Prima ancora, non si sa se si tratta di mesi o di anni, il Lipparelli una mattina si era svegliato da un’anestesia e si era trovato, a giudicare da come si vestiva la gente, all’inizio del medioevo o forse no, alla fine. Tutto attorno a lui suore con quei cappelli enormi e bianchi, che parlavano una specie di latino dell’epoca, lui capiva qualcosa qua e là, solo a pezzi, in maniera confusa. All’inizio pensava che fosse un sogno piuttosto realistico, solo un’illusione bizzarra, causata forse dalle iniezioni che gli avevano fatto nel sedere, che continuava a fargli male anche nel sogno. Si è chiesto perché era approdato proprio in quell’epoca, che fra le tante era stata una tra le più buie e come era possibile che tutto intorno a lui non ci fosse plastica di nessun tipo e in più gli pareva che la Scolastica, filosofia di scarsa speranza per l’uomo, in quanto singolo ma pure come umanità, dominasse ogni pensiero, parola e omissione intorno a lui.
A
livello psicologico, se la luce dava un’impressione maggiore di gaiezza anche
quando non c’era motivo, il buio al contrario faceva degenerare ogni figura e
ogni pensiero, in maniera pessimistica.
Con
il passare del tempo si è accorto che il sogno non svaniva e che attorno a lui
tutto sembrava un quadro di Bosch o Bruegel, ma al momento non si ricordava se
era il Giovane o il Vecchio, questo gli ha provocato un ulteriore smarrimento.
Ma doveva essere il Vecchio.
È
fuggito da quella specie di ospedale dove facevano ancora i salassi e usavano
le sanguisughe a scopo terapeutico, o con l’intento di liberare i letti per i
prossimi morituri.
Si
è reso conto di essere nei pressi di Anghiari, da alcuni edifici che si erano
conservati fino all’epoca moderna. Dove fu combattuta quella feroce e omonima
battaglia insomma, con addirittura un morto, tecnicamente non proprio ucciso,
ma caduto di cavallo. (La nostra parrocchia non è proprio lì vicino, ma si
tratta sempre di Toscana.)
La
gente era vestita in maniera medioevale, calzemaglie e copricapi ridicoli,
forse quasi rinascimentali. Il latino che parlavano era simile a un italiano
dialettale della Corsica, o così gli è sembrato.
Quando
si è svegliato la televisione ha annunciato con gaudio che Berlusconi era stato
nominato presidente della repubblica e Draghi gioiosamente rieletto, non si
capiva bene da chi, ma ancora come presidente del consiglio. Il Lipparelli non ha
sentito alcun letizia nel cuore, non sapeva nemmeno se doveva essere contento
di essere ritornato nel terzo millennio o no. Dicevano che lui era surreale, ma il mondo attorno cos’era?
Bastava che alla TV paventassero un pericolo, una situazione catastrofica e
quella si realizzava puntualmente.
Da questo episodio, o perlomeno
dall’ultima serie, in breve ha compreso, che gli anni che aveva da vivere erano
pochi e che la sua fottuta equazione spazio-tempo aveva cominciato a fare un
forsennato tic-tac e magari già da qualche annetto, senza che nessuno in
precedenza lo avesse avvertito.
Si trovava in bagno seduto per
un’operazione di ordinaria amministrazione, in mano un vetusto e
scolorito giornalino di Nonna Abelarda, tutt’attorno un silenzio greve.
“Per
una volta voglio dire qualcosa che nessuno potrà ascoltare, non è molto
difficile, quando penso a quello che mi affanno a mettere fuori dalla bocca per
gli altri e nessuno poi ne rimane neanche minimamente curioso. Quindi questo è
un giardino segreto, magari una piazzetta alberata, o una radura nel bosco.
Insomma dopo nessuno ci potrà entrare, forse nemmeno io, anzi spero proprio di
no.”
Il
silenzio sembrò ancora più forte e assoluto. Gli era dispiaciuto di romperlo e
subito dopo aveva taciuto. Nei secoli dei secoli, avrebbe evitato la parola,
come un virus, aveva pensato, ma era un progetto troppo a lungo termine per uno
come lui che aveva una memoria piena di buchi e di rammendi.
“Senza fretta pedalo lungo il fiume e poi tra
le viuzze sotto il castello sento i piccoli rumori e gli odori della gente a
cena, non c’è nessuno in giro. C’era un boschetto di noci fatto a triangolo proprio
qui, saranno stati almeno una ventina, non ce n’è più nessuno. Prima passo da Nozzano
Castello, dopo S.Pietro poi Nozzano Vecchia, chiedo dove si sbuca da qui a un uomo col cane, dice si va a S. Maria a Colle e io lo ringrazio, una stradina in mezzo
ai campi che non avevo mai visto.
La
campagna allo scendere del sole è il passato tuffato nel presente. Che cosa è
rimasto della Toscana di altri tempi sono forse questi ricordi mischiati, cose
che non ho mai vissuto e pure sono parte di quello che sono diventato, perché
si muovevano accanto a me, nel parlare e nel guardare degli umani, nei loro
sogni terreni. Esseri che hanno ancora il gusto per la buona tavola, senza
fretta, in mezzo a quelli che apprezzano invece di più la rapidità senza testa
del moderno, che ne so, un pesce cucinato senza riguardo a nessuno, in mezzo alla
panna e al pomodoro.”
Così scriveva, sul suo trentesettesimo scalcagnato
diario Vitt, un ragazzone di oltre cinquant’anni con un berretto a quadretti
con le battole, che non sempre sembrava quasi un
uomo, che cercava sé stesso negli altri, ma il viceversa funzionava meno, gli
altri non lo cercavano proprio.
Che la mia strada abbia avuto
l’occasione di incrociare più volte quella di Gian Paolo Lipparelli, (detto semplicemente il Lipparelli, o anche Giampaolo,) non potrei dire
che sia stata una fortuna, magari nemmeno una sfortuna, forse solo una
curiosità a livello antropologico.
“La vita fa di tutto per anestetizzarci e poi
s’incazza se siamo rincoglioniti. Ci affoga nella routine e poi ci accusa di
essere abitudinari. Ci vuole ingannare sempre e comunque e poi ci prende in
giro se ci caschiamo.”
Definiva sé stesso un antropologo della
minchia, non perché concentrasse i suoi studi sull’organo sessuale di un
siciliano, ma giacché conscio, piuttosto, della scarsa scientificità delle sue
affermazioni, quanto della caducità dei beni terreni.
In qualche modo, a noi ancora
sconosciuto, sapeva di essere una persona piuttosto autistica, ma dichiarava di
non esserlo sempre stato. Insomma era un artista e, dietro questa definizione,
si trincerava invano e lo sapeva.
-
È roba da matti!
-
Cosa?
-
Il mondo!
-
Ma su cosa basa la sua affermazione, ha forse vissuto anche altrove?
-
No, ma ho vissuto anche in altre epoche!
-
E allora?
-
Allora il mondo non era così!
-
Com’era?
-
Meglio.
-
Non mi pare.
Questo
è stato il nostro primo dialogo, avvenuto davanti alla chiesa di Balbano, la
mia parrocchia. C’era un cane a far da distratto testimone, si vedeva che non
gliene importava granché, lentamente passeggiava e a tratti odorava il suolo, a
modo suo se la godeva, insieme a quattro piccioni che becchettavano tra la
ghiaia chissà cosa. Un silenzio cristallino e surreale, qualche macchina che
passava lontana, cinguettare di uccellini sugli alberi, forse anche su tetti di
case. Attorno si avvertiva però un fetore piuttosto sullo spiacevole, forse un
colpo d’aria inopportuno aveva portato un minaccioso miasma scappato dall’
inceneritore di Nave a cavallo della brezza.
Per
il secondo dialogo invece rammento un gradevole odore di cera fusa, eravamo
dentro la chiesa, vale a dire che quando l’ho riconosciuto, mi sono avvicinato
in maniera furtiva, insomma per sentire quel che diceva. Non c’era nessun
altro.
Lui
ha parlato di più, anche se le sue intenzioni non mi sono ancora parse evidenti,
e non lo sarebbero mai diventate, ma non lo sapevo e se lo avessi saputo sarei
stato anche più curioso.
Delle
preghiere me ne importa poco e anche delle confessioni in serie della gente che
non ha niente da fare. Come parroco cerco di stare vicino ai fedeli, a quelli
che veramente ne hanno bisogno. Lui, anche se non è nemmeno mai stato uno di
loro, ne aveva sicuramente bisogno.
Solo
ogni tanto entrava in chiesa, specie d’estate, quando c’era fresco, si sedeva
su una panca, sembrava che pregasse. A tratti però la sua bocca si muoveva più
velocemente, anche dall’espressione della faccia in generale, o degli occhi in
particolare, pareva più tendente alla bestemmia che all’orazione.
“Com’è
che ora che sto solo tutto il giorno non cerco mai compagnia e quando invece
stavo sempre in mezzo alla gente mi sentivo abbandonato dall’umanità? Non lo
so. Forse sarà perché ora ho capito il senso della vita, o magari perché prima
ero giovane e ora sono vecchio, insomma cazzo la vita è strana, ma forse non è
proprio la vita, a pensarci bene, magari è la gente, o più semplicemente io,
che sono strano. Ma andiamo per ordine.
Non
vorrei smettere di parlare, per farlo dovrei entusiasmarmi per quello che posso
vivere, filtrare e poi descrivere le mie relative sensazioni qui seduto su
questa vetusta panca. La mia di storie potrebbe essere un buon soggetto, è
abbastanza complicata, sufficientemente comica, ma anche tragica e quindi piena
di contenuto. Non so ancora per chi, però poniamo l’ipotesi che mi faccia bene confidarmi
con qualcuno, che poi sarei sempre io, ma un altro io, o anche due, (non costa
niente abbondare in questo caso,) ma tutti e due rompiscatole, però in maniera
differente. Una specie di terapia di auto-psicanalisi maccheronica, magari
anche divertente. Come si fa a saperlo se non provando?”
Quando si è accorto della mia presenza
si è zittito, io l’ho invitato a confessarsi. Gli ho detto che noi in fondo siamo
dei terapeuti forse un po’ fuori moda, ma la gente ha solo bisogno di sfogarsi,
non importa se con un laureato in qualcosa di quel genere che comincia con psi, o se semplicemente con un altro professionista
che invece non ce l’ha fatta e ha potuto frequentare solo il seminario. L’ho
convinto con la sincera semplicità delle mie parole, mi ha detto che il suo non
è autismo, la gente non lo ascoltava e lui si era stancato di parlare a vuoto.
Di predicare nel deserto, no, il miracolo dei pani e dei pesci non lo sapeva
fare, insomma non è che pensasse di essere il messia, ma ogni tanto qualcuno avrebbe
potuto anche starlo a sentire e la frase è finita con una bestemmia appena
soffocata in una specie di sbadiglio.
Quello che ha detto dopo era poco
adatto a un confessionale ma piuttosto interessante e lo riassumerei così: essendo
fermamente convinto di essere la persona più importante del mondo, e dal suo
punto di vista probabilmente lo era, se fosse andato a fare un’ispezione a
sorpresa, secondo lui sulla sua strada quelli in fretta e furia avrebbero
simulato un grande daffare, ma era solo per mostrargli la loro devozione e il
buon servizio che stavano facendo. Ricordo
che accarezzava volentieri il pensiero astratto, ma per lui piuttosto concreto,
che quando per caso si trovasse ad Arliano o a Porto Tolle, quelli che si
trovano a Taranto, a Oneglia o a Misterbianco si bloccavano, tanto per citare
le zone più abitate. Per quelle parzialmente disabitate o meglio ancora
piuttosto desertiche, la regola si applicava anche, ma con minori e più
improbabili eccezioni. In seguito forse se ne capirà il perché.
Probabilmente l'aveva letto in qualche
romanzo o in qualche racconto di fantascienza, e poi l'aveva dimenticato, la
sua mente assorbiva tutto ciò che era inutile se non dannoso, teorico e poco
pratico, dispersivo e senza alcun piede per terra.
L’esistenza era un fatto relativo, chi
c’era per qualcuno non c’era per tutti, era per quello che lui non lo vedevano
proprio. La differenza oraria per esempio poteva limitarsi a mascherarne la
scomparsa. Così, se uno andava all'improvviso in città che in teoria non sarebbero
dovute esistere o che ancora non possedevano il tempo appropriato
per tirarsi su e mettersi insieme correttamente, si verificava il fenomeno noto
come jet lag. Non per la sua stanchezza, ma per la stanchezza di quelli che in
quel momento, se lui non fosse arrivato di sorpresa, sarebbero stati
addormentati.
Forse aveva visto troppi film, letto
troppi libri, ma una delle cose più difficili, secondo il Lipparelli, che spesso avvisava che di facile non
c’era niente che valesse la pena, era la manutenzione di sé stesso, un essere
umano come tanti, forse un tantino più complesso, ma non per questo più o meno
difficile da mantenersi in vita.
Quando mi ha detto che era uno
scrittore, allora ho pensato di aver capito, invece no. Avevo un’idea
differente della letteratura.
Grazie
alla sua cultura a trecentosessanta gradi, lo scrittore era il più qualificato
per svolgere la professione di critico letterario. Era in questo frangente che
dimostrava la sua innata generosità, recensendo i libri degli amici, perché colleghi
non si poteva dire, se non se ne sentiva di farne parte. Una metà della critica
era costituita da citazioni di autori mai sentiti dire, alcuni filosofi che
forse avevano vissuto in una realtà parallela; l'altra era rappresentata
dall'analisi estatica di quelle frasi, che adorava e avrebbe voluto averle
scritte lui stesso. Se solo poi che pensandoci bene le avrebbe un po’ cambiate,
o riscritte completamente. Non lo diceva, ma lo faceva capire.
Se
veniva invitato a parlare di ciò che stava leggendo, uno scrittore citava
sempre un libro sfigatissimo, del quale nessuno aveva mai udito nemmeno il
titolo. Di questo autore, solo di quello, egli non parlava mai male. Ma se
qualcuno gli domandava di che cosa trattava, non riusciva a spiegarlo, e questo
originava qualche dubbio sul fatto che lo avesse davvero letto, oppure si
emozionava tanto che non riusciva freddamente a farsene una ragione. È
incredibile che non venisse mai ristampato, giacché era considerato un
capolavoro da tutti gli scrittori: forse questo era dovuto alla stupidità degli
editori, che si lasciavano sfuggire l'assurda occasione di fare lauti guadagni
con un libro letto e amato da un’infinità surreale di persone.
Per
sedurre una barista volgare ma piuttosto polpacciuta, lo scrittore scriveva una
poesia su un sottobicchiere. Lei era una di quelle che guardavano sempre da
un’altra parte e fingeva per qualche secondo di rimanere impressionata.
Lui
rivedeva e modifica più volte ogni frase che scriveva. Il vocabolario di una
persona comune era costituito da 3.000 parole, ma un vero scrittore non le poteva
usare, perché il dizionario nel mucchio ne nascondeva 189.000.
Uno
scrittore poteva vestire in maniera anonima, era una sua scelta, magari doveva
stare attento che fosse riconducibile alle sue frasi, ai suoi simboli, a quello
che voleva che si pensasse di lui e alla fine anche quello era marketing.
Oppure che li nascondesse abilmente con un look che ne fosse quasi il
contrario. Doveva essere trasandato, ma anche originale nella scelta delle
macchie che aveva sulla camicia - purtroppo gli strappi sui jeans erano ormai
una moda da decenni - e se aveva un cappello doveva essere un modello unico,
pettinarsi era sconsigliato ma era meglio non esagerare.
Portava
sempre gli occhiali, se li metteva e se li toglieva seguendo un suo naturale
bioritmo che gli altri non potevano comprendere e a dire il vero nemmeno lui,
ma non era quello il problema. Alternava rabbia alla depressione, raramente
euforia, ma in quel caso esagerata, si ubriacava in bar specializzati per
artisti, ma necessariamente frequentati anche da spacciatori e delinquenti in
genere. Non era gente molto pericolosa, in provincia ci si accontentava di
poco.
Scriveva
di notte, perché era più romantico e poi di giorno tutti sarebbero stati capaci,
discuteva con altri artisti che un po’ gli assomigliavano, ma erano molto
diversi tra di loro e aggiungevano sapienti tocchi personali, cose che avrebbero
dovuto sembrare indicative di uno trascurato, ma che però si faceva le prove
davanti allo specchio.
Usava
parole e sintassi difficili, rileggendosi lui stesso talvolta aveva difficoltà
a capire.
Gli
venivano di continuo idee fantastiche per il prossimo libro e gli faceva
fisiologicamente schifo quello che aveva appena pubblicato, come avrebbe potuto
essere il contrario?
Gli
era impossibile negare di essere nato in un’epoca in cui regnava sovrana la
peggior mediocrità, aveva il dovere e il debito morale di non essere compreso
dai contemporanei, sennò come avrebbe fatto, a suo tempo, a venir considerato un
genio?
Ogni tanto parlava anche degli
scrittori, come se fosse un mondo a parte. Secondo me non era uno, ma erano
tanti mondi a parte, non solo tra gli scrittori, ma alla gente piace fare di
tutta l’erba un fascio.
Un messaggio su Facebook gli aveva fatto cambiare
idea, almeno in parte, una mattina in cui stava ancora pensando di smettere definitivamente
di parlare e nessuno se ne era ancora accorto, come del resto aveva previsto. Dopo
aver seguito una replica di un documentario, in bianco e nero, sulla scrittrice
sarda Grazia Deledda, aveva concluso che fare un bel voto di silenzio è un
progetto molto più ambizioso e nobile, che parlare e parlare quando nessuno ti
ascolta, anche se poi, in definitiva, non cambia granché, a guardar bene c’è la
sua bella differenza.
Poi si era chiesto: il silenzio in questione
riguardava anche le cose scritte? Cioè non solo le lettere scritte a mano, ma
eventualmente anche le reti sociali e gli email?
Nel rumore non aveva più nulla da scoprire, ce ne
erano di tanti tipi, ma molto poco interessanti. Forse un silenzio sarebbe stato
più incisivo, forse la gente se ne sarebbe chiesta finalmente il perché.
Insomma peggio non poteva essere, aveva deciso, bastava stabilire i termini del
da farsi. Doveva solo trovare una formula, una specie di giuramento solenne. Quella
era una fase di studio della preparazione piuttosto importante, che poteva
durare poco come tanto, minuti, oppure ore, ma anche giorni, settimane, mesi...
c’è da dire che il Lipparelli era un tipo piuttosto indeciso.
Non si sa perché, ma aveva i suoi relativi profili
su Twitter, Facebook e Instagram, ma non ci sapeva manovrare con quelle cose,
poco anche con il computer, a dire il vero. Quando ha visto apparire
quell’annuncio però, se di quello si trattava, non lo sapeva, ma è stato come
un fulmine a ciel sereno:
«Ripensi mai a noi due? A quello che sarebbe
potuto essere e non è stato solo per un crudele gioco del destino?»
Sembrava che quelle parole buttate lì a caso
avessero colpito il centro del bersaglio, se il suo cuore sensibile e provato
da ripetuti ed ennesimi fallimenti sentimentali, senza aver neppure tentato,
poteva essere così metaforicamente raffigurato. Eppure era una cosa generica,
in cui chiunque poteva immedesimarsi, impressionarsi, sentirsene segretamente
protagonista, oppure apertamente comprimario. Chi se ne fregava, in fondo - in
fondo, l’importante era sentirsi vivi, proprio nel momento in cui si era scelta
la morte generica della comunicazione, ma ancora non si sapeva come. Non
importava. E poi non c’era nessun nome, non diceva neanche a chi era rivolto,
ma chi lo aveva pubblicato si chiamava Formica, o Fòrmica, una ragazza
laboriosa, integrativa e instancabile o il soprannome di un tosco falegname coperto
di segatura? Il monitor anche era piuttosto sporco. Provò a pulirlo con
l’alcool e il cotone, ma il fato in combutta con il sudiciume vollero che
diventasse ancora peggio, si riusciva a malapena a leggere. Provò allora a
rispondere, scrisse una lettera accorata, che però non ricevette risposta.
Almeno all’inizio. Poi anche la settimana a seguire, e quella dopo. Passato un
mese si rassegnò, o quasi. Chi tace acconsente, oppure non ha letto la lettera,
pensò Lipparelli.
Pareva che Formica non avesse nessun accento in
mezzo, doveva essere il nickname di
un’attempata ragazza di circa cinquant’anni, più o meno l’età del Lipparelli.
Dopo aver resistito alla voglia di rispondere alle sue missive, era stata
conquistata dalla sua martellante perseveranza. Il suo vero nome era Maria Assunta.
All’inizio però questa rivelazione stava per far terminare la loro avventura
prima che fosse cominciata. Per coincidenza il Lipparelli aveva conosciuto diverse
Marie Assunte nella sua vita, ma non gliene era mai piaciuta una, erano tutte
arroganti e antipatiche, in più cucinavano il pesce con il pomodoro, anzi alcune
erano proprio livornesi, non che questo rappresentasse una colpa. Se le immaginava
però come galline, almeno così se le ricordava.
Questa Maria Assunta però era diversa, oltre a
prediligere l’aglio, il prezzemolo e il basilico, non solo per il pesce, ma
anche per la carne, o il pollo, eventualmente una salvia, un qualche rosmarino,
aveva idee del tutto simili alle sue e forse proprio per quello nessuno voleva
ascoltarla. Viveva sotto il castello di Nozzano e Giampaolo ricordò di aver
sentito un giorno, ed era all’ora del tramonto, l’odore di una pietanza
particolarmente piacevole, proprio all’incrocio con la statale per Pisa, forse dentro
c’era anche del timo, o della maggiorana.
Ho letto quello che Giampaolo scriveva
e mi è parso spaventoso, in un certo senso. Piuttosto discontinuo, pareva un
Bukovski senza parolacce, uno spaccato di società moderna scritto da Fruttero e
Lucentini, o dipinto da Basquiat, ma improvvisamente diventava un ingenuo e
colorito naif tipo Ivan Generalic. Ogni
tanto un po’ di Leonora Carrington, o qualche quadro di quel messicano
piuttosto simile a lei, come diavolo si chiamava?
Remedios Varo.
Indubbiamente aveva la sua grazia, ma
quasi distrattamente camuffata, il suo rude fascino, alla sua maniera anche
misterioso, con dei messaggi dentro spesso anche ingenui, ma sempre diretti e
forti. Insomma invitava alla riflessione, e poi non tirava le proprie
conclusioni, lo lasciava fare agli altri e quello mi era garbato.
Se
scrive troppo complicato può venirne facilmente accusato, così come se scrive
troppo semplice, il segreto è fare come Baricco, una mistura di semplicità
apparente con la clandestina complicazione che provochi il dubbio inevitabile.
Lo scrittore deve inventare cose geniali tipo il pittore che dipinge il mare
usando l’acqua del mare, quella che lascia soltanto un appena percettibile
alone sulla tela, che subito asciuga al sole e al vento. L’importante è che il
romanzo attorno non significhi assolutamente niente e che la gente si scervelli
per trovargli un significato. Così ognuno lo interpreta come vuole. Perché
soltanto altri scrittori possono comprendere il significato di ciò che scrive.
Comunque lui li detesta, giacché anch’essi concorrono per i posti che la storia
della letteratura assegna nel corso dei secoli. Tutti gli scrittori si
disputano il trofeo per il libro più complicato: il miglior testo sarà quello
più difficile da capire, quello che suggerisce tutto e il contrario di tutto,
alla fine non dice niente, ma sono pochi quelli che lo capiscono e sono gli
altri come lui.
Tutto
questo però è finito, ora non è più.
Il
mondo è cambiato.
Una
volta, non molto tempo fa, lo scrittore veniva intervistato nel suo studio e
dietro c’erano pareti di libri fino al soffitto, gli chiedevano se li aveva
letti tutti e lui sorrideva, non rispondeva e cercava di minimizzare. Rimanevano
ammirati dal suo sguardo intelligente, dalle sue battute sottili, dalle sue
parole talvolta arcaiche e le sue citazioni post-modern, ma ora viene chiamato
sempre più raramente alla TV.
Un giorno lui le ha chiesto del suo annuncio di
Facebook, o era Instagram? A cosa si fosse riferito, se si erano magari
incontrati in una vita precedente. Lei ha fatto finta di non capire, un
comportamento onesto, visto che veramente non aveva capito, poi ha detto di sì.
Una vita precedente? Ma certo. Di quale formica
stesse parlando anche le è rimasto poco chiaro, ma in fondo non aveva
importanza.
Insomma insieme hanno passato in un complice
silenzio il resto delle loro vite e la domenica erano puntualmente in chiesa,
in prima fila.
Ci sono persone che si riconoscono e si mettono
insieme per tutto ciò che hanno in comune, altre che invece si incontrano e si
piacciono proprio per quello che gli manca, alla fine quelle che contano sono
altre cose ancora.
La
natura da sempre si muoveva in quel modo misterioso per proteggersi e gli
esseri umani erano gli unici animali che andavano un po’ a caso, a volte ignorando
o reagendo alle stagioni e alle temperature, accorgendosene sempre meno con la modernità,
come pure dell’umidità relativa, in mezzo a una tempesta. Intanto i meteorologi
di Balbano e di Nozzano scuotevano la testa e dicevano che una primavera del
genere era il segno che l’inverno sarebbe stato piuttosto scorbutico, ma le
previsioni del tempo sono sempre state tra le cose più incerte e improbabili fin
da quando esistono. L’uomo si illude di dominare la natura ma non riesce neppure
lontanamente a prevederla, e nemmeno la donna.
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