lunedì 14 marzo 2022

PARADOSSI DISOSSATI

 


 

Prima ancora, non si sa se si tratta di mesi o di anni, il Lipparelli una mattina si era svegliato da un’anestesia e si era trovato, a giudicare da come si vestiva la gente, all’inizio del medioevo o forse no, alla fine. Tutto attorno a lui suore con quei cappelli enormi e bianchi, che parlavano una specie di latino dell’epoca, lui capiva qualcosa qua e là, solo a pezzi, in maniera confusa. All’inizio pensava che fosse un sogno piuttosto realistico, solo un’illusione bizzarra, causata forse dalle iniezioni che gli avevano fatto nel sedere, che continuava a fargli male anche nel sogno. Si è chiesto perché era approdato proprio in quell’epoca, che fra le tante era stata una tra le più buie e come era possibile che tutto intorno a lui non ci fosse plastica di nessun tipo e in più gli pareva che la Scolastica, filosofia di scarsa speranza per l’uomo, in quanto singolo ma pure come umanità, dominasse ogni pensiero, parola e omissione intorno a lui.

A livello psicologico, se la luce dava un’impressione maggiore di gaiezza anche quando non c’era motivo, il buio al contrario faceva degenerare ogni figura e ogni pensiero, in maniera pessimistica.

Con il passare del tempo si è accorto che il sogno non svaniva e che attorno a lui tutto sembrava un quadro di Bosch o Bruegel, ma al momento non si ricordava se era il Giovane o il Vecchio, questo gli ha provocato un ulteriore smarrimento. Ma doveva essere il Vecchio.

È fuggito da quella specie di ospedale dove facevano ancora i salassi e usavano le sanguisughe a scopo terapeutico, o con l’intento di liberare i letti per i prossimi morituri.

Si è reso conto di essere nei pressi di Anghiari, da alcuni edifici che si erano conservati fino all’epoca moderna. Dove fu combattuta quella feroce e omonima battaglia insomma, con addirittura un morto, tecnicamente non proprio ucciso, ma caduto di cavallo. (La nostra parrocchia non è proprio lì vicino, ma si tratta sempre di Toscana.)

La gente era vestita in maniera medioevale, calzemaglie e copricapi ridicoli, forse quasi rinascimentali. Il latino che parlavano era simile a un italiano dialettale della Corsica, o così gli è sembrato.

Quando si è svegliato la televisione ha annunciato con gaudio che Berlusconi era stato nominato presidente della repubblica e Draghi gioiosamente rieletto, non si capiva bene da chi, ma ancora come presidente del consiglio. Il Lipparelli non ha sentito alcun letizia nel cuore, non sapeva nemmeno se doveva essere contento di essere ritornato nel terzo millennio o no. Dicevano che lui era surreale, ma il mondo attorno cos’era? Bastava che alla TV paventassero un pericolo, una situazione catastrofica e quella si realizzava puntualmente.

Da questo episodio, o perlomeno dall’ultima serie, in breve ha compreso, che gli anni che aveva da vivere erano pochi e che la sua fottuta equazione spazio-tempo aveva cominciato a fare un forsennato tic-tac e magari già da qualche annetto, senza che nessuno in precedenza lo avesse avvertito.

Si trovava in bagno seduto per un’operazione di ordinaria amministrazione, in mano un vetusto e scolorito giornalino di Nonna Abelarda, tutt’attorno un silenzio greve.

“Per una volta voglio dire qualcosa che nessuno potrà ascoltare, non è molto difficile, quando penso a quello che mi affanno a mettere fuori dalla bocca per gli altri e nessuno poi ne rimane neanche minimamente curioso. Quindi questo è un giardino segreto, magari una piazzetta alberata, o una radura nel bosco. Insomma dopo nessuno ci potrà entrare, forse nemmeno io, anzi spero proprio di no.”

Il silenzio sembrò ancora più forte e assoluto. Gli era dispiaciuto di romperlo e subito dopo aveva taciuto. Nei secoli dei secoli, avrebbe evitato la parola, come un virus, aveva pensato, ma era un progetto troppo a lungo termine per uno come lui che aveva una memoria piena di buchi e di rammendi.

 “Senza fretta pedalo lungo il fiume e poi tra le viuzze sotto il castello sento i piccoli rumori e gli odori della gente a cena, non c’è nessuno in giro. C’era un boschetto di noci fatto a triangolo proprio qui, saranno stati almeno una ventina, non ce n’è più nessuno. Prima passo da Nozzano Castello, dopo S.Pietro poi Nozzano Vecchia, chiedo dove si sbuca da qui a un uomo col cane, dice si va a S. Maria a Colle e io lo ringrazio, una stradina in mezzo ai campi che non avevo mai visto.

La campagna allo scendere del sole è il passato tuffato nel presente. Che cosa è rimasto della Toscana di altri tempi sono forse questi ricordi mischiati, cose che non ho mai vissuto e pure sono parte di quello che sono diventato, perché si muovevano accanto a me, nel parlare e nel guardare degli umani, nei loro sogni terreni. Esseri che hanno ancora il gusto per la buona tavola, senza fretta, in mezzo a quelli che apprezzano invece di più la rapidità senza testa del moderno, che ne so, un pesce cucinato senza riguardo a nessuno, in mezzo alla panna e al pomodoro.”

Così scriveva, sul suo trentesettesimo scalcagnato diario Vitt, un ragazzone di oltre cinquant’anni con un berretto a quadretti con le battole, che non sempre sembrava quasi un uomo, che cercava sé stesso negli altri, ma il viceversa funzionava meno, gli altri non lo cercavano proprio.

Che la mia strada abbia avuto l’occasione di incrociare più volte quella di Gian Paolo Lipparelli, (detto semplicemente il Lipparelli, o anche Giampaolo,) non potrei dire che sia stata una fortuna, magari nemmeno una sfortuna, forse solo una curiosità a livello antropologico.

 “La vita fa di tutto per anestetizzarci e poi s’incazza se siamo rincoglioniti. Ci affoga nella routine e poi ci accusa di essere abitudinari. Ci vuole ingannare sempre e comunque e poi ci prende in giro se ci caschiamo.”

Definiva sé stesso un antropologo della minchia, non perché concentrasse i suoi studi sull’organo sessuale di un siciliano, ma giacché conscio, piuttosto, della scarsa scientificità delle sue affermazioni, quanto della caducità dei beni terreni.

In qualche modo, a noi ancora sconosciuto, sapeva di essere una persona piuttosto autistica, ma dichiarava di non esserlo sempre stato. Insomma era un artista e, dietro questa definizione, si trincerava invano e lo sapeva.

- È roba da matti!

- Cosa?

- Il mondo!

- Ma su cosa basa la sua affermazione, ha forse vissuto anche altrove?

- No, ma ho vissuto anche in altre epoche!

- E allora?

- Allora il mondo non era così!

- Com’era?

- Meglio.

- Non mi pare.

Questo è stato il nostro primo dialogo, avvenuto davanti alla chiesa di Balbano, la mia parrocchia. C’era un cane a far da distratto testimone, si vedeva che non gliene importava granché, lentamente passeggiava e a tratti odorava il suolo, a modo suo se la godeva, insieme a quattro piccioni che becchettavano tra la ghiaia chissà cosa. Un silenzio cristallino e surreale, qualche macchina che passava lontana, cinguettare di uccellini sugli alberi, forse anche su tetti di case. Attorno si avvertiva però un fetore piuttosto sullo spiacevole, forse un colpo d’aria inopportuno aveva portato un minaccioso miasma scappato dall’ inceneritore di Nave a cavallo della brezza.

Per il secondo dialogo invece rammento un gradevole odore di cera fusa, eravamo dentro la chiesa, vale a dire che quando l’ho riconosciuto, mi sono avvicinato in maniera furtiva, insomma per sentire quel che diceva. Non c’era nessun altro.

Lui ha parlato di più, anche se le sue intenzioni non mi sono ancora parse evidenti, e non lo sarebbero mai diventate, ma non lo sapevo e se lo avessi saputo sarei stato anche più curioso.

Delle preghiere me ne importa poco e anche delle confessioni in serie della gente che non ha niente da fare. Come parroco cerco di stare vicino ai fedeli, a quelli che veramente ne hanno bisogno. Lui, anche se non è nemmeno mai stato uno di loro, ne aveva sicuramente bisogno.

Solo ogni tanto entrava in chiesa, specie d’estate, quando c’era fresco, si sedeva su una panca, sembrava che pregasse. A tratti però la sua bocca si muoveva più velocemente, anche dall’espressione della faccia in generale, o degli occhi in particolare, pareva più tendente alla bestemmia che all’orazione.

 “Com’è che ora che sto solo tutto il giorno non cerco mai compagnia e quando invece stavo sempre in mezzo alla gente mi sentivo abbandonato dall’umanità? Non lo so. Forse sarà perché ora ho capito il senso della vita, o magari perché prima ero giovane e ora sono vecchio, insomma cazzo la vita è strana, ma forse non è proprio la vita, a pensarci bene, magari è la gente, o più semplicemente io, che sono strano. Ma andiamo per ordine.

Non vorrei smettere di parlare, per farlo dovrei entusiasmarmi per quello che posso vivere, filtrare e poi descrivere le mie relative sensazioni qui seduto su questa vetusta panca. La mia di storie potrebbe essere un buon soggetto, è abbastanza complicata, sufficientemente comica, ma anche tragica e quindi piena di contenuto. Non so ancora per chi, però poniamo l’ipotesi che mi faccia bene confidarmi con qualcuno, che poi sarei sempre io, ma un altro io, o anche due, (non costa niente abbondare in questo caso,) ma tutti e due rompiscatole, però in maniera differente. Una specie di terapia di auto-psicanalisi maccheronica, magari anche divertente. Come si fa a saperlo se non provando?”

Quando si è accorto della mia presenza si è zittito, io l’ho invitato a confessarsi. Gli ho detto che noi in fondo siamo dei terapeuti forse un po’ fuori moda, ma la gente ha solo bisogno di sfogarsi, non importa se con un laureato in qualcosa di quel genere che comincia con psi, o se semplicemente con un altro professionista che invece non ce l’ha fatta e ha potuto frequentare solo il seminario. L’ho convinto con la sincera semplicità delle mie parole, mi ha detto che il suo non è autismo, la gente non lo ascoltava e lui si era stancato di parlare a vuoto. Di predicare nel deserto, no, il miracolo dei pani e dei pesci non lo sapeva fare, insomma non è che pensasse di essere il messia, ma ogni tanto qualcuno avrebbe potuto anche starlo a sentire e la frase è finita con una bestemmia appena soffocata in una specie di sbadiglio.

Quello che ha detto dopo era poco adatto a un confessionale ma piuttosto interessante e lo riassumerei così: essendo fermamente convinto di essere la persona più importante del mondo, e dal suo punto di vista probabilmente lo era, se fosse andato a fare un’ispezione a sorpresa, secondo lui sulla sua strada quelli in fretta e furia avrebbero simulato un grande daffare, ma era solo per mostrargli la loro devozione e il buon servizio che stavano facendo. Ricordo che accarezzava volentieri il pensiero astratto, ma per lui piuttosto concreto, che quando per caso si trovasse ad Arliano o a Porto Tolle, quelli che si trovano a Taranto, a Oneglia o a Misterbianco si bloccavano, tanto per citare le zone più abitate. Per quelle parzialmente disabitate o meglio ancora piuttosto desertiche, la regola si applicava anche, ma con minori e più improbabili eccezioni. In seguito forse se ne capirà il perché.

Probabilmente l'aveva letto in qualche romanzo o in qualche racconto di fantascienza, e poi l'aveva dimenticato, la sua mente assorbiva tutto ciò che era inutile se non dannoso, teorico e poco pratico, dispersivo e senza alcun piede per terra.

L’esistenza era un fatto relativo, chi c’era per qualcuno non c’era per tutti, era per quello che lui non lo vedevano proprio. La differenza oraria per esempio poteva limitarsi a mascherarne la scomparsa. Così, se uno andava all'improvviso in città che in teoria non sarebbero dovute esistere o che ancora non possedevano il tempo appropriato per tirarsi su e mettersi insieme correttamente, si verificava il fenomeno noto come jet lag. Non per la sua stanchezza, ma per la stanchezza di quelli che in quel momento, se lui non fosse arrivato di sorpresa, sarebbero stati addormentati.

Forse aveva visto troppi film, letto troppi libri, ma una delle cose più difficili, secondo il Lipparelli, che spesso avvisava che di facile non c’era niente che valesse la pena, era la manutenzione di sé stesso, un essere umano come tanti, forse un tantino più complesso, ma non per questo più o meno difficile da mantenersi in vita.

Quando mi ha detto che era uno scrittore, allora ho pensato di aver capito, invece no. Avevo un’idea differente della letteratura.

 

Grazie alla sua cultura a trecentosessanta gradi, lo scrittore era il più qualificato per svolgere la professione di critico letterario. Era in questo frangente che dimostrava la sua innata generosità, recensendo i libri degli amici, perché colleghi non si poteva dire, se non se ne sentiva di farne parte. Una metà della critica era costituita da citazioni di autori mai sentiti dire, alcuni filosofi che forse avevano vissuto in una realtà parallela; l'altra era rappresentata dall'analisi estatica di quelle frasi, che adorava e avrebbe voluto averle scritte lui stesso. Se solo poi che pensandoci bene le avrebbe un po’ cambiate, o riscritte completamente. Non lo diceva, ma lo faceva capire.

Se veniva invitato a parlare di ciò che stava leggendo, uno scrittore citava sempre un libro sfigatissimo, del quale nessuno aveva mai udito nemmeno il titolo. Di questo autore, solo di quello, egli non parlava mai male. Ma se qualcuno gli domandava di che cosa trattava, non riusciva a spiegarlo, e questo originava qualche dubbio sul fatto che lo avesse davvero letto, oppure si emozionava tanto che non riusciva freddamente a farsene una ragione. È incredibile che non venisse mai ristampato, giacché era considerato un capolavoro da tutti gli scrittori: forse questo era dovuto alla stupidità degli editori, che si lasciavano sfuggire l'assurda occasione di fare lauti guadagni con un libro letto e amato da un’infinità surreale di persone.

Per sedurre una barista volgare ma piuttosto polpacciuta, lo scrittore scriveva una poesia su un sottobicchiere. Lei era una di quelle che guardavano sempre da un’altra parte e fingeva per qualche secondo di rimanere impressionata.

Lui rivedeva e modifica più volte ogni frase che scriveva. Il vocabolario di una persona comune era costituito da 3.000 parole, ma un vero scrittore non le poteva usare, perché il dizionario nel mucchio ne nascondeva 189.000.

Uno scrittore poteva vestire in maniera anonima, era una sua scelta, magari doveva stare attento che fosse riconducibile alle sue frasi, ai suoi simboli, a quello che voleva che si pensasse di lui e alla fine anche quello era marketing. Oppure che li nascondesse abilmente con un look che ne fosse quasi il contrario. Doveva essere trasandato, ma anche originale nella scelta delle macchie che aveva sulla camicia - purtroppo gli strappi sui jeans erano ormai una moda da decenni - e se aveva un cappello doveva essere un modello unico, pettinarsi era sconsigliato ma era meglio non esagerare.

Portava sempre gli occhiali, se li metteva e se li toglieva seguendo un suo naturale bioritmo che gli altri non potevano comprendere e a dire il vero nemmeno lui, ma non era quello il problema. Alternava rabbia alla depressione, raramente euforia, ma in quel caso esagerata, si ubriacava in bar specializzati per artisti, ma necessariamente frequentati anche da spacciatori e delinquenti in genere. Non era gente molto pericolosa, in provincia ci si accontentava di poco.

Scriveva di notte, perché era più romantico e poi di giorno tutti sarebbero stati capaci, discuteva con altri artisti che un po’ gli assomigliavano, ma erano molto diversi tra di loro e aggiungevano sapienti tocchi personali, cose che avrebbero dovuto sembrare indicative di uno trascurato, ma che però si faceva le prove davanti allo specchio.

Usava parole e sintassi difficili, rileggendosi lui stesso talvolta aveva difficoltà a capire.

Gli venivano di continuo idee fantastiche per il prossimo libro e gli faceva fisiologicamente schifo quello che aveva appena pubblicato, come avrebbe potuto essere il contrario?

Gli era impossibile negare di essere nato in un’epoca in cui regnava sovrana la peggior mediocrità, aveva il dovere e il debito morale di non essere compreso dai contemporanei, sennò come avrebbe fatto, a suo tempo, a venir considerato un genio?

 

Ogni tanto parlava anche degli scrittori, come se fosse un mondo a parte. Secondo me non era uno, ma erano tanti mondi a parte, non solo tra gli scrittori, ma alla gente piace fare di tutta l’erba un fascio.

Un messaggio su Facebook gli aveva fatto cambiare idea, almeno in parte, una mattina in cui stava ancora pensando di smettere definitivamente di parlare e nessuno se ne era ancora accorto, come del resto aveva previsto. Dopo aver seguito una replica di un documentario, in bianco e nero, sulla scrittrice sarda Grazia Deledda, aveva concluso che fare un bel voto di silenzio è un progetto molto più ambizioso e nobile, che parlare e parlare quando nessuno ti ascolta, anche se poi, in definitiva, non cambia granché, a guardar bene c’è la sua bella differenza.

Poi si era chiesto: il silenzio in questione riguardava anche le cose scritte? Cioè non solo le lettere scritte a mano, ma eventualmente anche le reti sociali e gli email?

Nel rumore non aveva più nulla da scoprire, ce ne erano di tanti tipi, ma molto poco interessanti. Forse un silenzio sarebbe stato più incisivo, forse la gente se ne sarebbe chiesta finalmente il perché. Insomma peggio non poteva essere, aveva deciso, bastava stabilire i termini del da farsi. Doveva solo trovare una formula, una specie di giuramento solenne. Quella era una fase di studio della preparazione piuttosto importante, che poteva durare poco come tanto, minuti, oppure ore, ma anche giorni, settimane, mesi... c’è da dire che il Lipparelli era un tipo piuttosto indeciso.

Non si sa perché, ma aveva i suoi relativi profili su Twitter, Facebook e Instagram, ma non ci sapeva manovrare con quelle cose, poco anche con il computer, a dire il vero. Quando ha visto apparire quell’annuncio però, se di quello si trattava, non lo sapeva, ma è stato come un fulmine a ciel sereno:

«Ripensi mai a noi due? A quello che sarebbe potuto essere e non è stato solo per un crudele gioco del destino?»

Sembrava che quelle parole buttate lì a caso avessero colpito il centro del bersaglio, se il suo cuore sensibile e provato da ripetuti ed ennesimi fallimenti sentimentali, senza aver neppure tentato, poteva essere così metaforicamente raffigurato. Eppure era una cosa generica, in cui chiunque poteva immedesimarsi, impressionarsi, sentirsene segretamente protagonista, oppure apertamente comprimario. Chi se ne fregava, in fondo - in fondo, l’importante era sentirsi vivi, proprio nel momento in cui si era scelta la morte generica della comunicazione, ma ancora non si sapeva come. Non importava. E poi non c’era nessun nome, non diceva neanche a chi era rivolto, ma chi lo aveva pubblicato si chiamava Formica, o Fòrmica, una ragazza laboriosa, integrativa e instancabile o il soprannome di un tosco falegname coperto di segatura? Il monitor anche era piuttosto sporco. Provò a pulirlo con l’alcool e il cotone, ma il fato in combutta con il sudiciume vollero che diventasse ancora peggio, si riusciva a malapena a leggere. Provò allora a rispondere, scrisse una lettera accorata, che però non ricevette risposta. Almeno all’inizio. Poi anche la settimana a seguire, e quella dopo. Passato un mese si rassegnò, o quasi. Chi tace acconsente, oppure non ha letto la lettera, pensò Lipparelli.

Pareva che Formica non avesse nessun accento in mezzo, doveva essere il nickname di un’attempata ragazza di circa cinquant’anni, più o meno l’età del Lipparelli. Dopo aver resistito alla voglia di rispondere alle sue missive, era stata conquistata dalla sua martellante perseveranza. Il suo vero nome era Maria Assunta. All’inizio però questa rivelazione stava per far terminare la loro avventura prima che fosse cominciata. Per coincidenza il Lipparelli aveva conosciuto diverse Marie Assunte nella sua vita, ma non gliene era mai piaciuta una, erano tutte arroganti e antipatiche, in più cucinavano il pesce con il pomodoro, anzi alcune erano proprio livornesi, non che questo rappresentasse una colpa. Se le immaginava però come galline, almeno così se le ricordava.

Questa Maria Assunta però era diversa, oltre a prediligere l’aglio, il prezzemolo e il basilico, non solo per il pesce, ma anche per la carne, o il pollo, eventualmente una salvia, un qualche rosmarino, aveva idee del tutto simili alle sue e forse proprio per quello nessuno voleva ascoltarla. Viveva sotto il castello di Nozzano e Giampaolo ricordò di aver sentito un giorno, ed era all’ora del tramonto, l’odore di una pietanza particolarmente piacevole, proprio all’incrocio con la statale per Pisa, forse dentro c’era anche del timo, o della maggiorana.

Ho letto quello che Giampaolo scriveva e mi è parso spaventoso, in un certo senso. Piuttosto discontinuo, pareva un Bukovski senza parolacce, uno spaccato di società moderna scritto da Fruttero e Lucentini, o dipinto da Basquiat, ma improvvisamente diventava un ingenuo e colorito naif tipo Ivan Generalic. Ogni tanto un po’ di Leonora Carrington, o qualche quadro di quel messicano piuttosto simile a lei, come diavolo si chiamava?

Remedios Varo.

Indubbiamente aveva la sua grazia, ma quasi distrattamente camuffata, il suo rude fascino, alla sua maniera anche misterioso, con dei messaggi dentro spesso anche ingenui, ma sempre diretti e forti. Insomma invitava alla riflessione, e poi non tirava le proprie conclusioni, lo lasciava fare agli altri e quello mi era garbato.

 

Se scrive troppo complicato può venirne facilmente accusato, così come se scrive troppo semplice, il segreto è fare come Baricco, una mistura di semplicità apparente con la clandestina complicazione che provochi il dubbio inevitabile. Lo scrittore deve inventare cose geniali tipo il pittore che dipinge il mare usando l’acqua del mare, quella che lascia soltanto un appena percettibile alone sulla tela, che subito asciuga al sole e al vento. L’importante è che il romanzo attorno non significhi assolutamente niente e che la gente si scervelli per trovargli un significato. Così ognuno lo interpreta come vuole. Perché soltanto altri scrittori possono comprendere il significato di ciò che scrive. Comunque lui li detesta, giacché anch’essi concorrono per i posti che la storia della letteratura assegna nel corso dei secoli. Tutti gli scrittori si disputano il trofeo per il libro più complicato: il miglior testo sarà quello più difficile da capire, quello che suggerisce tutto e il contrario di tutto, alla fine non dice niente, ma sono pochi quelli che lo capiscono e sono gli altri come lui.

Tutto questo però è finito, ora non è più.

Il mondo è cambiato.

Una volta, non molto tempo fa, lo scrittore veniva intervistato nel suo studio e dietro c’erano pareti di libri fino al soffitto, gli chiedevano se li aveva letti tutti e lui sorrideva, non rispondeva e cercava di minimizzare. Rimanevano ammirati dal suo sguardo intelligente, dalle sue battute sottili, dalle sue parole talvolta arcaiche e le sue citazioni post-modern, ma ora viene chiamato sempre più raramente alla TV.

 

Un giorno lui le ha chiesto del suo annuncio di Facebook, o era Instagram? A cosa si fosse riferito, se si erano magari incontrati in una vita precedente. Lei ha fatto finta di non capire, un comportamento onesto, visto che veramente non aveva capito, poi ha detto di sì.

Una vita precedente? Ma certo. Di quale formica stesse parlando anche le è rimasto poco chiaro, ma in fondo non aveva importanza.

Insomma insieme hanno passato in un complice silenzio il resto delle loro vite e la domenica erano puntualmente in chiesa, in prima fila.

Ci sono persone che si riconoscono e si mettono insieme per tutto ciò che hanno in comune, altre che invece si incontrano e si piacciono proprio per quello che gli manca, alla fine quelle che contano sono altre cose ancora.

La natura da sempre si muoveva in quel modo misterioso per proteggersi e gli esseri umani erano gli unici animali che andavano un po’ a caso, a volte ignorando o reagendo alle stagioni e alle temperature, accorgendosene sempre meno con la modernità, come pure dell’umidità relativa, in mezzo a una tempesta. Intanto i meteorologi di Balbano e di Nozzano scuotevano la testa e dicevano che una primavera del genere era il segno che l’inverno sarebbe stato piuttosto scorbutico, ma le previsioni del tempo sono sempre state tra le cose più incerte e improbabili fin da quando esistono. L’uomo si illude di dominare la natura ma non riesce neppure lontanamente a prevederla, e nemmeno la donna.

 

 



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