònt come le altre, con un pozzo di pietra davanti: secchio, corda e carrucola, che vengono usati anche dai vicini. Ma voi non siete alloggiati là?”
“Sì, ma non direi alloggiati, siamo arrivati ieri sera, ce ne andiano prima possibile...”
“Perché tanta fretta, non vi piasce Calogero City? Fate con colma, nessuno vi corre dietro...” Ha interrotto l’altro, che si chiamava Eugene.
“No, non è che qui non ci piaccia, ma domani... o dopodomani, beh, sì, noi abbiamo l’aereo... dobbiamo ripartire, il fatto è che ci siamo persi, è stata un avventura... l’automobile, presa a nolo, è rimasta senza benzina... si deve essere anche sgraffiata e rovinata, più quello che lo sarà per essere tirata fuori di là...”
“Lo so, lo sappiamo, come se il destino vi avesse preso per mano e guidato fino a qui... forse un giorno potrete ritornare, ora che sapete la strada, no?”
“Chi lo sa? Devo dire che questo villaggio è veramente simpatico, ma la mia vita è troppo differente... vivo in una grande città, ho il mio lavoro di dottore...”
“Lo sai che tanti di quelli che abitano qui hanno avuto la stessa tua avventura? Sono arrivati qui per caso, fascendo un giretto per le colline, infilandosi per quella strada che divònta stretta come in un imbuto pietroso e poi... poi, data un’occhiata al luogo e alle persone, hanno dato una svolta alla loro esistònza! Non hai mai pensato che la tua vita sia stressònte e vuota? Questa potrebbe essere l’occasione per la revolusion!”
Se c’è una cosa, tra le tante, che mi disturba, è quando qualcuno mi vuole spingere a fare qualcosa, lasciatemelo dire. Se quel progetto di vita alternativa mi affascinava, cercando di convincermi che quella era la mia soluzione ideale, in pratica, facevano in maniera che m’insospettissi, che credessi meno in quello che vedevo.
Però, pensandoci bene, se quello era veramente un paradiso, era anche normale che tutti ne fossero entusiasti.
Mentre riflettevo su questo, Eugene aveva cominciato a parlare della storia di Calogero City:
“Calogero era pittore, a tempo perso, (come Biagio, ma a tempo guadagnato).” E qui abbiamo riso tutti, ma specialmente loro, assai soddisfatti di quel gioco di parole, per di più in lingua italiana.
“A quel tempo, stònco della vita di Milano, dove era emigrato, del suo lavoro di operaio, se ne era andato senza dire niente a nessuno. Biagio dice che Calogero non sapeva nemmeno dove se ne sarebbe andato, quando era partito. Povero di soldi e ricco di idee, era stato spinto forse dal vento del ritorno alle origini della civiltà occidentale, era arrivato in questa parte della Grecia dopo alcuni anni di girovagare. Biagio dice che la bellezza di suo padre era causata da una specie di pigrizia mentale, era molto astratto e perso in pensieri troppo siderali, molto poco pratico, le persone si innamoravano di lui, anche se non aveva nessuna qualità pratica o terrena.
Essendosi fatto un poco di esperiònza come muratore, falegname ed idraulico oltre ad imparare tanti altri piccoli lavoretti utili, durante il suo peregrinare, ha tirato su quella casa e ha cominciato di nuovo a dipingere. Viveva qui, da solo cacciando, coltivando, allevando animali. Sempre da solo, ma sempre meno solo, sentendosi meglio, andando a piccoli passi.
Scendeva in paese ogni tanto, per parlare con qualcuno e qualcuno ha cominciato anche ad andarlo a trovare, le amicizie si selezionavano naturalmònte, solo persone profonde ed equilibrate potevano apprezzare la stranezza di Calogero. Parlava molto poco e più che altro per immagini o metafore involontarie.”
“Aspetta un po’, ma come è nata l’idea di fare una comunità? Per quello che ho capito, Calogero era un artista, solitario e schivo e amava più la natura che le persone...”
Qui è intervenuto di nuovo Claude. Dalla maniera che avevano di parlarne si vedeva che i due erano incantati da quello che stavano raccontando.
“No, l’idea non è stata di Calogero, il quale voleva solo fare la sua vita, abbastanza egoisticamònte, ma di Biagio, il quale è nato ici, ha avuto a disposizione tònti anni per capire ciò che voleva, ha anche fatto viaggi per il mondo, senza soldi, come un pellegrino. Ha avuto anche la fortuna di crescere in questa comunità agli albori, di elaborare le sue idee dentro a questa realtà separata dal resto. Pour arrivare a quello che Calogero City è oggi, si è studiato, sperimentato eccetera. Ma... a quei tempi Calogero dopo avere scritto lettere agli amici siciliani e milanesi, ai personaggi che aveva incontrato per le strade del mondo che gli erano piaciuti, aveva ricevuto le prime visite da fuori della Grecia e poi, col tempo, le prime permanònze definitive, ma questo non era ancora un progetto di qualcosa che non fosse l’ordine naturale e caotico degli avvenimenti.
L’idea del villaggio alternativo non esisteva ancora, la loro era una semplice fuga dal mondo del boom industriale, non c’era nessuna pretesa filosofica.
In seguito, mentre loro piantavano pomodori ed olivi, allevavano pecore e capre... il mondo consumistico impazzava ed impazziva, fuori di qua, lo stress aumentava mentre loro stavano bene, isolati e nascosti, evitando le comodità false ed i ritmi esagerati, continuavano la loro vita tranquilla. Per questo che ogni tanto arrivava qualcuno, per rimanere...”
Poco dopo ha fatto ingresso una delegazione di tre calogerini barbuti e capelluti, più, naturalmente, Biagio, il quale mi ha spiegato la situazione, che era la seguente: mi stavano accompagnando all’automobile per il suo recupero.

Preparazione al ritorno
Camminando a piedi per il bosco e conversando con Biagio, altre notizie se ne sono uscite all’aria, non pensavo nemmeno all’importanza di quello che mi raccontava, con la sua calma caratteristica, ma era naturale parlarne, era difficile considerare altri argomenti. Il ritorno a casa non si metteva in questione, ma il villaggio alternativo era affascinante, stavo assorbendo lentamente l’idea che vivere là non sarebbe stato male.
Biagio non cercava di forzare la situazione, sapevo che aveva bisogno di me, in quanto medico e conoscitore della medicina omeopatica e aiurvedica, ma faceva di tutto per favorire il nostro desiderio di andarcene.
Il fatto è che chi vive in una città grande, abituato ad avere tutto a portata di mano, gli elettrodomestici in cucina, il video e la televisione, il computer e l’internet, il teatro e il cinema, i supermercati, i negozi di frutta esotica, le grandi librerie... insomma l’attualizzazione forzata... insieme alla comodità scomoda, non sa immaginarsi poi un altro mondo, che non abbia niente di tutto questo, per arrivare a cambiare tanto la sua vita deve essere veramente convinto... o forse deve solo provare? Biagio intanto stava rispondendo con ordine alle mie domande...
“ ...senza che si creasse una precisa coscienza politica, sono cominciati a nascere figli, ed ora siamo alla seconda generazione di ritiro e rinuncia alla modernità, di condanna alla insensata sovrapproduzione di un mondo che dovrà, più presto che tardi, freneticamente consumare se stesso, per la sua propria forza, per continuare a sostenersi dovrebbe riciclarsi, ma non ha vie d’uscita.”
“Ma perché non ne ha? Con il crearsi di nuove esigenze non dovranno crearsi anche nuove condizioni?”
Come se avessi toccato un punto particolarmente dolente mi ha guardato con un’aria di tristezza, che non avevo ancora visto attraversare il suo volto caprino, ha detto poi, come se fosse una conseguenza inevitabile:
“Il fatto è che le nuove esigenze non saranno portate avanti in nome di un benessere effettivo degli esseri umani, ma solo per mantenere l’efficenza dell’economia, che è già diventata la padrona di tutto.
Ci vorrà molto tempo per capire che l’uomo deve tornare indietro, specialmente nella mentalità, non perché sia più importante degli animali o delle piante, ma esattamente perché, se vuole una vita decente, dovrà comportarsi un po’ come loro.”
“Ma perché comportarsi come gli animali?”
“Perché loro riconoscono di più il loro legame com la natura, non ci si allontanano mai troppo, noi invece pensiamo di poter sfidare gli elementi, ma non abbiamo ancora capito che non possiamo, è solo un’illusione, come tante altre, ma questa fa più male, perché l’uomo non è e non sarà mai un Dio.
Comunque, se li lasciamo fare, impazzito come è il mercato, che si muove già assai oltre l’interesse e il controllo delle collettività, forse non lo capiranno mai, che il nostro interesse non si misura in automobili e quantità di cose elettroniche, ma che quello che conta è stare bene con se stessi e con gli altri. Stiamo studiando una soluzione, tra non molto tempo dovremo passare alla pratica.”
Alla luce di quello che pensavo io e di quello che diceva lui, mi pareva insostenibile la mia posizione, ma era normale e logico per me, come per tutti, cercare una ragione per continuare a vivere come stiamo già vivendo, sembrava più comodo, più sicuro.
“Ma come è possibile che non ci siano movimenti nel mondo intero che stiano pensando a questo? Come è possibile che tutto quello che viene fatto è al di fuori di questi pensieri?”
Gli occhi storti di Biagio si sono drizzati per un attimo, guardando entusiasti, direttamente nei miei.
“Ma i movimenti ci sono, eccome! Ne stanno nascendo sempre di più, esistono addirittura dei partiti, basta pensare ai Verdi che esistono già in molte nazioni europee, il sindaco di Roma è un Verde, questo significa qualcosa, credo, ma quello che vogliamo fare noi sarà anche una ricerca di coordinare le varie correnti che lottano in nome della natura... perché, dottore mio, come l’uomo è abituato a fare, queste forze sono ancora separate e quasi in concorrenza l’una con l’altra.
In tanti predicano il ritorno ai valori sani della vita, già che stanno cambiando... ma non perché se ne sono scoperti di migliori, ma solo per giustificare la tendenza che il mondo occidentale ha preso!”
Dopo, visto che io ero più convinto di quello che diceva lui che del contenuto delle mie obiezioni, siamo ritornati alle pittoresche notizie su come si era formato Calogero City.
“Sì, figlio mio, ho cominciato, negli ultimi anni di vita di mio padre a prendere le redini del villaggio, non c’era da comandare molto, per la verità, ma lui non voleva saperne, alcune decisioni si dovevano prendere, più che altro scegliere, come facciamo ora, chi dovesse o fare parte o no, chi era adatto a vivere qui, chi aveva realmente la capacità di adattarsi a questo modo, come hai detto tu, ‘spartano’ di intendere la vita.”
“E come funziona questa parte?”
“Si riunisce il consiglio, che è formato da tutti gli esseri umani e non del paese, là nell’anfiteatro...”
“Come sarebbe a dire umani e non? E quale anfiteatro?”
“Ah già, volevo mostrarvelo ma non c’è stato tempo, domattina avete l’aereo e allora... sì, appena sopra il villaggio c’è un antico anfiteatro greco, abbastanza grande, lo abbiamo finito di restaurare da poco... un lavoro dannato, non è stato facile tagliare i blocchi con le zeppe di legno e l’acqua, poi con martello e scalpello, ma si sa, non per caso gli antichi avevano più tempo e più muscoli di noi... ma se venite a trovarci un’altra volta, ve lo facciamo vedere... a volte vado là da solo, al tramonto, per riflettere in santa pace, a quell’ora c’è una luce magica, dovreste vedere!
Ah sì, stavo dicendo che i nuovi cittadini vengono ospitati per un mese, partecipano da subito al lavoro comunitario, dopo il consiglio vota... ah! Il consiglio è formato da tutti, proprio tutti, anche gli animali se vengono non sono rifiutati.
Allora si vota per alzata di mano... o di zampa.
Ah, ah, ah!
Vedete che per ora pochi sono stati rifiutati, già perché se qualcuno viene invitato si sa che tipo di persona è, si è già studiata a sufficienza la sua personalità... comunque la prova finale e decisiva è la convivenza.
Avete visto che gli animali qui sono liberi, devono collaborare, come gli umani... ma sono premiati con cibo e assistenza medica, il veterinario ce lo abbiamo... insomma: non mangiamo carne e allora ci siamo liberati anche di questa colpa di dover uccidere per mangiare, vedete che i nostri animaletti sono trattati come compagni, ognuno fa la sua parte, i vantaggi sono della collettività, di cui loro stessi fanno parte.”

Arrivati all’automobile, e messa la benzina dalla tanica , ho provato se partiva e non ci sono state difficoltà. Allora sono saliti tutti e siamo partiti, conoscevano bene le stradine, anche perché le avevano fatte loro... Sapevano quando era meglio scendere, per non fare toccare il sotto della macchina, nei punti più difficili.
Sembrava che gli ostacoli che avevamo affrontato il giorno prima erano stati messi lì proprio per fermare l’invasione dei turisti, perché esistevano sentieri alternativi, dove l’automobile passava comodamente, solo che erano nascosti.
Bisognava essere duri come pietre, come noi insomma, per continuare e quello che volevano loro era che non arrivassero centinaia di persone, ma solo quelli che insistevano, si faceva così una selezione naturale.
Con la tortuosità del tracciato la distanza cresceva, ma si poteva arrivare a Calogero City tranquillamente, senza sgraffiare la carrozzeria o correre ulteriori rischi.
Quando siamo passati vicino all’anfiteatro Biagio ha detto se avevo voglia di vederlo, allora siamo andati a fare un sopralluogo. Si entrava per un’apertura ben nascosta dalla vegetazione, niente lasciava intendere che là dietro ci fosse qualcosa del genere o di un altro genere qualsiasi... e, sbucati dal fogliame, ci si trovava di fronte a ripide gradinate di pietra che formavano, pareva, un cerchio perfetto, o meglio solo 270 gradi di esso.
Davanti all’entrata, uno spiazzo lastricato costruito su tre piani differenti e concentrici. Il tutto di una bellezza di architettura rustica stile grecia antica e quindi praticamente indistruttibile, inoltre le piante che testimoniavano tutto e da sempre, sopra alle rocce che lo circondavano, si stagliavano contro l’azzurro forte del cielo e gli davano un aspetto ancora più singolare.
Ho cercato d’immaginarmi le assemblee là dentro, al tramonto, avrei avuto una gran voglia di parteciparvi, non solo per un amore alle coreografie pittoresche, ma anche per curiosità e per altri motivi che ancora non capivo, qualcosa che aveva a che fare con la manifestazione reale della democrazia... cosa di cui si parlava molto, in giro per il mondo occidentale, più che altro per nascondere altri obbiettivi.
Sono rimasto là in ammirazione per alcuni minuti, insieme a Biagio, senza parlare, con il rumore del vento che mi portava alla mente immagini e situazioni, finché, pensando a tutto quello che dovevo ancora fare, mi sono avviato verso l’automobile dove gli altri ci stavano aspettando, avendoci rispettosamente lasciati da soli in quello scenario.
Sulla spider, salendo e scendendo, la storia di Calogero City suonava come un commento registrato al documentario del panorama, alla vista, dall’alto del villaggio alternativo:
“Morto Calogero, il nome del villaggio, che prima non ne aveva nessuno, è diventato, in modo automatico, quello, ma senza il termine ironico ‘City’, invece, è stato aggiunto da poco tempo, tre o quattro anni fa, da Gutierrez, uno spagnolo che ha un senso molto spiccato del buffo e un’antipatia radicata per la politica imperialista americana.”
“Ma chi lavora qua? Come si mantiene il paese?”
“Tutti, ma solo quattro ore al giorno, il pomeriggio è per il lavoro, il resto del tempo ognuno lo impiega come vuole, per mantenere questo basso tenore non c’è bisogno di troppo sforzo, più che altro di pianificare la maniera di coltivare, di conservare i prodotti, di venderli per comprare altre cose come libri, il cemento, gli strumenti musicali... ma abbiamo già delle chitarre fabbricate qui, alcuni strumenti antichi, dei flauti di legno... in futuro potremo venderli fuori, dove gli artigiani sono sempre più rari. Per ora dobbiamo ancora affinare le nostre tecniche, ma a riguardo, la bella notizia è che da poco è arrivato un liutaio portoghese, che ci sta passando una grande esperienza nel campo.
Parallelamente stiamo tentando di fare un nostro tipo di musica caratteristico, tutto acustico e che rispetti un certo stile greco... stiamo studiando, questo prende molto tempo, molto più del lavoro! Ma è tempo speso bene, piacevole, creativo... devi vedere come s’impegnano i ragazzi!”
Al momento attuale Calogero City contava centoventisette persone, di cui ventotto tra bambini e adolescenti, quaranta anziani e cinquantanove adulti, tra i quali più uomini che donne, ma non molti di più. Erano presenti varie nazionalità, culture e lingue ma l’idioma ufficiale era il greco, anche se l’inglese era assai usato. C’era una scuola, due chiesette: una cattolica e una ortodossa, più varie tendenze ulteriori rispettate ed ammesse tutte, come è giusto, normale e logico, anche se nel resto del mondo a volte non lo è.
Arrivati in paese, lasciata la macchina vicino alla piazzetta sono andato a preparare i bagagli, su in camera c’era Gina, che mi ha detto che lei rimaneva.
Sono rimasto di sasso.
Tranquillamente ha detto che avrebbe fatto la prova... che era una occasione di cambiare la sua vita...
“Ma sì, sono stanca di quella vita stressante, senti, ci parli tu con la mia sorella? Basta che le dici i fatti rapidamente, ho già scritto una lettera dove le spiego tutto io.”
“Ma con il lavoro come fai?”
“Niente, che devo fare? Vedrai che non sarà difficile trovare un’altra.”
Gina aveva abitato in un appartamento con sua sorella maggiore e un ‘Pechinese’, un cagnolino chiamato Wang Chung. Aveva lavorato come commessa in un grande magazzino di abbigliamento. Ecco che la sua vita dava una svolta notevole.
Non ci potevo credere... ma era realtà, lei che sembrava immedesimata, per me anche troppo, nella routine della metropoli, improvvisamente rinunciava a tutto in nome di che cosa? Di un tipo di sistema che non conosceva e che aveva rifiutato anche solo di riconoscere come esistente, fino a quel momento.
Ciò che avevo difficoltà ad accettare, in verità, non era il fatto che lei rimaneva, ma piuttosto quello che io me ne tornavo.
“Perché non resti anche tu? È tutto così bello qui, figurati che sto imparando a suonare la chitarra con Braveheart...”
Forse quell’indiano, coraggioso di nome e di fatto, era il motivo principale per cui lei sarebbe rimasta.
Il mio impianto di difesa, non mi ha permesso che mi fermassi a riflettere, mi diceva che avevo fretta e... basta.
Questo centro d’impulsi, fatto di resistenza e di stereotipi, con il quale facciamo spesso i conti, non so dove sia situato nel nostro corpo, ma forse non è esattamente dentro... e serve per rifiutare le occasioni buone, i cambiamenti repentini, senza considerare che un poco di ribellione, ogni tanto, ci porterebbe a progressi positivi.
Cercando di pensare il meno possibile, ho messo le mie cose nelle valige e sono sceso a salutare Biagio, Aggatta, Claude ed Eugene, poi mi sono infilato giù verso valle con Paco, un peruviano che m’insegnava i trucchi per prendere le stradine nascoste che scendevano verso la città.
Paco mi ha raccontato la storia di quella macina dalla quale nasceva l’olivo enorme, nella piazzetta, a riguardo mi ero immaginato tante cose e allora gli avevo domandato che cosa era successo.
La storia era semplice: quando Calogero era arrivato lì, era stato per caso, si era perso, in una notte di burrasca, aveva trovato riparo nelle rovine del vecchio mulino.
Il giorno dopo si era ricordato di un particolare del bosco, di quell’olivo che nasceva direttamente dal buco della macina, del mulino diroccato , lì vicino.
Per ritrovarlo, poi ci aveva messo del tempo, le case semidistrutte di quel villaggio abbandonato erano tante e ricoperte di vegetazione, ma aveva deciso che era lì che doveva mettere su casa, per un motivo di simbolismo.
Aveva rintracciato poi il mulino grazie a quella macina nella quale era cresciuto quell’ulivo, che a quel tempo non era grande come ora, ma già notevole era la combinazione.
La pioggia non era una cosa molto comune, in Grecia, in particolare in quell’isola, questo era stato un segno divino, secondo il mistico Calogero, che ora stava facendo storia, anche se lui non aveva nemmeno idea di quanta ne stava per nascere, da quando era arrivato in quel luogo.
Paco aveva con sé un sacchetto di lettere da spedire, probabilmente tra le quali, quella di Gina per sua sorella, in più altre commissioni da fare.
Quando Calogero City è rimasta alle mie spalle, ho sentito un’emozione forte, una specie di commozione, confusa ma intensa, non sapevo bene come catalogarla... ma mi sono sentito male, come se stessi separandomi da una parte di me che amavo particolarmente, anche se l’avevo appena e assai rapidamente conosciuta.
Davanti a me, per tutto il viaggio, l’immagine dell’orologio, simbolo della routine, che mi aspettava nel cassetto del comodino, a Londra.

Londra, di nuovo
L’orologio o meglio: quello che rappresentava, mi hanno obbligato a riaprire l’ambulatorio la mattina alle otto e mezza di due giorni dopo, giusto il tempo per riprendermi dalla stanchezza del viaggio e riabituarmi all’aria inquinata e umida di Londra.
Mi sono trovato subito di fronte alla mia vecchia realtà: una serie di persone stressate e nauseate dal vivere, ma senza rendersene conto, tutti mali più psicologici che fisici, era la testa che non li aiutava, di conseguenza il resto del corpo si ribellava.
Certo, non proprio tutti erano così, anche se la maggior parte lo era, ma quella mattina mi sono parsi particolarmente insopportabili.
Ho pensato che era normale, le ferie danno sempre quell’impressione spaventosa quando finiscono, specialmente se sono stati giorni belli ed emozionanti come quelli che io avevo passato.
Dopo una giornata troppo deprimente per essere vera, mi sono consolato infilandomi nel mio appartamentino, felice di essere solo, finalmente, senza nessuno che si ritrovava, come per caso, malato delle malattie della modernità.
Mi sono preso una cassetta video di un documentario sulle isole Figi e mi sono messo in poltrona a vedermelo con un panino e una birra.
A letto mi sono rigirato un po’ prima di prendere sonno, non so perché mi è venuto in mente Paco, che era così contento di scendere in città per fare le sue commissioni, forse perché era l’ultima immagine di quel mondo nascosto, forse perché la civiltà, vista una volta ogni due o tre mesi era più accettabile, poteva essere anche presa come una diversione.
Ho pensato che tutto quello che non abbiamo ci pare più bello. Che non si può avere tutto. Che si può scegliere solo una parte di quello che abbiamo a disposizione, le possibilità sono molte, troppe... ma scegliamo, di solito, più o meno quello che anche gli altri scelgono, è più facile.

Dopo pochi giorni avevo già incontrato alcuni amici, o gli avevo telefonato, insomma si erano ripresi i contatti.
Ero andato a trovare Carmen, la sorella di Gina, preoccupato di come avrebbe reagito, ma che invece non si era stupita per niente, né ci era rimasta male.
Ho capito senza difficoltà che la considerava una mezza squilibrata e forse era anche contenta di essersene liberata così facilmente.
Una sera, dopo le regolari otto ore di visite stressanti, invece di continuare i miei angoscianti pensieri, ho fissato un appuntamento con un vecchio amico germanico.
Avevo conosciuto Holger per caso a Agra, in India, scoprendo non solo che viveva a Londra, ma addirittura a poche centinaia di metri dal mio appartamento.
Ci siamo trovati in un pub, ci siamo bevuti le nostre regolari birre e anche qualcuna in più, abbiamo conversato piacevolmente, o quasi.
Holger è un tedescone di due metri e qualcosa, pieno di valori, cultura, interessi, lo ammiro per tanti aspetti che posso dire mi hanno insegnato qualcosa.
Ha una logica che funziona, che ordina e distribuisce bene il suo mondo attorno a lui.
A volte però è un po’ troppo radicale, limitato nei ragionamenti, più che altro per paura di cambiare.
Non ho mai conosciuto nessuno più avaro di lui, diventa rapidamente miserabile, se si parla di soldi.
Il nostro pub preferito, dove c’incontriamo sempre, è uno d’epoca, abbastanza tranquillo, specialmente la sala per i non fumatori, è un oasi di pace. Se è per parlare, dice Holger, è meglio farlo senza dover gridare.
“Caro Giovanni, se mi permetti, io credo che non abbiamo scelta, noi che siamo nati in città, che abbiamo vissuto crescendo insieme alla tecnologia...”
“Lasciami dire che io sono nato in campagna, io, se è solo per questo.”
“D’accordo, ma voglio dire noi cittadini dell’era moderna... non possiamo tornare indietro, siamo troppo abituati alle tante piccole cose che ci aiutano nella vita quotidiana... capisci, siamo troppo affascinati dalle nuove invenzioni... prendi per esempio quell’affare che ora con il computer si può comunicare vedendo l’immagine in movimento della persona con la quale stiamo parlando, non è una cosa incredibile?”
“Senza dubbio, ma allora ti chiedo: si può vivere senza di questo, senza televisione, senza computer, il cellulare... senza il grattatore di formaggio a pile?”
“No, noi no. Forse quel tuo amico... Baggio...”
“Biagio, si chiama Biagio.”
“Sì, quello... insomma, lui c’è nato là in mezzo, è facile per lui dire che facciamo schifo, già suo padre aveva delle difficoltà differenti...”
“Capisco quello che vuoi dire.
Forse ero d’accordo anch’io con te, fino a un poco di tempo fa, la differenza tra me e te è che io là ci sono stato ed ho visto tutto con i miei occhi.
Ma quello che voglio dire è che chiunque può tornare a vivere anche in una maniera così, completamente fuori dal mondo, ma piantati bene nella terra... come non lo siamo mai stati.
Biagio ha viaggiato ed ha vissuto anche fuori di là, se è per quello, per vedere come era il mondo esterno, ha fatto la prova e la sua convinzione si è rafforzata nel tempo e nello spazio, devi vedere che fenomeno di persona che è, devi parlare con lui: è un esempio di compostezza, saggezza, filosofia... anche storia, del mondo moderno, come di quello antico, ne sa più lui di noi...”
“Sono convinto, ma ci ha vissuto come ci abbiamo vissuto noi, o si è solo dato il lavoro di attraversarlo per un motivo accademico?”
“Non c’è bisogno di passare degli anni abbrutendosi in formicai per capire che esistono realtà migliori... spazi più ampi, libertà più libere... ”
“Ma allora perché tu sei qui? Perché stai perdendo il tuo tempo in questa maniera, se lo spazio qui è così stretto?”
“Prima di tutto questo tuo ‘perdere tempo’ non è una espressione che mi piaccia molto, pare che, nel mondo moderno, il tempo deve essere usato per produrre ricchezza o qualcosa che ha a che fare con i soldi.
Il detto ‘tempo è denaro’, significa che noi dobbiamo approfittare di più e meglio di esso, ma non per generare denaro, ma solo per mantenere il contatto con noi stessi e indirettamente con la natura. L’unica felicità possibile è quella, ora tutto questo mi è chiaro.
Quello che non mi è chiaro, quello che sto cercando di capire, è che cosa sto facendo ancora qui.
Il fatto è che prima non ci pensavo in maniera cosciente, forse perché non conoscevo alternative, ma ora che so che ne esiste almeno una, che conosco un modo diverso di vivere, mi sembra più difficile stare qui, ti dico la verità, c’è un conflitto in me: mi chiedo se non devo piantare tutto e tentare.”
“Ma non dire cretinate, torneresti qui con la coda tra le gambe , hai detto che ti danno un mese di prova? Bene, non arriveresti neanche a terminarlo, te lo dico io. Ora devi lasciare solo passare qualche giorno e poi vedrai che tutto ti sembrerà di nuovo normale, ti stai solo riambientando, anche io quando sono andato a Sidney, l’anno scorso...”
“Ma quale Sidney? Ma fammi il piacere! A Sidney si vive esattamente come qui a Londra, vuoi capire che la realtà di cui ti parlo è totalmente calma, tranquilla, riflessiva, finalmente e di nuovo a misura d’uomo?
Qui si vive come automi, conosci il motto del consumismo: ‘Dateci tanto superfluo che faremo a meno del necessario’ ?
Bene, ti rendi conto che stiamo vivendo sempre più da soli, davanti ad una televisione e ad un computer portatile, tentando di mantenere il cellulare con la spalla vicino all’orecchio, mangiando uno schifo di Big Mac e pensando ossessivamente a tutte le altre cose che dobbiamo fare prima che chiudano gli uffici?
Ti sei dato un’occhiata intorno? Ti sei accorto che le persone, da un po’ di tempo, non comunicano più? Che quanto più conosciamo persone che vivono in questa maniera stressante e stressata, tanto meno abbiamo voglia di conoscerne?
Ci stiamo isolando, stiamo sopportando questa maniera di vivere perché l’abbiamo creata noi e ci siamo cresciuti dentro, ma possiamo anche aprire gli occhi! Porco cane! O no?”
“Ma che dici? Ma che stai farneticando ? Non stiamo comunicando io e te? Non stiamo spontaneamente esternando i nostri sentimenti?”
“Certo, stiamo comunicando, ma quante persone conosci con le quali comunichi veramente? E poi, perché noi, per ‘comunicare’ dobbiamo arrabbiarci? Oppure, e allora è anche peggio, siamo indifferenti... distanti, parliamo perché dobbiamo farlo, ma non perché proviamo soddisfazione!
Allora io ti chiedo: quando è che ci mettiamo a parlare anche delle cose belle della vita? Quando è che qualcosa di positivo ci esce dalla bocca? Secondo te, perché parliamo sempre male di tutto e di tutti?
Perché non siamo soddisfatti!
Dentro di noi pensiamo che sia normale, perché siamo abituati a questo tipo di cose, quando andiamo in vacanza in pratica facciamo tutto quello che non possiamo fare durante l’anno, ma lo facciamo quasi con lo stesso sistema con cui lavoriamo e anche questa è una schiavitù, perché non ci rilassiamo mai, la nostra giornata è una lotta e può solo peggiorare, per come sta andando il mondo occidentale... che quell’altro non lo conosco, ma in oriente, perlomeno, hanno la religione che li aiuta a meditare, anche noi avremmo bisogno di alcune pause, ma il nostro ritmo è impietoso.
Prova ad ascoltare la conversazione qui al tavolo accanto, il loro lavoro è orribile, i colleghi sono tutti degli idioti, il governo fa vomitare, Londra in particolare si è deteriorata molto, ma il mondo in generale è anche peggio, la vita, in sostanza è una scala di pollaio .
Quando è stata l’ultima volta che hai parlato con qualcuno che era veramente soddisfatto di quello che faceva? O che aveva delle prospettive per il futuro, per le quali dimostrava sincero entusiasmo e che non fossero le ferie?”
La conversazione con Holger è diventata sempre più animata, finché il pub ha chiuso e siamo dovuti tornare a casa, prima di lasciarci, dentro alla metropolitana, mi ha chiesto a bruciapelo :
“Ma dov’è esattamente che abbiamo sbagliato? Non è stato per migliorare che abbiamo creato tutto questo? O la situazione ci è sfuggita di mano?”
“Non lo so, ne parliamo un’altra volta. Ci vediamo domenica mattina per la corsa al parco, alla solita ora? Ah, non ti dimenticare di portarmi quel materiale della biblioteca.”
“Va bene, cerca di stare bene, non ci pensare troppo, vedrai che tutto ritorna come prima.”
“Spero proprio di no, ciao.”
“Ciao, a domenica.”
Da quel giorno, per quanto lo incontrassi due o tre volte alla settimana, abbiamo sempre evitato l’argomento, mi pareva che mi trattasse in maniera sempre più fredda. Anch’io, forse, lo stavo trattando in maniera differente.



Sean
Tra i clienti solo uno mi piaceva, era un ragazzo che ogni tanto provocava uno scandalo in famiglia, piccole cose, ma che nel suo ambiente perbenista erano considerate tragedie vere e proprie.
Allora sua madre, che mi conosceva da quando vivevo a Londra e che, non so perché, mi stimava molto, me lo mandava, forse solo per chiacchierarci.
Né lei né suo marito riuscivano a parlare con lui, o forse, ho anche pensato, non avevano particolare vocazione per conversare con nessuno.
In fondo facevo un lavoro di psicanalisi, con lui, anche se non sapevo nemmeno dove mettere le mani, ce le mettevo lo stesso.
Sean era un ragazzo intelligentissimo, si sentiva frustrato facendo la vita che faceva, nessuno meglio di me lo poteva capire.
Purtroppo i genitori non aiutano, in alcuni casi. Lui avrebbe avuto bisogno di lasciare la scuola e la famiglia almeno per un po’ di tempo, partire e tentare la sorte fuori di lì, mettere a frutto finalmente quel meraviglioso cervello che gli avevano dato, ma che non poteva esprimere senza che lo censurassero.
Suonava la tromba in un gruppo di musica etnica mischiata con jazz, con il suo strumento era un asso, veramente fenomenale, sapeva anche comporre, ma non dava molta importanza al suo talento, lo faceva quasi per affogare quella sua malinconia dannata, quella mancanza che sentiva di tutto e il peggio era proprio che non sapeva nemmeno di che cosa.
Insomma due mesi dopo la fine delle ferie me lo vedo arrivare più confuso del solito, più nervoso e stressato di quello che era abitualmente.
Allora ho cercato di metterlo a suo agio con il nostro argomento più facile, più a portata di mano, il calcio:
“Hai visto che roba l’Arsenal? Se continua così vinciamo campionato, la Coppa e poi... con calma, anche la Coppa dei Campioni!”
Parlare della nostra squadra del cuore, di solito lo interessava, ma stavolta lo ha lasciato completamente indifferente, anzi, continuava a guardarsi intorno senza parlare.
“Perché non andiamo a vedere la partita di semifinale di Coppa d’Inghilterra dell’Arsenal? Un mio amico mi ha dato due biglietti di tribuna, là si vede bene e se piove non ci si bagna nemmeno!”
“Con chi gioca?”
“Con il Tottenham, vedrai che lezione che gli diamo! Pensa che non hanno comprato nessun giocatore importante e l’hanno scorso si sono salvati dalla retrocessione per pura fortuna!”
Il mio finto entusiasmo non lo ha contagiato per niente, allora mi ha guardato per la prima volta in faccia, per qualche intenso secondo e poi ha detto, con voce incerta:
“Giovanni, io ho deciso di andarmene... lo so, che tu pensi che sia sbagliato, il fatto è che ho tentato di vedere le cose in maniera più filosofica, ma non mi riesce: questa volta sono determinato... pensa che prima ho provato dicendo che avrei voluto passare un tempo a Trieste da mio cugino Alfredo... solo per provare... niente, nemmeno là mi lasciano andare! Non ce la faccio più, ma questa volta me ne vado sul serio...”
“Non fare lo stupido, dove vuoi andare? Non si può partire così, senza una meta! E se vai da Alfredo, due giorni dopo tuo padre ti viene a prendere e ti dà anche qualche cazzotto !”
“Non importa, quello che conta è andarsene da qua, Londra per me è diventata insopportabile. E poi non vado da Alfredo.”
“Ma che cosa fai allora, prendi il primo aereo che parte e tenti la sorte?”
“No. Stavolta so dove andare, solo che non te lo posso dire.”
Mi sentivo responsabile per quello che stava succedendo, non ero stato io che lo avevo portato a quell’idea? Non gli avevo parlato io della libertà personale? Glielo avevo detto io che ogni essere umano ha diritto alle sue scelte!
In quel momento ho visto nel viso triste di Sean la superficie ondulata delle mie frustrazioni, oltre che delle sue, che messe insieme erano una montagna, o meglio: una catena montuosa, troppo grande per me e per lui, forse perché mi ero veramente rassegnato a rinunciare.
“Ascolta. Prima di tutto devi calmarti, è difficile prendere una decisione in queste condizioni... ma guarda qui! Ti sei mangiato le unghie fino a farti sanguinare le dita! Senti: beviamoci un ottimo tè birmaniano e ragioniamo, va bene?”
“D’accordo, ma tanto me ne vado lo stesso.”
Un mio piccolo trucchetto era un poderoso tè della Birmania, che aveva il potere di calmare menti agitate, lo avevo comprato nelle vacanze di due anni prima e ora me lo facevo spedire da una ditta di là, più o meno ogni sei mesi.
I miei clienti ne avevano un grande bisogno, ed io anche, più che altro per causa loro, anche se non erano direttamente i colpevoli.
Sean si era seduto ed io anche, uno di fronte all’altro, su due poltrone, avevo messo una musica rilassante, ci siamo bevuti il tè e lui mi ha raccontato il perché della sua decisione, che era più o meno quello che mi aspettavo: avevano di nuovo litigato in famiglia.
I suoi erano troppo possessivi, persone che parlavano poco e lavoravano come schiavi, lui era figlio unico e si cominciava a rendere conto da dove venivano tutti i suoi problemi, le sue insicurezze, considerare che era più fortunato di tanti altri non lo aiutava.
Ho cercato di fargli capire che doveva gratitudine ai suoi genitori, che poteva vincere la sua battaglia con il tempo, ma non poteva fuggire.
Lui annuiva, ma non era troppo convinto.
Gli ho dato dei calmanti omeopatici, ho suggerito che, per potere vincere la sua ansia, doveva impegnarsi in qualcosa di costruttivo, dedicarsi alla pratica della tromba, per la quale era molto dotato, ma non aveva molta voglia di esercitarsi.
E poi perché non fare un poco di sport?
Gli ho promesso che lo avrei portato a giocare a calcio con noi, il sabato pomeriggio, eravamo tutti più vecchi e lenti, avrebbe imparato presto, anche se non aveva mai giocato. Sua madre non glielo aveva permesso, avevano paura che si rompesse una gamba, ma li avrei convinti io...
Sua madre era indonesiana, perciò lo chiamavo lui ‘cinesino’, scherzando e facendo ben attenzione che i genitori non mi sentissero, suo padre era un italianone del Friuli, duro come le pietre delle Alpi Giulie dove era nato e cresciuto.
Insomma, quando è uscito sembrava più tranquillo, o forse era quello che io volevo credere. Ha detto sorridendo che avrebbe pensato alla mia proposta, non mi sono preoccupato più di tanto, altre volte aveva detto che non li sopportava più, che sarebbe scappato, ma lo avevo sempre convinto che col tempo le cose si sarebbero aggiustate.
Rimasto solo, ho guardato l’orologio a pendola antico, proprio mentre ha cominciato a suonare le sei, mi sono messo alla finestra facendo passare stancamente gli occhi sul grigiore del cielo e dei palazzi di fronte.
Ho pensato che quello che dicevo a Sean non era giusto, quello che doveva fare era, invece, proprio quello: scappare.
Ma dove?
Eppoi come facevo a consigliargli una cosa del genere, anche se ero convinto che era la cosa migliore per lui?
E come si fa ad avere pazienza a diciotto anni? Mentre gli dicevo di comportarsi da saggio pensavo a come doveva vederla buia e senza fine, la pazienza, l’attesa... per lui era tutta una tragica perdita di tempo... e lo capivo.
Questa maniera d’agire, nella nostra più adulta immobilità, aspettando gli eventi, per quanto volessi dipingerla come degna e matura, era una stupidaggine!
La malinconia mi ha preso, di nuovo, ma in una maniera strana, mi pareva che non diminuisse, anzi, ogni giorno che passava era peggio.
Ero stato meno di un giorno a Calogero City, ma ne sentivo già una mancanza fisica.

Sogno e memoria
Quel giorno, più tardi, sono andato a fare la spesa e sono tornato a casa, ho cucinato, poi ho cenato, colla televisione accesa, perso in mille realtà concentriche, gli occhi persi nel vuoto.
Dopo aver visto un documentario in video sulla Grecia e la nascita della filosofia occidentale, mi sono messo sul letto a meditare.
Prima di dormire, da un po’ di tempo, facevo una meditazione, mi trasferivo colla mente nel mio angolo tranquillo, respiravo a fondo e cercavo di rilassarmi.
Questa volta, e come sempre negli ultimi tempi, mi sono trasferito nello spazio e nel tempo, fino ad arrivare a Calogero City, è chiaro.
Ho passeggiato un po’ per le stradine ripide, pioveva ed io mi bagnavo, camminando con le mani in tasca, guardavo gli animali pascolare e i barbuti che tornavano a casa dal lavoro, mi sono messo pure a ballare una danza propiziatoria sotto le infinite e bianche gocce cadenti.
Io, che non ho mai ballato in vita mia.
Nelle mie meditazioni andavo però, quasi sempre, a sdraiarmi sulle pietre là in mezzo all’anfiteatro.
Anche quella volta, quando ha smesso di piovere ci sono andato, a vedere gli olivi là intorno ondeggiare alla brezza marina, il cielo di nuvole in movimento, sullo sfondo azzurro, scorreva sempre... lassù.
Non so quanto tempo ci sono rimasto, ma un bel po’.
Quel giorno, per la prima volta e dopo, tante altre, ho passeggiato senza fretta sul vasto altopiano della memoria, tornando a quel mattino quando, verso mezzogiorno, dentro alla locanda di Aggatta, ascoltavo, con la coda dell’orecchio, le cose che i francesi novelli pittori, Eugene e Claude, dicevano.
Avevo ammirato a lungo il taglio netto di luce che entrava dal grande portone aperto, dalla parte superiore arrotondata e che faceva muovere il pulviscolo nell’aria come se quella fetta illuminata fosse l’unica a contenerne e il resto, dove non batteva la luce fosse invece meno trasparente e liquido... scuro, immobile.
Dietro alle teste dei due, in alcuni momenti delineate dai profili dei volti, scuri in quanto mi apparivano contro-luce... tutta la bellezza colorata e lucente delle cose e la lentezza magnifica di ciò che si muoveva in quella scena.
Quel dialogo senza fretta, che tante altre volte era apparso nella mia mente, ma mai come stavolta completo di tutti gli odori di fiori e di erba, con i rumori sommessi che venivano da fuori, tra cui alcune galline razzolando nel cortile e il ragliare di un asino in lontananza, l’abbaiare di alcuni cani, l’eterno canto delle cicale.
Mi sono reso conto di cosa poteva significare il vivere in quella dimensione ormai dimenticata, di quanto era bello abbandonarsi al ritmo stesso della natura, piuttosto che forzarlo.
Ho pensato che molte persone in campagna, anche in Italia, vivono ancora più o meno in quella maniera, ma hanno la televisione, il telefono, alcuni il computer e gli elettrodomestici, fanno la spesa al supermercato del paese vicino.
Allora perché non approfittare delle comodità che il mondo ci offre? Forse perché ci impigriscono, ci fanno vedere la natura quasi come un ostacolo, un nemico contro la quale dobbiamo combattere?

Là, lontano dalle città, le parole risuonavano ancora con un leggero eco, si distribuivano nello spazio e nel tempo, nei rumori e negli odori e nelle situazioni visive che ci circondavano.
Non mi ero mai reso conto di questo, prima, sempre impegnato troppo nelle attività che ero abituato a svolgere, senza tempo per questo tipo di pause contemplative.
Le parole di Eugene facevano parte ora di un cosmo composto di migliaia di particelle che non sbattevano più tra di loro, ma si muovevano armoniosamente, non stridevano né contrastavano, ma si mescolavano al resto, in maniera costante anche se irregolare, come una musica.
Ecco che la nostra conversazione è terminata con un gesto della mano di Biagio che ha chiamato i discepoli a sé, poi uscendo insieme, con un cenno di saluto quasi sincronizzato, come lenti ballerini, sono sfilati davanti ai miei occhi, contro la fonte di luce, come in un musical, sono usciti da una porta laterale.
Sono rimasto solo con quelle notizie, affascinato, sì, forse meno diffidente.
Aggatta si era messa ad ordinare le stoviglie e Gina continuava a parlare con l’indiano, le sue risatine mi parevano particolarmente vivaci, forse anche più lente e lunghe.
La musica che usciva dai rumori fatti dalle due, era un originale ritmo di armonie che si incrociavano e si alternavano, la bellezza del tutto era spontanea e involontaria, in fondo, come le prime musiche che sono esistite, le quali non erano composizioni costruite, ma i semplici suoni casuali della natura.
Ma chi poteva sentire la musica della natura nel mezzo del rumore della città, e, anche se e quando possibile, chi ne aveva il tempo? E chi si sarebbe ricordato che era una cosa non solo possibile, ma anche bella e della quale abbiamo bisogno?
Però il mondo intero pareva camminare più lentamente, le impronte erano più profonde, a Calogero City, tutto sembrava più vero, meno superficiale e sicuramente meno artificiale.
Mi sono ricordato anche che, per quanto paradossalmente, avevo avuto la sensazione che tutto quello che stavo vivendo lì, in quel momento, era un sogno e che solo a Londra sarei tornato alla realtà, solo che non avevo ancora idea se era il sogno o la realtà che avrei voluto vivere.
Uscito anch’io al sole caldo, come in un lieve stato di trance, ho attraversato le viuzze piene di erbacce tra una pietra e l’altra del pavimento.
Il termine ‘erbacce’ mi è parso allora fuori luogo, perché là facevano parte del tutto e non sembravano fuori posto, erano piante come le altre, anche se non erano state piantate dagli uomini.
Non è arroganza pensare che tutto quello che non è controllato è cattivo o sbagliato?
Gli animali domestici come cani, gatti, vacche, pecore, capre, galline e anatre si muovevano liberi tra le piante e intorno alle case.
Il sole inebriava l’aria e la pigrizia che provocava in me era qualcosa di magico, di completamente differente dallo stare al sole, nel mezzo di una strada, di una città come Londra.
Perché alla percezione benefica dei raggi, lì, si aggiungeva quella del quasi silenzio soavemente formato da tanti piccoli rumori leggeri: dal movimento e le voci delle persone, dal frusciare delle fronde al venticello, dal canto degli uccelli, animali al pascolo che comunicavano tra di loro nelle diverse maniere e gli zoccoli o zampe o ali che si manifestavano anch’esse come parti di un’unica composizione sonora..
Nessun motore scoppiettava, nessun clacson, niente martelli pneumatici... ma solo lievi ronzii di insetti, il canto delle cicale, voci calme attraverso le porte aperte, un violino da una finestra spalancata suonava delle note struggenti... di un ritorno al passato, anche se era un presente sembrava un passato, perché pareva rallentato, non aveva le connotazioni forsennate del presente, poiché si muoveva in una dimensione molto più naturale dell’unico tipo di attualità che io conoscevo.
Mi ero seduto sulla grande macina dalla quale sorgeva l’olivo enorme, nella piazzetta, da solo.
I miei pensieri fluivano come se fossero stati indipendenti dalla mia volontà, tutto sembrava un viaggio in una dimensione separata... senza droghe o additivi, stavo approfittando della tranquillità che è teoricamente da sempre a nostra disposizione e che sempre di più massacriamo con le nostre stesse mani.
Il silenzio ci spaventa. Questa è la realtà.
Abbiamo bisogno di dimenticare chi siamo e che cosa stiamo facendo?
Perché dobbiamo anestetizzarci con mezzi artificiali, quando la natura ed i suoi ritmi sono così belli?
Perché il vuoto non appartiene più al nostro quotidiano, la televisione dice che la nostra mente deve essere riempita assolutamente e non importa con che cosa, come se fosse un sacco di spazzatura.
Ed è esattamente quello che diventa... una confusione nella quale ci riconosciamo poco, perché è tutto messo alla rinfusa ... stiamo vivendo veramente la nostra vita? Oppure, di chi è, questa vita che ci dicono che deve essere così?

Fughe
Nei giorni successivi ho continuato, sistematicamente, a scappare dalla realtà che mi si presentava, comportandomi come un automa nel lavoro, cercando di cancellarne ogni calcificazione dentro la mia mente, con il rituale atto di chiudere la porta dell’ambulatorio, vivendo di ricordi e di meditazioni, incontrando, non troppo spesso, le poche persone piacevoli che conoscevo.
Qualche tempo dopo, mentre, in un pomeriggio di pioggia, alzato il ricevitore, stavo formando il numero telefonico di Sean, per ricordargli che il giorno seguente era quello della partita di Coppa della nostra squadra, è suonato il campanello.
Interrompendo la serie di numeri che stavo digitando, sono andato ad aprire. È entrata trafelata la madre di Sean, mi ha messo in mano un biglietto ed ha cominciato a piangere:


“Cara mamma, caro papà
me ne vado, ho capito che questo che sto facendo con voi, a Londra, non può essere più il mio cammino... ma solo il vostro. Per una serie di motivi, le nostre aspirazioni, per quella che è la MIA VITA, non coincidono e... visto che è mia, le nostre strade ora divergono, non è detto che in futuro non si incontrino di nuovo, ma per ora è meglio così.
Non parto senza sapere dove andare, ho una meta, un luogo nel quale so che mi aiuteranno e mi permetteranno di migliorare me stesso, di imparare nella maniera che io preferisco, le cose che più mi piacciono, il che non è possibile fare con voi.
No, non vado da Alfredo, che lì mi trovereste subito, ma in un luogo lontano, ma non troppo, dove ci sono persone che mi faranno sentire meglio, non posso dirvi come ho conosciuto questo luogo, ma so con certezza com’è e dove si trova. Non mi cercate, tanto non mi troverete, vi manderò notizie appena potrò.
Un abbraccio
Sean”

La signora Shoin era in uno stato di disperazione tale che non riusciva nemmeno a parlare, piangeva e basta, con dei suoni acuti che in un altro contesto mi sarebbero sembrati comici.
Mi sono sentito male perché, anche se i suoi metodi con Sean non mi piacevano, lei era una donna di valore, che mi aveva aiutato quando ero arrivato a Londra.
Mi sono anche sentito colpevole perché, in un certo qual modo, ero stato io ad aprire orizzonti nuovi a quel ragazzo, ne aveva bisogno, ma poi, risolti alcuni interrogativi, chiarite con se stesso certe situazioni, si è sentito ancora più in gabbia, finché era arrivato a quel gesto.
Se quella donna non riusciva a parlare, tanto era disperata, anche io non ho saputo bene che cosa dire.
Le ho offerto un caffè, le ho detto delle frasi di circostanza, scarsamente convinte e dolorosamente inutili.
Dentro di me c’era una confusione, se non forte come quella della madre di Sean, molto intensa per quello che mi riguardava.
Fatte le promesse di un ‘qualsiasi aiuto’ di cui poteva avere bisogno, di avvertirla se sapevo o sospettavo qualcosa, la signora Shoin si è congedata.
Sono rimasto da solo con i miei biglietti per la partita e un ventaglio di interrogativi.
Da una parte ero contento che lo avesse fatto, ma dove poteva andare uno come Sean, di punto in bianco , con le sue poche conoscenze e le rarissime occasioni avute di uscire dal suo quartiere?
La sua lettera di addio, però mi aveva impressionato, come aveva fatto ad essere così saggio quel giovane, forse attraverso la sua sofferenza?
Ho messo su il cd che Sean aveva inciso, dove suonava in un incredibile duetto con un violoncellista suo amico. C’era una canzone formidabile che avevano composto insieme, dal titolo ironico e indicativo, di come si sentiva Sean, prigioniero di un mondo che non aveva ancora potuto vivere, in maniera pratica e nel quale era ansioso di vederci più chiaro.
Si chiamava ‘Musica strumentale per sordi allegri ed insensibili’, per la quale, lasciatemelo dire, avevo pianto di commozione, la prima volta che l’avevo ascoltata, scoprendo che non ero sordo, né allegro, né tantomeno insensibile... e nemmeno Sean lo era, né lo voleva diventare.
Avevo pensato che la tromba era il veicolo per uscire dalla sua crisi, ma anche che non sarebbe potuto avvenire lì, in quelle condizioni, aveva fatto bene, quel dannato, a scapparsela.
Da un altro angolo, lo invidiavo o quasi, lasciatemelo dire, perché aveva rotto con tutto e tutti, avrebbe avuto delle difficoltà, chi non ne ha? Ma sarebbe sicuramente cresciuto come persona... o forse, meno probabilmente, gli sarebbe andata male, ma almeno ci avrebbe provato, porco cane!
Provarci è una cosa che non tutti sanno fare e tanti aspettano la vecchiaia inerti e senza saper trovare la forza di cercare un senso alla loro vita.
Ebbene sì, lasciatemelo dire, ci sono persone che non hanno il coraggio di partire e lasciare una realtà che gli fa sempre più schifo.

Quella notte ho tentato di addormentarmi invano, per ore ed ore.
Mi sono alzato ed ho mangiato un panino con la pancetta affumicata e la maionese, ci ho messo anche una foglia d’insalata per compensarne la tossicità; ho bevuto un bel po’ di un vino rosé che mi avevano regalato.
Addormentatomi quasi come svenendo , ho fatto di nuovo ‘il sogno del pesce’, un incubo che facevo spesso, che mi terrorizzava e non sapevo perché.

Ero un grande pesce che nuotava in un canale, sempre nella medesima direzione, le acque erano scure e il canale sebbene fangoso aveva un letto regolare, più profondo nel mezzo, progressivamente ad abbassarsi sui lati.
Nuotavo con una certa fretta, ma non sapevo dove andavo, pensavo che dovevo saltare fuori, ma non ne conoscevo le conseguenze, incontravo altri pesci che nuotavano tutti nella mia stessa direzione, alcuni più grandi, alcuni più piccoli, avevo con loro solo il contatto della pelle squamosa che strusciava contro la mia, quando sbattevamo nell’acqua scura, a volte ci sfioravamo e la sensazione era ugualmente spaventosa.
Nessuna comunicazione, nessun idea di che cosa stavamo facendo, la nostra era, pareva, una condizione regolare e continua, senza possibilità di sbocco, ma nuotavamo in quella stessa direzione, nell’oscurità di quelle acque limacciose e scure, perché era l’unica cosa che sapevamo fare.
Erano ormai anni che questo sogno si ripeteva, non ricordo da quanto tempo, nemmeno quante volte lo avessi fatto, se aveva qualcosa a che fare con la realtà che attraversavo durante il giorno.


Tocca a me
Mi sono svegliato bagnato... anche se ero stato pesce mi pareva anormale, in verità ero semplicemente sudato.
Una strana sensazione: a parte il mal di pancia e di testa, ultimamente regolari, c’era qualcosa in più, che non sapevo riconoscere.
Ho guardato l’orologio ed ho visto che erano le dieci, se la prima visita, come sempre, era fissata alle otto, ne avevo già perse quattro o cinque...
I clienti avrebbero protestato, nonostante questo non mi sono messo fretta.
Ho staccato il telefono e ho cancellato, senza ascoltarli, i vari messaggi registrati nella segreteria, poi ho fatto colazione.
Ho cominciato a preparare la valigia, all’inizio senza essere pienamente cosciente che quel meccanismo, che cercavo d’innescare da mesi, era entrato in azione da solo.
Infatti, quando ho cominciato a rendermene conto, ho sostituito la valigia con uno zaino.
Poi cercando di razionalizzare, ho rimesso a posto le scarpe di cuoio ed ho messo solo calzature di tela o da ginnastica, comunque con suole di gomma.
La mia testa correva dentro a se stessa, le riflessioni obbligate erano tante e sconclusionate, come potevo scapparmela senza perdere tutto quello che avevo?
Ho messo una musica esoterica, per calmarmi. Ma l’ho tolta subito dopo perché invece faceva l’effetto opposto.
Generalmente non è una cosa da farsi, la mattina, ma ho bevuto una generosa sorsata di grappa, poi un’altra.
È allora che il mio corpo ha cominciato a muoversi di pari passo con i pensieri.
Per mantenere la velocità mi sono fatto ancora un bel po’ di caffè, aggiungendoci ancora grappa, ogni tanto.
Nella crescente eccitazione ho realizzato che non sarei riuscito a partire in mezz’ora, come avrei voluto, magari per non rischiare di cambiare idea.
Allora mi sono impegnato di più nello sveltire le pratiche, accorgendomi, ogni minuto in più che passava, che ci sarebbe voluto più tempo ancora.
Allora ho fatto le cose che potevo fare subito: prima di tutto sono uscito e sono andato a chiudere il conto in banca, poi ho cambiato buona parte, dei miei scarsi risparmi, in dollari.
Dopo ho pensato che Calogero City avrebbe potuto anche rifiutarmi, che avrebbe potuto già aver trovato un medico.
Il cervello scoppiava di pensieri concatenati, ragionamenti concentrici, improvvisamente la mia decisione era stata presa ed ogni secondo in più a Londra mi faceva sentire ansioso di scappare.
Però dovevo riuscire a muovermi in maniera cosciente, fare ogni piccola cosa calcolandone il risultato e le conseguenze.
È sorprendente scoprire che i dettagli in una situazione del genere sono molti, troppi, quasi infiniti.
E lasciatevelo dire: niente irrita di più che un’attività che necessita particolare calma.

Dopo due giorni di frenetici e convulsi movimenti, non sapevo più quante volte avevo fatto e rifatto il bagaglio, ma ero sicuro che quella attuale non era ancora la versione definitiva.
Dopo quarantotto ore di grandi dubbi e pesanti sogni, in seguito a ripetute bottiglie di vino, che avevo in casa e dovevo nel modo più degno liberarmene... ho concluso che, se avessi dovuto sistemare ogni cosa, da solo, avrei avuto bisogno di mesi.
Allora ho dato l’incarico a Albino, un mio amico sardo scuro come il carbone. Gli ho fatto una delega , abbiamo concordato una percentuale sulle vendite del mobilio e degli oggetti che sarebbe stata sua.
Avrebbe dovuto aspettare un mese, quello della mia eventuale accettazione, di norma, come cittadino di Calogero City, gli avrei fatto sapere, insomma, per lettera o per telefono.
Poi ho pagato l’affitto per due mesi anticipatamente.
La mia sistematica di tipo burocratico dettava ancora legge, la resistenza a liberarmi dei valori materiali era logica e allo stesso tempo mi faceva rabbia, il mio raziocinio diceva che, forse, malauguratamente, avrei dovuto ritornare lì e ricominciare, che nella vita non si sa mai...
Ma l’entusiasmo cresceva quanto più i fili da marionetta diminuivano, quanto più che confermavo a me stesso che stavolta avrei lasciato veramente il teatro.
Lasciatemelo dire: mi sono sentito finalmente libero solo quando, vestito come un incallito turista alternativo, quasi schiacciato dal mio enorme zaino, alla stazione del metró, ho comprato il biglietto per arrivare alla stazione principale, dove c’erano anche i treni.

Il viaggio
Il viaggio è stato come una progressiva liberazione dai pesi del passato, dalle stratificazioni del tempo, dolorose o no, di una vita sempre più insoddisfatta, di progressiva e più cosciente ansia... comunque, fino a quel momento, piena di alti e bassi.
Mai mi ero sentito libero come in quelle ore, nelle quali la meta mi pareva l’unica possibile e desiderabile, la sola che avevo veramente voluto.
La natura mi accompagnava, fuori dal treno in corsa, progressivamente perdendo le nuvole ed aprendo i cieli, al mio passaggio, un po’ come le acque del Mar Rosso nella Bibbia.
Entrando nello stivale italiano ho avuto anche la soddisfazione dell’azzurro più vivo, era mattina presto e bevendo un caffé ho guardato le tante, piccole e bianche nuvolette che pascolavano come pecore qua e là.
Ho scelto di percorrere in lungo la penisola fino a Brindisi, poi di prendere un traghetto: passare dalla Jugoslavia, con la guerra in corso, non mi pareva prudente, per me era particolarmente importante arrivare a destinazione.
Sulla nave mi sono sentito leggero, sereno, fiducioso... guardavo il mare cominciando a sentirmene parte, in quanto porzione di un mondo primordiale e meraviglioso, alla quale, vivendo a Londra, avevo rinunciato per dieci anni.
Se l’acqua è, in sé, una terapia, il mare ha tanto di simbolico quanto di fantastico, è una grande forza che si muove insieme ad altre, il vento, per esempio, può renderlo rabbioso e minaccioso... o liscio e calmo come un’olio, la luna determina le maree e poi ci sono altre cose di questo genere, o di altri generi adiacenti, ma sono tutte tremende forze della natura. Lasciatemelo dire.
Quando ho visto la terra profilarsi, come una striscia grigia all’orizzonte, ho quasi gridato dalla gioia... e avrei anche potuto farlo, ero da solo sul ponte, ma il blocco mentale della moderna società metropolitana, dove nessuno si manifesta e tutti controllano e si sentono controllati, è stato più forte.
Comunque ho gridato dentro di me e ho pensato che era già un miglioramento.
Il viaggio continuava, però e ho cominciato la prima parte in autobus, potevo cominciare ad usare il greco che avevo studiato, senza molta convinzione, una mezz’ora al giorno.
All’inizio è stato catastrofico, riuscivo a comunicare con più successo in inglese o in italiano, ma il mio entusiasmo stava crescendo e non me ne sono sentito deluso.
Forse a Calogero City avrei avuto bisogno di parlare in greco, forse no, ma parlare in quella lingua, idioma discendente da quello parlato da coloro che hanno iniziato la civiltà occidentale, per quanto poi degenerata, mi faceva sentire al passo con le mie intenzioni, coerente con il discorso di ritorno indietro nel tempo di Biagio.
Seduto da solo su una panchina di pietra, aspettando il traghetto , con le spalle alle colline arrotondate e grigie, lo sguardo perso nell’immensità del mare, della terra di isolette appena delineate all’orizzonte e del cielo a strisce di vari colori, finalmente in una dimensione di sintonia con le forze più antiche, ho pensato a quanto è importante una prospettiva, nella vita.
Noi umani abbiamo troppo bisogno di immaginare il futuro come qualcosa di migliore, dobbiamo sforzarci di portare avanti del nuovo e anche del positivo, più o meno con continuità, per sentirci bene, oggi, in funzione di un domani, nel quale staremo facendo i nostri involontari passi mentali, camminando già un poco attraverso il dopodomani e così via... e via e via.

Il secondo traghetto che ho preso era più piccolo e quasi vuoto, era novembre e il turismo era praticamente zero.
Il vento è diventato fortissimo, il cielo grigio e sempre più minaccioso.
L’autobus, posati i miei piedi sulla terra dell’isola, poche ore dopo, era un romantico catorcio blu.
Dai vetri sporchi si vedevano appena strane sagome là fuori, s’indovinava una natura riarsa, olivi bassi ma muscolosi.
Nell’ultima parte, di questa penultima tappa, di dodici sofferti chilometri, eravamo solo io e l’autista, abbiamo cominciato a conversare del più e del meno.
Quando siamo arrivati a destinazione, un altro porto ventoso, ci siamo bevuti un Ouzo insieme.
Mi ha parlato di come la vita lì, su quell’isola, era solitaria e lenta, nei mesi più freddi, ma di come tutto si riempiva e si agitava d’estate.
Ho preso il secondo traghetto, rugginoso e antico, poca gente e tutti personaggi locali, silenziosi, il vento era sempre più forte.
Qualche ora dopo ho preso l’ultimo autobus, che stavolta era quasi moderno, dentro tre persone: l’autista con enormi baffi, una vecchia magrissima, tutta vestita di nero ed io.
All’arrivo nella città più vicina a Calogero City, della quale non posso dire il nome, mi pareva che già capivo e parlavo meglio, nonostante la stanchezza.
Non avevo dormito molto ed erano passati, tra pause di attesa e varie tappe di viaggio, quasi tre giorni.
Anche se esausto, dopo uno spuntino , mi sono messo subito lo zaino sulle spalle e sono partito a piedi, barcollando un po’, ma anche e finalmente orgoglioso di me stesso e di quello che stavo intraprendendo per il bene della mia salute mentale e fisica.
Mi sono diretto verso le colline che da là sotto erano solo sagome grigie con tonalità violette ma progressivamente troneggiavano , poi, camminando in loro direzione, avvicinandosi, sempre più verdi e apparentemente disabitate.
Il sole entrava ed usciva da una nuvolaglia minacciosa, mi mettevo e mi levavo il k-way . ‘Senza’ avevo freddo per via del vento, ‘con’ sudavo come un ciccione .
Non conoscevo i viottoli giusti e nemmeno quelli sbagliati, mi pareva tutto differente a piedi, è chiaro che su una spider il mondo si presenta in un’altra maniera.
Ho dovuto orientarmi ad occhio, trovandomi quasi subito di fronte ad un fiume profondo e dovendo camminare un bel po’ verso un ponte che immaginavo di ricordare sulla mia destra, ma che invece, dopo vane ricerche, chiesta poi informazione ad un contadino che stava lavorando la terra con una grande zappa, ho scoperto che era esattamente dall’altra parte.
Passato il ponte, era quasi notte, in più ha cominciato a piovere, aumentando progressivamente di intensità, fino a raggiungere un comportamento regolare e abbondante, con l’evidente intenzione di mantenerlo poi per quel lasso di tempo che poteva essere il correre di varie mezz’ore.
Sono entrato nella boscaglia ed ho cominciato a salire... ma la pendenza era diventata un largo ed impetuoso torrente montano.
Non potevo nemmeno mettermi ad aspettare che smettesse di piovere senza avere un riparo, per potere almeno dormire, o mangiare qualcosa, per poi riprendere la camminata in un momento più propizio.
Finalmente ho sentito, sorpreso, la mia voce reagire sonoramente, tanto per farsi coraggio, per resistere all’ultima prova prima di arrivare alla meta, al premio, forse alla felicità.
La pioggia cresceva e con essa le mie grida, in mezzo alla tempesta, si perdevano nel fracasso denso di vari, forti e ripetuti rumori di natura arrabbiata.
Erano urla che io stesso non capivo, forse erano anche per ricevere aiuto, ma credo che la loro funzione fosse più che altro esortativa, per me stesso, d’incorraggiamento... visto che le difficoltà erano tante e la stanchezza faceva piegare le gambe, mi trovavo sempre più spesso seduto in grandi pozze d’acqua, senza nemmeno più il fiato per imprecare.
Mi è venuta in mente allora la storia di Calogero e del mulino diroccato e la sua macina nella quale era cresciuto quell’enorme olivo, li aveva trovati nel mezzo della tempesta ed erano serviti ad aiutarlo.
Poi li aveva usati come base per iniziare la sua vita là.
Come aveva detto Paco, la pioggia in Grecia non era molto comune, allora quello, come era stato a suo tempo per Calogero, doveva essere un segno degli dei... lo dovevo prendere come una cosa positiva, un veicolo che serviva a condurmi a cose che non conoscevo ancora.
Alla fine, senza preavviso, l’acqua ha smesso improvvisamente di cadere. A questo punto il freddo è diventato il padrone della situazione, mi sono cambiato ed ho fatto un po’ di salti sul posto per scaldarmi, ho mangiato dei biscotti bagnati e un pezzo di cioccolata bianca.
Ho cercato poi qualche riparo per dormire, visto che Calogero City pareva ancora perduta sulle colline, per il momento lontana ed introvabile.
Ho provato a gridare un po’ , ma come era logico aspettarsi, non ho avuto nessuna risposta.
Così ho lasciato lo zaino in terra e ho camminato in perlustrazione, facendo dei raggi ideali dal baricentro di una zona le cui dimensioni era difficile stabilire, ma al quale ritornavo sempre e dal quale poi ripartivo. Insomma ho cercato, invano, per non so quanto tempo, per chissà quanto spazio.
Quando le mie forze mi hanno avvisato che mancava poco alla fine, non ci ho creduto ed ho cercato ancora un po’ , la mia esperienza diceva che non siamo abituati ad usare tutte le nostre risorse.
Per contro, tanti saggi e filosofi hanno dichiarato, che, in certi momenti, ogni sforzo è vano.
Comunque, tirata, dal dentro verso il fuori, questo ultima fatica suprema, mi sono messo addosso tutto quello che avevo di indumenti asciutti, ho mangiato golosamente le ultime ‘Marie’, gonfie di acqua, ma insaporite dal sapone scioltosi nella tempesta, poi mi sono abbandonato su una pietra piatta e ho dormito, non so come, ma fino alla mattina.
Le canzoni degli uccelli, anche se scelte dal meglio del loro repertorio, forse pure eseguite col massimo dell’impegno, non mi hanno fatto sentire meglio, ma almeno non pioveva ed era giorno fatto.
Alzata la testa dallo zaino, ho visto che il cielo era ancora grigio e che non si vergognava di promettere nuove intemperanze, avrei voluto cancellare quella sensazione, passare a qualcosa di migliore, ma non potevo.
Mi sono sentito intorpidito, debole, anche se sapevo che quella era solo una situazione momentanea, lasciatemelo dire, non avevo idea di quanto sarebbe durata, ma più di questo il peggio era che non avevo niente da mangiare... e la debolezza mi aveva già invaso il cervello, anche il cuore, mi pareva, che pompasse battiti stanchi ed irregolari.
Questo che sto scrivendo ora è un pensiero lineare, un ragionamento compiuto, che mi era impossibile, là, in quel momento.
Lo stato fisico generale spesso influenza decisivamente quello nervoso e di conseguenza quello mentale.
L’uomo è una macchina perfetta, dicono, ma il guaio è che può guastarsi più o meno improvvisamente, sempre per motivi logici, d’accordo, ma che al momento è difficile localizzare, specialmente se questo deve essere fatto da quello stesso uomo che sta soffrendo quei piccoli scherzi della natura che, in quei determinati istanti, sono tanto poco divertenti quanto ingannevoli.
Non so come ho avuto l’ispirazione, allora, di pensare agli esploratori perduti in mezzo ai ghiacci dell’antartide, le cui situazioni erano state certo peggiori della mia... e la loro sventura dannata mi ha fatto sentire meglio.
Vagando nei dintorni senza il peso dello zaino, ma con le spalle incurvate dalla stanchezza accumulata, perso nel mezzo di sogni diurni ma assai scuri e torbidi... d’improvviso mi sono fermato dentro un raggio di sole ribelle, che forava come un miracolo le nuvole.
Là in mezzo mi sono crogiolato ad occhi chiusi a quel calore piacevole, cercando, chissà come, di scaldare le mie ossa fredde. Poi, giratomi per caso dal lato da dove ero venuto, ho visto una strana e repentina interruzione degli alberi, che poi, un bel pezzo più in là ricominciavano. Non che la mia vista fosse al massimo della efficienza, però...
Uscito dal raggio di sole, che mi abbagliava un poco, annebbiandomi la vista, avvicinandomi a grandi passi, ho visto che la visione continuava. Poteva anche non essere quello che pensavo... ma sono corso emozionato, fino all’orlo del precipizio e... l’anfiteatro delle assemblee era là in basso!
Una visione fenomenale!
Lasciatemelo gridare.
Bagnato, deserto e ventoso... ma era lo stesso che avevo ammirato, da un altro punto di vista, a suo tempo, qualche mese prima. Ci ero tornato, tante volte, nelle mie meditazioni. Senza saperlo, avevo dormito, in una notte da incubo, vicino-vicino al paesello dei miei sogni...
Allora, mentre andavo verso lo zaino, ho pensato ad Ulisse che dopo anni di peripezie, riusciva finalmente a sbarcare ad Itaca, quando nessuno se lo aspettava più.
Lasciatemelo dire, nel mio piccolo, era una situazione simile, o almeno così mi sentivo, mentre a grandi passi scendevo verso Calogero City, non sapevo cosa mi avrebbe aspettato, forse, dopo tutto quel viaggio pieno di simboli ed ostacoli, avrei dovuto perfino uccidere i Proci , dentro alla mia mente viziata dal mondo degli uomini avidi e corti di ingegno, ma per riprendere il mio regno, sembrava che ne sarebbe valsa la pena.
Sceso, con le gambe incerte, per le strade del villaggio, ancora deserte e scivolose per l’acqua e il muschio, l’ho sentita, sempre più vicina, volteggiare nell’aria, leggera ma profonda, malinconica ma piena di vita, insomma: bellissima.
Dopo quello che pareva molto tempo, ma così tanto non lo era, quell’armonia poteva essere la colonna sonora della rivoluzione delle nostre vite: ‘Musica strumentale per sordi allegri ed insensibili.’ Anche se convinto di non essere sordo né insensibile, mi sono sentito allegro, molto allegro.
Lasciatevelo dire.

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